Discorsi 2005-13 12111

AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO INTERNAZIONALE PROMOSSO DAL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA Sala Clementina Sabato, 12 novembre 2011

12111

Eminenza,
Cari Fratelli Vescovi,
Eccellenze, distinti ospiti, cari amici,

desidero ringraziare il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, per le sue cordiali parole e per aver promosso questa Conferenza Internazionale su Cellule staminali adulte: la scienza e il futuro dell’uomo e della cultura. Desidero ringraziare anche l’Arcivescovo Zygmunt Zimowski, Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute), e il Vescovo Ignacio Carrasco de Paula, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, per il loro contributo a questo sforzo particolare. Una speciale parola di gratitudine va ai numerosi benefattori il cui sostegno ha reso possibile questo evento. A tale proposito, desidero esprimere l’apprezzamento della Santa Sede per tutta l’opera svolta da varie istituzioni per promuovere iniziative culturali e formative volte a sostenere una ricerca di massimo livello sulle cellule staminali adulte e a studiare le implicazioni culturali, etiche e antropologiche del loro uso.

La ricerca scientifica offre una opportunità unica per esplorare la meraviglia dell’universo, la complessità della natura e la bellezza peculiare dell’universo, inclusa la vita umana. Tuttavia, poiché gli esseri umani sono dotati di anima immortale e sono creati a immagine e somiglianza di Dio, ci sono dimensioni dell’esistenza umana che stanno al di là di ciò che le scienze naturali sono in grado di determinare. Se questi limiti vengono superati, si corre il grave rischio che la dignità unica e l’inviolabilità della vita umana possano essere subordinate a considerazioni meramente utilitaristiche. Tuttavia, se, invece, questi limiti vengono doverosamente rispettati, la scienza può rendere un contributo veramente notevole alla promozione e alla tutela della dignità dell’uomo: infatti in questo sta la sua utilità autentica. L’uomo, l’agente della ricerca scientifica, a volte, nella sua natura biologica, sarà l’oggetto di quella ricerca. Ciononostante, la sua dignità trascendente gli dà il diritto di restare sempre il beneficiario ultimo della ricerca scientifica e di non essere mai ridotto a suo strumento.

In questo senso, i benefici potenziali della ricerca sulle cellule staminali adulte sono considerevoli, poiché essa dà la possibilità di guarire malattie degenerative croniche riparando il tessuto danneggiato e ripristinando la sua capacità di rigenerarsi. Il miglioramento che queste terapie promettono costituirebbe un significativo passo avanti nella scienza medica, portando rinnovata speranza ai malati e alle loro famiglie. Per questo motivo, naturalmente la Chiesa offre il suo incoraggiamento a quanti sono impegnati nel condurre e sostenere ricerche di questo tipo, sempre che vengano condotte con il dovuto riguardo per il bene integrale della persona umana e il bene comune della società.

Questa condizione è della massima importanza. La mentalità pragmatica che tanto spesso influenza il processo decisionale nel mondo di oggi è fin troppo pronta ad approvare qualsiasi strumento disponibile a ottenere l’obiettivo desiderato, nonostante siano ampie le prove delle conseguenze disastrose di questo modo di pensare. Quando l’obiettivo prefissato è tanto desiderabile quanto la scoperta di una cura per malattie degenerative, è una tentazione per gli scienziati e per i responsabili delle politiche ignorare tutte le obiezioni etiche e proseguire con qualunque ricerca sembri offrire la prospettiva di un successo. Quanti difendono la ricerca sulle cellule staminali embrionali nella speranza di raggiungere tale risultato compiono il grave errore di negare il diritto inalienabile alla vita di tutti gli esseri umani dal momento del concepimento fino alla morte naturale. La distruzione perfino di una sola vita umana non si può mai giustificare nei termini del beneficio che ne potrebbe presumibilmente conseguire per un’altra. Tuttavia, in generale, non sorgono problemi etici quando le cellule staminali vengono prese dai tessuti di un organismo adulto, dal sangue del cordone ombelicale al momento della nascita o da feti che sono morti per cause naturali (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, istruzione Dignitas personae, n. 32).

Ne consegue che il dialogo fra scienza ed etica è della massima importanza per garantire che i progressi medici non vengano mai compiuti a un prezzo umano inaccettabile. La Chiesa contribuisce a questo dialogo aiutando a formare le coscienze secondo la retta ragione e alla luce della verità rivelata. Così facendo, cerca, non di impedire il progresso scientifico, ma, al contrario, di guidarlo in una direzione che sia veramente feconda e benefica per l’umanità. Infatti, la Chiesa è convinta che tutto ciò che è umano, inclusa la ricerca scientifica, «non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato» (ibidem, n. 7). In questo modo, la scienza può essere aiutata a servire il bene comune di tutta l’umanità, con particolare riguardo per i più deboli e i più vulnerabili.

Nel richiamare l’attenzione sui bisogni degli indifesi, la Chiesa non pensa soltanto ai nascituri, ma anche a quanti non hanno accesso facile a trattamenti medici costosi. La malattia non è selettiva con le persone e la giustizia richiede che venga fatto ogni sforzo per porre i frutti della ricerca scientifica a disposizione di tutti coloro che sono nella condizione di averne bisogno, indipendentemente dalle loro possibilità economiche. Oltre a considerazioni meramente etiche, bisogna affrontare questioni di natura sociale, economica e politica per garantire che i progressi della scienza medica vadano di pari passo con una offerta giusta ed equa dei servizi sanitari. Qui, la Chiesa è in grado di offrire assistenza concreta attraverso il suo vasto apostolato sanitario, attivo in così tanti Paesi nel mondo e volto a una sollecitudine particolare per i bisogni dei poveri del mondo.

Cari amici, concludendo le mie osservazioni, desidero assicurarvi del mio ricordo speciale nella preghiera e affido alla intercessione di Maria, Salus infirmorum, tutti voi che lavorate tanto duramente per portare guarigione e speranza a quanti soffrono. Prego affinché il vostro impegno nella ricerca sulle cellule staminali adulte porti grandi benedizioni per il futuro dell’uomo e arricchimento autentico alla sua cultura. A voi, alle vostre famiglie e ai vostri collaboratori nonché a tutti i pazienti che possono beneficiare della vostra generosa competenza e dei risultati del vostro lavoro, imparto volentieri di tutto cuore la mia Benedizione Apostolica. Grazie molte!



VIAGGIO APOSTOLICO IN BENIN

18-20 NOVEMBRE 2011



INTERVISTA AI GIORNALISTI DURANTE IL VOLO VERSO IL BENIN Volo Papale Venerdì, 18 novembre 2011

18111

P. Lombardi: Santità, benvenuto in mezzo a noi, in mezzo a questo gruppo dei giornalisti che La accompagnano verso l’Africa. Le siamo molto grati di dedicarci un poco di tempo anche questa volta. Qui, su questo aereo, c’è una quarantina di giornalisti, fotografi e cameramen di diverse agenzie e televisioni, poi ci sono anche i media vaticani che La accompagnano: una cinquantina di persone. A Cotonou ci aspetta un migliaio di giornalisti che seguiranno il viaggio sul luogo. Come al solito, Le rivolgiamo alcune domande raccolte in questi giorni tra i colleghi. La prima domanda la faccio in francese, pensando che possa essere poi anche molto gradita agli ascoltatori e ai telespettatori del Benin, quando potranno goderne, all’arrivo.



[trad. italiana. P. Lombardi: Santo Padre, questo viaggio ci conduce in Benin, ma è un viaggio molto importante per l’intero continente africano. Perché Lei ha pensato che proprio il Benin fosse il Paese indicato per lanciare un messaggio all’Africa tutta, di oggi e di domani?

Santo Padre: Ci sono diverse ragioni. La prima è che il Benin è un Paese in pace: pace esterna ed interna. Le istituzioni democratiche funzionano, sono realizzate nello spirito di libertà e responsabilità e quindi la giustizia e il lavoro per il bene comune sono possibili e garantiti dal funzionamento del sistema democratico e dal senso di responsabilità nella libertà. La seconda ragione è che, come nella maggior parte dei Paesi africani, c’è una presenza di diverse religioni e una convivenza pacifica tra queste religioni. Ci sono i cristiani nella loro diversità, non sempre facile, ci sono i musulmani e poi ci sono le religioni tradizionali, e queste diverse religioni convivono nel rispetto reciproco e nella comune responsabilità per la pace, per la riconciliazione interna ed esterna. Mi sembra che questa convivenza tra le religioni, il dialogo interreligioso come fattore di pace e di libertà sia un aspetto importante, come è parte importante dell’Esortazione apostolica post-sinodale. Infine, la terza ragione è che questo è il Paese del mio caro amico, il Cardinale Bernardin Gantin: avevo sempre il desiderio di poter pregare, un giorno, sulla sua tomba. E’ per me veramente un grande amico – ne parleremo alla fine, forse – e quindi visitare il Paese del Cardinale Gantin, come un grande rappresentante dell’Africa cattolica e dell’Africa umana e civile, è per me uno dei motivi per cui desidero andare in questo Paese.]

P. Lombardi: Mentre gli africani sperimentano l’indebolimento delle loro comunità tradizionali, la Chiesa cattolica si trova confrontata con il successo crescente di Chiese evangeliche o pentecostali, a volte auto-createsi in Africa, che propongono una fede attraente, una grande semplificazione del messaggio cristiano: insistono sulle guarigioni, mescolano i loro culti con quelli tradizionali. Come si colloca la Chiesa cattolica nei confronti di queste comunità, aggressive nei suoi confronti? E come può essere attraente, quando queste comunità si presentano come festose, calorose o inculturate?

Santo Padre: Queste comunità sono un fenomeno mondiale, in tutti i continenti, soprattutto sono altamente presenti in modi diversi in America Latina ed in Africa. Direi che gli elementi caratteristici sono poca istituzionalità, poche istituzioni, un peso leggero di istruzione, un messaggio facile, semplice, comprensibile, apparentemente concreto e poi – come Lei ha detto – liturgia partecipativa con l’espressione dei propri sentimenti, della propria cultura e combinazioni anche sincretistiche tra religioni. Tutto questo garantisce, da una parte, successo, ma implica anche poca stabilità. Sappiamo anche che molti ritornano alla Chiesa cattolica o migrano da una di queste comunità all’altra. Quindi, non dobbiamo imitare queste comunità, ma chiederci cosa possiamo fare noi per dare nuova vitalità alla fede cattolica. E, direi, un primo punto è certamente un messaggio semplice, profondo, comprensibile; importante è che il cristianesimo non appaia come un sistema difficile, europeo, che un altro non possa comprendere e realizzare, ma come un messaggio universale che c’è Dio, che Dio c’entra [con noi], che Dio ci conosce e ci ama e che la religione concreta provoca collaborazione e fraternità. Quindi, un messaggio semplice e concreto è molto importante. Poi, anche che l’istituzione non sia troppo pesante è sempre molto importante, che sia prevalente, diciamo, l’iniziativa della comunità e della persona. E direi anche una liturgia partecipativa, ma non sentimentale: non dev’essere basata solo sull’espressione dei sentimenti, ma caratterizzata dalla presenza del mistero nella quale noi entriamo, dalla quale ci lasciamo formare. E, infine, direi, è importante nell’inculturazione non perdere l’universalità. Io preferirei parlare di interculturalità, non tanto di inculturazione, cioè di un incontro delle culture nella comune verità del nostro essere umano nel nostro tempo, e così crescere anche nella fraternità universale; non perdere questa grande cosa che è la cattolicità, che in tutte le parti del mondo siamo fratelli, siamo una famiglia che si conosce e che collabora in spirito di fraternità.

P. Lombardi: Santità, negli ultimi decenni si sono avute in terra africana molte operazioni di peace-keeping, conferenze per le ricostruzioni nazionali, commissioni di verità e riconciliazione con risultati a volte buoni e a volte deludenti. Durante l’assemblea sinodale, i vescovi hanno avuto parole forti sulle responsabilità degli uomini politici nei problemi del continente. Quale messaggio pensa di indirizzare ai responsabili politici dell’Africa, e qual è il contributo specifico che la Chiesa può dare alla costruzione di una pace durevole nel continente?

Santo Padre: Il messaggio si trova nel testo che consegnerò alla Chiesa in Africa: non posso riassumerlo adesso, in poche parole. Vero è che ci sono state tante conferenze internazionali proprio anche per l’Africa, per la fraternità universale. Si dicono cose buone, e qualche volta anche si fanno realmente cose buone: dobbiamo riconoscerlo. Ma certamente le parole sono più grandi, le intenzioni, anche la volontà è più grande della realizzazione e dobbiamo chiederci perché la realtà non arriva alle parole e alle intenzioni. Mi sembra che un fattore fondamentale sia che questo rinnovamento, questa fraternità universale esige rinunce, esige anche di andare oltre l’egoismo ed essere per l’altro. E questo è facile da dire, ma è difficile da realizzare. L’uomo, così com’è dopo il peccato originale, vuole avere se stesso, avere la vita e non donare la vita. Quanto ho, vorrei conservarlo. Ma con questa mentalità, secondo cui non voglio donare, ma avere, naturalmente le grandi intenzioni non possono funzionare. Ed è proprio solo con l’amore e la conoscenza di un Dio che ci ama, che ci dona, che possiamo arrivare a questo: osiamo perdere la vita, osiamo donarci perché sappiamo che proprio così ci guadagniamo. Quindi, oggi i dettagli che si trovano nel documento del Sinodo riguardano questa posizione fondamentale: amando Dio ed essendo in amicizia con questo Dio che si dà, anche noi possiamo osare e implorare di dare, non solo di avere; di rinunciare, di essere per l’altro, di perdere la vita nella certezza che sì, proprio così, ci guadagniamo.

P. Lombardi: Santità, all’apertura del Sinodo Africano a Roma, Lei aveva parlato dell’Africa come di un grande “polmone spirituale per un’umanità in crisi di fede e di speranza”. Pensando ai grandi problemi dell’Africa, questa espressione appare quasi sconcertante. In che senso pensa veramente che dall’Africa possa venire fede e speranza per il mondo? Pensa a un ruolo dell’Africa anche nell’evangelizzazione del resto del mondo?

Santo Padre: Naturalmente l’Africa ha grandi problemi e difficoltà, tutta l’umanità ha grandi problemi. Se io penso alla mia gioventù, era un mondo totalmente diverso da quello di oggi e qualche volta penso di vivere in un altro pianeta rispetto a quando ero ragazzo. Così l’umanità si trova in un processo sempre più veloce e rapido di trasformazione. Per l’Africa questo processo degli ultimi 50-60 anni - partendo dall’indipendenza, dopo il colonialismo, fino ad arrivare al tempo di oggi - è stato un processo molto esigente, naturalmente molto difficile, con grandi difficoltà e problemi, e questi problemi non sono ancora superati. Con il processo dell’umanità procedono anche le difficoltà. Tuttavia questa freschezza del sì alla vita che c’è in Africa, questa gioventù che esiste, che è piena di entusiasmo e di speranza, anche di umorismo e di allegria, ci mostra che qui c’è una riserva umana, c’è ancora una freschezza del senso religioso e della speranza; c’è ancora una percezione della realtà metafisica, della realtà nella sua totalità con Dio: non questa riduzione al positivismo, che restringe la nostra vita e la fa un po’ arida, e anche spegne la speranza. Quindi direi un umanesimo fresco che si trova nell’anima giovane dell’Africa, nonostante tutti i problemi che esistono e che esisteranno, mostra che qui c’è ancora una riserva di vita e di vitalità per il futuro, sulla quale possiamo contare.

P. Lombardi: Un’ultima domanda Santità, torniamo un attimo su un punto che Lei ha toccato fra i motivi di questo viaggio verso il Benin: sappiamo che in questo viaggio un posto molto importante è il ricordo della figura del cardinale Gantin. Lei lo ha conosciuto molto bene: è stato il suo predecessore come Decano del Sacro Collegio e la stima che lo circonda universalmente è molto grande. Vuole darci ancora una breve testimonianza personale su di lui?

Santo Padre: Io ho visto la prima volta il cardinal Gantin nella mia ordinazione ad arcivescovo di Monaco nel ’77. Lui era venuto, perché uno dei suoi alunni era mio discepolo: così idealmente esisteva già tra di noi un’amicizia, senza ancora esserci visti. In questo giorno decisivo della mia ordinazione episcopale è stato bello per me incontrare questo giovane Vescovo africano, pieno di fede, di gioia e di coraggio. Poi abbiamo collaborato moltissimo, soprattutto quando lui era Prefetto della Congregazione per i Vescovi e poi nel Sacro Collegio. Ne ho sempre ammirato la sua intelligenza pratica e profonda; il suo senso di discernimento, di non cadere su certe fraseologie, ma di capire che cosa fosse l’essenziale e che cosa non avesse senso. E poi il suo vero senso d’umorismo, che era molto bello. E soprattutto era un uomo di profonda fede e di preghiera. Tutto questo ha fatto del cardinal Gantin non solo un amico, ma anche un esempio da seguire, un grande Vescovo africano, cattolico. Sono realmente lieto di poter ora pregare sulla sua tomba e sentire la sua vicinanza e la sua grande fede, che lo rende - sempre per me - un esempio e un amico.

P. Lombardi: Grazie, Santità. Se mi permette aggiungo che il “suo discepolo” che aveva invitato il cardinale Gantin è presente anche qui con noi nel viaggio, perché è Mons. Barthélémy Adoukounou e quindi è presente anche lui a questo momento così bello. Allora, noi La ringraziamo di questo tempo che ci ha donato. Le auguriamo un buon viaggio e, come al solito, cercheremo di collaborare ad una buona diffusione dei suoi messaggi per l’Africa in questi giorni. Grazie ancora e arrivederci.



CERIMONIA DI BENVENUTO Aeroporto Internazionale "Card. Bernardin Gantin" di Cotonou Venerdì, 18 novembre 2011

18211
Signor Presidente della Repubblica,
Signori Cardinali,
Signor Presidente della Conferenza Episcopale del Benin,
Autorità civili, ecclesiali e religiose presenti,
Cari amici!

La ringrazio, Signor Presidente, per le Sue cordiali parole di accoglienza. Lei conosce l’affetto che nutro per il vostro Continente e il vostro Paese. Desideravo ritornare in Africa, e una triplice motivazione mi è stata offerta per realizzare questo Viaggio apostolico. Anzitutto, Signor Presidente, c’è il Suo cordiale invito a visitare il vostro Paese. La Sua iniziativa è andata di pari passo con quella della Conferenza Episcopale del Benin. Esse sono fortunate perché si collocano nell’anno in cui il Benin celebra il 40° anniversario dello stabilimento delle sue relazioni diplomatiche con la Santa Sede, così come il 150° anniversario della sua evangelizzazione. Trovandomi tra di voi, avrò l’occasione di fare numerosissimi incontri. Me ne rallegro. Essi saranno tutti diversi e culmineranno nell’Eucaristia che celebrerò prima della mia partenza.

Si realizza anche il mio desiderio di consegnare in terra africana l’Esortazione apostolica post-sinodale Africae munus. Le sue riflessioni guideranno l’azione pastorale di numerose comunità cristiane nei prossimi anni. Questo documento potrà germinarvi, crescervi e fruttificarvi “il cento, il sessanta, il trenta per uno”, come dice il Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo (
Mt 13,23).

Infine, esiste una terza ragione che è più personale o più affettiva. Ho sempre avuto grande stima per un figlio di questo Paese, il Cardinale Bernardin Gantin. Per molti anni abbiamo entrambi lavorato, ciascuno secondo le proprie competenze, al servizio della stessa Vigna. Abbiamo aiutato al meglio il mio Predecessore, il beato Giovanni Paolo II, ad esercitare il suo ministero petrino. Abbiamo avuto l’occasione di incontrarci parecchie volte, di discutere in modo profondo e di pregare insieme. Il Cardinale Gantin si era guadagnato il rispetto e l’affetto di molti. Mi è parso dunque giusto venire nel suo Paese natale per pregare sulla sua tomba e ringraziare il Benin di avere dato alla Chiesa questo figlio eminente.

Il Benin è una terra di antiche e nobili tradizioni. La sua storia è prestigiosa. Vorrei approfittare di questa occasione per salutare i Capi tradizionali. Il loro contributo è importante per costruire il futuro di questo Paese. Desidero incoraggiarli a contribuire, con la loro saggezza e la loro conoscenza dei costumi, al delicato passaggio che attualmente si va operando tra la tradizione e la modernità.

La modernità non deve fare paura, ma essa non può costruirsi sull’oblio del passato. Deve essere accompagnata con prudenza per il bene di tutti evitando gli scogli che esistono sul Continente africano e altrove, per esempio la sottomissione incondizionata alle leggi del mercato o della finanza, il nazionalismo o il tribalismo esacerbato e sterile che possono diventare micidiali, la politicizzazione estrema delle tensioni interreligiose a scapito del bene comune, o infine la disgregazione dei valori umani, culturali, etici e religiosi. Il passaggio alla modernità deve essere guidato da criteri sicuri che si basano su virtù riconosciute, quelle che enumera il vostro motto nazionale, ma anche quelle che si radicano nella dignità della persona, nella grandezza della famiglia e nel rispetto della vita. Tutti questi valori sono in vista del bene comune, l’unico che deve primeggiare e costituire la preoccupazione maggiore di ogni responsabile. Dio si fida dell’uomo e desidera il suo bene. Sta a noi rispondergli con onestà e giustizia all’altezza della sua fiducia.

La Chiesa, da parte sua, dà il suo specifico contributo. Con la sua presenza, la sua preghiera e le sue diverse opere di misericordia, specialmente nel campo educativo e sanitario, essa desidera offrire ciò che ha di meglio. Vuole manifestarsi vicina a colui che si trova nel bisogno, a colui che cerca Dio. Desidera far comprendere che Dio non è inesistente o inutile come si cerca di far credere, ma che Egli è l’amico dell’uomo. E’ in questo spirito d’amicizia e di fraternità che vengo nel vostro Paese, Signor Presidente.

In lingua fon: [Dio benedica il Benin!]



VISITA ALLA CATTEDRALE DI COTONOU Venerdì, 18 novembre 2011

18311
Signori Cardinali,
Signor Arcivescovo e cari fratelli nell’Episcopato,
Signor Rettore della cattedrale,
cari fratelli e sorelle!

L’antico inno, il Te Deum, che abbiamo appena cantato esprime la nostra lode al Dio tre volte santo che ci riunisce in questa bella Cattedrale di Nostra Signora della Misericordia. Rendiamo omaggio con riconoscenza ai precedenti Arcivescovi che vi riposano: Monsignor Christophe Adimou e Monsignor Isidore de Sousa. Essi sono stati valorosi operai nella Vigna del Signore, e la loro memoria resta ancora viva nel cuore dei cattolici e di numerosi abitanti del Benin. Questi due Presuli sono stati, ciascuno a suo modo, Pastori pieni di zelo e di carità. Si sono spesi senza risparmio al servizio del Vangelo e del Popolo di Dio, soprattutto delle persone più vulnerabili. Tutti voi sapete che Monsignor de Sousa è stato un amico della verità e che ha avuto un ruolo determinante nella transizione democratica del vostro Paese.

Mentre lodiamo Dio per le meraviglie di cui non cessa di colmare l’umanità, vi invito a meditare un momento sulla sua misericordia infinita. Questa Cattedrale vi si presta provvidenzialmente. La Storia della Salvezza, che culmina nell’Incarnazione di Gesù e trova pieno compimento nel Mistero pasquale, è una splendida rivelazione della misericordia di Dio. Nel Figlio è reso visibile il “Padre misericordioso” (
2Co 1,3), che, sempre fedele alla sua paternità, “è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, sul peccato” (Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia DM 6). La misericordia divina non consiste solamente nella remissione dei nostri peccati: essa consiste anche nel fatto che Dio, nostro Padre, ci riconduce, talvolta non senza dolore, afflizione e timore da parte nostra, sulla via della verità e della luce, perché non vuole che ci perdiamo (cfr Mt 18,14 Jn 3,16). Questa duplice manifestazione della misericordia divina mostra come Dio è fedele all’alleanza sigillata con ogni cristiano nel Battesimo. Rileggendo la storia personale di ciascuno e quella dell’evangelizzazione dei nostri Paesi, possiamo dire con il salmista: “Canterò in eterno l’amore del Signore” (Ps 89 [88],2).

La Vergine Maria ha sperimentato al massimo livello il mistero dell’amore divino: “Di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono” (Lc 1,50), esclama nel suo Magnificat. Tramite il suo SÌ alla chiamata di Dio, ella ha contribuito alla manifestazione dell’amore divino tra gli uomini. In questo senso, è Madre di Misericordia per partecipazione alla missione del suo Figlio; ha ricevuto il privilegio di poterci soccorrere sempre e dovunque. “Con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata.” (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium LG 62). Al riparo della sua misericordia, i cuori feriti guariscono, le insidie del Maligno sono sventate e i nemici si riconciliano. In Maria abbiamo non soltanto un modello di perfezione, ma anche un aiuto per realizzare la comunione con Dio e con i nostri fratelli e le nostre sorelle. Madre di misericordia, ella è una guida sicura dei discepoli di suo Figlio che vogliono essere a servizio della giustizia, della riconciliazione e della pace. Ella ci indica, con semplicità e con cuore materno, l’unica Luce e l’unica Verità: suo Figlio, Cristo Gesù che conduce l’umanità verso la sua piena realizzazione nel Padre suo. Non abbiamo paura di invocare con fiducia colei che non cessa di dispensare ai suoi figli le grazie divine:

O Madre di Misericordia,
Noi ti salutiamo, Madre del Redentore;
ti salutiamo, Vergine gloriosa;
ti salutiamo, nostra Regina!

O Regina della speranza,
mostraci il volto del tuo Figlio divino;
guidaci sulle vie della santità;
donaci la gioia di coloro che sanno dire Sì a Dio!

O Regina della Pace,
esaudisci le più nobili aspirazioni dei giovani africani;
esaudisci i cuori assetati di giustizia, di pace e di riconciliazione;
esaudisci le speranze dei bambini vittime della fame e della guerra!

O Regina della giustizia,
ottienici l’amore filiale e fraterno;
ottienici di essere amici dei poveri e dei piccoli;
ottieni per i popoli della terra lo spirito di fraternità!

O Nostra Signora d’Africa,
ottieni dal tuo Figlio divino la guarigione per i malati, la consolazione per gli afflitti, il perdono per i peccatori;
intercedi per l’Africa presso il tuo Figlio divino;
e ottieni per tutta l’umanità la salvezza e la pace! Amen.




INCONTRO CON I MEMBRI DEL GOVERNO, I RAPPRESENTANTI DELLE ISTITUZIONI DELLA REPUBBLICA, IL CORPO DIPLOMATICO E I RAPPRESENTANTI DELLE PRINCIPALI RELIGIONI Sabato, 19 novembre 2011

19111
Palazzo Presidenziale di Cotonou



Signor Presidente della Repubblica,
Signore e Signori rappresentanti delle Autorità civili, politiche e religiose,
Signore e Signori Capi di missione diplomatica,
Cari fratelli nell’Episcopato, Signore, Signori, cari amici!

DOO NUMI! [saluto solenne in lingua fon] Ella ha voluto, Signor Presidente, offrirmi l’occasione di questo incontro dinanzi ad una prestigiosa assemblea di Personalità. E’ un privilegio che apprezzo sentitamente, e La ringrazio di cuore per le cordiali parole che Lei mi ha poc’anzi indirizzato a nome dell’intero popolo del Benin. Ringrazio anche la Signora Rappresentante dei Corpi Costituiti, per le sue parole di benvenuto. Formulo i migliori voti nei riguardi di tutte le personalità presenti che sono protagonisti, a diversi livelli, della vita nazionale del Benin.

Spesso, nei miei precedenti interventi, ho unito alla parola Africa quella di speranza. L’ho fatto a Luanda due anni fa e già in un contesto sinodale. La parola speranza figura del resto più volte nell’Esortazione apostolica postsinodale Africae munus che firmerò fra poco. Quando dico che l’Africa è il continente della speranza, non faccio della facile retorica, ma esprimo molto semplicemente una convinzione personale, che è anche quella della Chiesa. Troppo spesso il nostro spirito si ferma a pregiudizi o ad immagini che danno della realtà africana una visione negativa, frutto di un’analisi pessimista. Si è sempre tentati di sottolineare ciò che non va; meglio ancora, è facile assumere il tono sentenzioso del moralizzatore o dell’esperto, che impone le sue conclusioni e propone, in fin dei conti, poche soluzioni appropriate. Si è anche tentati di analizzare le realtà africane alla maniera di un etnologo curioso o come chi non vede in esse che un’enorme riserva energetica, minerale, agricola ed umana facilmente sfruttabile per interessi spesso poco nobili. Queste sono visioni riduttive e irrispettose, che portano ad una cosificazione poco dignitosa dell’Africa e dei suoi abitanti.

Sono consapevole che le parole non hanno dovunque il medesimo significato. Ma, quella di speranza varia poco secondo le culture. Alcuni anni fa, ho dedicato una Lettera enciclica alla speranza cristiana. Parlare della speranza, significa parlare del futuro, e dunque di Dio! Il futuro si radica nel passato e nel presente. Il passato, noi lo conosciamo bene, addolorati per i suoi fallimenti e lieti per le sue realizzazioni positive. Il presente, lo viviamo come possiamo. Al meglio, spero, e con l’aiuto di Dio! E’ su questo terreno composto da molteplici elementi contradditori e complementari che si tratta di costruire, con l’aiuto di Dio.

Cari amici, vorrei leggere, alla luce di questa speranza che ci deve animare, due realtà africane che sono di attualità. La prima si riferisce piuttosto in maniera generale alla vita sociopolitica ed economica del Continente, la seconda al dialogo interreligioso. Queste realtà interessano tutti noi, perché il nostro secolo sembra nascere nel dolore e faticare a far crescere la speranza in questi due campi particolari.

In questi ultimi mesi, numerosi popoli hanno espresso il loro desiderio di libertà, il loro bisogno di sicurezza materiale, e la loro volontà di vivere armoniosamente nella diversità delle etnie e delle religioni. E’ anche nato un nuovo Stato nel vostro Continente. Numerosi sono stati anche i conflitti generati dall’accecamento dell’uomo, dalla sua volontà di potere e da interessi politico-economici che escludono la dignità delle persone o quella della natura. La persona umana aspira alla libertà; vuole vivere degnamente; vuole buone scuole e alimentazione per i bambini, ospedali dignitosi per curare i malati; vuol essere rispettata; rivendica un modo di governare limpido che non confonda l’interesse privato con l’interesse generale; e soprattutto, vuole la pace e la giustizia. In questo momento, ci sono troppi scandali e ingiustizie, troppa corruzione ed avidità, troppo disprezzo e troppe menzogne, troppe violenze che portano alla miseria ed alla morte. Questi mali affliggono certamente il vostro Continente, ma ugualmente il resto del mondo. Ogni popolo vuole comprendere le scelte politiche ed economiche che vengono fatte a suo nome. Egli si accorge della manipolazione, e la sua reazione è a volte violenta. Vuole partecipare al buon governo. Sappiamo che nessun regime politico umano è l’ideale, che nessuna scelta economica è neutra. Ma essi devono sempre servire il bene comune. Ci troviamo dunque davanti ad una rivendicazione legittima che riguarda tutti i Paesi, per una maggiore dignità, e soprattutto una maggiore umanità. L’uomo vuole che la sua umanità sia rispettata e promossa. I responsabili politici ed economici dei Paesi si trovano di fronte a decisioni determinanti e a scelte che non possono più evitare.

Da questa tribuna, lancio un appello a tutti i responsabili politici ed economici dei Paesi africani e del resto del mondo. Non private i vostri popoli della speranza! Non amputate il loro futuro mutilando il loro presente! Abbiate un approccio etico con il coraggio delle vostre responsabilità e, se siete credenti, pregate Dio di concedervi la sapienza. Questa sapienza vi farà comprendere che, in quanto promotori del futuro dei vostri popoli, occorre diventare veri servitori della speranza. Non è facile vivere la condizione di servitore, restare integri in mezzo alle correnti di opinione e agli interessi potenti. Il potere, qualunque sia, acceca con facilità, soprattutto quando sono in gioco interessi privati, familiari, etnici o religiosi. Dio solo purifica i cuori e le intenzioni.

La Chiesa non offre alcuna soluzione tecnica e non impone alcuna soluzione politica. Essa ripete: non abbiate paura! L’umanità non è sola davanti alle sfide del mondo. Dio è presente. E’ questo un messaggio di speranza, una speranza generatrice di energia, che stimola l’intelligenza e conferisce alla volontà tutto il suo dinamismo. Un Arcivescovo di Toulouse, il Cardinale Saliège, diceva: “Sperare, non è abbandonare; è raddoppiare l’attività”. La Chiesa accompagna lo Stato nella sua missione; vuole essere come l’anima di questo corpo indicando infaticabilmente l’essenziale: Dio e l’uomo. Essa desidera compiere, apertamente e senza paura, questo immenso compito di colei che educa e cura, e soprattutto che prega continuamente (cfr
Lc 18,1), che indica dove è Dio (cfr Mt 6,21) e dov’è il vero uomo (cfr Gv 19,5). La disperazione è individualista. La speranza è comunione. Non è questa una via splendida che ci è proposta? Invito ad essa tutti i responsabili politici, economici, così come il mondo universitario e quello della cultura. Siate, anche voi, seminatori di speranza!

Vorrei ora affrontare il secondo punto, quello del dialogo,interreligioso. Non mi sembra necessario ricordare i recenti conflitti nati in nome di Dio, e le morti date in nome di Colui che è la Vita. Ogni persona di buon senso comprende che bisogna sempre promuovere la cooperazione serena e rispettosa delle diversità culturali e religiose. Il vero dialogo interreligioso rigetta la verità umanamente egocentrica, perché la sola ed unica verità è in Dio. Dio è la Verità. Per questo fatto, nessuna religione, nessuna cultura può giustificare l’appello o il ricorso all’intolleranza e alla violenza. L’aggressività è una forma relazionale piuttosto arcaica che fa appello ad istinti facili e poco nobili. Utilizzare le parole rivelate, le Sacre Scritture o il nome di Dio per giustificare i nostri interessi, le nostre politiche così facilmente accomodanti, o le nostre violenze, è un gravissimo errore.

Non posso conoscere l’altro se non conosco me stesso. Non posso amarlo se non amo me stesso (cfr Mt 22,39). La conoscenza, l’approfondimento e la pratica della propria religione sono dunque essenziali al vero dialogo interreligioso. Questo non può cominciare che con la preghiera personale e sincera di colui che desidera dialogare. Che egli si ritiri nel segreto della sua camera interiore (cfr Mt 6,6) per domandare a Dio la purificazione del ragionamento e la benedizione per il desiderato incontro. Questa preghiera chiede anche a Dio il dono di vedere nell’altro un fratello da amare, e nella tradizione che egli vive un riflesso della verità che illumina tutti gli uomini (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. Nostra aetate NAE 2). Conviene dunque che ognuno si ponga in verità davanti a Dio e davanti all’altro. Questa verità non esclude, e non è una confusione. Il dialogo interreligioso mal compreso porta alla confusione o al sincretismo. Non è questo il dialogo che si cerca.

Nonostante gli sforzi compiuti, sappiamo anche che, talvolta, il dialogo interreligioso non è facile, o anche che è impedito per diverse ragioni. Questo non significa affatto una sconfitta. Le forme del dialogo interreligioso sono molteplici. La cooperazione nel campo sociale o culturale può aiutare le persone a comprendersi meglio e a vivere insieme serenamente. E’ anche bene sapere che non si dialoga per debolezza, ma dialoghiamo perché crediamo in Dio, Creatore e Padre di tutti gli uomini. Dialogare è un modo supplementare di amare Dio ed il prossimo nell’amore della verità (cfr Mt 22,37).

Avere speranza non significa essere ingenui, ma compiere un atto di fede in Dio, Signore del tempo, Signore anche del nostro futuro. La Chiesa cattolica attua così una delle intuizioni del Concilio Vaticano II, quella di favorire le relazioni amichevoli tra essa e i membri di religioni non cristiane. Da decenni, il Pontificio Consiglio che ne ha la gestione, tesse legami, moltiplica gli incontri, e pubblica regolarmente documenti per favorire tale dialogo. La Chiesa tenta così di porre rimedio alla confusione delle lingue e alla dispersione dei cuori nate dal peccato di Babele (cfr Gn 11). Saluto tutti i responsabili religiosi che hanno avuto l’amabilità di venire qui ad incontrarmi. Voglio assicurare a loro, come pure a quelli di altri Paesi africani, che il dialogo offerto dalla Chiesa cattolica viene dal cuore. Li incoraggio a promuovere, soprattutto tra i giovani, una pedagogia del dialogo, affinché scoprano che la coscienza di ciascuno è un santuario da rispettare, e che la dimensione spirituale costruisce la fraternità. La vera fede conduce invariabilmente all’amore. E’ in questo spirito che vi invito tutti alla speranza.

Queste considerazioni generali si applicano in maniera particolare all’Africa. Nel vostro Continente sono numerose le famiglie i cui membri professano credenze diverse, e tuttavia le famiglie restano unite. Questa unità non è solamente voluta dalla cultura, ma è un’unità cementata dall’affetto fraterno. Naturalmente, talvolta ci sono anche delle sconfitte, ma anche parecchie vittorie. In questo campo particolare, l’Africa può fornire a tutti materia di riflessione ed essere così una sorgente di speranza.

Per finire, vorrei utilizzare l’immagine della mano. La compongono cinque dita, diverse tra loro. Ognuna di esse però è essenziale e la loro unità forma la mano. La buona intesa tra le culture, la considerazione non accondiscendente delle une per le altre e il rispetto dei diritti di ciascuno sono un dovere vitale. Occorre insegnarlo a tutti i fedeli delle diverse religioni. L’odio è una sconfitta, l’indifferenza un vicolo cieco, e il dialogo un’apertura! Non è questo un buon terreno in cui saranno seminati dei semi di speranza? Tendere la mano significa sperare per arrivare, in un secondo tempo, ad amare. Cosa c’è di più bello di una mano tesa? Essa è stata voluta da Dio per donare e ricevere. Dio non ha voluto che essa uccida (cfr Gen 4,1ss) o che faccia soffrire, ma che curi e aiuti a vivere. Accanto al cuore e all’intelligenza, la mano può diventare, anch’essa, uno strumento di dialogo. Essa può fare fiorire la speranza, soprattutto quando l’intelligenza balbetta e il cuore inciampa.

Secondo le Sacre Scritture, tre simboli descrivono la speranza per il cristiano: l’elmo, perché protegge dallo scoraggiamento (cfr 1Th 5,8), l’ancora sicura e salda che fissa in Dio (cfr He 6,19) e la lampada che permette di attendere l’aurora di un nuovo giorno (cfr Lc Lc 12,35-36). Avere paura, dubitare e temere, porsi nel presente senza Dio, o non avere nulla da attendere, sono atteggiamenti estranei alla fede cristiana (cfr S. Giovanni Crisostomo, Omelia XIV sull’Epistola ai Rm 6, PG 45, 941c) e, credo, ad ogni altra credenza in Dio. La fede vive il presente, ma attende i beni futuri. Dio è nel nostro presente, ma è anche nel futuro, “luogo” della speranza. La dilatazione del cuore è non soltanto la speranza in Dio, ma anche l’apertura alla cura delle realtà corporali e temporali per glorificare Dio. Seguendo Pietro, di cui sono il successore, auguro che la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio (cfr 1P 1,21). E’ questo l’augurio che formulo per l’Africa intera, che mi è tanto cara! Abbi fiducia, Africa, ed alzati! Il Signore ti chiama. Dio vi benedica. Grazie.





Discorsi 2005-13 12111