Discorsi 2005-13 11031

AI RAPPRESENTANTI DELL'ASSOCIAZIONE PRO PETRI SEDE Sala del Concistoro Venerdì, 11 marzo 2011

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Cari amici,

Vi accolgo con gioia questa mattina in occasione del pellegrinaggio che vi conduce alla sede di Pietro per rafforzare la vostra vita cristiana e per rinnovare il vostro impegno al servizio delle tante persone che l’Associazione Pro Petri Sede soccorre con grande generosità.

Con tutta la Chiesa, siamo appena entrati nel tempo di Quaresima. Questo tempo privilegia il pellegrinaggio interiore verso Colui che è «Luce del mondo». In effetti, noi abbiamo bisogno di lasciarci illuminare da Cristo affinché, a nostra volta, sentendo l’urgenza della nostra responsabilità verso i poveri del tempo presente, volgiamo su di loro il nostro sguardo che ridà fiducia e schiude la prospettiva dell’eternità beata. Di fatto ognuno è chiamato alla salvezza offerta dalla vittoria di Cristo su ogni male che opprime l’uomo. Il tempo della Quaresima è il tempo del digiuno, della preghiera e della condivisione (cfr. Mt
Mt 6,1-18). Contribuendo a lottare contro la povertà, la condivisione e l’elemosina ci avvicinano agli altri. Come sapete, il dono non è nulla senza l’amore che l’anima e i vincoli fraterni che intesse. Agendo così con carità, esprimiamo la verità del nostro essere poiché c’è più gioia nel dare che nel ricevere (cfr. At Ac 20,35), e manifestiamo l’unità del duplice comandamento dell’amore. In effetti, condividendo con il nostro prossimo, sperimentiamo, attraverso la gioia ricevuta, che la pienezza della vita viene dall’amore di Dio. Così l’elemosina ci avvicina a Dio e ci invita alla conversione.

La generosa offerta che voi oggi portate al Successore di Pietro gli consente di andare in aiuto delle popolazioni così tanto duramente provate in questi ultimi tempi, in particolare quelle di Haiti. Il servizio della carità appartiene alla natura stessa della Chiesa. È un’espressione viva della sollecitudine di Dio per tutti gli uomini. Apportando l’aiuto materiale indispensabile, la Chiesa può anche offrire l’attenzione del cuore e l’amore di cui le persone provate hanno tanto bisogno. Vi ringrazio dunque calorosamente a nome loro per il sostegno che offrite nella lotta contro ciò che svilisce e degrada la dignità di ogni persona «creata a immagine di Dio».

Cari amici, possiate essere ovunque testimoni luminosi ed efficaci della speranza che l’amore di Dio infonde! Affidando ognuno di voi e le vostre famiglie, come pure i membri della vostra Associazione, all’intercessione della Beata Vergine Maria, a san Pietro e ai santi dei vostri Paesi, vi imparto di tutto cuore la Benedizione Apostolica.



AI MEMBRI DELL'ASSOCIAZIONE NAZIONALE COMUNI ITALIANI (A.N.C.I.) Sala Clementina Sabato, 12 marzo 2011

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Illustri Signori Sindaci!

Rivolgo il mio cordiale saluto a voi tutti e sono grato per la vostra presenza, che rientra in una tradizione consolidata nel tempo, come testimoniano le udienze concesse dal Venerabile Giovanni Paolo II e dai precedenti Pontefici e come ha ricordato il Presidente dell’Associazione, che ringrazio per le belle parole piene di realismo, ma anche di poesia e bellezza, con cui ha introdotto il nostro incontro. Questo fatto attesta il particolare legame che esiste tra il Papa, Vescovo di Roma e Primate d’Italia, e la Nazione italiana, la quale ha proprio nella variegata molteplicità di città e paesi una delle sue caratteristiche.

La prima idea che viene alla mente incontrando i Rappresentanti dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, è quella dell’origine dei comuni, espressioni di una comunità che si incontra, dialoga, fa festa e progetta insieme, una comunità di credenti che celebra la Liturgia della domenica, e poi si ritrova nelle piazze delle antiche città o, nelle campagne, davanti alla chiesetta del villaggio. Anche un poeta italiano, Carducci, in un’ode sulla gente della Carnia, richiama: “del comun la rustica virtù / Accampata all’opaca ampia frescura / Veggo, ne la stagion de la pastura / Dopo la messa il giorno de la festa…”. E’ sempre vivo anche oggi il bisogno di dimorare in una comunità fraterna dove, ad esempio, parrocchia e comune siano ad un tempo artefici di un modus vivendi giusto e solidale, pur in mezzo a tutte le tensioni e sofferenze della vita moderna. La molteplicità dei soggetti, delle situazioni, non è in contraddizione con l’unità della Nazione, che è richiamata dal 150° anniversario che si sta celebrando. Unità e pluralità sono, a diversi livelli, compreso quello ecclesiologico, due valori che si arricchiscono mutuamente, se vengono tenuti nel giusto e reciproco equilibrio.

Due principi che consentono questa armonica compresenza tra unità e pluralità sono quelli di sussidiarietà e di solidarietà, tipici dell’insegnamento sociale della Chiesa. Tale dottrina sociale ha come oggetto verità che non appartengono solo al patrimonio del credente, ma sono razionalmente accessibili da ogni persona. Su questi principi mi sono soffermato anche nell’Enciclica Caritas in veritate, dove il principio di sussidiarietà è considerato “espressione dell’inalienabile libertà umana”. Infatti, “la sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità” (n. 57). Come tale, “si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano” (ibid.). “Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno” (n. 58).

Questi principi vanno applicati anche a livello comunale, in un duplice senso: nel rapporto con le istanze pubbliche statali, regionali e provinciali, così come in quello che le autorità comunali hanno con i corpi sociali e le formazioni intermedie presenti nel territorio. Queste ultime svolgono attività di rilevante utilità sociale, essendo fautrici di umanizzazione e di socializzazione, particolarmente dedite alle fasce emarginate e bisognose. Tra esse rientrano anche numerose realtà ecclesiali, quali le parrocchie, gli oratori, le case religiose, gli istituti cattolici di educazione e di assistenza. Auspico che tale preziosa attività trovi sempre un adeguato apprezzamento e sostegno, anche in termini finanziari.

A questo proposito, desidero ribadire che la Chiesa non domanda privilegi, ma di poter svolgere liberamente la sua missione, come richiede un effettivo rispetto della libertà religiosa. Essa consente in Italia la collaborazione che esiste fra la comunità civile e quella ecclesiale. Purtroppo, in altri Paesi le minoranze cristiane sono spesso vittime di discriminazioni e di persecuzioni. Desidero esprimere il mio apprezzamento per la mozione del 3 febbraio 2011, approvata all’unanimità dal vostro Consiglio Nazionale, con l’invito a sensibilizzare i Comuni aderenti all’Associazione nei confronti di tali fenomeni e riaffermando, allo stesso tempo, “il carattere innegabile della libertà religiosa quale fondamento della libera e pacifica convivenza tra i popoli”.

Inoltre, vorrei sottolineare l’importanza del tema della “cittadinanza”, che avete posto al centro dei vostri lavori. Su questo tema la Chiesa in Italia sta sviluppando una ricca riflessione, soprattutto a partire dal Convegno Ecclesiale di Verona, in quanto la cittadinanza costituisce uno degli ambiti fondamentali della vita e della convivenza delle persone. Anche il prossimo Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona dedicherà una giornata a tale rilevante tematica, giornata alla quale sono stati opportunamente invitati, come ci è stato detto, i Sindaci italiani.

Oggi la cittadinanza si colloca, appunto, nel contesto della globalizzazione, che si caratterizza, tra l’altro, per i grandi flussi migratori. Di fronte a questa realtà, come ho ricordato sopra, bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la Nazione italiana. Questa esigenza è avvertita in modo particolare da voi che, come amministratori locali, siete più vicini alla vita quotidiana della gente. Da voi si richiede sempre una speciale dedizione nel servizio pubblico che rendete ai cittadini, per essere promotori di collaborazione, di solidarietà e di umanità. La storia ci ha lasciato l’esempio di Sindaci che con il loro prestigio e il loro impegno hanno segnato la vita delle comunità: giustamente lei ha ricordato la figura di Giorgio La Pira, cristiano esemplare e amministratore pubblico stimato. Possa questa tradizione continuare a portare frutto per il bene del Paese e dei suoi cittadini! Per questo assicuro la mia preghiera e vi esorto, illustri amici, a confidare nel Signore, perché – come dice il Salmo – “se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella” (127,1).

Invocando la materna intercessione della Vergine Maria, venerata dal popolo italiano nei suoi tanti Santuari, luoghi di spiritualità, di arte e di cultura, e dei santi Patroni Francesco d’Assisi e Caterina da Siena, benedico voi tutti, i vostri collaboratori e l’intera Nazione italiana.




CONCLUSIONE DEGLI ESERCIZI SPIRITUALI DELLA CURIA ROMANA Cappella "Redemptoris Mater" Sabato, 19 marzo 2011

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Cari Fratelli,
caro Padre Léthel,

alla fine di questo cammino di riflessione, di meditazione, di preghiera in compagnia dei Santi amici di Papa Giovanni Paolo II, vorrei dire di tutto cuore: Grazie a Lei, Padre Léthel, per la Sua guida sicura, per la ricchezza spirituale che ci ha donato. I Santi: Lei ce li ha mostrati come “stelle” nel firmamento della Storia e, con il Suo entusiasmo e la Sua gioia, Lei ci ha inserito nel girotondo di questi Santi e ci ha mostrato che proprio i Santi “piccoli” sono i Santi “grandi”. Ci ha mostrato che la scientia fidei e la scientia amoris vanno insieme e si completano, che la ragione grande e il grande amore vanno insieme, anzi che il grande amore vede più della ragione sola.

La Provvidenza ha voluto che questi Esercizi si concludano con la festa di San Giuseppe, mio Patrono personale e Patrono della Santa Chiesa: un umile santo, un umile lavoratore. che è stato reso degno di essere Custode del Redentore.

San Matteo caratterizza san Giuseppe con una parola: “Era un giusto”, “dikaios”, da “dike”, e nella visione dell’Antico Testamento, come la troviamo per esempio nel Salmo 1, “giusto” è l’uomo che è immerso nella Parola di Dio, che vive nella Parola di Dio, che vive la Legge non come “giogo”, ma come “gioia”, vive – potremmo dire – la Legge come “Vangelo”. San Giuseppe era giusto, era immerso nella Parola di Dio, scritta, trasmessa nella saggezza del suo popolo, e proprio in questo modo era preparato e chiamato a conoscere il Verbo Incarnato - il Verbo venuto tra noi come uomo -, e predestinato a custodire, a proteggere questo Verbo Incarnato; questa rimane la sua missione per sempre: custodire la Santa Chiesa e il Nostro Signore.

Ci affidiamo in questo momento alla sua custodia, preghiamo perché ci aiuti nel nostro umile servizio. Andiamo avanti con coraggio sotto questa protezione. Siamo grati per gli umili Santi, preghiamo il Signore affinché renda anche noi umili nel nostro servizio e così santi nella compagnia dei Santi.

Ancora una volta grazie a Lei, P. Léthel, per la Sua ispirazione. Grazie!


AI VESCOVI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE SIRO-MALANKARESE IN VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM" Venerdì, 25 marzo 2011

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Cari Fratelli Vescovi,

porgo il benvenuto a tutti voi oggi, in occasione del vostro pellegrinaggio ad limina Apostolorum. Ringrazio Sua Beatitudine Baselios Cleemis per i sentimenti devoti che mi ha espresso a nome vostro. Attraverso di voi, saluto tutti i sacerdoti, i religiosi e i fedeli laici delle vostre eparchie e desidero assicurarli delle mie preghiere per il loro benessere spirituale e materiale. Questo tempo insieme è un’occasione privilegiata per approfondire i vincoli di fraternità e di comunione fra la Sede di Pietro e la Chiesa siro-malankarese, opportunamente elevata a Chiesa Arcivescovile Maggiore dal venerabile Giovanni Paolo II nel 2005.

Le tradizioni apostoliche che mantenete godono della piena fecondità spirituale quando vengono vissute in unione con la Chiesa universale. In questo senso, seguite giustamente le orme del Servo di Dio Mar Ivanios, che ha condotto i vostri predecessori e i loro fedeli alla piena comunione con la Chiesa cattolica. Come i vostri predecessori, anche voi siete chiamati, in seno all’unica famiglia di Dio, a proseguire in salda fedeltà ciò che vi è stato trasmesso. Tutti i Vescovi cattolici condividono una sollecitudine profonda per la fedeltà a Gesù Cristo e desiderano quell’unità che egli ha voluto per suoi discepoli (cfr. Gv
Jn 17,11), pur conservando la loro legittima diversità. «È infatti intenzione della Chiesa cattolica che rimangano salve e integre le tradizioni di ogni Chiesa o rito particolare; parimenti essa vuole adattare il suo tenore di vita alle varie necessità dei tempi e dei luoghi» (Orientalium ecclesiarum OE 2). Ogni generazione deve affrontare le sfide poste alla Chiesa secondo le proprie capacità e in armonia con il resto del Corpo Mistico di Cristo. Vi incoraggio, dunque, a promuovere fra i vostri sacerdoti e fedeli l’affetto per l’eredità liturgica e spirituale che vi è stata trasmessa, basandovi costantemente sulla comunione con la Sede di Pietro.

Il deposito di fede tramandato dagli Apostoli e trasmesso fedelmente fino ai nostri giorni è un dono prezioso del Signore. È quel messaggio di salvezza che è stato rivelato nella persona di Gesù, il cui Spirito unisce credenti di ogni tempo e luogo, offrendoci la comunione con il Padre e con suo Figlio affinché la nostra gioia possa essere completa (cfr. 1Jn 1,1-4). Voi e i vostri sacerdoti siete chiamati a promuovere questa comunione attraverso la parola e il sacramento e a rafforzarla con una salda catechesi cosicché la Parola di Vita, Gesù Cristo, e il dono della vita divina, la comunione con Lui, possano essere conosciute in tutto il mondo (cfr. Verbum Domini, 2). Per le sue radici antiche e per la sua storia particolare, il cristianesimo in India apporta da tempo il suo contributo alla cultura e alla società e alle espressioni religiose e spirituali. È attraverso la determinazione a vivere il Vangelo, «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1,16) che quanti servite daranno un contributo ancor più efficace a tutto il Corpo di Cristo e alla società indiana, a beneficio di tutti. Che il vostro popolo continui a prosperare mediante la predicazione della parola di Dio e la promozione di una comunione basata sull’amore di Dio.

Osservo le sfide particolari che molte delle vostre parrocchie devono affrontare nell’offrire un’appropriata sollecitudine pastorale e un sostegno reciproco, in particolare quando non è sempre disponibile un parroco. Tuttavia, le parrocchie più piccole, ricordando la realtà sociale che i cristiani affrontano nel contesto culturale più ampio, hanno a loro volta opportunità per una edificazione e un’assistenza autenticamente fraterne. Come sapete, le piccole comunità cristiane spesso hanno reso una testimonianza eccezionale nella storia della Chiesa. Proprio come nei tempi apostolici, la Chiesa nella nostra epoca prospererà sicuramente alla presenza del Cristo vivente, che ha promesso di essere con noi sempre (cfr. Mt Mt 28,20) e di sostenerci (cfr. 1Co 1,8). È la presenza divina che deve restare al centro della vita, della fede e della testimonianza dei vostri fedeli e sulla quale voi, loro pastori, siete chiamati a vegliare affinché, anche se dovessero vivere fuori dalla comunità, non vivranno però lontani da Cristo. Infatti, è importante ricordare che le comunità cristiane sono «ambito proprio in cui percorrere un itinerario personale e comunitario nei confronti della Parola di Dio, così che questa sia veramente a fondamento della vita spirituale» (Verbum Domini, 72).

Uno dei modi in cui svolgete il vostro ruolo di maestri della fede nella comunità cristiana è costituito dai programmi di formazione catechetica e religiosa sotto la vostra direzione. Poiché «questo insegnamento è basato sulla sacra Scrittura, sulla tradizione, sulla liturgia, sul magistero e sulla vita della Chiesa» (cfr. Christus Dominus CD 14), sono lieto di osservare la varietà e il numero di programmi che impiegate attualmente. Insieme con la celebrazione dei sacramenti, questi programmi contribuiranno a garantire che quanti sono affidati alla vostra sollecitudine saranno sempre in grado di dare conto della loro speranza che è in Cristo. Infatti, la catechesi e lo sviluppo spirituale sono fra le sfide più importanti che i Pastori di anime affrontano, e così vi incoraggio con affetto a perseverare lungo il cammino che avete scelto, mentre cercate di istillare nel vostro popolo una conoscenza e un amore più profondi della fede, aiutati dalla grazia di Dio e dalla vostra umile fiducia nella sua provvidenza.

Con questi pensieri, vi rinnovo i miei sentimenti di affetto fraterno e di stima. Invocando l’intercessione di san Tommaso Apostolo, grande patrono dell’India, vi assicuro delle mie preghiere e imparto volentieri a voi e a quanti sono affidati alla vostra sollecitudine la mia Benedizione Apostolica, quale pegno di grazia e di pace nel Signore Gesù Cristo.




AI PARTECIPANTI AL CORSO PROMOSSO DALLA PENITENZIERIA APOSTOLICA Aula delle Benedizioni Venerdì, 25 marzo 2011

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Cari amici,

sono molto lieto di rivolgere a ciascuno di voi il più cordiale benvenuto. Saluto il Cardinale Fortunato Baldelli, Penitenziere Maggiore, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha indirizzato. Saluto il Reggente della Penitenzieria, Mons. Gianfranco Girotti, il personale, i collaboratori e tutti i partecipanti al Corso sul Foro Interno, che è diventato ormai un appuntamento tradizionale e un’importante occasione per approfondire i temi riguardanti il Sacramento della Penitenza.

Desidero soffermarmi con voi su un aspetto talora non sufficientemente considerato, ma di grande rilevanza spirituale e pastorale: il valore pedagogico della Confessione sacramentale. Se è vero che è sempre necessario salvaguardare l’oggettività degli effetti del Sacramento e la sua corretta celebrazione secondo le norme del Rito della Penitenza, non è fuori luogo riflettere su quanto esso possa educare la fede, sia del ministro, sia del penitente. La fedele e generosa disponibilità dei sacerdoti all’ascolto delle confessioni, sull’esempio dei grandi Santi della storia, da san Giovanni Maria Vianney a san Giovanni Bosco, da san Josemaría Escrivá a san Pio da Pietrelcina, da san Giuseppe Cafasso a san Leopoldo Mandic, indica a tutti noi come il confessionale possa essere un reale “luogo” di santificazione.

In che modo il Sacramento della Penitenza educa? In quale senso la sua celebrazione ha un valore pedagogico, innanzitutto per i ministri? Potremmo partire dal riconoscere che la missione sacerdotale costituisce un punto di osservazione unico e privilegiato, dal quale, quotidianamente, è dato di contemplare lo splendore della Misericordia divina. Quante volte nella celebrazione del Sacramento della Penitenza, il sacerdote assiste a veri e propri miracoli di conversione, che, rinnovando l’“incontro con un avvenimento, una Persona” (Lett. enc. Deus caritas est ), rafforzano la sua stessa fede. In fondo, confessare significa assistere a tante “professiones fidei” quanti sono i penitenti, e contemplare l’azione di Dio misericordioso nella storia, toccare con mano gli effetti salvifici della Croce e della Risurrezione di Cristo, in ogni tempo e per ogni uomo. Non raramente siamo posti davanti a veri e propri drammi esistenziali e spirituali, che non trovano risposta nelle parole degli uomini, ma sono abbracciati ed assunti dall’Amore divino, che perdona e trasforma: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve” (
Is 1,18). Conoscere e, in certo modo, visitare l’abisso del cuore umano, anche negli aspetti oscuri, se da un lato mette alla prova l’umanità e la fede dello stesso sacerdote, dall’altro alimenta in lui la certezza che l’ultima parola sul male dell’uomo e della storia è di Dio, è della sua Misericordia, capace di far nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5). Quanto può imparare poi il sacerdote da penitenti esemplari per la loro vita spirituale, per la serietà con cui conducono l’esame di coscienza, per la trasparenza nel riconoscere il proprio peccato e per la docilità verso l’insegnamento della Chiesa e le indicazioni del confessore. Dall’amministrazione del Sacramento della Penitenza possiamo ricevere profonde lezioni di umiltà e di fede! E’ un richiamo molto forte per ciascun sacerdote alla coscienza della propria identità. Mai, unicamente in forza della nostra umanità, potremmo ascoltare le confessioni dei fratelli! Se essi si accostano a noi, è solo perché siamo sacerdoti, configurati a Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, e resi capaci di agire nel suo Nome e nella sua Persona, di rendere realmente presente Dio che perdona, rinnova e trasforma. La celebrazione del Sacramento della Penitenza ha un valore pedagogico per il sacerdote, in ordine alla sua fede, alla verità e povertà della sua persona, e alimenta in lui la consapevolezza dell’identità sacramentale.

Qual è il valore pedagogico del Sacramento della Penitenza per i penitenti? Dobbiamo premettere che esso dipende, innanzitutto, dall’azione della Grazia e dagli effetti oggettivi del Sacramento nell’anima del fedele. Certamente la Riconciliazione sacramentale è uno dei momenti nei quali la libertà personale e la consapevolezza di sé sono chiamate ad esprimersi in modo particolarmente evidente. È forse anche per questo che, in un’epoca di relativismo e di conseguente attenuata consapevolezza del proprio essere, risulta indebolita anche la pratica sacramentale. L’esame di coscienza ha un importante valore pedagogico: esso educa a guardare con sincerità alla propria esistenza, a confrontarla con la verità del Vangelo e a valutarla con parametri non soltanto umani, ma mutuati dalla divina Rivelazione. Il confronto con i Comandamenti, con le Beatitudini e, soprattutto, con il Precetto dell’amore, costituisce la prima grande “scuola penitenziale”.

Nel nostro tempo caratterizzato dal rumore, dalla distrazione e dalla solitudine, il colloquio del penitente con il confessore può rappresentare una delle poche, se non l’unica occasione per essere ascoltati davvero e in profondità. Cari sacerdoti, non trascurate di dare opportuno spazio all’esercizio del ministero della Penitenza nel confessionale: essere accolti ed ascoltati costituisce anche un segno umano dell’accoglienza e della bontà di Dio verso i suoi figli. L’integra confessione dei peccati, poi, educa il penitente all’umiltà, al riconoscimento della propria fragilità e, nel contempo, alla consapevolezza della necessità del perdono di Dio e alla fiducia che la Grazia divina può trasformare la vita. Allo stesso modo, l’ascolto delle ammonizioni e dei consigli del confessore è importante per il giudizio sugli atti, per il cammino spirituale e per la guarigione interiore del penitente. Non dimentichiamo quante conversioni e quante esistenze realmente sante sono iniziate in un confessionale! L’accoglienza della penitenza e l’ascolto delle parole “Io ti assolvo dai tuoi peccati” rappresentano, infine, una vera scuola di amore e di speranza, che guida alla piena confidenza nel Dio Amore rivelato in Gesù Cristo, alla responsabilità e all’impegno della continua conversione.

Cari sacerdoti, sperimentare noi per primi la Misericordia divina ed esserne umili strumenti, ci educhi ad una sempre più fedele celebrazione del Sacramento della Penitenza e ad una profonda gratitudine verso Dio, che “ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (1Co 5,18), Alla Beata Vergine Maria, Mater misericordiae e Refugium peccatorum, affido i frutti del vostro Corso sul Foro interno e il ministero di tutti i Confessori, mentre con grande affetto vi benedico.



AI PARTECIPANTI AL PELLEGRINAGGIO DELLA DIOCESI DI TERNI-NARNI-AMELIA NEL 30° ANNIVERSARIO DELLA VISITA DEL PAPA GIOVANNI PAOLO II ALLE ACCIAIERIE DELLA CITTÀ Aula Paolo VI Sabato, 26 marzo 2011

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Cari fratelli e sorelle,

sono molto lieto di accogliervi questa mattina e di rivolgere il mio cordiale saluto alle autorità presenti, alle lavoratrici e ai lavoratori e a voi tutti che siete venuti pellegrini alla sede di Pietro. Un saluto particolare al vostro Vescovo, Mons. Vincenzo Paglia, che ringrazio per le parole rivoltemi anche a nome vostro. Siete venuti numerosi a questo incontro - mi dispiace che alcuni non siano più potuti entrare -, cogliendo l’occasione del trentesimo anniversario della visita di Giovanni Paolo II a Terni. Oggi, vogliamo ricordarlo in maniera speciale per l’amore che mostrò per il mondo del lavoro; quasi lo sentiamo ripetere le prime parole che pronunciò appena giunto a Terni: “Scopo precipuo di questa visita, che si svolge nel giorno di San Giuseppe … è di portare una parola di incoraggiamento a tutti i lavoratori ed esprimere loro la mia solidarietà, la mia amicizia e il mio affetto” (Discorso alle autorità, Terni, 19 marzo 1981). Faccio miei questi sentimenti, e di cuore abbraccio tutti voi e le vostre famiglie. Nel giorno della mia elezione, mi sono presentato anch’io con convinzione come un “umile lavoratore nella vigna del Signore”, ed oggi, assieme a voi, vorrei ricordare tutti i lavoratori e affidarli alla protezione di san Giuseppe lavoratore.

Terni è segnata dalla presenza di una delle più grandi fabbriche dell’acciaio, che ha contribuito alla crescita di una significativa realtà operaia. Un cammino segnato da luci, ma anche da momenti difficili, come quello che stiamo vivendo oggi. La crisi dell’assetto industriale sta mettendo a dura prova la vita della Città, che deve ripensare il suo futuro. In tutto questo viene coinvolta anche la vostra vita di lavoratori e quella delle vostre famiglie. Nelle parole del vostro Vescovo ho sentito l’eco delle preoccupazioni che portate nel cuore. So che la Chiesa diocesana le fa sue e sente la responsabilità di esservi accanto per comunicarvi la speranza del Vangelo e la forza per edificare una società più giusta e più degna dell’uomo. E lo fa a partire dalla sorgente, dall’Eucaristia. Nella sua prima lettera pastorale, L’Eucaristia salva il mondo, il vostro Vescovo vi ha indicato quale è la sorgente da cui attingere e a cui tornare per vivere la gioia della fede e la passione per migliorare il mondo. L’Eucaristia della Domenica è diventata così il fulcro dell’azione pastorale della Diocesi. E’ una scelta che ha portato i suoi frutti; è cresciuta la partecipazione all’Eucarestia domenicale, dalla quale parte l’impegno della Diocesi per il cammino della vostra Terra. Dall’Eucaristia, infatti, in cui Cristo si rende presente nel suo atto supremo di amore per tutti noi, impariamo ad abitare da cristiani la società, per renderla più accogliente, più solidale, più attenta ai bisogni di tutti, particolarmente dei più deboli, più ricca di amore. Sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e martire, definiva i cristiani coloro che “vivono secondo la Domenica” (iuxta dominicum viventes), ossia “secondo l’Eucaristia”. Vivere in maniera “eucaristica” significa vivere come un unico Corpo, un’unica famiglia, una società compaginata dall’amore. L’esortazione ad essere “eucaristici” non è un semplice invito morale rivolto a singoli individui, ma è molto di più: è l’esortazione a partecipare al dinamismo stesso di Gesù che offre la sua vita per gli altri, perché tutti siano una cosa sola.

In questo orizzonte si colloca anche il tema del lavoro, che oggi vi preoccupa, con i suoi problemi, soprattutto quello della disoccupazione. E’ importante tenere sempre presente che il lavoro è uno degli elementi fondamentali sia della persona umana, che della società. Le difficili o precarie condizioni del lavoro rendono difficili e precarie le condizioni della società stessa, le condizioni di un vivere ordinato secondo le esigenze del bene comune. Nell’Enciclica Caritas in veritate - come ricordava Mons. Paglia - ho esortato a non lasciare di “perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti” (n. 32). Vorrei ricordare anche il grave problema della sicurezza sul lavoro. So che più volte avete dovuto affrontare anche questa tragica realtà. Occorre mettere in campo ogni sforzo perché la catena delle morti e degli incidenti venga spezzata. E che dire poi della precarietà del lavoro, soprattutto quando riguarda il mondo giovanile? E’ un aspetto che non manca di creare angoscia in tante famiglie! Il Vescovo accennava anche alla difficile situazione dell’industria chimica della vostra Città, come pure ai problemi nel settore siderurgico. Vi sono particolarmente vicino, mettendo nelle mani di Dio tutte le vostre ansie e preoccupazioni, e auspico che, nella logica della gratuità e della solidarietà, si possano superare questi momenti, affinché sia assicurato un lavoro sicuro, dignitoso e stabile.

Il lavoro, cari amici, aiuta ad essere più vicini a Dio e agli altri. Gesù stesso è stato lavoratore, anzi ha passato buona parte della sua vita terrena a Nazaret, nella bottega di Giuseppe. L’evangelista Matteo ricorda che la gente parlava di Gesù come del “figlio del falegname” (
Mt 13,55) e Giovanni Paolo II a Terni parlò del “Vangelo del lavoro”, affermando che era “scritto soprattutto dal fatto che il Figlio di Dio, diventando uomo, ha lavorato con le proprie mani. Anzi, il suo lavoro, che è stato un vero lavoro fisico, ha occupato la maggior parte della sua vita su questa terra, ed è così entrato nell’opera della redenzione dell’uomo e del mondo” (Discorso ai lavoratori, Terni, 19 marzo 1981). Già questo ci parla della dignità del lavoro, anzi della dignità specifica del lavoro umano che viene inserito nel mistero stesso della redenzione. E’ importante comprenderlo in questa prospettiva cristiana. Spesso, invece, viene visto solo come strumento di guadagno, se non addirittura, in varie situazioni nel mondo, come mezzo di sfruttamento e quindi di offesa alla stessa dignità della persona. Vorrei accennare pure al problema del lavoro nella Domenica. Purtroppo nelle nostre società il ritmo del consumo rischia di rubarci anche il senso della festa e della Domenica come giorno del Signore e della comunità.

Cari lavoratori e lavoratrici, cari amici tutti, vorrei terminare queste mie brevi parole dicendovi che la Chiesa sostiene, conforta, incoraggia ogni sforzo diretto a garantire a tutti un lavoro sicuro, dignitoso e stabile. Il Papa vi è vicino, è accanto alle vostre famiglie, ai vostri bambini, ai vostri giovani, ai vostri anziani e vi porta tutti nel cuore davanti a Dio. Il Signore benedica voi, il vostro lavoro e il vostro futuro. Grazie.





VISITA AL SACRARIO DELLE FOSSE ARDEATINE Fosse Ardeatine Domenica, 27 marzo 2011

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Cari fratelli e sorelle!

Molto volentieri ho accolto l’invito dell’“Associazione Nazionale tra le Famiglie Italiane dei Martiri caduti per la libertà della Patria” a compiere un pellegrinaggio a questo sacrario, caro a tutti gli italiani, particolarmente al popolo romano. Saluto il Cardinale Vicario, il Rabbino Capo, il Presidente dell’Associazione, il Commissario Generale, il Direttore del Mausoleo e, in modo speciale, i familiari delle vittime, come pure tutti i presenti.

“Credo in Dio e nell’Italia / credo nella risurrezione / dei martiri e degli eroi / credo nella rinascita / della patria e nella / libertà del popolo”. Queste parole sono state incise sulla parete di una cella di tortura, in Via Tasso, a Roma, durante l’occupazione nazista. Sono il testamento di una persona ignota, che in quella cella fu imprigionata, e dimostrano che lo spirito umano rimane libero anche nelle condizioni più dure. “Credo in Dio e nell’Italia”: questa espressione mi ha colpito anche perché quest’anno ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia, ma soprattutto perché afferma il primato della fede, dalla quale attingere la fiducia e la speranza per l’Italia e per il suo futuro. Ciò che qui è avvenuto il 24 marzo 1944 è offesa gravissima a Dio, perché è la violenza deliberata dell’uomo sull’uomo. E’ l’effetto più esecrabile della guerra, di ogni guerra, mentre Dio è vita, pace, comunione.

Come i miei Predecessori, sono venuto qui a pregare e a rinnovare la memoria. Sono venuto ad invocare la divina Misericordia, che sola può colmare i vuoti, le voragini aperte dagli uomini quando, spinti dalla cieca violenza, rinnegano la propria dignità di figli di Dio e fratelli tra loro. Anch’io, come Vescovo di Roma, città consacrata dal sangue dei martiri del Vangelo dell’Amore, vengo a rendere omaggio a questi fratelli, uccisi a poca distanza dalle antiche catacombe.

“Credo in Dio e nell’Italia”. In quel testamento inciso in un luogo di violenza e di morte, il legame tra la fede e l’amore della patria appare in tutta la sua purezza, senza alcuna retorica. Chi ha scritto quelle parole l’ha fatto solo per intima convinzione, come estrema testimonianza alla verità creduta, che rende regale l’animo umano anche nell’estremo abbassamento. Ogni uomo è chiamato a realizzare in questo modo la propria dignità: testimoniando quella verità che riconosce con la propria coscienza.

Un’altra testimonianza mi ha colpito, e questa fu ritrovata proprio nelle Fosse Ardeatine. Un foglio di carta su cui un caduto aveva scritto: “Dio mio grande Padre, noi ti preghiamo affinché tu possa proteggere gli ebrei dalle barbare persecuzioni. 1 Pater noster, 10 Ave Maria, 1 Gloria Patri”. In quel momento così tragico, così disumano, nel cuore di quella persona c’era l’invocazione più alta: “Dio mio grande Padre”. Padre di tutti! Come sulle labbra di Gesù, morente sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. In quel nome, “Padre”, c’è la garanzia sicura della speranza; la possibilità di un futuro diverso, libero dall’odio e dalla vendetta, un futuro di libertà e di fraternità, per Roma, l’Italia, l’Europa, il mondo. Sì, dovunque sia, in ogni continente, a qualunque popolo appartenga, l’uomo è figlio di quel Padre che è nei cieli, è fratello di tutti in umanità. Ma questo essere figlio e fratello non è scontato. Lo dimostrano purtroppo anche le Fosse Ardeatine. Bisogna volerlo, bisogna dire sì al bene e no al male. Bisogna credere nel Dio dell’amore e della vita, e rigettare ogni altra falsa immagine divina, che tradisce il suo santo Nome e tradisce di conseguenza l’uomo, fatto a sua immagine.

Perciò, in questo luogo, doloroso memoriale del male più orrendo, la risposta più vera è quella di prendersi per mano, come fratelli, e dire: Padre nostro, noi crediamo in Te, e con la forza del tuo amore vogliamo camminare insieme, in pace, a Roma, in Italia, in Europa, nel mondo intero. Amen.





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