Discorsi 2005-13 27092

AL XXXII CONGRESSO MONDIALE PROMOSSO DALLA FIMS (FEDERAZIONE INTERNAZIONALE DI MEDICINA DELLO SPORT) Castel Gandolfo, Sala degli Svizzeri Giovedì, 27 settembre 2012

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Distinti Ospiti,
Cari Amici,

Sono lieto di accogliere a Castel Gandolfo voi rappresentanti del trentaduesimo Congresso Mondiale di Medicina dello Sport mentre, per la prima volta nella vostra storia, tenete il convegno biennale a Roma. Desidero anche ringraziare il dottor Maurizio Casasco per le gentili parole espresse a nome vostro.

In questa occasione è parso opportuno proporvi alcune riflessioni sulla cura degli atleti e di quanti partecipano allo sport. Ho appreso che voi, qui presenti al Congresso, provenite da centodiciassette Paesi e cinque continenti, e la vostra diversità è un segno importante della presenza dell’atletica nelle culture, nelle regioni e nelle diverse circostanze. È anche un’importante indicazione della capacità che hanno lo sport e gli sforzi atletici di unire le persone e i popoli nella ricerca comune di una pacifica eccellenza competitiva. I recenti giochi olimpici e paralimpici a Londra lo hanno mostrato chiaramente. Il richiamo universale e l’importanza dell’atletica e della medicina dello sport sono giustamente riflessi anche dal tema del vostro Congresso di quest’anno, che tratta delle implicazioni a livello mondiale del vostro lavoro, e della sua potenziale possibilità d’ispirare molte persone diverse in tutto il globo.

Come il dottor Casasco ha giustamente sottolineato nel suo discorso, voi, come medici specialisti, riconoscete che il punto di partenza di tutto il vostro lavoro è il singolo atleta che servite. Così come lo sport è qualcosa in più di una semplice competizione; ogni sportivo, uomo e donna, è più di un mero concorrente: possiede una capacità morale e spirituale che deve essere arricchita e approfondita dallo sport e dalla medicina sportiva. Talvolta, però, il successo, la fama, le medaglie e la ricerca del denaro diventano la principale, o addirittura l’unica motivazione per quanti sono coinvolti. Di tanto in tanto è perfino accaduto che la vittoria a tutti i costi abbia preso il posto del vero spirito sportivo e abbia portato all’abuso e all’uso sbagliato dei mezzi di cui la medicina moderna dispone.

Voi, come esperti di medicina dello sport, siete consapevoli di tale tentazione e so che state dibattendo questa importante questione nel vostro Congresso. Lo fate perché certamente anche voi sapete che le persone delle quali vi prendete cura sono individui unici e dotati, a prescindere dalle capacità atletiche, e che sono chiamati alla perfezione morale e spirituale prima che a qualsiasi risultato fisico. Di fatto, nella sua prima Lettera ai Corinzi san Paolo osserva che l’eccellenza spirituale e atletica sono strettamente correlate, ed esorta i credenti ad allenarsi nella vita spirituale. «Però ogni atleta — dice — è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (9, 25). È per questo, cari amici, che vi esorto a continuare a tenere presente la dignità di coloro che assistete con il vostro lavoro medico professionale. In tal modo, sarete agenti non solo di guarigione fisica e di eccellenza atletica, ma anche di rigenerazione morale, spirituale e culturale.

Come il Signore stesso si è incarnato e si è fatto uomo, così ogni persona umana è chiamata a rispecchiare perfettamente l’immagine e somiglianza di Dio. Pertanto, prego per voi e per coloro che beneficiano del vostro lavoro, affinché il vostro impegno porti a un apprezzamento sempre più profondo della bellezza, del mistero e del potenziale di ogni persona umana, atletico o di altro genere, fisicamente abile o con disabilità. Possano la vostra professionalità, il vostro consiglio e la vostra amicizia recare beneficio a tutti coloro che siete chiamati a servire! Con queste riflessioni invoco su di voi e su quanti servite le abbondanti benedizioni di Dio. Grazie.



CONGEDO DAI DIPENDENTI DELLE VILLE PONTIFICIE Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo Venerdì, 28 settembre 2012

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Cari fratelli e sorelle,

tutto passa in questo mondo! Ogni cosa che inizia, anche la più positiva e più bella, porta poi con sé, inevitabilmente, la propria conclusione. Così è anche per il tempo sereno e tranquillo che ho trascorso qui con voi, nella bella cornice di Castel Gandolfo, dove, ancora una volta, ho potuto respirare un clima di famiglia e di viva cordialità. Questo nostro incontro, diventato ormai gradita consuetudine, mi dà l’opportunità di ringraziare tutti e ciascuno di voi per il generoso servizio che svolgete in questa Residenza Pontificia. Il mio speciale ed affettuoso saluto va anzitutto al Dottor Saverio Petrillo, Direttore Generale delle Ville Pontificie, con gratitudine per le cortesi parole che, anche a nome di tutti voi qui presenti, mi ha rivolto. Un caro saluto a tutti i dipendenti e alle loro famiglie. Il Signore, ricco di bontà, vi benedica e vi custodisca nel suo amore!

Il mese di settembre, che ormai sta alle nostre spalle, è sempre il tempo di un positivo rilancio, dopo le ferie estive: per i vostri bambini e ragazzi è ricominciata la scuola; per tutti voi è ripreso il lavoro più intenso ed assiduo. Anche nella Chiesa, per molte comunità cristiane sparse nel mondo, questo che Dio Padre ci dona è il tempo di un nuovo anno pastorale che inizia. Vediamo ormai vicini, poi, alcuni eventi molto significativi: penso alla mia imminente visita a Loreto, con la quale desidero ricordare il 50° anniversario del pellegrinaggio del Beato Giovanni XXIII, compiuto a quel Santuario mariano per affidare a Maria il Concilio Ecumenico Vaticano II; penso al Sinodo dei Vescovi, che rifletterà sulla nuova evangelizzazione nell’oggi della Chiesa e del mondo; e infine - nel 50° dell’inizio del Concilio - all’apertura dell’Anno della fede, da me indetto per aiutare ogni uomo a spalancare il proprio cuore e la propria vita a Gesù Signore e alla Parola di salvezza.

Affido perciò alla vostra preghiera, cari amici, questi importanti momenti ecclesiali che siamo chiamati a vivere. Il Signore ci assista, perché essi aiutino ciascuno di noi a crescere nella fede, a riscoprire Gesù come la perla preziosa e vero il tesoro della nostra vita. La Vergine Maria, Madre della Chiesa e Madre nostra, che invocheremo fiduciosi nel prossimo mese di ottobre con la recita quotidiana del santo Rosario, vi protegga sempre e vi sostenga nel realizzare tutti i propositi di bene che portate nel cuore.

Vi accompagni anche la mia Benedizione, che con affetto imparto a ciascuno di voi, alle vostre famiglie e a tutte le persone care, in modo speciale ai malati e ai sofferenti.

[Benedizione]

Arrivederci!




INCONTRO CON LA DELEGAZIONE DEL COMUNE DI CASTEL GANDOLFO, LE AUTORITÀ CIVILI E MILITARI, LE COMUNITÀ RELIGIOSE E I DIPENDENTI CHE HANNO ASSICURATO IL SERVIZIO DURANTE IL PERIODO ESTIVO

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Sala degli Svizzeri, Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo Sabato, 29 settembre 2012



Cari fratelli e sorelle,

sono lieto di accogliervi al termine del mio soggiorno estivo a Castel Gandolfo. Esso mi ha consentito di vivere un periodo di studio, preghiera e riposo, durante il quale ho notato con ammirazione la sollecitudine e la premura di tutte le persone impegnate a garantire assistenza ed ospitalità a me, ai miei collaboratori, come anche agli ospiti e ai pellegrini qui giunti per incontrare il Successore di Pietro. Esprimo la mia grande riconoscenza a tutti e a ciascuno per la dedizione profusa nell’arco di questi mesi. Nel periodo estivo Castel Gandolfo si conferma come una “seconda sede” del Vescovo di Roma, che gareggia con la “prima” nella capacità di accogliere i visitatori e pellegrini venuti a pregare per l’Angelus domenicale o per le Udienze Generali del mercoledì.

Saluto con affetto e con gratitudine in primo luogo il Vescovo di Albano, Mons. Marcello Semeraro. Saluto il Parroco di Castel Gandolfo e i suoi collaboratori, insieme alle comunità religiose e laicali, maschili e femminili, presenti nel territorio. Vi invito tutti a continuare a farmi sentire la vostra vicinanza spirituale anche dopo la mia partenza, così come è accaduto in questo periodo della mia permanenza. Di questo vi sono grato, mentre vi incoraggio a proseguire con fiducia e con gioia il vostro servizio a Cristo e al suo Vangelo.

Un cordiale saluto rivolgo alle autorità civili di Castel Gandolfo nella persona del Sindaco. Mentre vi ringrazio per la disponibilità e la sollecitudine dimostrate, assicuro il mio ricordo nella preghiera per tutta la vostra comunità, in particolare per le famiglie in difficoltà e per gli ammalati.

Mi è caro quindi porgere il mio saluto ai responsabili dei Servizi del Governatorato: il Corpo della Gendarmeria, la Floreria, i Servizi tecnici e sanitari; e gli altri corpi che hanno cooperato in maniera determinante all’ordinato svolgimento di tutti gli appuntamenti: la Guardia Svizzera Pontificia, i funzionari e gli agenti delle Forze dell’Ordine Italiane e gli ufficiali e gli avieri del 31° Stormo dell’Aeronautica Militare. Il Signore vi ricompensi tutti con abbondanti doni celesti, e custodisca voi e le vostre famiglie.

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per la vostra presenza oggi a quest’incontro. Il modo migliore per ricordarsi è quello della preghiera: io non mancherò di pregare per voi e per le vostre intenzioni, e confido che voi facciate altrettanto. Alla Vergine Maria, che veneriamo nel mese di ottobre come Regina del santo Rosario, affido ciascuno di voi, i vostri parenti ed amici. Sia sempre lei, con il suo sguardo amorevole, ad accompagnare e sostenere i nostri passi sulla strada della giustizia e della verità. Con tali sentimenti imparto di cuore a ciascuno di voi qui presenti ed a tutti i vostri cari la Benedizione Apostolica.






XIII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI - MEDITAZIONE PRIMA CONGREGAZIONE GENERALE Aula del Sinodo Lunedì, 8 ottobre 2012

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Cari Fratelli,

la mia meditazione si riferisce alla parola «evangelium» «euangelisasthai» (cfr Lc
Lc 4,18). In questo Sinodo vogliamo conoscere di più che cosa il Signore ci dice e che cosa possiamo o dobbiamo fare noi. E’ divisa in due parti: una prima riflessione sul significato di queste parole, e poi vorrei tentare di interpretare l’Inno dell’Ora Terza «Nunc, Sancte, nobis Spìritus», a pagina 5 del Libro delle Preghiere.

La parola «evangelium» «euangelisasthai» ha una lunga storia. Appare in Omero: è annuncio di una vittoria, e quindi annuncio di bene, di gioia, di felicità. Appare, poi, nel Secondo Isaia (cfr Is Is 40,9), come voce che annuncia gioia da Dio, come voce che fa capire che Dio non ha dimenticato il suo popolo, che Dio, il Quale si era apparentemente quasi ritirato dalla storia, c’è, è presente. E Dio ha potere, Dio dà gioia, apre le porte dell’esilio; dopo la lunga notte dell’esilio, la sua luce appare e dà la possibilità del ritorno al suo popolo, rinnova la storia del bene, la storia del suo amore. In questo contesto dell’evangelizzazione, appaiono soprattutto tre parole: dikaiosyne, eirene, soteria - giustizia, pace, salvezza. Gesù stesso ha ripreso le parole di Isaia a Nazaret, parlando di questo «Evangelo» che porta adesso proprio agli esclusi, ai carcerati, ai sofferenti e ai poveri.

Ma per il significato della parola «evangelium» nel Nuovo Testamento, oltre a questo – il Deutero Isaia, che apre la porta -, è importante anche l’uso della parola fatto dall’Impero Romano, cominciando dall’imperatore Augusto. Qui il termine «evangelium» indica una parola, un messaggio che viene dall’Imperatore. Il messaggio, quindi, dell’Imperatore - come tale - porta bene: è rinnovamento del mondo, è salvezza. Messaggio imperiale e come tale un messaggio di potenza e di potere; è un messaggio di salvezza, di rinnovamento e di salute. Il Nuovo Testamento accetta questa situazione. San Luca confronta esplicitamente l’Imperatore Augusto con il Bambino nato a Betlemme: «evangelium» - dice - sì, è una parola dell’Imperatore, del vero Imperatore del mondo. Il vero Imperatore del mondo si è fatto sentire, parla con noi. E questo fatto, come tale, è redenzione, perché la grande sofferenza dell’uomo - in quel tempo, come oggi - è proprio questa: dietro il silenzio dell’universo, dietro le nuvole della storia c’è un Dio o non c’è? E, se c’è questo Dio, ci conosce, ha a che fare con noi? Questo Dio è buono, e la realtà del bene ha potere nel mondo o no? Questa domanda oggi è così attuale come lo era in quel tempo. Tanta gente si domanda: Dio è una ipotesi o no? E’ una realtà o no? Perché non si fa sentire? «Vangelo» vuol dire: Dio ha rotto il suo silenzio, Dio ha parlato, Dio c’è. Questo fatto come tale è salvezza: Dio ci conosce, Dio ci ama, è entrato nella storia. Gesù è la sua Parola, il Dio con noi, il Dio che ci mostra che ci ama, che soffre con noi fino alla morte e risorge. Questo è il Vangelo stesso. Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso e questa è la salvezza.

La questione per noi è: Dio ha parlato, ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato, ma come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza? Di per sé il fatto che abbia parlato è la salvezza, è la redenzione. Ma come può saperlo l’uomo? Questo punto mi sembra che sia un interrogativo, ma anche una domanda, un mandato per noi: possiamo trovare risposta meditando l’Inno dell’Ora Terza «Nunc, Sancte, nobis Spìritus». La prima strofa dice: «Dignàre promptus ingeri nostro refusus, péctori», e cioè preghiamo affinché venga lo Spirito Santo, sia in noi e con noi. Con altre parole: noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il «fare» nostro, ma con il «fare» e il «parlare» di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, gli Apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente quanto fa Lui. Dio ha parlato e questo «ha parlato» è il perfetto della fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro. Dio ha parlato vuol dire: «parla». E come in quel tempo solo con l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, poteva essere conosciuto il Vangelo, il fatto che Dio ha parlato e parla, così anche oggi solo Dio può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire da Dio. Perciò non è una mera formalità se cominciano ogni giorno la nostra Assise con la preghiera: questo risponde alla realtà stessa. Solo il precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro, che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione. Perciò è importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire - con Lui e in Lui - evangelizzatori. Dio è l’inizio sempre, e sempre solo Lui può fare Pentecoste, può creare la Chiesa, può mostrare la realtà del suo essere con noi. Ma dall’altra parte, però, questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività, così che le attività sono teandriche, per così dire, fatte da Dio, ma con il coinvolgimento nostro e implicando il nostro essere, tutta la nostra attività.

Quindi quando facciamo noi la nuova evangelizzazione è sempre cooperazione con Dio, sta nell’insieme con Dio, è fondata sulla preghiera e sulla sua presenza reale.

Ora, questo nostro agire, che segue dall’iniziativa di Dio, lo troviamo descritto nella seconda strofa di questo Inno: «Os, lingua, mens, sensus, vigor, confessionem personent, flammescat igne caritas, accendat ardor proximos». Qui abbiamo, in due righe, due sostantivi determinanti: «confessio» nelle prime righe, e «caritas» nelle seconde due righe. «Confessio» e «caritas», come i due modi in cui Dio ci coinvolge, ci fa agire con Lui, in Lui e per l’umanità, per la sua creatura: «confessio» e «caritas». E sono aggiunti i verbi: nel primo caso «personent» e nel secondo «caritas» interpretato con la parola fuoco, ardore, accendere, fiammeggiare.

Vediamo il primo: «confessionem personent». La fede ha un contenuto: Dio si comunica, ma questo Io di Dio si mostra realmente nella figura di Gesù ed è interpretato nella «confessione» che ci parla della sua concezione verginale della Nascita, della Passione, della Croce, della Risurrezione. Questo mostrarsi di Dio è tutto una Persona: Gesù come il Verbo, con un contenuto molto concreto che si esprime nella «confessio». Quindi, il primo punto è che noi dobbiamo entrare in questa «confessione», farci penetrare, così che «personent» - come dice l’Inno - in noi e tramite noi. Qui è importante osservare anche una piccola realtà filologica: «confessio» nel latino precristiano si direbbe non «confessio» ma «professio» (profiteri): questo è il presentare positivamente una realtà. Invece la parola «confessio» si riferisce alla situazione in un tribunale, in un processo dove uno apre la sua mente e confessa. In altre parole, questa parola «confessione», che nel cristiano latino ha sostituito la parola «professio», porta in sé l’elemento martirologico, l’elemento di testimoniare davanti a istanze nemiche alla fede, testimoniare anche in situazioni di passione e di pericolo di morte. Alla confessione cristiana appartiene essenzialmente la disponibilità a soffrire: questo mi sembra molto importante. Sempre nell’essenza della «confessio» del nostro Credo, è implicata anche la disponibilità alla passione, alla sofferenza, anzi, al dono della vita. E proprio questo garantisce la credibilità: la «confessio» non è qualunque cosa che si possa anche lasciar cadere; la «confessio» implica la disponibilità di dare la mia vita, di accettare la passione. Questo è proprio anche la verifica della «confessio». Si vede che per noi la «confessio» non è una parola, è più che il dolore, è più che la morte. Per la «confessio» realmente vale la pena di soffrire, vale la pena di soffrire fino alla morte. Chi fa questa «confessio» dimostra così che veramente quanto confessa è più che vita: è la vita stessa, il tesoro, la perla preziosa e infinita. Proprio nella dimensione martirologica della parola «confessio» appare la verità: si verifica solo per una realtà per cui vale la pena di soffrire, che è più forte anche della morte, e dimostra che è verità che tengo in mano, che sono più sicuro, che «porto» la mia vita perché trovo la vita in questa confessione.

Adesso vediamo dove dovrebbe penetrare questa «confessione»: «Os, lingua, mens, sensus, vigor». Da San Paolo, Lettera ai Romani 10, sappiamo che la collocazione della «confessione» è nel cuore e nella bocca: deve stare nel profondo del cuore, ma deve essere anche pubblica; deve essere annunciata la fede portata nel cuore: non è mai solo una realtà nel cuore, ma tende ad essere comunicata, ad essere confessata realmente davanti agli occhi del mondo. Così dobbiamo imparare, da una parte, ad essere realmente – diciamo - penetrati nel cuore dalla «confessione», così il nostro cuore è formato, e dal cuore trovare anche, insieme con la grande storia della Chiesa, la parola e il coraggio della parola, e la parola che indica il nostro presente, questa «confessione» che è sempre tuttavia una. «Mens»: la «confessione» non è solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell’intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l’altro e suppone sempre che il mio pensiero sia realmente collocato nella «confessione». «Sensus»: non è una cosa puramente astratta e intellettuale, la «confessio» deve penetrare anche i sensi della nostra vita. San Bernardo di Chiaravalle ci ha detto che Dio, nella sua rivelazione, nella storia di salvezza, ha dato ai nostri sensi la possibilità di vedere, di toccare, di gustare la rivelazione. Dio non è più una cosa solo spirituale: è entrato nel mondo dei sensi e i nostri sensi devono essere pieni di questo gusto, di questa bellezza della Parola di Dio, che è realtà. «Vigor»: è la forza vitale del nostro essere e anche il vigore giuridico di una realtà. Con tutta la nostra vitalità e forza, dobbiamo essere penetrati dalla «confessio», che deve realmente «personare»; la melodia di Dio deve intonare il nostro essere nella sua totalità.

«Confessio» è la prima colonna - per così dire - dell’evangelizzazione e la seconda è «caritas». La «confessio» non è una cosa astratta, è «caritas», è amore. Solo così è realmente il riflesso della verità divina, che come verità è inseparabilmente anche amore. Il testo descrive, con parole molto forti, questo amore: è ardore, è fiamma, accende gli altri. C’è una passione nostra che deve crescere dalla fede, che deve trasformarsi in fuoco della carità. Gesù ci ha detto: Sono venuto per gettare fuoco alla terra e come desidererei che fosse già acceso. Origene ci ha trasmesso una parola del Signore: «Chi è vicino a me è vicino al fuoco». Il cristiano non deve essere tiepido. L’Apocalisse ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: che non dica di no, ma un sì molto tiepido. Questa tiepidezza proprio discredita il cristianesimo. La fede deve divenire in noi fiamma dell’amore, fiamma che realmente accende il mio essere, diventa grande passione del mio essere, e così accende il prossimo. Questo è il modo dell’evangelizzazione: «Accéndat ardor proximos», che la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta.

San Luca ci racconta che nella Pentecoste, in questa fondazione della Chiesa da Dio, lo Spirito Santo era fuoco che ha trasformato il mondo, ma fuoco in forma di lingua, cioè fuoco che è tuttavia anche ragionevole, che è spirito, che è anche comprensione; fuoco che è unito al pensiero, alla «mens». E proprio questo fuoco intelligente, questa «sobria ebrietas», è caratteristico per il cristianesimo. Sappiamo che il fuoco è all’inizio della cultura umana; il fuoco è luce, è calore, è forza di trasformazione. La cultura umana comincia nel momento in cui l’uomo ha il potere di creare fuoco: con il fuoco può distruggere, ma con il fuoco può trasformare, rinnovare. Il fuoco di Dio è fuoco trasformante, fuoco di passione - certamente - che distrugge anche tanto in noi, che porta a Dio, ma fuoco soprattutto che trasforma, rinnova e crea una novità dell’uomo, che diventa luce in Dio.

Così, alla fine, possiamo solo pregare il Signore che la «confessio» sia in noi fondata profondamente e che diventi fuoco che accende gli altri; così il fuoco della sua presenza, la novità del suo essere con noi, diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro.



APERTURA DELL'ANNO DELLA FEDE - FIACCOLATA Dalla finestra dello studio privato - Palazzo Apostolico Giovedì, 11 ottobre 2012

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PROMOSSA DALL'AZIONE CATTOLICA ITALIANA

Cari Fratelli e Sorelle,

buona sera a tutti voi e grazie per essere venuti. Grazie anche all’Azione Cattolica italiana che ha organizzato questa fiaccolata.

Cinquant’anni fa, in questo giorno, anche io sono stato qui in Piazza, con lo sguardo verso questa finestra, dove si è affacciato il buon Papa, il Beato Papa Giovanni e ha parlato a noi con parole indimenticabili, parole piene di poesia, di bontà, parole del cuore.

Eravamo felici – direi – e pieni di entusiasmo. Il grande Concilio Ecumenico era inaugurato; eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste, con una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo.

Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato».

Questa è una parte delle esperienze fatte in questi cinquant’anni, ma abbiamo anche avuto una nuova esperienza della presenza del Signore, della sua bontà, della sua forza. Il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco di Cristo non è un fuoco divoratore, distruttivo; è un fuoco silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità, che trasforma, dà luce e calore. Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica. Anche oggi, a suo modo, umile, il Signore è presente e dà calore ai cuori, mostra vita, crea carismi di bontà e di carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio. Sì, Cristo vive, è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la sua bontà non si spegne; è forte anche oggi!

Alla fine, oso fare mie le parole indimenticabili di Papa Giovanni: «andate a casa, date un bacio ai bambini e dite che è del Papa».

In questo senso, di tutto cuore vi imparto la mia Benedizione: «Sia benedetto il nome del Signore ……»




INCONTRO CON I VESCOVI CHE HANNO PARTECIPATO AL CONCILIO VATICANO II E I PRESIDENTI DI CONFERENZE EPISCOPALI Sala Clementina Venerdì, 12 ottobre 2012

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Venerati e cari fratelli,

Ci ritroviamo assieme oggi, dopo la solenne celebrazione che ieri ci ha radunati in Piazza San Pietro. Il saluto cordiale e fraterno che ora desidero rivolgervi nasce da quella comunione profonda che solo la Celebrazione eucaristica è capace di creare. In essa si rendono visibili, quasi tangibili, quei vincoli che ci uniscono in quanto membri del Collegio episcopale, riuniti con il Successore di Pietro.

Nei Vostri volti, cari Patriarchi e Arcivescovi delle Chiese orientali cattoliche, cari Presidenti delle Conferenze Episcopali del mondo, vedo anche le centinaia di Vescovi che in tutte le regioni della terra sono impegnati nell’annuncio del Vangelo e nel servizio della Chiesa e dell’uomo, in obbedienza al mandato ricevuto da Cristo. Ma un saluto particolare vorrei dirigere oggi a voi, cari Fratelli che avete avuto la grazia di partecipare in qualità di Padri alConcilio Ecumenico Vaticano II. Ringrazio il Cardinale Arinze, che si è fatto interprete dei vostri sentimenti, e in questo momento ho presente nella preghiera e nell’affetto l’intero gruppo – quasi settanta – di Vescovi ancora viventi che presero parte ai lavori conciliari. Nel rispondere all’invito per questa commemorazione, alla quale non hanno potuto essere presenti a causa dell’età avanzata e della salute, molti di loro hanno ricordato con parole commoventi quelle giornate, assicurando l’unione spirituale in questo momento, anche con l’offerta della loro sofferenza.

Sono tanti i ricordi che affiorano alla nostra mente e che ognuno ha ben impressi nel cuore di quel periodo così vivace, ricco e fecondo che è stato il Concilio; non voglio, però, dilungarmi troppo, ma – riprendendo alcuni elementi della mia omelia di ieri – vorrei ricordare solamente come una parola, lanciata dal Beato Giovanni XXIII quasi in modo programmatico, ritornava continuamente nei lavori conciliari: la parola «aggiornamento».

A cinquant’anni di distanza dall’apertura di quella solenne Assise della Chiesa qualcuno si domanderà se quell’espressione non sia stata, forse fin dall’inizio, non del tutto felice. Penso che sulla scelta delle parole si potrebbe discutere per ore e si troverebbero pareri continuamente discordanti, ma sono convinto che l’intuizione che il Beato Giovanni XXIIIcompendiò con questa parola sia stata e sia tuttora esatta. Il Cristianesimo non deve essere considerato come «qualcosa del passato», né deve essere vissuto con lo sguardo perennemente rivolto «all’indietro», perché Gesù Cristo è ieri, oggi e per l’eternità (cfr Eb
He 13,8). Il Cristianesimo è segnato dalla presenza del Dio eterno, che è entrato nel tempo ed è presente ad ogni tempo, perché ogni tempo sgorga dalla sua potenza creatrice, dal suo eterno «oggi».

Per questo il Cristianesimo è sempre nuovo. Non lo dobbiamo mai vedere come un albero pienamente sviluppatosi dal granello di senape evangelico, che è cresciuto, ha donato i suoi frutti, e un bel giorno invecchia e arriva al tramonto la sua energia vitale. Il Cristianesimo è un albero che è, per così dire, in perenne «aurora», è sempre giovane. E questa attualità, questo «aggiornamento» non significa rottura con la tradizione, ma ne esprime la continua vitalità; non significa ridurre la fede, abbassandola alla moda dei tempi, al metro di ciò che ci piace, a ciò che piace all’opinione pubblica, ma è il contrario: esattamente come fecero i Padri conciliari, dobbiamo portare l’«oggi» che viviamo alla misura dell’evento cristiano, dobbiamo portare l’«oggi» del nostro tempo nell’«oggi» di Dio.

Il Concilio è stato un tempo di grazia in cui lo Spirito Santo ci ha insegnato che la Chiesa, nel suo cammino nella storia, deve sempre parlare all’uomo contemporaneo, ma questo può avvenire solo per la forza di coloro che hanno radici profonde in Dio, si lasciano guidare da Lui e vivono con purezza la propria fede; non viene da chi si adegua al momento che passa, da chi sceglie il cammino più comodo. Il Concilio l’aveva ben chiaro, quando nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, al numero 49, ha affermato che tutti nella Chiesa sono chiamati alla santità secondo il detto dell’Apostolo Paolo «Questa infatti è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Th 4,3): la santità mostra il vero volto della Chiesa, fa entrare l’«oggi» eterno di Dio nell’«oggi» della nostra vita, nell’«oggi» dell’uomo della nostra epoca.

Cari Fratelli nell’episcopato, la memoria del passato è preziosa, ma non è mai fine a se stessa. L’Anno della fede che abbiamo iniziato ieri ci suggerisce il modo migliore di ricordare e commemorare il Concilio: concentrarci sul cuore del suo messaggio, che del resto non è altro che il messaggio della fede in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, proclamata all’uomo del nostro tempo. Anche oggi quello che è importante ed essenziale è portare il raggio dell’amore di Dio nel cuore e nella vita di ogni uomo e di ogni donna, e portare gli uomini e le donne di ogni luogo e di ogni epoca a Dio. Auspico vivamente che tutte le Chiese particolari trovino, nella celebrazione di questo Anno, l’occasione per il sempre necessario ritorno alla sorgente viva del Vangelo, all’incontro trasformante con la persona di Gesù Cristo. Grazie.



PRANZO CON I PADRI SINODALI E I VESCOVI CHE HANNO PARTECIPATO AL CONCILIO VATICANO II Aula Paolo VI Venerdì, 12 ottobre 2012

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Santità,
Your Grace,
cari Fratelli,

inizialmente vorrei annunciare un po’ di grazia, cioè, stasera cominciamo non alle quattro e mezza - mi sembra disumano -, ma alle sei meno un quarto.

E’ una bella tradizione creata dal Beato Papa Giovanni Paolo II di coronare il Sinodo con un pranzo comune. Per me è una grande gioia che alla mia destra ci sia Sua Santità il Patriarca Bartolomeo, Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, e, dall’altra parte, l’Archbishop Rowan Williams from the Anglican Communion.

Per me questa comunione è un segno che siamo in cammino verso l’unità e che nel cuore andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà ad andare avanti anche esteriormente. Questa gioia, mi sembra, ci dia forza anche nel mandato dell’evangelizzazione. Synodos vuol dire «cammino comune», «essere in cammino comune», e così la parola synodos mi fa pensare al famoso cammino del Signore con i due discepoli di Emmaus, che sono un po’ un’immagine del mondo agnostico di oggi. Gesù, la loro speranza, era morto; il mondo vuoto; sembrava che Dio realmente o non ci fosse o non si interessasse di noi. Con questa disperazione nel cuore, e tuttavia con una piccola fiamma di fede, vanno avanti. Il Signore cammina misteriosamente con loro e li aiuta a capire meglio il mistero di Dio, la sua presenza nella storia, il suo camminare silenziosamente con noi. Alla fine, nella cena, quando già le parole del Signore e il loro ascolto avevano acceso il cuore e illuminato la mente, lo riconoscono nella cena e finalmente il cuore comincia a vedere. Così nel Sinodo siamo insieme con i nostri contemporanei in cammino. Preghiamo il Signore perché ci illumini, ci accenda il cuore affinché diventi veggente, ci illumini la mente; e preghiamo affinché, nella cena, nella comunione eucaristica, possiamo realmente essere aperti, vederlo e così accendere anche il mondo e dare la sua luce a questo nostro mondo.

In questo senso, la cena - come il Signore ha preso spesso il pranzo e la cena come simbolo del Regno di Dio - potrebbe essere anche per noi un simbolo del cammino comune e un’occasione di pregare il Signore perché ci accompagni, ci aiuti. In questo senso diciamo adesso la preghiera del ringraziamento…

(preghiera in latino)

Buon riposo, ci vediamo nell’aula del Sinodo! Grazie!




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