Discorsi 2005-13 7023

AI PARTECIPANTI ALL'ASSEMBLEA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA Sala Clementina Giovedì, 7 febbraio 2013

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Cari Amici,

sono veramente lieto di incontrarvi all’apertura dei lavori dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, in cui sarete impegnati a comprendere e approfondire – come ha detto il Presidente –, da diverse prospettive, le “culture giovanili emergenti”. Saluto cordialmente il Presidente, Cardinale Gianfranco Ravasi, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome di tutti voi. Saluto i Membri, i Consultori e tutti i Collaboratori del Dicastero, augurando un proficuo lavoro, che offrirà un utile contributo per l’azione che la Chiesa svolge nei confronti della realtà giovanile; una realtà, come è stato detto, complessa e articolata, che non può più essere compresa all’interno di un universo culturale omogeneo, bensì in un orizzonte che può definirsi “multiverso”, determinato cioè da una pluralità di visioni, di prospettive, di strategie. Per questo è opportuno parlare di “culture giovanili”, atteso che gli elementi che distinguono e differenziano i fenomeni e gli ambiti culturali prevalgono su quelli, pur presenti, che invece li accomunano. Numerosi fattori concorrono, infatti, a disegnare un panorama culturale sempre più frammentato e in continua, velocissima evoluzione, a cui non sono certo estranei i social media, i nuovi strumenti di comunicazione che favoriscono e, talvolta, provocano essi stessi continui e rapidi cambiamenti di mentalità, di costume, di comportamento.

Si riscontra, così, un clima diffuso di instabilità che tocca l’ambito culturale, come quello politico ed economico – quest’ultimo segnato anche dalle difficoltà dei giovani a trovare un lavoro - per incidere soprattutto a livello psicologico e relazionale. L’incertezza e la fragilità che connotano tanti giovani, non di rado li spingono alla marginalità, li rendono quasi invisibili e assenti nei processi storici e culturali delle società. E sempre più frequentemente fragilità e marginalità sfociano in fenomeni di dipendenza dalle droghe, di devianza, di violenza. La sfera affettiva ed emotiva, l’ambito dei sentimenti, come quello della corporeità, sono fortemente interessati da questo clima e dalla temperie culturale che ne consegue, espressa, ad esempio, da fenomeni apparentemente contraddittori, come la spettacolarizzazione della vita intima e personale e la chiusura individualistica e narcisistica sui propri bisogni ed interessi. Anche la dimensione religiosa, l’esperienza di fede e l’appartenenza alla Chiesa sono spesso vissute in una prospettiva privatistica ed emotiva.

Non mancano, però, fenomeni decisamente positivi. Gli slanci generosi e coraggiosi di tanti giovani volontari che dedicano ai fratelli più bisognosi le loro migliori energie; le esperienze di fede sincera e profonda di tanti ragazzi e ragazze che con gioia testimoniano la loro appartenenza alla Chiesa; gli sforzi compiuti per costruire, in tante parti del mondo, società capaci di rispettare la libertà e la dignità di tutti, cominciando dai più piccoli e deboli. Tutto questo ci conforta e ci aiuta a tracciare un quadro più preciso ed obiettivo delle culture giovanili. Non ci si può, dunque, accontentare di leggere i fenomeni culturali giovanili secondo paradigmi consolidati, ma divenuti ormai dei luoghi comuni, o di analizzarli con metodi non più utili, partendo da categorie culturali superate e non adeguate.

Ci troviamo, in definitiva, di fronte ad una realtà quanto mai complessa ma anche affascinante, che va compresa in maniera approfondita e amata con grande spirito di empatia, una realtà di cui bisogna saper cogliere con attenzione le linee di fondo e gli sviluppi. Guardando, ad esempio, i giovani di tanti Paesi del cosiddetto “Terzo mondo”, ci rendiamo conto che essi rappresentano, con le loro culture e con i loro bisogni, una sfida alla società del consumismo globalizzato, alla cultura dei privilegi consolidati, di cui beneficia una ristretta cerchia della popolazione del mondo occidentale. Le culture giovanili, di conseguenza, diventano “emergenti” anche nel senso che manifestano un bisogno profondo, una richiesta di aiuto o addirittura una “provocazione”, che non può essere ignorata o trascurata, sia dalla società civile sia dalla Comunità ecclesiale. Più volte ho manifestato, ad esempio, la preoccupazione mia e di tutta la Chiesa per la cosiddetta “emergenza educativa”, a cui vanno sicuramente affiancate altre “emergenze”, che toccano le diverse dimensioni della persona e le sue relazioni fondamentali e a cui non si può rispondere in modo evasivo e banale. Penso, ad esempio, alla crescente difficoltà nel campo del lavoro o alla fatica di essere fedeli nel tempo alle responsabilità assunte. Ne deriverebbe, per il futuro del mondo e di tutta l’umanità, un impoverimento non solo economico e sociale ma soprattutto umano e spirituale: se i giovani non sperassero e non progredissero più, se non inserissero nelle dinamiche storiche la loro energia, la loro vitalità, la loro capacità di anticipare il futuro, ci ritroveremmo un’umanità ripiegata su se stessa, priva di fiducia e di uno sguardo positivo verso il domani.

Pur consapevoli delle tante situazioni problematiche, che toccano anche l’ambito della fede e dell’appartenenza alla Chiesa, vogliamo rinnovare la nostra fiducia nei giovani, riaffermare che la Chiesa guarda alla loro condizione, alle loro culture, come ad un punto di riferimento essenziale ed ineludibile per la sua azione pastorale. Per questo vorrei riprendere nuovamente alcuni significativi passaggi del Messaggio che il Concilio Vaticano II rivolse ai giovani, affinché sia motivo di riflessione e di stimolo per le nuove generazioni. Anzitutto, in questo Messaggio si affermava: «La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore… Essa possiede ciò che fa la forza o la bellezza dei giovani: la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi senza ritorno, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste». Quindi il Venerabile Paolo VI rivolgeva questo appello ai giovani del mondo: «È a nome di questo Dio e del suo Figlio Gesù che noi vi esortiamo ad ampliare i vostri cuori secondo le dimensioni del mondo, ad intendere l’appello dei vostri fratelli, ed a mettere arditamente le vostre giovani energie al loro servizio. Lottate contro ogni egoismo. Rifiutate di dar libero corso agli istinti della violenza e dell’odio, che generano le guerre e il loro triste corteo di miserie. Siate generosi, puri, rispettosi, sinceri. E costruite nell’entusiasmo un mondo migliore di quello attuale!».

Anch’io voglio ribadirlo con forza: la Chiesa ha fiducia nei giovani, spera in essi e nelle loro energie, ha bisogno di loro e della loro vitalità, per continuare a vivere con rinnovato slancio la missione affidatale da Cristo. Auspico vivamente, dunque, che l’Anno della fede sia, anche per le giovani generazioni, un’occasione preziosa per ritrovare e rafforzare l’amicizia con Cristo, da cui far scaturire la gioia e l’entusiasmo per trasformare profondamente le culture e le società.

Cari amici, ringraziando per l’impegno che con generosità ponete a servizio della Chiesa, e per la particolare attenzione che rivolgete ai giovani, di cuore vi imparto la mia Apostolica Benedizione. Grazie.




VISITA AL PONTIFICIO SEMINARIO ROMANO MAGGIORE IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA Venerdì, 8 febbraio 2013

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"LECTIO DIVINA" DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI Cappella del Seminario




Eminenza,
cari Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
cari amici!

E’ per me ogni anno una grande gioia essere qui con voi, vedere tanti giovani che camminano verso il sacerdozio, che sono attenti alla voce del Signore, vogliono seguire questa voce e cercano la strada per servire il Signore in questo nostro tempo.

Abbiamo ascoltato tre versetti dalla Prima Lettera di San Pietro (cfr 1,3-5). Prima di entrare in questo testo, mi sembra importante proprio essere attenti al fatto che è Pietro che parla. Le prime due parole della Lettera sono “Petrus apostolus” (cfr v. 1): lui parla, e parla alle Chiese in Asia e chiama i fedeli “eletti e stranieri dispersi” (ibidem). Riflettiamo un po’ su questo. Pietro parla, e parla - come si sente alla fine della Lettera - da Roma, che ha chiamato “Babilonia” (cfr 5,13). Pietro parla: quasi una prima enciclica, con la quale il primo apostolo, vicario di Cristo, parla alla Chiesa di tutti i tempi.

Pietro, apostolo. Parla quindi colui che ha trovato in Cristo Gesù il Messia di Dio, che ha parlato come primo in nome della Chiesa futura: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr
Mt 16,16). Parla colui che ci ha introdotto in questa fede. Parla colui al quale il Signore ha detto: “Ti trasmetto le chiavi del regno dei cieli” (cfr Mt 16,19), al quale ha affidato il suo gregge dopo la Risurrezione, dicendogli tre volte: “Pascola il mio gregge, le mie pecore” (cfr Jn 21,15-17). Parla anche l’uomo che è caduto, che ha negato Gesù e che ha avuto la grazia di vedere lo sguardo di Gesù, di essere toccato nel suo cuore e di avere trovato il perdono e un rinnovamento della sua missione. Ma è soprattutto importante che questo uomo, pieno di passione, di desiderio di Dio, di desiderio del regno di Dio, del Messia, che quest’uomo che ha trovato Gesù, il Signore e il Messia, è anche l’uomo che ha peccato, che è caduto, e tuttavia è rimasto sotto gli occhi del Signore e così rimane responsabile per la Chiesa di Dio, rimane incaricato da Cristo, rimane portatore del suo amore.

Parla Pietro l’apostolo, ma gli esegeti ci dicono: non è possibile che questa Lettera sia di Pietro, perché il greco è talmente buono che non può essere il greco di un pescatore del Lago di Galilea. E non solo il linguaggio, la struttura della lingua è ottima, ma anche il pensiero è già abbastanza maturo, ci sono già formule concrete nelle quali si condensa la fede e la riflessione della Chiesa. Quindi essi dicono: è già uno stato di sviluppo che non può essere quello di Pietro. Come rispondere? Vi sono due posizioni importanti: primo, Pietro stesso – cioè la Lettera – ci dà una chiave perché alla fine dello Scritto dice: “Vi scrivo tramite Silvano – dia Silvano”. Questo tramite [dia] può significare diverse cose: può significare che lui [Silvano] trasporta, trasmette; può voler dire che lui ha aiutato nella redazione; può dire che lui realmente era lo scrittore pratico. In ogni caso, possiamo concludere che la Lettera stessa ci indica che Pietro non è stato solo nello scrivere questa Lettera, ma esprime la fede di una Chiesa che è già in cammino di fede, in una fede sempre più matura. Non scrive da solo, individuo isolato, scrive con l’aiuto della Chiesa, delle persone che aiutano ad approfondire la fede, ad entrare nella profondità del suo pensiero, della sua ragionevolezza, della sua profondità. E questo è molto importante: non parla Pietro come individuo, parla ex persona Ecclesiae, parla come uomo della Chiesa, certamente come persona, con la sua responsabilità personale, ma anche come persona che parla in nome della Chiesa: non solo idee private, non come un genio del secolo XIX che voleva esprimere solo idee personali, originali, che nessuno avrebbe potuto dire prima. No. Non parla come genio individualistico, ma parla proprio nella comunione della Chiesa. Nell’Apocalisse, nella visione iniziale di Cristo è detto che la voce di Cristo è la voce di molte acque (cfr Ap 1,15). Questo vuol dire: la voce di Cristo riunisce tutte le acque del mondo, porta in sé tutte le acque vive che danno vita al mondo; è Persona, ma proprio questa è la grandezza del Signore, che porta in sé tutto il fiume dell’Antico Testamento, anzi, della saggezza dei popoli. E quanto qui è detto sul Signore vale, in altro modo, anche per l’apostolo, che non vuole dire una parola solo sua, ma porta in sé realmente le acque della fede, le acque di tutta la Chiesa, e proprio così dà fertilità, dà fecondità e proprio così è un testimone personale che si apre al Signore, e così diventa aperto e largo. Quindi, questo è importante.

Poi mi sembra anche importante che in questa conclusione della Lettera vengono nominati Silvano e Marco, due persone che appartengono anche alle amicizie di san Paolo. Così, tramite questa conclusione, i mondi di san Pietro e di san Paolo vanno insieme: non è una teologia esclusivamente petrina contro una teologia paolina, ma è una teologia della Chiesa, della fede della Chiesa, nella quale c’è diversità – certamente – di temperamento, di pensiero, di stile nel parlare tra Paolo e Pietro. E’ bene che ci siano queste diversità, anche oggi, di diversi carismi, di diversi temperamenti, ma tuttavia non sono contrastanti e si uniscono nella comune fede.

Vorrei dire ancora una cosa: san Pietro scrive da Roma. E’ importante: qui abbiamo già il Vescovo di Roma, abbiamo l’inizio della successione, abbiamo già l’inizio del primato concreto collocato a Roma, non solo consegnato dal Signore, ma collocato qui, in questa città, in questa capitale del mondo. Come è venuto Pietro a Roma? Questa è una domanda seria. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano che, dopo la sua fuga dal carcere di Erode, è andato in un altro luogo (cfr 12,17) – eis eteron topon –, non si sa in quale altro luogo; alcuni dicono Antiochia, alcuni dicono Roma. In ogni caso, in questo capitolo, va detto anche che, prima di fuggire, ha affidato la Chiesa giudeo-cristiana, la Chiesa di Gerusalemme, a Giacomo e, affidandola a Giacomo, egli tuttavia rimane Primate della Chiesa universale, della Chiesa dei pagani, ma anche della Chiesa giudeo-cristiana. E qui a Roma ha trovato una grande comunità giudeo-cristiana. I liturgisti ci dicono che nel Canone romano ci sono tracce di un linguaggio tipicamente giudeo-cristiano; così vediamo che in Roma si trovano ambedue le parti della Chiesa: quella giudeo cristiana e quella pagano-cristiana, unite, espressione della Chiesa universale. E per Pietro certamente il passaggio da Gerusalemme a Roma è il passaggio all’universalità della Chiesa, il passaggio alla Chiesa dei pagani e di tutti i tempi, alla Chiesa anche sempre degli ebrei. E penso che, andando a Roma, san Pietro non solo ha pensato a questo passaggio: Gerusalemme/Roma, Chiesa giudeo-cristiana/Chiesa universale. Certamente si è ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: “Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cfr Jn 21,18). E’ una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così, sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio, Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. E la croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico.

Dopo queste parole sul mittente, una breve parola anche sulle persone alle quali è scritto. Ho già detto che san Pietro definisce quelli ai quali scrive con le parole “eklektois parepidemois”, “agli eletti che sono stranieri dispersi” (cfr 1P 1,1). Abbiamo di nuovo questo paradosso di gloria e croce: eletti, ma dispersi e stranieri. Eletti: questo era il titolo di gloria di Israele: noi siamo gli eletti, Dio ha eletto questo piccolo popolo non perché noi siamo grandi - dice il Deuteronomio - ma perché lui ci ama (cfr 7,7-8). Siamo eletti: questo, adesso san Pietro lo trasferisce a tutti i battezzati, e il contenuto proprio dei primi capitoli della sua Prima Lettera è che i battezzati entrano nei privilegi di Israele, sono il nuovo Israele. Eletti: mi sembra valga la pena di riflettere su questa parola. Siamo eletti.Dio ci ha conosciuto da sempre, prima della nostra nascita, del nostro concepimento; Dio mi ha voluto come cristiano, come cattolico, mi ha voluto come sacerdote. Dio ha pensato a me, ha cercato me tra milioni, tra tanti, ha visto me e mi ha eletto, non per i miei meriti che non c’erano, ma per la sua bontà; ha voluto che io sia portatore della sua elezione, che è anche sempre missione, soprattutto missione, e responsabilità per gli altri. Eletti: dobbiamo essere grati e gioiosi per questo fatto. Dio ha pensato a me, ha eletto me come cattolico, me come portatore del suo Vangelo, come sacerdote. Mi sembra che valga la pena di riflettere diverse volte su questo, e rientrare di nuovo in questo fatto della sua elezione: mi ha eletto, mi ha voluto; adesso io rispondo.

Forse oggi siamo tentati di dire: non vogliamo essere gioiosi di essere eletti, sarebbe trionfalismo. Trionfalismo sarebbe se noi pensassimo che Dio mi ha eletto perché io sono così grande. Questo sarebbe realmente trionfalismo sbagliato. Ma essere lieti perché Dio mi ha voluto non è trionfalismo, ma è gratitudine, e penso che dobbiamo re-imparare questa gioia: Dio ha voluto che io sia nato così, in una famiglia cattolica, che abbia conosciuto dall’inizio Gesù. Che dono essere voluto da Dio, così che ho potuto conoscere il suo volto, che ho potuto conoscere Gesù Cristo, il volto umano di Dio, la storia umana di Dio in questo mondo! Essere gioiosi perché mi ha eletto per essere cattolico, per essere in questa Chiesa sua, dove subsistit Ecclesia unica; dobbiamo essere gioiosi perché Dio mi ha dato questa grazia, questa bellezza di conoscere la pienezza della verità di Dio, la gioia del suo amore.

Eletti: una parola di privilegio e di umiltà nello stesso momento. Ma “eletti” è – come dicevo – accompagnato da “parapidemois”, dispersi, stranieri. Da cristiani siamo dispersi e siamo stranieri: vediamo che oggi nel mondo i cristiani sono il gruppo più perseguitato perché non conforme, perché è uno stimolo, perché contro le tendenze dell’egoismo, del materialismo, di tutte queste cose.

Certamente i cristiani sono non solo stranieri; siamo anche nazioni cristiane, siamo fieri di aver contribuito alla formazione della cultura; c’è un sano patriottismo, una sana gioia di appartenere ad una nazione che ha una grande storia di cultura, di fede. Ma, tuttavia, come cristiani, siamo sempre anche stranieri - la sorte di Abramo, descritta nella Lettera agli Ebrei.Siamo, come cristiani, proprio oggi, anche sempre stranieri. Nei posti di lavoro i cristiani sono una minoranza, si trovano in una situazione di estraneità; meraviglia che uno oggi possa ancora credere e vivere così. Questo appartiene anche alla nostra vita: è la forma di essere con Cristo Crocifisso; questo essere stranieri, non vivendo secondo il modo in cui vivono tutti, ma vivendo – o cercando almeno di vivere – secondo la sua Parola, in una grande diversità rispetto a quanto dicono tutti. E proprio questo per i cristiani è caratteristico. Tutti dicono: “Ma tutti fanno così, perché non io?” No, io no, perché voglio vivere secondo Dio. Sant’Agostino una volta ha detto: “I cristiani sono quelli che non hanno le radici in giù come gli alberi, ma hanno le radici in su, e vivono questa gravitazione non nella gravitazione naturale verso il basso”. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad accettare questa missione di vivere come dispersi, come minoranza, in un certo senso; di vivere come stranieri e tuttavia di essere responsabili per gli altri e, proprio così, dando forza al bene nel nostro mondo.

Arriviamo finalmente ai tre versetti di oggi. Vorrei solo sottolineare, o diciamo un po’ interpretare, per quanto posso, tre parole: la parola rigenerati, la parola eredità e la parola custoditi dalla fede. Rigenerati - anaghennesas, dice il testo greco - vuol dire: essere cristiano non è semplicemente una decisione della mia volontà, un’idea mia; io vedo che è un gruppo che mi piace, mi faccio membro di questo gruppo, condivido i loro obiettivi eccetera. No: essere cristiano non è entrare in un gruppo per fare qualcosa, non è un atto solo della mia volontà, non primariamente della mia volontà, della mia ragione: è un atto di Dio. Rigenerato non concerne solo la sfera della volontà, del pensare, ma la sfera dell’essere. Sono rinato: questo vuol dire che divenire cristiano è innanzitutto passivo; io non posso farmi cristiano, ma vengo fatto rinascere, vengo rifatto dal Signore nella profondità del mio essere. Ed io entro in questo processo del rinascere, mi lascio trasformare, rinnovare, rigenerare. Questo mi sembra molto importante: da cristiano non mi faccio solo un’idea mia che condivido con alcuni altri, e se non mi piacciono più posso uscire. No: concerne proprio la profondità dell’essere, cioè il divenire cristiano comincia con un’azione di Dio, soprattutto un’azione sua, ed io mi lascio formare e trasformare.

Mi sembra sia materia di riflessione, proprio in un anno in cui riflettiamo sui Sacramenti dell’Iniziazione cristiana, meditare questo: questo passivo e attivo profondo dell’essere rigenerato, del divenire di tutta una vita cristiana, del lasciarmi trasformare dalla sua Parola, per la comunione della Chiesa, per la vita della Chiesa, per i segni con i quali il Signore lavora in me, lavora con me e per me. E rinascere, essere rigenerati, indica anche che entro così in una nuova famiglia: Dio, il Padre mio, la Chiesa, mia Madre, gli altri cristiani, miei fratelli e sorelle. Essere rigenerati, lasciarsi rigenerare implica, quindi, anche questo lasciarsi volutamente inserire in questa famiglia, vivere per Dio Padre e da Dio Padre, vivere dalla comunione con Cristo suo Figlio, che mi rigenera per la sua Risurrezione, come dice la Lettera (cfr 1P 1,3), vivere con la Chiesa lasciandomi formare dalla Chiesa in tanti sensi, in tanti cammini, ed essere aperto ai miei fratelli, riconoscere negli altri realmente i miei fratelli, che con me vengono rigenerati, trasformati, rinnovati; uno porta responsabilità per l’altro. Una responsabilità quindi del Battesimo che è un processo di tutta una vita.

Seconda parola: eredità. E’ una parola molto importante nell’Antico Testamento, dove è detto ad Abramo che il suo seme sarà erede della terra, e questa è stata sempre la promessa per i suoi: Voi avrete la terra, sarete eredi della terra. Nel Nuovo Testamento, questa parola diventa parola per noi: noi siamo eredi, non di un determinato Paese, ma della terra di Dio, del futuro di Dio. Eredità è una cosa del futuro, e così questa parola dice soprattutto che da cristiani abbiamo il futuro: il futuro è nostro, il futuro è di Dio. E così, essendo cristiani, sappiamo che nostro è il futuro e l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo. Quindi, abbiamo motivo di non lasciarci impressionare - come ha detto Papa Giovanni - dai profeti di sventura, che dicono: la Chiesa, bene, è un albero venuto dal grano di senape, cresciuto in due millenni, adesso ha il tempo dietro di sé, adesso è il tempo in cui muore”. No. La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro. Naturalmente, c’è un falso ottimismo e un falso pessimismo. Un falso pessimismo che dice: il tempo del cristianesimo è finito. No: comincia di nuovo! Il falso ottimismo era quello dopo il Concilio, quando i conventi chiudevano, i seminari chiudevano, e dicevano: ma … niente, va tutto bene … No! Non va tutto bene. Ci sono anche cadute gravi, pericolose, e dobbiamo riconoscere con sano realismo che così non va, non va dove si fanno cose sbagliate. Ma anche essere sicuri, allo stesso tempo, che se qua e là la Chiesa muore a causa dei peccati degli uomini, a causa della loro non credenza, nello stesso tempo, nasce di nuovo. Il futuro è realmente di Dio: questa è la grande certezza della nostra vita, il grande, vero ottimismo che sappiamo. La Chiesa è l’albero di Dio che vive in eterno e porta in sé l’eternità e la vera eredità: la vita eterna.

E, infine, custoditi dalla fede. Il testo del Nuovo Testamento, della Lettera di San Pietro, usa qui una parola rara, phrouroumenoi, che vuol dire: ci sono “i vigili”, e la fede è come “il vigile” che custodisce l’integrità del mio essere, della mia fede. Questa parola interpreta soprattutto i “vigili” delle porte di una città, dove essi stanno e custodiscono la città, affinché non sia invasa da poteri di distruzione. Così la fede è “vigile” del mio essere, della mia vita, della mia eredità. Dobbiamo essere grati per questa vigilanza della fede che ci protegge, ci aiuta, ci guida, ci da la sicurezza: Dio non mi lascia cadere dalle sue mani. Custoditi dalla fede: così concludo. Parlando della fede devo sempre pensare a quella donna malata, che, in mezzo alla folla, trova accesso a Gesù, lo tocca per essere guarita, ed è guarita. Il Signore dice: “Chi mi ha toccato?”. Gli dicono: “Ma Signore, tutti ti toccano, come puoi chiedere: chi mi ha toccato?” (cfr Mt 9,20-22). Ma il Signore sa: c’è un modo di toccarlo, superficiale, esteriore, che non ha realmente nulla a che fare con un vero incontro con Lui. E c’è un modo di toccarlo profondamente. E questa donna lo ha toccato veramente: toccato non solo con la mano, ma con il suo cuore e così ha ricevuto la forza sanatrice di Cristo, toccandolo realmente dall’interno, dalla fede. Questa è la fede: toccare con la mano della fede, con il nostro cuore Cristo e così entrare nella forza della sua vita, nella forza risanante del Signore. E preghiamo il Signore che sempre più possiamo toccarlo così da essere risanati. Preghiamo che non ci lasci cadere, che sempre anche essa ci tenga per mano e così ci custodisca per la vera vita. Grazie.



AI MEMBRI DEL SOVRANO MILITARE ORDINE DI MALTA Basilica Vaticana Sabato, 9 febbraio 2013

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Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di accogliere e di salutare ciascuno di voi, Cavalieri e Dame, Cappellani e volontari, del Sovrano Militare Ordine di Malta. Saluto, in modo speciale, il Gran Maestro Sua Altezza Eminentissima Fra’ Matthew Festing, ringraziandolo per le cordiali espressioni che mi ha rivolto a nome di tutti voi; ringrazio anche per l’offerta che avete voluto consegnarmi e che ho destinato ad un’opera di carità. Il mio affettuoso pensiero va ai Cardinali e ai Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, in particolare al mio Segretario di Stato, che ha presieduto poc’anzi l’Eucaristia, e al Cardinale Paolo Sardi, Patrono dell’Ordine, che ringrazio per la premura con la quale si adopera per consolidare lo speciale vincolo che vi lega alla Chiesa cattolica e in modo peculiare alla Santa Sede. Con riconoscenza saluto l’Arcivescovo Angelo Acerbi, vostro Prelato. Un saluto, infine, ai Diplomatici, come pure a tutte le alte Personalità e le Autorità qui presenti.

L’occasione di questo incontro è data dal nono centenario del solenne privilegio Pie postulatio voluntatis del 15 febbraio 1113, con cui Papa Pasquale II poneva la neonata “fraternità ospedaliera” di Gerusalemme, intitolata a San Giovanni Battista, sotto la tutela della Chiesa, e la rendeva sovrana, costituendola in un Ordine di diritto ecclesiale, con facoltà di eleggere liberamente i suoi superiori, senza interferenza da parte di altre autorità laiche o religiose. Questa importante ricorrenza riveste uno speciale significato nel contesto dell’Anno della Fede, durante il quale la Chiesa è chiamata a rinnovare la gioia e l’impegno di credere in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Al riguardo, anche voi siete chiamati ad accogliere questo tempo di grazia per approfondire la conoscenza del Signore e per far risplendere la verità e la bellezza della fede, con la testimonianza della vostra vita e del vostro servizio, nell’oggi del nostro tempo.

Il vostro Ordine, fin dagli inizi, si è distinto per la fedeltà alla Chiesa e al Successore di Pietro, come anche per la sua irrinunciabile fisionomia spirituale, caratterizzata dall’alto ideale religioso. Continuate a camminare su questa strada, testimoniando in modo concreto la forza trasformante della fede. Per fede gli Apostoli lasciarono ogni cosa per seguire Gesù, e poi andarono nel mondo intero, attuando il mandato di portare il Vangelo ad ogni creatura; senza alcun timore annunciarono a tutti la forza della croce e la gioia della Risurrezione di Cristo, di cui furono diretti testimoni. Per fede i martiri donarono la loro vita, mostrando la verità del Vangelo che li aveva trasformati e resi capaci di giungere fino al dono più grande, frutto dell’amore, con il perdono dei propri persecutori. E per fede, nel corso dei secoli, i membri del vostro Ordine si sono prodigati, prima nell’assistenza degli infermi in Gerusalemme e poi nel soccorso dei pellegrini in Terrasanta esposti a gravi pericoli, scrivendo luminose pagine di carità cristiana e di tutela della cristianità. Nel XIX secolo l’Ordine si aprì a nuovi e più ampi spazi di attività in campo assistenziale e a servizio degli ammalati e dei poveri, ma senza mai rinunciare agli ideali originari, specialmente quello dell’intensa vita spirituale dei singoli membri. In questa direzione deve proseguire il vostro impegno con un’attenzione del tutto particolare alla consacrazione religiosa – quella dei Professi - che costituisce il cuore dell’Ordine. Non dovete dimenticare mai le vostre radici, quando il beato Gerardo e i suoi compagni si consacrarono con i voti al servizio dei poveri, e il privilegio Pie postulatio voluntatis sancì la loro vocazione. I membri della neonata istituzione si configuravano così con i tratti della vita religiosa: l’impegno per raggiungere la perfezione cristiana mediante la professione dei tre voti, il carisma a cui consacrarsi e la fraternità tra i membri. La vocazione del professo, anche oggi, deve essere oggetto di grande cura, unita all’attenzione per la vita spirituale di tutti.

In questo senso, il vostro Ordine, rispetto ad altre realtà impegnate in ambito internazionale nell’assistenza ai malati, nella solidarietà e nella promozione umana, si distingue per l’ispirazione cristiana che costantemente deve orientare l’impegno sociale dei suoi membri. Sappiate conservare e coltivare questo vostro carattere qualificante ed operate con rinnovato ardore apostolico, sempre in atteggiamento di profonda sintonia con il Magistero della Chiesa. La vostra preziosa e benefica opera, articolata in vari ambiti e svolta in diverse parti del mondo, concentrata in particolare nel servizio al malato con strutture ospedaliere e sanitarie, non è semplice filantropia, ma espressione efficace e testimonianza viva dell’amore evangelico.

Nella Sacra Scrittura il richiamo all’amore del prossimo è legato al comandamento di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (cfr
Mc 12,29-31). Di conseguenza, l’amore del prossimo corrisponde al mandato e all’esempio di Cristo, se si fonda su un vero amore verso Dio. È così possibile per il cristiano, attraverso la sua dedizione, far sperimentare agli altri la tenerezza provvidente del Padre celeste, grazie ad una sempre più profonda conformazione a Cristo. Per dare amore ai fratelli è necessario attingerlo alla fornace della carità divina, mediante la preghiera, il costante ascolto della Parola di Dio e un’esistenza incentrata sull’Eucaristia. La vostra vita di ogni giorno dev’essere penetrata dalla presenza di Gesù, sotto il cui sguardo siete chiamati a porre anche le sofferenze degli ammalati, la solitudine degli anziani, le difficoltà dei disabili. Andando incontro a queste persone, voi servite Cristo: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40), dice il Signore.

Cari amici, continuate ad operare nella società e nel mondo lungo le strade maestre indicate dal Vangelo: la fede e la carità, per ravvivare la speranza. La fede, quale testimonianza di adesione a Cristo e di impegno nella missione evangelica, che vi stimola ad una presenza sempre più viva nella comunità ecclesiale e ad una sempre più consapevole appartenenza al Popolo di Dio; la carità, quale espressione di fraternità in Cristo, attraverso le opere di misericordia per gli ammalati, i poveri, i bisognosi di amore, di conforto e di assistenza, gli afflitti dalla solitudine, dallo smarrimento e dalle nuove povertà materiali e spirituali. Tali ideali sono bene espressi nel vostro motto: «Tuitio fidei et Obsequium pauperum». Queste parole ben sintetizzano il carisma del vostro Ordine che, come soggetto di diritto internazionale, non ambisce ad esercitare poteri ed influenze di carattere mondano, ma desidera svolgere in piena libertà la propria missione per il bene integrale dell’uomo, spirito e corpo, guardando sia ai singoli che alla comunità, soprattutto a coloro che più hanno bisogno di speranza e di amore.

La Vergine Santa - la Beata Vergine di Fileremo - sostenga con la sua materna protezione i vostri propositi e i vostri progetti; il vostro celeste protettore San Giovanni Battista e il beato Gerardo, i Santi e Beati dell’Ordine vi accompagnino con la loro intercessione. Da parte mia, vi assicuro di pregare per voi qui presenti, per tutti i membri dell’Ordine, come pure per i numerosi e benemeriti volontari, tra i quali il nutrito gruppo dei bambini, e per quanti vi affiancano nelle vostre attività, mentre con affetto vi imparto una speciale Benedizione Apostolica, che estendo volentieri alle vostre famiglie. Grazie.




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