Discorsi 2005-13 21012

IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA Sala Clementina Sabato, 21 gennaio 2012

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Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

E’ per me motivo di gioia ricevervi oggi nell’annuale incontro, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Rivolgo il mio saluto al Collegio dei Prelati Uditori, ad iniziare dal Decano, Mons. Antoni Stankiewicz, che ringrazio per le sue parole. Un cordiale saluto anche agli Officiali, agli Avvocati, agli altri collaboratori, e a tutti i presenti. In questa circostanza rinnovo la mia stima per il delicato e prezioso ministero che svolgete nella Chiesa e che richiede un sempre rinnovato impegno per l’incidenza che esso ha per la salus animarum del Popolo di Dio.

Nell’appuntamento di quest’anno, vorrei partire da uno degli importanti eventi ecclesiali, che vivremo tra qualche mese; mi riferisco all’Anno della fede, che, sulle orme del mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, ho voluto indire nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Quel grande Pontefice – come ho scritto nella Lettera apostolica di indizione – stabilì per la prima volta un tale periodo di riflessione «ben cosciente delle gravi difficoltà del tempo, soprattutto riguardo alla professione della vera fede e alla sua retta interpretazione».[1]

Riallacciandomi a una simile esigenza, passando all’ambito che più direttamente interessa il vostro servizio alla Chiesa, oggi vorrei soffermarmi su di un aspetto primario del ministero giudiziale, ovvero l’interpretazione della legge canonica in ordine alla sua applicazione.[2] Il nesso con il tema appena accennato – la retta interpretazione della fede – non si riduce certo a una mera assonanza semantica, considerato che il diritto canonico trova nelle verità di fede il suo fondamento e il suo stesso senso, e che la lex agendi non può che rispecchiare la lex credendi. La questione dell'interpretazione della legge canonica, peraltro, costituisce un argomento assai vasto e complesso, dinanzi al quale mi limiterò ad alcune osservazioni.

Anzitutto l'ermeneutica del diritto canonico è strettamente legata alla concezione stessa della legge della Chiesa.

Qualora si tendesse a identificare il diritto canonico con il sistema delle leggi canoniche, la conoscenza di ciò che è giuridico nella Chiesa consisterebbe essenzialmente nel comprendere ciò che stabiliscono i testi legali. A prima vista questo approccio sembrerebbe valorizzare pienamente la legge umana. Ma risulta evidente l'impoverimento che questa concezione comporterebbe: con l'oblio pratico del diritto naturale e del diritto divino positivo, come pure del rapporto vitale di ogni diritto con la comunione e la missione della Chiesa, il lavoro dell'interprete viene privato del contatto vitale con la realtà ecclesiale.

Negli ultimi tempi alcune correnti di pensiero hanno messo in guardia contro l'eccessivo attaccamento alle leggi della Chiesa, a cominciare dai Codici, giudicandolo, per l'appunto, una manifestazione di legalismo. Di conseguenza, sono state proposte delle vie ermeneutiche che consentono un approccio più consono con le basi teologiche e gli intenti anche pastorali della norma canonica, portando ad una creatività giuridica in cui la singola situazione diventerebbe fattore decisivo per accertare l'autentico significato del precetto legale nel caso concreto. La misericordia, l'equità, l'oikonomia così cara alla tradizione orientale, sono alcuni dei concetti a cui si ricorre in tale operazione interpretativa. Conviene notare subito che questa impostazione non supera il positivismo che denuncia, limitandosi a sostituirlo con un altro in cui l'opera interpretativa umana assurge a protagonista nello stabilire ciò che è giuridico. Manca il senso di un diritto oggettivo da cercare, poiché esso resta in balìa di considerazioni che pretendono di essere teologiche o pastorali, ma alla fine sono esposte al rischio dell'arbitrarietà. In tal modo l'ermeneutica legale viene svuotata: in fondo non interessa comprendere la disposizione della legge, dal momento che essa può essere dinamicamente adattata a qualunque soluzione, anche opposta alla sua lettera. Certamente vi è in questo caso un riferimento ai fenomeni vitali, di cui però non si coglie l'intrinseca dimensione giuridica.

Esiste un'altra via, in cui la comprensione adeguata della legge canonica apre la strada a un lavoro interpretativo che s'inserisce nella ricerca della verità sul diritto e sulla giustizia nella Chiesa. Come ho voluto far presente al Parlamento Federale del mio Paese, nel Reichstag di Berlino,[3] il vero diritto è inseparabile dalla giustizia. Il principio vale ovviamente anche per la legge canonica, nel senso che essa non può essere rinchiusa in un sistema normativo meramente umano, ma deve essere collegata a un ordine giusto della Chiesa, in cui vige una legge superiore. In quest'ottica la legge positiva umana perde il primato che le si vorrebbe attribuire, giacché il diritto non si identifica più semplicemente con essa; in ciò, tuttavia, la legge umana viene valorizzata in quanto espressione di giustizia, anzitutto per quanto essa dichiara come diritto divino, ma anche per quello che essa introduce come legittima determinazione di diritto umano.

In tal modo, si rende possibile un'ermeneutica legale che sia autenticamente giuridica, nel senso che, mettendosi in sintonia con il significato proprio della legge, si può porre la domanda cruciale su quel che è giusto in ciascun caso. Conviene osservare, a questo proposito, che per cogliere il significato proprio della legge occorre sempre guardare alla realtà che viene disciplinata, e ciò non solo quando la legge sia prevalentemente dichiarativa del diritto divino, ma anche quando introduca costitutivamente delle regole umane. Queste vanno infatti interpretate anche alla luce della realtà regolata, la quale contiene sempre un nucleo di diritto naturale e divino positivo, con il quale deve essere in armonia ogni norma per essere razionale e veramente giuridica.

In tale prospettiva realistica, lo sforzo interpretativo, talvolta arduo, acquista un senso e un obiettivo. L'uso dei mezzi interpretativi previsti dal Codice di Diritto Canonico nel canone 17, a cominciare dal «significato proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto», non è più un mero esercizio logico. Si tratta di un compito che è vivificato da un autentico contatto con la realtà complessiva della Chiesa, che consente di penetrare nel vero senso della lettera della legge. Accade allora qualcosa di simile a quanto ho detto a proposito del processo interiore di Sant'Agostino nell'ermeneutica biblica: «il trascendimento della lettera ha reso credibile la lettera stessa».[4] Si conferma così che anche nell'ermeneutica della legge l'autentico orizzonte è quello della verità giuridica da amare, da cercare e da servire.

Ne segue che l'interpretazione della legge canonica deve avvenire nella Chiesa. Non si tratta di una mera circostanza esterna, ambientale: è un richiamo allo stesso humus della legge canonica e delle realtà da essa regolate. Il sentire cum Ecclesia ha senso anche nella disciplina, a motivo dei fondamenti dottrinali che sono sempre presenti e operanti nelle norme legali della Chiesa. In questo modo, va applicata anche alla legge canonica quell'ermeneutica del rinnovamento nella continuità di cui ho parlato in riferimento al Concilio Vaticano II,[5] così strettamente legato all'attuale legislazione canonica. La maturità cristiana conduce ad amare sempre più la legge e a volerla comprendere ed applicare con fedeltà.

Questi atteggiamenti di fondo si applicano a tutte le categorie di interpretazione: dalla ricerca scientifica sul diritto canonico, al lavoro degli operatori giuridici in sede giudiziaria o amministrativa, fino alla ricerca quotidiana delle soluzioni giuste nella vita dei fedeli e delle comunità. Occorre spirito di docilità per accogliere le leggi, cercando di studiare con onestà e dedizione la tradizione giuridica della Chiesa per potersi identificare con essa e anche con le disposizioni legali emanate dai Pastori, specialmente le leggi pontificie nonché il magistero su questioni canoniche, il quale è di per sé vincolante in ciò che insegna sul diritto.[6] Solo in questo modo si potranno discernere i casi in cui le circostanze concrete esigono una soluzione equitativa per raggiungere la giustizia che la norma generale umana non ha potuto prevedere, e si sarà in grado di manifestare in spirito di comunione ciò che può servire a migliorare l'assetto legislativo.

Queste riflessioni acquistano una peculiare rilevanza nell'ambito delle leggi riguardanti l’atto costitutivo del matrimonio e la sua consumazione e la ricezione dell’Ordine sacro, e di quelle attinenti ai rispettivi processi. Qui la sintonia con il vero senso della legge della Chiesa diventa una questione di ampia e profonda incidenza pratica nella vita delle persone e delle comunità e richiede una speciale attenzione. In particolare, vanno anche applicati tutti i mezzi giuridicamente vincolanti che tendono ad assicurare quell'unità nell'interpretazione e nell'applicazione delle leggi che è richiesta dalla giustizia: il magistero pontificio specificamente concernente questo campo, contenuto soprattutto nelle Allocuzioni alla Rota Romana; la giurisprudenza della Rota Romana, sulla cui rilevanza ho già avuto modo di parlarvi;[7] le norme e le dichiarazioni emanate da altri Dicasteri della Curia Romana. Tale unità ermeneutica in ciò che è essenziale non mortifica in alcun modo le funzioni dei tribunali locali, chiamati a confrontarsi per primi con le complesse situazioni reali che si danno in ogni contesto culturale. Ciascuno di essi, infatti, è tenuto a procedere con un senso di vera riverenza nei riguardi della verità sul diritto, cercando di praticare esemplarmente, nell’applicazione degli istituti giudiziali e amministrativi, la comunione nella disciplina, quale aspetto essenziale dell'unità della Chiesa.

Avviandomi alla conclusione di questo momento di incontro e di riflessione, vorrei ricordare la recente innovazione - a cui ha fatto riferimento Mons. Stankiewicz - in forza della quale sono state trasferite ad un Ufficio presso codesto Tribunale Apostolico le competenze circa i procedimenti di dispensa dal matrimonio rato e non consumato e le cause di nullità della sacra Ordinazione.[8] Sono certo che vi sarà una generosa risposta a questo nuovo impegno ecclesiale.

Nell’incoraggiare la vostra preziosa opera, che richiede un fedele, quotidiano e impegnato lavoro, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria, Speculum iustitiae, e volentieri vi imparto la Benedizione Apostolica.


[1] Motu pr. Porta fidei, 11 ottobre 2011, 5: L’Osservatore Romano, 17-18 ottobre 2011, p. 4.
[2] Cfr can.
CIC 16, § 3 CIC; can. CIO 1498, § 3 CCEO.
[3] Cfr Discorso al Parlamento Federale della Repubblica Federale di Germania, 22 settembre 2011: L’Osservatore Romano, 24 settembre 2011, pp. 6-7.
[4] Cfr Esort. ap. postsininodale Verbum Domini, 30 settembre 2010, 38: AAS 102 (2010), p. 718, n. 38.
[5] Cfr Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005: AAS 98 (2006), pp. 40-53.
[6] Cfr Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 29 gennaio 2005, 6: AAS 97 (2005), pp. 165-166.
[7] Cfr Allocuzione alla Rota Romana, 26 gennaio 2008: AAS 100 (2008), pp. 84-88.
[8] Cfr Motu pr. Quaerit semper, 30 agosto 2011: L’Osservatore Romano, 28 settembre 2011, p. 7.





AI SUPERIORI E SEMINARISTI DEI PONTIFICI SEMINARI CAMPANO, CALABRO E UMBRO IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DI FONDAZIONE Sala Clementina Giovedì, 26 gennaio 2012

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Signori Cardinali, venerati Fratelli e cari Seminaristi!

Sono molto lieto di accogliervi in occasione del centenario di fondazione dei Pontifici Seminari Campano, Calabro e Umbro. Saluto i Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, i tre Rettori con i collaboratori e i docenti, e soprattutto saluto con affetto voi, cari Seminaristi! La nascita di questi tre Seminari Regionali, nel 1912, va compresa nella più ampia opera di incremento della formazione dei candidati al sacerdozio portata avanti dal Papa san Pio X, in continuità con Leone XIII. Per venire incontro alle accresciute esigenze formative, la strada intrapresa fu quella dell’aggregazione dei Seminari diocesani in nuovi Seminari regionali, insieme con la riforma degli studi teologici, la quale produsse un sensibile innalzamento del livello qualitativo, grazie all’acquisizione di una cultura di base comune a tutti e ad un periodo di studio sufficientemente lungo e ben strutturato. Un ruolo importante svolse al riguardo la Compagnia di Gesù. Ai Gesuiti, infatti, fu affidata la direzione di cinque Seminari regionali, tra cui quello di Catanzaro, dal 1926 al 1941, e quello di Posillipo dalla fondazione ad oggi. Ma non fu la sola formazione accademica a trarne benefici, poiché la promozione della vita comune tra giovani seminaristi provenienti da realtà diocesane differenti favorì un notevole arricchimento umano. Singolare è il caso del Seminario Campano di Posillipo, che dal 1935 si aprì a tutte le regioni meridionali, dopo che ebbe riconosciuta la possibilità di concedere i gradi accademici.

Nell’attuale contesto storico ed ecclesiale l’esperienza dei Seminari regionali si presenta ancora assai opportuna e valida. Grazie al collegamento con Facoltà ed Istituti teologici, consente di avere accesso a percorsi di studio di livello elevato, favorendo una preparazione adeguata al complesso scenario culturale e sociale nel quale viviamo. Inoltre, il carattere interdiocesano si rivela una efficace “palestra” di comunione, che si sviluppa nell’incontro con sensibilità diverse da armonizzare nell’unico servizio alla Chiesa di Cristo. In questo senso, i Seminari regionali forniscono un incisivo e concreto contributo al cammino di comunione delle Diocesi, favorendo la conoscenza, la capacità di collaborazione e l’arricchimento di esperienze ecclesiali tra i futuri presbiteri, tra i formatori e tra gli stessi Pastori delle Chiese particolari. La dimensione regionale si pone inoltre come valida mediazione tra le linee della Chiesa universale e le esigenze delle realtà locali, evitando il rischio del particolarismo. Le vostre regioni, cari amici, sono ricche di grandi patrimoni spirituali e culturali, mentre vivono non poche difficoltà sociali. Pensiamo, ad esempio, all’Umbria, patria di san Francesco e di san Benedetto! Impregnata di spiritualità, l'Umbria è meta continua di pellegrinaggi. Al tempo stesso, questa piccola regione soffre come e più di altre la sfavorevole congiuntura economica. In Campania e in Calabria la vitalità della Chiesa locale, alimentata da un senso religioso ancora vivo grazie a solide tradizioni e devozioni, deve tradursi in una rinnovata evangelizzazione. In quelle terre, la testimonianza delle comunità ecclesiali deve fare i conti con forti emergenze sociali e culturali, come la mancanza di lavoro, soprattutto per i giovani, o il fenomeno della criminalità organizzata.

Il contesto culturale di oggi esige una solida preparazione filosofico-teologica dei futuri presbiteri. Come ho scritto nella mia Lettera ai Seminaristi, a conclusione dell’Anno Sacerdotale, «non si tratta soltanto di imparare le cose evidentemente utili, ma di conoscere e comprendere la struttura interna della fede nella sua totalità, che non è un sommario di tesi, ma è un organismo, una visione organica, così che essa diventi risposta alle domande degli uomini, i quali cambiano, dal punto di vista esteriore, di generazione in generazione, e tuttavia restano in fondo gli stessi» (cfr n. 5). Inoltre, lo studio della teologia deve avere sempre un legame intenso con la vita di preghiera. E’ importante che il seminarista comprenda bene che, mentre si applica a questo oggetto, è in realtà un “Soggetto” che lo interpella, quel Signore che gli ha fatto sentire la sua voce invitandolo a spendere la vita a servizio di Dio e dei fratelli. Così potrà realizzarsi nel seminarista oggi, e nel presbitero domani, quella unità di vita auspicata dal documento conciliare Presbyterorum Ordinis (n. 14), la quale trova la sua espressione visibile nella carità pastorale, «il principio interiore, la virtù che anima e che guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo capo» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis
PDV 23). E’ indispensabile, infatti, l’armoniosa integrazione tra il ministero con le sue molteplici attività e la vita spirituale del presbitero. «Per il sacerdote, il quale dovrà accompagnare altri lungo il cammino della vita e fino alla porta della morte, è importante che egli stesso abbia messo in giusto equilibrio cuore e intelletto, ragione e sentimento, corpo e anima, e che sia umanamente “integro”» (Lettera ai Seminaristi, 6). Sono queste le ragioni che spingono a prestare molta attenzione alla dimensione umana della formazione dei candidati al sacerdozio. È infatti nella nostra umanità che ci presentiamo davanti a Dio, per essere davanti ai nostri fratelli degli autentici uomini di Dio.Infatti, «chi vuole diventare sacerdote, dev’essere soprattutto un “uomo di Dio”, come lo scrive san Paolo al suo allievo Timoteo (1Tm 6,11). ... Perciò la cosa più importante nel cammino verso il sacerdozio e durante tutta la vita sacerdotale è il rapporto personale con Dio in Gesù Cristo» (cfr Lettera ai Seminaristi, 1).

Il beato Papa Giovanni XXIII, nel ricevere i Superiori e gli alunni del Seminario Campano, in occasione del 50° di fondazione, alle soglie del Concilio Vaticano II, espresse questa ferma convinzione così: «A questo tende la vostra educazione, in attesa della missione che vi verrà affidata a gloria di Dio e per la salvezza delle anime: formare la mente, santificare la volontà. Il mondo aspetta dei santi: questo soprattutto. Prima ancora che sacerdoti colti, eloquenti, aggiornati, si vogliono sacerdoti santi e santificatori». Queste parole risuonano ancora attuali, perché forte più che mai è nella Chiesa tutta, come nelle vostre particolari regioni di provenienza, la necessità di operai del Vangelo, testimoni credibili e promotori di santità con la loro stessa vita. Possa ciascuno di voi rispondere a questa chiamata! Per questo assicuro la mia preghiera, mentre vi affido alla guida materna della Beata Vergine Maria e di cuore vi imparto una speciale Benedizione Apostolica. Grazie.



AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE Sala Clementina Venerdì, 27 gennaio 2012

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Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

Per me è sempre motivo di gioia potermi incontrare con voi in occasione della Sessione Plenaria ed esprimervi il mio apprezzamento per il servizio che svolgete per la Chiesa e specialmente per il Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede (cfr
Lc 22,32). Ringrazio il Cardinale William Levada per il suo cordiale indirizzo di saluto, nel quale ha ricordato alcuni importanti impegni assolti dal Dicastero in questi ultimi anni. E sono particolarmente riconoscente alla Congregazione che, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, prepara l’Anno della fede, cogliendo in esso un momento propizio per riproporre a tutti il dono della fede nel Cristo risorto, il luminoso insegnamento del Concilio Vaticano II e la preziosa sintesi dottrinale offerta dal Catechismo della Chiesa Cattolica.

Come sappiamo, in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni. Auspico che l’Anno della fede possa contribuire, con la collaborazione cordiale di tutti le componenti del Popolo di Dio, a rendere Dio nuovamente presente in questo mondo e ad aprire agli uomini l’accesso alla fede, all’affidarsi a quel Dio che ci ha amati sino alla fine (cfr Jn 13,1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto.

Il tema dell’unità dei cristiani è strettamente collegato con questo compito. Vorrei quindi soffermarmi su alcuni aspetti dottrinali riguardanti il cammino ecumenico della Chiesa, che è stato oggetto di un’approfondita riflessione in questa Plenaria, in coincidenza con la conclusione dell’annuale Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani. Infatti, lo slancio dell’opera ecumenica deve partire da quell’«ecumenismo spirituale», da quell’«anima di tutto il movimento ecumenico» (Unitatis redintegratio UR 8), che si trova nello spirito della preghiera perché «tutti siano una cosa sola» (Jn 17,21).

La coerenza dell’impegno ecumenico con l’insegnamento del Concilio Vaticano II e con l’intera Tradizione è stata uno degli ambiti cui la Congregazione, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha sempre prestato attenzione. Oggi possiamo constatare non pochi frutti buoni arrecati dai dialoghi ecumenici, ma dobbiamo anche riconoscere che il rischio di un falso irenismo e di un indifferentismo, del tutto alieno alla mente del Concilio Vaticano II, esige la nostra vigilanza. Questo indifferentismo è causato dalla opinione sempre più diffusa che la verità non sarebbe accessibile all’uomo; sarebbe quindi necessario limitarsi a trovare regole per una prassi in grado di migliorare il mondo. E così la fede sarebbe sostituita da un moralismo, senza fondamento profondo. Il centro del vero ecumenismo è invece la fede nella quale l’uomo incontra la verità che si rivela nella Parola di Dio. Senza la fede tutto il movimento ecumenico sarebbe ridotto ad una forma di «contratto sociale» cui aderire per un interesse comune, una «prasseologia» per creare un mondo migliore. La logica del Concilio Vaticano II è completamente diversa: la ricerca sincera della piena unità di tutti i cristiani è un dinamismo animato dalla Parola di Dio, dalla Verità divina che ci parla in questa Parola.

Il problema cruciale, che segna in modo trasversale i dialoghi ecumenici, è perciò la questione della struttura della rivelazione – la relazione tra Sacra Scrittura, la Tradizione viva nella Santa Chiesa e il Ministero dei successori degli Apostoli come testimone della vera fede. E qui è implicita la problematica dell’ecclesiologia che fa parte di questo problema: come arriva la verità di Dio a noi. Fondamentale, tra l’altro, è qui il discernimento tra la Tradizione con maiuscola, e le tradizioni. Non vorrei entrare in dettagli, solo un’osservazione. Un importante passo di tale discernimento è stato compiuto nella preparazione e nell’applicazione dei provvedimenti per gruppi di fedeli provenienti dall’Anglicanesimo, che desiderano entrare nella piena comunione della Chiesa, nell’unità della comune ed essenziale Tradizione divina, conservando le proprie tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali, che sono conformi alla fede cattolica (cfr Cost. Anglicanorum coetibus, art. III). Esiste, infatti, una ricchezza spirituale nelle diverse Confessioni cristiane, che è espressione dell’unica fede e dono da condividere e da trovare insieme nella Tradizione della Chiesa.

Oggi, poi, una delle questioni fondamentali è costituita dalla problematica dei metodi adottati nei vari dialoghi ecumenici. Anche essi devono riflettere la priorità della fede. Conoscere la verità è il diritto dell’interlocutore in ogni vero dialogo. È la stessa esigenza della carità verso il fratello. In questo senso, occorre affrontare con coraggio anche le questioni controverse, sempre nello spirito di fraternità e di rispetto reciproco. È importante inoltre offrire un’interpretazione corretta di quell’«ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica», rilevato nel Decreto Unitatis redintegratio (n. 11), che non significa in alcun modo ridurre il deposito della fede, ma farne emergere la struttura interna, l’organicità di questa unica struttura. Hanno anche grande rilevanza i documenti di studio, prodotti dai vari dialoghi ecumenici. Tali testi non possono essere ignorati, perché costituiscono un frutto importante, pur provvisorio, della riflessione comune maturata negli anni. Nondimeno, essi vanno riconosciuti nel loro giusto significato come contributi offerti alla competente Autorità della Chiesa, che sola è chiamata a giudicarli in modo definitivo. Ascrivere a tali testi un peso vincolante o quasi conclusivo delle spinose questioni dei dialoghi, senza la dovuta valutazione da parte dell’Autorità ecclesiale, in ultima analisi, non aiuterebbe il cammino verso una piena unità nella fede.

Un'ultima questione che vorrei finalmente menzionare è la problematica morale, che costituisce una nuova sfida per il cammino ecumenico. Nei dialoghi non possiamo ignorare le grandi questioni morali circa la vita umana, la famiglia, la sessualità, la bioetica, la libertà, la giustizia e la pace. Sarà importante parlare su questi temi con una sola voce, attingendo al fondamento nella Scrittura e nella viva tradizione della Chiesa. Questa tradizione ci aiuta a decifrare il linguaggio del Creatore nella sua creazione. Difendendo i valori fondamentali della grande tradizione della Chiesa, difendiamo l’uomo, difendiamo il creato.

A conclusione di queste riflessioni, auspico una stretta e fraterna collaborazione della Congregazione con il competente Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, al fine di promuovere efficacemente il ristabilimento della piena unità fra tutti i cristiani. La divisione fra i cristiani, infatti, «non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» (Decr. Unitatis redintegratio UR 1). L’unità è quindi non solo il frutto della fede, ma anche un mezzo e quasi un presupposto per annunciare in modo sempre più credibile la fede a coloro che non conoscono ancora il Salvatore. Gesù ha pregato: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Jn 17,21).

Nel rinnovare la mia gratitudine per il vostro servizio, vi assicuro la mia costante vicinanza spirituale e imparto di cuore a voi tutti la Benedizione Apostolica. Grazie.


AI RAPPRESENTANTI DELLA "FONDAZIONE GIOVANNI PAOLO II PER IL SAHEL" Sala dei Papi Venerdì, 10 febbraio 2012

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Cari amici,

È per me una gioia accogliervi e porgervi il benvenuto. Ringrazio il Cardinale Sarah, rappresentante legale della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel in quanto Presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, per le belle parole che mi ha appena rivolto. Saluto il Presidente del Consiglio di Amministrazione, Monsignor Bassène, e voi tutti che cooperate a questa grande opera di carità. I miei saluti e i miei ringraziamenti vanno anche ai rappresentanti delle Conferenze episcopali tedesca e italiana, che contribuiscono in modo importante al funzionamento della Fondazione.

Dio si è fatto carne. C’è mai stato un gesto di amore e di carità più grande di questo? Tutto ciò che accade oggi e che continua ad accadere dal giorno in cui Dio si è fatto uomo, ne è chiaramente il segno. Dio non smette di amarci e d’incarnarsi attraverso la sua Chiesa, in ogni parte del mondo. Nata quasi trent’anni fa, e voluta dal mio beato predecessore, la Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel non ha mai smesso di perseguire anch’essa questo obiettivo: essere segno di una carità cristiana che s’incarna e che diviene testimonianza di Cristo. La Fondazione vuole anche manifestare la presenza del Papa tra i nostri fratelli africani che vivono nel Sahel. È lo spirito di questa istituzione! Essa per anni ha realizzato innumerevoli progetti per contrastare la desertificazione. L’esistenza di questa Fondazione dimostra la grande umanità del mio beato predecessore che ha avuto l’intuizione d’istituirla. Ma questa opera sarà pienamente efficace solo se sarà irrigata dalla preghiera. In effetti, Dio solo è sorgente e potenza di vita. È Lui il creatore delle acque (cfr. Gn
Gn 1,6-9). Purtroppo il Sahel, in questi ultimi mesi, è stato gravemente e nuovamente minacciato da una consistente diminuzione di risorse alimentari e dalla carestia causata dalla mancanza di pioggia e dell’avanzare costante del deserto che ne consegue. Esorto la comunità internazionale a considerare seriamente l’estrema povertà di queste popolazioni le cui condizioni di vita si stanno deteriorando. Desidero altresì incoraggiare e sostenere gli sforzi degli organismi ecclesiali che operano in questo ambito.

La carità deve promuovere tutte le nostre azioni. Non si tratta di voler fare un mondo «su misura», ma si tratta di amarlo. Per questo la Chiesa non ha come vocazione principale quella di trasformare l’ordine politico o di cambiare il tessuto sociale. Essa vuole portare la luce di Cristo. È Lui che trasformerà tutto e tutti. E a causa di Gesù Cristo e per Lui che l’apporto cristiano è così specifico. In alcuni Paesi che voi rappresentate, esiste l’Islam. So che intrattenete buoni rapporti con i musulmani e me ne rallegro. Testimoniare che Cristo è vivente e che il suo amore va al di là di ogni religione, razza e cultura, è importante anche nei loro riguardi.

Si descrive, in modo riduttivo e spesso umiliante, l’Africa come il continente dei conflitti e dei problemi infiniti e insolubili. Al contrario, l’Africa che accoglie oggi la Buona Novella, è per la Chiesa il continente della speranza. Per noi, per voi, l’Africa è il continente del futuro. Ripeto l’esortazione pronunciata durante il mio recente viaggio in Benin: «Africa, Buona Novella per la Chiesa, diventalo per il mondo intero!». La Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel ne è una grande testimonianza.

Per realizzare quest’opera, e dopo 28 anni di attività, la Fondazione ha bisogno di aggiornarsi e di rinnovarsi. È aiutata in ciò dal Pontificio Consiglio Cor Unum. Questo rinnovamento deve riguardare in primo luogo la formazione cristiana e professionale delle persone che operano sul posto, poiché esse sono in un certo senso gli strumenti del Santo Padre in quelle regioni. Considero una priorità l’educazione e la formazione cristiane di tutti coloro che — in un modo o nell’altro — collaborano a rendere più visibile quel grande segno di carità che è la Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel. Per essere effettivo, questo rinnovamento dovrà cominciare dalla preghiera e dalla conversione personale. Che la Vergine Maria e il beato Giovanni Paolo II ci assistano! Grazie!




VISITA AL PONTIFICIO SEMINARIO ROMANO MAGGIORE IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA Mercoledì, 15 febbraio 2012

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"LECTIO DIVINA" DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI Cappella del Seminario



Eminenza,
cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari Seminaristi,
cari fratelli e sorelle,

è per me sempre una grande gioia vedere, nel giorno della Madonna della Fiducia, i miei seminaristi, i seminaristi di Roma, in cammino verso il sacerdozio, e vedere così la Chiesa di domani, la Chiesa che vive sempre.

Oggi abbiamo sentito un testo – lo sentiamo e lo meditiamo – della Lettera ai Romani: Paolo parla ai Romani e quindi parla a noi, perché parla ai Romani di tutti i tempi. Questa Lettera non solo è la più grande di san Paolo, ma è anche straordinaria per il peso dottrinale e spirituale. E’ straordinaria anche perché è una lettera scritta a una comunità che non aveva fondato e neppure aveva visitato. Egli scrive per annunciare la sua visita ed esprimere il desiderio di visitare Roma, e preannuncia i contenuti essenziali del suo Kerygma; così prepara la Città alla sua visita. Scrive a questa comunità che non conosce personalmente, perché è l’Apostolo dei Pagani - del passaggio del Vangelo dagli Ebrei ai Pagani - e Roma è la capitale dei Pagani e quindi il centro, alla fine, anche del suo messaggio. Qui deve giungere il suo Vangelo, perché sia realmente arrivato nel mondo pagano. Giungerà, ma in modo diverso da come lo aveva pensato. Paolo arriverà incatenato per Cristo e proprio in catene si sentirà libero di annunciare il Vangelo.

Nel primo capitolo della Lettera ai Romani, egli dice anche: della vostra fede, della fede della Chiesa di Roma si parla in tutto il mondo (cfr
Rm 1,8). La cosa memorabile della fede di questa Chiesa è che se ne parla nel mondo intero, e possiamo riflettere come stia oggi. Anche oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, ma speriamo che si parli anche della nostra fede, della fede esemplare di questa Chiesa, e preghiamo il Signore perché possiamo far sì che si parli non di tante cose, ma della fede della Chiesa di Roma.

Il testo letto (Rm 12,1-2) è l’inizio della quarta ed ultima parte della Lettera ai Romani e comincia con le parole “Vi esorto” (v. 1). Normalmente si dice che si tratti della parte morale che segue alla parte dogmatica, ma nel pensiero di san Paolo, e anche nel suo linguaggio, non si possono dividere così le cose: questa parola “esorto”, in greco parakalo, porta in sé la parola paraklesisparakletos, ha una profondità che va molto oltre la moralità; è una parola che certamente implica ammonizione, ma anche consolazione, cura per l’altro, tenerezza paterna, anzi materna; questa parola “misericordia” – in greco oiktirmon e in ebraico rachamim, grembo materno - esprime la misericordia, la bontà, la tenerezza di una madre. E se Paolo esorta, tutto questo è implicito: parla col cuore, parla con la tenerezza dell’amore di un padre e parla non solo lui. Paolo dice “per la misericordia di Dio” (v. 1): si fa strumento del parlare di Dio, si fa strumento del parlare di Cristo; Cristo parla a noi con questa tenerezza, con questo amore paterno, con questa cura per noi. E così anche non fa appello soltanto alla nostra moralità e alla nostra volontà, ma anche alla Grazia che è in noi, che lasciamo operare la Grazia. E’ quasi un atto nel quale la Grazia data nel Battesimo diventa operante in noi, dovrebbe essere operante in noi; così la Grazia, il dono di Dio, e il nostro cooperare vanno insieme.

A che cosa esorta, in questo senso, Paolo? “Offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (v. 1). “Offrire i vostri corpi”: parla della liturgia, parla di Dio, della priorità di Dio, ma non parla di liturgia come cerimonia, parla di liturgia come vita. Noi stessi, il nostro corpo; noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. Questa è la novità del Nuovo Testamento, e lo vedremo ancora dopo: Cristo offre se stesso e sostituisce così tutti gli altri sacrifici. E vuole “tirare” noi stessi nella comunione del suo Corpo: il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di Dio, diventa liturgia. Così questa parola “offrire” – in greco parastesai – non è solo un’allegoria; allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, ma, al contrario, la vera liturgia è quella del nostro corpo, del nostro essere nel Corpo di Cristo, come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, che tende ad attirare a sé tutti.

“Nel vostro corpo, offrire il corpo”: questa parola indica l’uomo nella sua totalità, indivisibile - alla fine - tra anima e corpo, spirito e corpo; nel corpo siamo noi stessi e il corpo animato dall’anima, il corpo stesso, deve essere la realizzazione della nostra adorazione. E pensiamo - forse direi che ognuno di noi poi rifletta su questa parola - che il nostro vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita – e non solo alcuni pensieri – siano liturgia, siano adorazione. Paolo poi dice: “Offrire i vostri corpi come sacrifico vivente” (v. 1): la parola greca è logike latreia e appare poi nel Canone Romano, nella Prima Preghiera Eucaristica, “rationabile obsequium”. E’ una definizione nuova del culto, ma preparata sia nell’Antico Testamento, sia nella filosofia greca: sono due fiumi – per così dire – che guidano verso questo punto e si uniscono nella nuova liturgia dei cristiani e di Cristo. Antico Testamento: dall’inizio hanno capito che Dio non ha bisogno di tori, di arieti, di queste cose. Nel Salmo 50 [49], Dio dice: Pensate che io mangi dei tori, che io beva sangue di arieti? Io non ho bisogno di queste cose, non mi piacciono. Io non bevo e non mangio queste cose. Non sono sacrificio per me. Sacrificio è la lode di Dio, se voi venite a me è lode di Dio (cfr vv. 13-15.23). Così la strada dell’Antico Testamento va verso un punto in cui queste cose esteriori, simboli, sostituzioni, scompaiono e l’uomo stesso diventa lode di Dio.

Lo stesso avviene nel mondo della filosofia greca. Anche qui si capisce sempre più che non si può glorificare Dio con queste cose – con animali od offerte –, ma che solo il “logos” dell’uomo, la sua ragione divenuta gloria di Dio, è realmente adorazione, e l’idea è che l’uomo dovrebbe uscire da se stesso e unirsi con il “Logos”, con la grande Ragione del mondo e così essere veramente adorazione. Ma qui manca qualcosa: l’uomo, secondo questa filosofia, dovrebbe lasciare – per così dire – il corpo, spiritualizzarsi; solo lo spirito sarebbe adorazione. Il Cristianesimo, invece, non è semplicemente spiritualizzazione o moralizzazione: è incarnazione, cioè Cristo è il “Logos”, è la Parola incarnata, e Lui ci raccoglie tutti, cosicché in Lui e con Lui, nel suo Corpo, come membri di questo Corpo diventiamo realmente glorificazione di Dio. Teniamo presente questo: da una parte certamente uscire da queste cose materiali per un concetto più spirituale dell’adorazione di Dio, ma arrivare all’incarnazione dello spirito, arrivare al punto in cui il nostro corpo sia riassunto nel Corpo di Cristo e la nostra lode di Dio non sia pura parola, pura attività, ma sia realtà di tutta la nostra vita. Penso che dobbiamo riflettere su questo e pregare Dio, perché ci aiuti affinché lo spirito diventi carne anche in noi, e la carne diventi piena dello Spirito di Dio.

La stessa realtà la troviamo anche nel capitolo quarto del Vangelo di San Giovanni, dove il Signore dice alla samaritana: Non si adorerà in futuro su quel colle o sul quell’altro, con questi o altri riti; si adorerà in spirito e in verità (cfr Jn 4,21-23). Certamente è spiritualizzazione, uscire da questi riti carnali, ma questo spirito, questa verità non è un qualunque spirito astratto: lo spirito è lo Spirito Santo, e la verità è Cristo. Adorare in spirito e verità vuol dire realmente entrare attraverso lo Spirito Santo nel Corpo di Cristo, nella verità dell’essere. E così noi diventiamo verità e diventiamo glorificazione di Dio. Divenire verità in Cristo esige il nostro coinvolgimento totale.

E poi continuiamo: “Santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Secondo versetto: dopo questa definizione fondamentale della nostra vita come liturgia di Dio, incarnazione della Parola in noi, ogni giorno, con Cristo - la Parola incarnata -, san Paolo continua: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). “Non conformatevi a questo mondo”. C’è un non conformismo del cristiano, che non si fa conformare. Questo non vuol dire che noi vogliamo fuggire dal mondo, che a noi non interessa il mondo; al contrario vogliamo trasformare noi stessi e lasciarci trasformare, trasformando così il mondo. E dobbiamo tenere presente che nel Nuovo Testamento, soprattutto nel Vangelo di San Giovanni, la parola “mondo” ha due significati e indica quindi il problema e la realtà della quale si tratta. Da una parte il “mondo” creato da Dio, amato da Dio, fino al punto di dare se stesso e il suo Figlio per questo mondo; il mondo è creatura di Dio, Dio lo ama e vuol dare se stesso affinché esso sia realmente creazione e risposta al suo amore. Ma c’è anche l’altro concetto del “mondo”, kosmos houtos: il mondo che sta nel male, che sta nel potere del male, che riflette il peccato originale. Vediamo questo potere del male oggi, per esempio, in due grandi poteri, che di per sé stessi sono utili e buoni, ma che sono facilmente abusabili: il potere della finanza e il potere dei media. Ambedue necessari, perché possono essere utili, ma talmente abusabili che spesso diventano il contrario delle loro vere intenzioni.

Vediamo come il mondo della finanza possa dominare sull’uomo, che l’avere e l’apparire dominano il mondo e lo schiavizzano. Il mondo della finanzia non rappresenta più uno strumento per favorire il benessere, per favorire la vita dell’uomo, ma diventa un potere che lo opprime, che deve essere quasi adorato: “Mammona”, la vera divinità falsa che domina il mondo. Contro questo conformismo della sottomissione a questo potere, dobbiamo essere non conformisti: non conta l’avere, ma conta l’essere! Non sottomettiamoci a questo, usiamolo come mezzo, ma con la libertà dei figli di Dio.

Poi l’altro, il potere dell’opinione pubblica. Certamente abbiamo bisogno di informazioni, di conoscenza delle realtà del mondo, ma può essere poi un potere dell’apparenza; alla fine, quanto è detto conta di più che la realtà stessa. Un’apparenza si sovrappone alla realtà, diventa più importante, e l’uomo non segue più la verità del suo essere, ma vuole soprattutto apparire, essere conforme a queste realtà. E anche contro questo c’è il non conformismo cristiano: non vogliamo sempre “essere conformati”, lodati, vogliamo non l’apparenza, ma la verità e questo ci dà libertà e la libertà vera cristiana: il liberarsi da questa necessità di piacere, di parlare come la massa pensa che dovrebbe essere, e avere la libertà della verità, e così ricreare il mondo in modo che non sia oppresso dall’opinione, dall’apparenza che non lascia più emergere la realtà stessa; il mondo virtuale diventa più vero, più forte e non si vede più il mondo reale della creazione di Dio. Il non conformismo del cristiano ci redime, ci restituisce alla verità. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere uomini liberi in questo non conformismo che non è contro il mondo, ma è il vero amore del mondo.

E san Paolo continua: “Trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). Due parole molto importanti: “trasformare”, dal greco metamorphon, e “rinnovare”, in greco anakainosis. Trasformare noi stessi, lasciarsi trasformare dal Signore nella forma dell’immagine di Dio, trasformarci ogni giorno di nuovo, attraverso la sua realtà, nella verità del nostro essere. E “rinnovamento”; questa è la vera novità: che non ci sottoponiamo alle opinioni, alle apparenze, ma alla Grazia di Dio, alla sua rivelazione. Lasciamoci formare, plasmare perché appaia realmente nell’uomo l’immagine di Dio.

“Rinnovando - dice Paolo in modo sorprendente per me - il vostro modo di pensare”. Quindi questo rinnovamento, questa trasformazione comincia con il rinnovamento del pensare. San Paolo dice “o nous”: tutto il modo del nostro ragionare, la ragione stessa deve essere rinnovata. Rinnovata non secondo le categorie del consueto, ma rinnovare vuol dire realmente lasciarci illuminare dalla Verità che ci parla nella Parola di Dio. E così, finalmente, imparare il nuovo modo di pensare, che è il modo che non obbedisce al potere e all’avere, all’apparire eccetera, ma obbedisce alla verità del nostro essere che abita profondamente in noi e ci è ridonata nel Battesimo.

“Rinnovare il modo di pensare”: ogni giorno è un compito proprio nel cammino dello studio della Teologia, della preparazione per il sacerdozio. Studiare bene la Teologia, spiritualmente, pensarla fino in fondo, meditare la Scrittura ogni giorno; questo modo di studiare la Teologia con l’ascolto di Dio stesso che ci parla è il cammino di rinnovamento del pensare, di trasformazione del nostro essere e del mondo.

E, infine, “Facciamo tutto - secondo Paolo - per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto” (cfr v. 2). Discernere la volontà di Dio: possiamo imparare questo soltanto in un cammino obbediente, umile, con la Parola di Dio, con la Chiesa, con i Sacramenti, con la meditazione della Sacra Scrittura. Conoscere e discernere la volontà di Dio, quanto è buono. Questo è fondamentale nella nostra vita.

E, nel giorno della Madonna della Fiducia, vediamo nella Madonna proprio la realtà di tutto questo, la persona che è realmente nuova, che è realmente trasformata, che è realmente sacrificio vivente. La Madonna vede la volontà di Dio, vive nella volontà di Dio, dice “sì”, e questo “sì” della Madonna è tutto il suo essere, e così ci mostra la strada, ci aiuta.

Quindi, in questo giorno, preghiamo la Madonna, che è l’icona vivente dell’uomo nuovo. Ci aiuti a trasformare, a lasciar trasformare il nostro essere, ad essere realmente uomini nuovi, ad essere anche poi, se Dio vuole, Pastori della sua Chiesa. Grazie.





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