Benedetto XVI Omelie 2127


CAPPELLA PAPALE PER LE ESEQUIE DEL SIGNOR CARDINALE ALFONS MARIA STICKLER

Basilica Vaticana, Venerdì, 14 dicembre 2007

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Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

Raccolti in preghiera attorno alle sue spoglie mortali, diamo al caro Cardinale Alfons Maria Stickler l’ultimo saluto. Egli ha condiviso con noi tanti anni di lavoro nella vigna del Signore. Ora Dio lo ha chiamato a sé dopo una lunga giornata terrena, per accoglierlo tra le sue braccia paterne e misericordiose. Mentre ci stringiamo con affetto attorno ai familiari, alla Congregazione salesiana nella quale emise la prima professione il 15 agosto del 1928, e a tutti coloro che lo hanno conosciuto ed apprezzato, rivolgiamo fiduciosi lo sguardo verso il Cielo da dove ci viene l’unica luce che può illuminare il mistero della vita e della morte. Il tempo liturgico dell’Avvento, mentre ci prepara a rivivere il dono del Natale del Redentore, ci stimola anche a proiettarci con fiducia verso l’ultima e definitiva sua venuta. Per questo nostro fratello si è ormai compiuta la “beata speranza” che, come ripetiamo ogni giorno nella celebrazione eucaristica, attendiamo cercando di vivere nel nostro pellegrinaggio sulla terra “liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento”.

L’Apostolo delle genti ci ha ricordato poc’anzi che se moriamo con Cristo, “vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà” (
2Tm 2,11-12). L’intero progetto di vita del cristiano non può che essere modellato su Cristo: tutto con Lui, per Lui e in Lui a gloria di Dio Padre. Non è stata forse tale fondamentale verità ad orientare l’esistenza di questo nostro fratello? Egli aveva scelto come suo motto episcopale: “Omnia et in omnibus Christus” e spiegava, al tramonto ormai dei suoi anni, come queste parole siano state la guida di ogni sua scelta e decisione. “Alla base della mia attività – scriveva qualche anno fa – c’è sempre stato l’ideale della fede e della vita cristiana che si incentra in Cristo redentore e poi fondatore della Chiesa. Tutti i miei sforzi e i miei studi sono serviti ad approfondire soprattutto il sapere religioso con piena fedeltà al Papa”. Ed aggiungeva: “Come salesiano seguo i tre ideali trasmessici da don Bosco: l’amore per l’Eucaristia, la devozione alla Madonna, la fedeltà al Santo Padre”. Sapeva bene che amare Cristo è amare la sua Chiesa, che è sempre santa, come nota nel testamento spirituale, “nonostante la debolezza, qualche volta scandalosa di noi suoi rappresentanti e membri, nel passato e nel presente”. Conosceva le contrarietà e le sfide con cui i cristiani devono misurarsi in questa nostra epoca, e concludeva che soltanto un vero amore per Cristo può renderli coraggiosi e perseveranti nel difendere le verità della fede cattolica.

A questo proposito, quante volte il Cardinale Alfons Maria Stickler avrà letto e meditato la pagina evangelica che anche oggi è stata proclamata nella nostra assemblea! L’evangelista Matteo, che ci accompagnerà lungo tutto quest’anno liturgico, alle otto Beatitudini poste in apertura del Discorso della Montagna, ne aggiunge un’altra che così suona: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”, e conclude: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11-12). Noi tutti, cari fratelli e sorelle, che con il Battesimo siamo stati chiamati a seguire e servire Gesù, sappiamo di non potere e non dover attenderci plauso e riconoscimenti su questa terra. La vera ricompensa del discepolo fedele è “nei cieli”: è Cristo stesso. Non dimentichiamo mai questa verità! Non cediamo mai alla tentazione di ricercare successi ed appoggi umani piuttosto che contare solo e sempre su Colui che è venuto nel mondo per salvarci e sulla croce ci ha redenti! Qualunque sia il servizio che Iddio ci chiama a svolgere nella sua vigna, sia sempre animato da umile adesione alla sua volontà!

Che questo sia stato, pur con le umane fragilità e debolezze, l’orientamento dell’intera vicenda umana del caro Cardinale Stickler emerge dal suo testamento spirituale, dove egli annotava: “Tutta questa mia vita è stata un disegno e una realizzazione superiore, alla quale io non ho potuto fare altro che - spesso neanche con piena valutazione di causa - consentire. Così tutta la mia vita era ed è opera della Divina Provvidenza”. Un’esistenza spesa totalmente dapprima nell’insegnamento, e poi nel servizio alla Santa Sede. Nato a Neunkirchen, nell’Austria inferiore, il 23 agosto del 1910, Alfons Maria entrò giovane nel noviziato della Congregazione salesiana in Germania e, compiuti gli studi filosofici e teologici dapprima in Germania, poi in Austria, e successivamente a Torino e Roma, fu ordinato sacerdote 70 anni or sono, il 27 marzo del 1937 nell’Arcibasilica Lateranense. Completato il corso accademico nell’Institutum Utriusque Iuris dell’Apollinare, iniziò ad insegnare presso la Facoltà di Diritto Canonico nell’Università Salesiana, a Torino e a Roma dove essa fu appunto trasferita. In tale Università divenne, dal 1953 al 1958, Decano della Facoltà di Diritto Canonico e poi Rettore Magnifico (1958–1966) e Preside del neo fondato Institutum Altioris Latinitatis sino al 1968. Fu per lui una vera sorpresa la nomina da parte del Servo di Dio Papa Paolo VI, nel 1971, a Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, dove ebbe modo di svolgere un’intensa attività di studioso, di cui danno concreta testimonianza vari volumi e saggi di Storia del Diritto Canonico da lui curati. Fece parte di tre Commissioni del Concilio Vaticano II e fu Consultore di Congregazioni Romane, nonché membro della Commissione per il nuovo Codice e del Pontificio Comitato di Scienze storiche, oltre che di tante altre istituzioni culturali internazionali. L’8 settembre 1983 fu chiamato ad essere Pro-Bibliotecario di Santa Romana Chiesa e il 1° novembre successivo, come osserva nel suo testamento, ebbe “in età avanzata la grande grazia della pienezza del sacerdozio per le mani dello stesso Santo Padre” Giovanni Paolo II, che l’anno seguente gli affidò anche l’incarico di Pro Archivista di Santa Romana Chiesa e il 25 maggio del 1985 lo volle insignire della dignità cardinalizia. Terminato il suo servizio attivo alla Santa Sede, questo nostro amico continuò a svolgere la sua azione culturale e pastorale, al tempo stesso dedicandosi ancor più alla riflessione e alla preghiera. Ogni giorno, come faceva dal primo anno di professione religiosa, invocava lo Spirito Santo con l’inno Veni Sancte Spiritus, e per questo era persuaso che se aveva potuto essere utile in qualche cosa alla Congregazione e alla Chiesa “ciò lo si deve allo Spirito Santo”. Mercoledì scorso, la morte lo ha introdotto nel regno della pace e della luce eterna.

Il nostro fraterno auspicio è che possa ora godere della meritata ricompensa e contemplare il fulgore della Verità eterna. Nella prima Lettura, il Profeta Daniele ha ricordato che “i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre” (Da 12,3). Che così sia per questo nostro stimato Confratello nel sacerdozio e nell’episcopato! Lo accolga Maria Santissima, di cui egli scrisse: “La Madonna sarà anche nel momento della mia morte la vera mamma che dona il suo amore e la sua misericordia anche ai figli meno fedeli”. Lo accompagnino san Giovanni Bosco e i Santi e i Beati salesiani. Noi, con affetto e riconoscenza, ci uniamo all’invocazione con cui il Cardinale Stickler chiude il testamento spirituale: “Credo, spero, amo; perdona la mia debolezza nella fede, nella speranza e nella carità e conducimi, o mio Dio, nel regno del Tuo amore. Amen”.


VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SANTA MARIA DEL ROSARIO AI MARTIRI PORTUENSI

III Domenica di Avvento, 16 dicembre 2007

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Cari fratelli e sorelle

“Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” (
Ph 4,4-5). Con quest’invito alla gioia inizia l’antifona d’ingresso della Santa Messa in questa terza domenica di Avvento che, proprio per questo viene chiamata domenica “Gaudete”. In verità, tutto l’Avvento è un invito a gioire perché “il Signore viene”, perché viene a salvarci. Risuonano confortatrici quasi ogni giorno, in queste settimane, le parole del profeta Isaia dirette al popolo ebreo esule in Babilonia dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme e sfiduciato di poter far ritorno nella città santa in rovina. “Quanti sperano nel Signore [riacquistano forza – assicura il profeta – mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40,31). [E ancora, “gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto” (ibid. Is 35,10)]. La liturgia dell’Avvento ci ripete costantemente che dobbiamo destarci dal sonno dell’abitudine e della mediocrità, dobbiamo abbandonare la tristezza e lo scoraggiamento; occorre che rinfranchiamo i nostri cuori perché “il Signore è vicino”.

Quest’oggi, c’è per noi un ulteriore motivo di rallegrarci, cari fedeli della Parrocchia di Santa Maria del Rosario ai Martiri Portuensi, ed è la dedicazione della vostra nuova chiesa parrocchiale, che sorge sullo stesso luogo dove il mio amato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, l’8 novembre 1998, celebrò la santa Messa in occasione della sua visita pastorale alla vostra comunità. La solenne liturgia della dedicazione di questo tempio costituisce un’occasione di intenso gaudio spirituale per tutto il Popolo di Dio che vive in questa zona. E mi unisco volentieri anch’io alla vostra soddisfazione di avere finalmente una chiesa accogliente e funzionale. Il luogo in cui essa è costruita evoca un passato di fulgide testimonianze cristiane. Proprio qui nelle vicinanze sono, infatti, ubicate le catacombe di Generosa, dove la tradizione vuole siano stati sepolti tre fratelli - Simplicio, Faustino e Viatrice (Beatrice) - vittime della persecuzione scatenata nell’anno 303, e le cui reliquie vengono conservate, in parte a Roma nella chiesa di san Nicola in Carcere e a Monte Savello, e in parte a Fulda, in Germania, città che dall’VIII secolo, grazie al fatto che san Bonifacio vi portò le reliquie, onora i Martiri Portuensi come suoi compatroni. A questo proposito, saluto il rappresentante del Vescovo di Fulda, ed anche Mons. Carlo Liberati, Arcivescovo–Prelato di Pompei: Santuario mariano con cui la vostra parrocchia ha stabilito uno spirituale gemellaggio.

La dedicazione di questa chiesa parrocchiale acquista un significato davvero speciale per voi che abitate in questo quartiere. I giovani martiri che allora morirono per rendere testimonianza a Cristo non sono forse un potente stimolo per voi, cristiani di oggi, a perseverare nel seguire fedelmente Gesù Cristo? E la protezione della Vergine del santo Rosario non vi chiede di essere uomini e donne di fede profonda e di preghiera come lo fu Lei? Anche oggi, pur in forme diverse, il messaggio salvifico di Cristo viene contrastato e i cristiani, in altri modi ma non meno di ieri, sono chiamati a rendere ragione della loro speranza, a offrire al mondo la testimonianza della Verità dell’Unico che salva e redime! Questa nuova chiesa sia pertanto uno spazio privilegiato per crescere nella conoscenza e nell’amore di Colui che tra pochi giorni accoglieremo nella gioia del suo Natale come Redentore del mondo e nostro Salvatore.

Permettete ora che, profittando della dedicazione di questa nuova bella chiesa, io ringrazi quanti hanno contribuito a costruirla. So quanto la diocesi di Roma si stia impegnando da ormai molti anni per assicurare a ogni quartiere di una città in costante crescita adeguati complessi parrocchiali. Saluto e ringrazio, in primo luogo, il Cardinale Vicario, e con lui il Vescovo Ausiliare Ernesto Mandara, Segretario dell’Opera Romana per la Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese in Roma. Saluto e ringrazio in particolare voi, cari parrocchiani, che in vari modi vi siete impegnati per la realizzazione di questo centro parrocchiale, che si va ad aggiungere agli oltre cinquanta già funzionanti grazie al notevole sforzo economico della Diocesi, di tanti fedeli e cittadini di buona volontà e alla collaborazione delle pubbliche istituzioni. In questa domenica, che è proprio dedicata al sostegno di tale opera meritoria, chiedo a tutti di proseguire in questo impegno con generosità.

Vorrei poi salutare con affetto il Vescovo Ausiliare del Settore Ovest, Mons. Benedetto Tuzia, il vostro Parroco, Don Gerard Charles Mc Carthy, che ringrazio di cuore per le calde parole che mi ha voluto rivolgere all’inizio della nostra solenne celebrazione. Saluto i sacerdoti suoi collaboratori appartenenti alla Fraternità Sacerdotale dei Missionari di san Carlo Borromeo, alla quale dal 1997 è affidata la cura pastorale di questa parrocchia, e qui rappresentata dal Superiore generale, Mons. Massimo Camisasca. Saluto le Suore Oblate del Divino Amore e le Missionarie di san Carlo che prestano con dedizione la loro opera in questa comunità, e tutti i gruppi di fanciulli, di giovani, di famiglie, e di anziani che animano la vita della parrocchia. Un saluto cordiale giunga anche ai vari movimenti ecclesiali presenti, tra i quali la Gioventù Ardente Mariana, Comunione e Liberazione, il Rinnovamento Carismatico Cattolico, la Fraternità di Santa Maria degli Angeli ed il gruppo di volontariato Santa Teresina. Mi è caro inoltre incoraggiare quanti con la Caritas parrocchiale cercano di andare incontro alle tante esigenze del quartiere, specialmente rispondendo alle attese dei più poveri e bisognosi. Saluto, infine, le Autorità presenti e le personalità che hanno voluto prendere parte a questa nostra assemblea liturgica. Cari amici! Viviamo oggi una giornata che corona gli sforzi, le fatiche, i sacrifici compiuti e l’impegno della comunità di costituirsi come comunità cristiana matura, desiderosa di avere uno spazio riservato definitivamente al culto di Dio. L’odierna celebrazione è quanto mai ricca di parole e di simboli che ci aiutano a comprendere il valore profondo di quanto stiamo compiendo. Raccogliamo perciò, brevemente, l’insegnamento che ci viene dalle letture poc’anzi proclamate.

La prima Lettura è tratta dal libro di Neemia, un libro che ci racconta la ricomposizione della comunità ebraica dopo l’esilio, dopo la dispersione e la distruzione di Gerusalemme. E’ quindi il libro delle nuove origini di una comunità, ed è pieno di speranza, anche se le difficoltà sono ancora grandissime. Nel brano or ora letto ci sono al centro due grandi figure: un sacerdote, Esdra, e un laico, Neemia, che sono rispettivamente l’autorità religiosa e l’autorità civile di quel tempo. Il testo descrive il momento solenne in cui si ricostituisce ufficialmente, dopo la dispersione, la piccola comunità giudaica; è il momento della riproclamazione pubblica della legge che è il fondamento di vita di questa comunità, e il tutto si svolge in un clima di semplicità, di povertà e di speranza. L’ascolto di questa proclamazione avviene in un clima di grande intensità spirituale. Alcuni cominciano a piangere per la gioia di potere di nuovo, dopo la tragedia della distruzione di Gerusalemme, ascoltare in libertà la parola di Dio e ricominciare la storia della salvezza. E Neemia li ammonisce dicendo che quello è un giorno di festa e che, per avere forza dal Signore, bisogna gioire, esprimendo riconoscenza per i doni di Dio. La parola di Dio è forza ed è gioia.

Questa lettura veterotestamentaria non suscita anche in noi molta commozione? In questo momento quanti ricordi si affollano nella vostra mente! Quanta fatica per costruire, anno dopo anno, la comunità! Quanti sogni, quanti progetti, quante difficoltà! Ora però ci è data l’opportunità di proclamare e ascoltare la parola di Dio in una bella chiesa, che favorisce il raccoglimento e suscita gioia, la gioia di saper presente non solo la Parola di Dio, ma il Signore stesso; una chiesa che vuole essere costante richiamo ad una fede salda e all’impegno di crescere come comunità unita. Rendiamo grazie a Dio per i suoi doni e ringraziamo tutti coloro che sono stati gli artefici della costruzione di questa chiesa e della comunità vivente che in essa si raccoglie.

Nella seconda Lettura, tratta dall’Apocalisse, ci viene narrata una visione stupenda. Il progetto di Dio per la sua Chiesa e per l’intera umanità è una città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo risplendente della gloria divina. L’autore la descrive come città meravigliosa, paragonandola alle gemme più preziose, e infine precisa che essa poggia sulla persona e sul messaggio degli apostoli. E dicendo questo l’evangelista Giovanni ci suggerisce che la comunità vivente è la vera nuova Gerusalemme, e che la comunità vivente è più sacra del tempio materiale che consacriamo. E per costruire questo tempio vivente, questa nuova città di Dio nelle nostre città, per costruire questo tempio – che siete voi –, occorre tanta preghiera, occorre valorizzare ogni opportunità che offrono la liturgia, la catechesi, e le molteplici attività pastorali, caritative, missionarie, e culturali che conservano “giovane” la vostra promettente parrocchia. La cura che mostriamo giustamente per l’edificio materiale – aspergendolo con l’acqua benedetta, ungendolo con l’olio, spargendolo di incenso – questa cura, sia segno e stimolo di una più intensa cura nel difendere e promuovere il tempio delle persone, formato da voi, cari parrocchiani.

Infine, la pagina evangelica, che abbiamo ascoltato, racconta questo dialogo tra Gesù e i suoi, in particolare con Pietro; un colloquio tutto incentrato sulla persona del divino Maestro. La gente ha intuito qualcosa di lui; alcuni pensano che sia Giovanni Battista redivivo, altri Elia ritornato sulla terra, altri ancora il profeta Geremia, in ogni caso appartiene alla categoria delle grandi personalità religiose, per la gente. Pietro, invece, a nome dei discepoli che conoscono Gesù da vicino, dichiara che Gesù è più di un profeta, di una grande personalità religiosa della storia: è il Messia – è Cristo il Figlio del Dio vivente. E Cristo il Signore dice a lui rispondendo solennemente: Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa. Pietro, il povero uomo con tutte le sue debolezze e con la sua fede, diviene la pietra, associato proprio per questa sua fede a Gesù, è la roccia su cui è fondata la Chiesa. In tal modo, ancora una volta, vediamo che è Gesù Cristo la vera indefettibile roccia su cui poggia la nostra fede, su cui viene costruita tutta la Chiesa e così anche questa parrocchia. E Gesù lo incontriamo nell’ascolto della Sacra Scrittura; è presente e si fa nostro cibo nell’Eucaristia, vive nella comunità, nella fede della comunità parrocchiale. Tutto, quindi, nella chiesa edificio e nella Chiesa comunità parla di Gesù, tutto è relativo a Lui, tutto a Lui fa riferimento. E Gesù il Signore ci raccoglie nella grande comunità della Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, stretta incomunione con il Successore di Pietro come roccia dell’unità. L’azione dei Vescovi e dei presbiteri, l’impegno apostolico e missionario di ogni fedele è proclamare e testimoniare con le parole e con la vita che Lui, il Figlio di Dio fatto uomo, è il nostro unico Salvatore.

A Gesù chiediamo di guidare la vostra comunità e di farla crescere sempre più nella fedeltà al suo Vangelo; domandiamogli di suscitare tante e sante vocazioni sacerdotali, religiose e missionarie; di rendere tutti i parrocchiani disponibili a seguire l’esempio dei santi Martiri Portuensi. Affidiamo questa nostra preghiera alle mani materne di Maria, Regina del Rosario. Sia Lei ad ottenere che si verifichi per noi, in questo giorno, la parola conclusiva della prima lettura. “La gioia del Signore sia la nostra forza” (cfr Ne 8,10). Solo la gioia del Signore e la forza della fede in Lui possono rendere, infatti, proficuo il cammino della vostra parrocchia. E così sia!


SANTA MESSA DI MEZZANOTTE

Basilica Vaticana, Martedì, 25 dicembre 2007

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Cari fratelli e sorelle!

„Per Maria si compirono i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (cfr
Lc 2,6 s). Queste frasi, sempre di nuovo ci toccano il cuore. È arrivato il momento che l’Angelo aveva preannunziato a Nazaret: “Darai alla luce un figlio e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo” (cfr Lc 1,31). È arrivato il momento che Israele aveva atteso da tanti secoli, durante tante ore buie – il momento in qualche modo atteso da tutta l’umanità in figure ancora confuse: che Dio si prendesse cura di noi, che uscisse dal suo nascondimento, che il mondo diventasse sano e che Egli rinnovasse tutto. Possiamo immaginare con quanta preparazione interiore, con quanto amore Maria sia andata incontro a quell’ora. Il breve accenno: “Lo avvolse in fasce” ci lascia intravedere qualcosa della santa gioia e dello zelo silenzioso di quella preparazione. Erano pronte le fasce, affinché il bimbo potesse essere accolto bene. Ma nell’albergo non c’è posto. In qualche modo l’umanità attende Dio, la sua vicinanza. Ma quando arriva il momento, non ha posto per Lui. È tanto occupata con se stessa, ha bisogno di tutto lo spazio e di tutto il tempo in modo così esigente per le proprie cose, che non rimane nulla per l’altro – per il prossimo, per il povero, per Dio. E quanto più gli uomini diventano ricchi, tanto più riempiono tutto con se stessi. Tanto meno può entrare l’altro.

Giovanni, nel suo Vangelo, puntando all’essenziale ha approfondito la breve notizia di san Luca sulla situazione in Betlemme: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Jn 1,11). Ciò riguarda innanzitutto Betlemme: il Figlio di Davide viene nella sua città, ma deve nascere in una stalla, perché nell’albergo non c’è posto per Lui. Riguarda poi Israele: l’inviato viene dai suoi, ma non lo si vuole. Riguarda in realtà l’intera umanità: Colui per il quale è stato fatto il mondo, il primordiale Verbo creatore entra nel mondo, ma non viene ascoltato, non viene accolto.

Queste parole riguardano in definitiva noi, ogni singolo e la società nel suo insieme. Abbiamo tempo per il prossimo che ha bisogno della nostra, della mia parola, del mio affetto? Per il sofferente che ha bisogno di aiuto? Per il profugo o il rifugiato che cerca asilo? Abbiamo tempo e spazio per Dio? Può Egli entrare nella nostra vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agire, della nostra vita per noi stessi?

Grazie a Dio, la notizia negativa non è l’unica, né l’ultima che troviamo nel Vangelo. Come in Luca incontriamo l’amore della madre Maria e la fedeltà di san Giuseppe, la vigilanza dei pastori e la loro grande gioia, come in Matteo incontriamo la visita dei sapienti Magi, venuti da lontano, così anche Giovanni ci dice: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Jn 1,12). Esistono quelli che lo accolgono e così, a cominciare dalla stalla, dall’esterno, cresce silenziosamente la nuova casa, la nuova città, il nuovo mondo. Il messaggio di Natale ci fa riconoscere il buio di un mondo chiuso, e con ciò illustra senz’altro una realtà che vediamo quotidianamente. Ma esso ci dice anche, che Dio non si lascia chiudere fuori. Egli trova uno spazio, entrando magari per la stalla; esistono degli uomini che vedono la sua luce e la trasmettono. Mediante la parola del Vangelo, l’Angelo parla anche a noi, e nella sacra liturgia la luce del Redentore entra nella nostra vita. Se siamo pastori o sapienti – la luce e il suo messaggio ci chiamano a metterci in cammino, ad uscire dalla chiusura dei nostri desideri ed interessi per andare incontro al Signore ed adorarlo. Lo adoriamo aprendo il mondo alla verità, al bene, a Cristo, al servizio di quanti sono emarginati e nei quali Egli ci attende.

In alcune rappresentazioni natalizie del tardo Medioevo e dell’inizio del tempo moderno la stalla appare come un palazzo un po’ fatiscente. Se ne può ancora riconoscere la grandezza di una volta, ma ora è andato in rovina, le mura sono diroccate – è diventato, appunto, una stalla. Pur non avendo nessuna base storica, questa interpretazione, nel suo modo metaforico, esprime tuttavia qualcosa della verità che si nasconde nel mistero del Natale. Il trono di Davide, al quale era promessa una durata eterna, è vuoto. Altri dominano sulla Terra santa. Giuseppe, il discendente di Davide, è un semplice artigiano; il palazzo, di fatto, è diventato una capanna. Davide stesso aveva cominciato da pastore. Quando Samuele lo cercò per l’unzione, sembrava impossibile e contraddittorio che un simile pastore-ragazzino potesse diventare il portatore della promessa di Israele. Nella stalla di Betlemme, proprio lì dove era stato il punto di partenza, ricomincia la regalità davidica in modo nuovo – in quel bimbo avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Il nuovo trono dal quale questo Davide attirerà il mondo a sé è la Croce. Il nuovo trono – la Croce – corrisponde al nuovo inizio nella stalla. Ma proprio così viene costruito il vero palazzo davidico, la vera regalità. Questo nuovo palazzo è così diverso da come gli uomini immaginano un palazzo e il potere regale. Esso è la comunità di quanti si lasciano attrarre dall’amore di Cristo e con Lui diventano un corpo solo, un’umanità nuova. Il potere che proviene dalla Croce, il potere della bontà che si dona – è questa la vera regalità. La stalla diviene palazzo – proprio a partire da questo inizio, Gesù edifica la grande nuova comunità, la cui parola-chiave cantano gli Angeli nell’ora della sua nascita: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” – uomini che depongono la loro volontà nella sua, diventando così uomini di Dio, uomini nuovi, mondo nuovo.

Gregorio di Nissa, nelle sue omelie natalizie ha sviluppato la stessa visione partendo dal messaggio di Natale nel Vangelo di Giovanni: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi” (Jn 1,14). Gregorio applica questa parola della tenda alla tenda del nostro corpo, diventato logoro e debole; esposto dappertutto al dolore ed alla sofferenza. E la applica all’intero cosmo, lacerato e sfigurato dal peccato. Che cosa avrebbe detto, se avesse visto le condizioni, in cui si trova oggi la terra a causa dell’abuso delle energie e del loro egoistico sfruttamento senza alcun riguardo? Anselmo di Canterbury, in una maniera quasi profetica, ha una volta descritto in anticipo ciò che noi oggi vediamo in un mondo inquinato e minacciato per il suo futuro: “Tutto era come morto, aveva perso la sua dignità, essendo stato fatto per servire a coloro che lodano Dio. Gli elementi del mondo erano oppressi, avevano perso il loro splendore a causa dell’abuso di quanti li rendevano servi dei loro idoli, per i quali non erano stati creati” (PL 158, 955s). Così, secondo la visione di Gregorio, la stalla nel messaggio di Natale rappresenta la terra maltrattata. Cristo non ricostruisce un qualsiasi palazzo. Egli è venuto per ridare alla creazione, al cosmo la sua bellezza e la sua dignità: è questo che a Natale prende il suo inizio e fa giubilare gli Angeli. La terra viene rimessa in sesto proprio per il fatto che viene aperta a Dio, che ottiene nuovamente la sua vera luce e, nella sintonia tra volere umano e volere divino, nell’unificazione dell’alto col basso, recupera la sua bellezza, la sua dignità. Così Natale è una festa della creazione ricostituita. A partire da questo contesto i Padri interpretano il canto degli Angeli nella Notte santa: esso è l’espressione della gioia per il fatto che l’alto e il basso, cielo e terra si trovano nuovamente uniti; che l’uomo è di nuovo unito a Dio. Secondo i Padri fa parte del canto natalizio degli Angeli che ora Angeli e uomini possano cantare insieme e in questo modo la bellezza del cosmo si esprima nella bellezza del canto di lode. Il canto liturgico – sempre secondo i Padri – possiede una sua dignità particolare per il fatto che è un cantare insieme ai cori celesti. È l’incontro con Gesù Cristo che ci rende capaci di sentire il canto degli Angeli, creando così la vera musica che decade quando perdiamo questo con-cantare e con-sentire.

Nella stalla di Betlemme cielo e terra si toccano. Il cielo è venuto sulla terra. Per questo, da lì emana una luce per tutti i tempi; per questo lì s’accende la gioia; per questo lì nasce il canto. Alla fine della nostra meditazione natalizia vorrei citare una parola straordinaria di sant’Agostino. Interpretando l’invocazione della Preghiera del Signore: “Padre nostro che sei nei cieli”, egli domanda: che cosa è questo – il cielo? E dove è il cielo? Segue una risposta sorprendente: “…che sei nei cieli – ciò significa: nei santi e nei giusti. I cieli sono, sì, i corpi più alti dell’universo, ma tuttavia corpi, che non possono essere se non in un luogo. Se, però, si crede che il luogo di Dio sia nei cieli come nelle parti più alte del mondo, allora gli uccelli sarebbero più fortunati di noi, perché vivrebbero più vicini a Dio. Ma non è scritto: ‘Il Signore è vicino a quanti abitano sulle alture o sulle montagne’, ma invece: ‘Il Signore è vicino ai contriti di cuore’ (Ps 34,19 [33],19), espressione che si riferisce all’umiltà. Come il peccatore viene chiamato ‘terra’, così al contrario il giusto può essere chiamato ‘cielo’” (Serm. in monte II 5, 17). Il cielo non appartiene alla geografia dello spazio, ma alla geografia del cuore. E il cuore di Dio, nella Notte santa, si è chinato giù fin nella stalla: l’umiltà di Dio è il cielo. E se andiamo incontro a questa umiltà, allora tocchiamo il cielo. Allora diventa nuova anche la terra. Con l’umiltà dei pastori mettiamoci in cammino, in questa Notte santa, verso il Bimbo nella stalla! Tocchiamo l’umiltà di Dio, il cuore di Dio! Allora la sua gioia toccherà noi e renderà più luminoso il mondo. Amen.



CELEBRAZIONE DEI VESPRI E DEL TE DEUM DI RINGRAZIAMENTO PER LA FINE DELL’ANNO

Basilica Vaticana, Lunedì, 31 dicembre 2007

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Cari fratelli e sorelle!

Anche quest’anno, al suo chiudersi ormai, siamo raccolti nella Basilica Vaticana per celebrare i Primi Vespri della solennità di Maria Santissima Madre di Dio. La liturgia fa coincidere questa significativa festa mariana con la fine e l’inizio dell’anno solare. Alla contemplazione del mistero della divina maternità si unisce pertanto il cantico della nostra gratitudine per il 2007 che tramonta e per il 2008 che già intravediamo. Il tempo passa e il suo scorrere inesorabile ci induce a volgere lo sguardo con intima riconoscenza a Colui che è eterno, al Signore del tempo. Ringraziamolo insieme, cari fratelli e sorelle, a nome dell’intera Comunità diocesana di Roma. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto. In primo luogo, saluto il Cardinale Vicario, i Vescovi Ausiliari, i sacerdoti, le persone consacrate, come pure i tanti fedeli laici qui convenuti. Saluto il Signor Sindaco e le Autorità presenti, ed estendo il mio pensiero all’intera popolazione di Roma e, in modo speciale, a quanti versano in condizione di difficoltà e di disagio. A tutti assicuro la mia vicinanza cordiale, avvalorata da un costante ricordo nella preghiera.

Nella breve lettura che abbiamo ascoltato, tratta dalla Lettera ai Galati, san Paolo, parlando della liberazione dell’uomo operata da Dio con il mistero dell’Incarnazione, accenna in maniera molto discreta a Colei per mezzo della quale il Figlio di Dio è entrato nel mondo: "Quando venne la pienezza del tempo, - egli scrive - Dio mandò il suo Figlio, nato da donna" (
Ga 4,4). Nella "donna" la Chiesa contempla i lineamenti di Maria di Nazaret, donna singolare perché chiamata a realizzare una missione che la pone in strettissimo rapporto con Cristo: anzi, un rapporto assolutamente unico, perché Maria è la Madre del Salvatore. Con altrettanta evidenza, però, possiamo e dobbiamo affermare che è madre nostra perché, vivendo la sua singolarissima relazione materna con il Figlio, ne ha condiviso la missione per noi e per la salvezza di tutti gli uomini.ContemplandoLa, la Chiesa scorge in Lei i tratti della propria fisionomia: Maria vive la fede e la carità; Maria è una creatura, salvata anch’essa dall’unico Salvatore; Maria collabora all’iniziativa di salvezza dell’intera umanità. Così Maria costituisce per la Chiesa la propria immagine più vera: Colei nella quale la Comunità ecclesiale deve continuamente scoprire il senso autentico della sua vocazione e del proprio mistero.

Questo breve ma denso brano paolino prosegue poi mostrando come il fatto che il Figlio abbia assunto la natura umana apra la prospettiva di un radicale mutamento della stessa condizione dell’uomo. Vi si dice che "Dio mandò il suo Figlio… per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli" (Ga 4,5). Il Verbo incarnato trasforma dall’interno l’esistenza umana, partecipando a noi il suo essere Figlio del Padre. Si è fatto come noi per farci come Lui: figli nel Figlio, dunque uomini liberi dalla legge del peccato. Non è questo un motivo fondamentale per elevare a Dio il nostro ringraziamento? Un ringraziamento che non può non essere ancor più motivato alla fine di un anno, considerando i tanti benefici e la costante sua assistenza che abbiamo sperimentato nell’arco dei dodici mesi trascorsi. Ecco perché ogni comunità cristiana, questa sera, si raccoglie e canta il Te Deum, tradizionale inno di lode e di azione di grazie alla Santissima Trinità. Così faremo anche noi, al termine di questo nostro incontro liturgico, dinanzi al Santissimo Sacramento.

Cantando pregheremo: "Te ergo, quaesumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti – Soccorri, te ne preghiamo, i tuoi figli, Signore, che hai redento col tuo sangue prezioso". Questa è la nostra preghiera, stasera: soccorri, Signore, con la tua misericordia gli abitanti della nostra Città, nella quale, come altrove, gravi carenze e povertà pesano sulla vita delle persone e delle famiglie, impedendo di guardare al futuro con fiducia; non pochi, soprattutto giovani, sono attratti da una falsa esaltazione o, meglio, profanazione del corpo e dalla banalizzazione della sessualità; come enumerare poi le molteplici sfide che, legate al consumismo e al secolarismo, interpellano i credenti e gli uomini di buona volontà? Per dire tutto in una parola, anche a Roma si avverte quel deficit di speranza e di fiducia nella vita che costituisce il male "oscuro" della moderna società occidentale.

Ma se evidenti sono le deficienze, non mancano però le luci e i motivi di speranza su cui implorare la speciale benedizione divina. Proprio in questa prospettiva, cantando il Te Deum pregheremo: "Salvum fac populum tuum, Domine, et benedic hereditati tuae – Salva il tuo popolo, Signore, guarda e proteggi i tuoi figli che sono la tua eredità". O Signore, guarda e proteggi, in particolare, la comunità diocesana impegnata con crescente vigore sulla frontiera dell’educazione, per rispondere a quella grande "emergenza educativa" di cui ebbi a parlare l’11 giugno scorso, incontrando i partecipanti al Convegno diocesano, e cioè la difficoltà che si avverte nel trasmettere alla nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento (cfr L’Osservatore Romano, 13 giugno 2007, p. 4). Senza clamori, con paziente fiducia, cerchiamo di far fronte a tale emergenza, anzitutto nell’ambito della famiglia, ed è senz’altro confortante constatare che il lavoro intrapreso in questi ultimi anni dalle parrocchie, dai movimenti e dalle associazioni per la pastorale familiare continua a svilupparsi e a portare i suoi frutti.

Proteggi inoltre, Signore, le iniziative missionarie che coinvolgono il mondo giovanile: esse stanno crescendo e vedono un numero ormai rilevante di giovani assumersi in prima persona la responsabilità e la gioia dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo. In questo contesto, come non ringraziare Iddio per il prezioso servizio pastorale offerto al mondo delle Università romane? Qualcosa di analogo conviene avviare, pur tra non poche difficoltà, anche nelle scuole.

Benedici, Signore, i molti giovani e adulti che negli ultimi decenni si sono consacrati al sacerdozio per la diocesi di Roma: attualmente ben 28 diaconi attendono l’Ordinazione presbiterale, prevista per il prossimo mese di aprile. Così ringiovanisce l’età media del clero ed è possibile far fronte all’espandersi delle necessità pastorali, come anche venire in aiuto ad altre Diocesi. Aumenta, specialmente nelle periferie, il bisogno di nuovi complessi parrocchiali, e sono otto quelli attualmente in costruzione, dopo che io stesso ho avuto il piacere recentemente di consacrare l’ultimo dei già terminati: la parrocchia di Santa Maria del Rosario ai Martiri Portuensi. È bello toccare con mano la gioia e la gratitudine degli abitanti di un quartiere, che entrano per la prima volta nella loro nuova chiesa.

"In te, Domine, speravi: non confundar in aeternum – Signore, tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno". L’inno maestoso del Te Deum si chiude con questo grido di fede, di totale fiducia in Dio, con questa solenne proclamazione della nostra speranza. È Cristo la nostra speranza "affidabile", ed a questo tema ho dedicato la recente Enciclica dal titolo Spe salvi. Ma la nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri, e soltanto così essa è veramente speranza anche per ciascuno di noi (cfr ). Cari fratelli e sorelle della Chiesa di Roma, chiediamo al Signore che faccia di ciascuno di noi un autentico fermento di speranza nei vari ambienti, perché si possa costruire per l’intera città un futuro migliore. È questo il mio augurio per tutti alla vigilia di un nuovo anno, augurio che affido alla materna intercessione di Maria, Madre di Dio e Stella della speranza, Amen!



Benedetto XVI Omelie 2127