Benedetto XVI Omelie

AL TERMINE DELLA CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA CON I CARDINALI ELETTORI IN CAPPELLA SISTINA

Mercoledì, 20 aprile 2005

1
Venerati Fratelli Cardinali,

carissimi Fratelli e Sorelle in Cristo,
voi tutti, uomini e donne di buona volontà!

1. Grazia e pace in abbondanza a tutti voi (cfr
1P 1,2)! Nel mio animo convivono in queste ore due sentimenti contrastanti. Da una parte, un senso di inadeguatezza e di umano turbamento per la responsabilità che ieri mi è stata affidata, quale Successore dell’apostolo Pietro in questa Sede di Roma, nei confronti della Chiesa universale. Dall’altra parte, sento viva in me una profonda gratitudine a Dio, che - come ci fa cantare la liturgia - non abbandona il suo gregge, ma lo conduce attraverso i tempi, sotto la guida di coloro che Egli stesso ha eletto vicari del suo Figlio e ha costituito pastori (cfr Prefazio degli Apostoli I).

Carissimi, questa intima riconoscenza per un dono della divina misericordia prevale malgrado tutto nel mio cuore. E considero questo fatto una grazia speciale ottenutami dal mio venerato Predecessore, Giovanni Paolo II. Mi sembra di sentire la sua mano forte che stringe la mia; mi sembra di vedere i suoi occhi sorridenti e di ascoltare le sue parole, rivolte in questo momento particolarmente a me: "Non avere paura!".

La morte del Santo Padre Giovanni Paolo II, e i giorni che sono seguiti, sono stati per la Chiesa e per il mondo intero un tempo straordinario di grazia. Il grande dolore per la sua scomparsa e il senso di vuoto che ha lasciato in tutti sono stati temperati dall’azione di Cristo risorto, che si è manifestata durante lunghi giorni nella corale ondata di fede, d’amore e di spirituale solidarietà, culminata nelle sue solenni esequie.

Possiamo dirlo: i funerali di Giovanni Paolo II sono stati un’esperienza veramente straordinaria in cui si è in qualche modo percepita la potenza di Dio che, attraverso la sua Chiesa, vuole formare di tutti i popoli una grande famiglia, mediante la forza unificante della Verità e dell’Amore (cfr Lumen gentium LG 1). Nell’ora della morte, conformato al suo Maestro e Signore, Giovanni Paolo II ha coronato il suo lungo e fecondo Pontificato, confermando nella fede il popolo cristiano, radunandolo intorno a sé e facendo sentire più unita l’intera famiglia umana.

Come non sentirsi sostenuti da questa testimonianza? Come non avvertire l’incoraggiamento che proviene da questo evento di grazia?

2. Sorprendendo ogni mia previsione, la Provvidenza divina, attraverso il voto dei venerati Padri Cardinali, mi ha chiamato a succedere a questo grande Papa. Ripenso in queste ore a quanto avvenne nella regione di Cesarea di Filippo, duemila anni or sono. Mi pare di udire le parole di Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente", e la solenne affermazione del Signore: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa… A te darò le chiavi del regno dei cieli" (Mt 16,15-19).

Tu sei il Cristo! Tu sei Pietro! Mi sembra di rivivere la stessa scena evangelica; io, Successore di Pietro, ripeto con trepidazione le parole trepidanti del pescatore di Galilea e riascolto con intima emozione la rassicurante promessa del divino Maestro. Se è enorme il peso della responsabilità che si riversa sulle mie povere spalle, è certamente smisurata la potenza divina su cui posso contare: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa" (Mt 16,18). Scegliendomi quale Vescovo di Roma, il Signore mi ha voluto suo Vicario, mi ha voluto "pietra" su cui tutti possano poggiare con sicurezza. Chiedo a Lui di supplire alla povertà delle mie forze, perché sia coraggioso e fedele Pastore del suo gregge, sempre docile alle ispirazioni del suo Spirito.

Mi accingo a intraprendere questo peculiare ministero, il ministero ‘petrino’ al servizio della Chiesa universale, con umile abbandono nelle mani della Provvidenza di Dio. E’ in primo luogo a Cristo che rinnovo la mia totale e fiduciosa adesione: "In Te, Domine, speravi; non confundar in aeternum!".

A voi, Signori Cardinali, con animo grato per la fiducia dimostratami, chiedo di sostenermi con la preghiera e con la costante, attiva e sapiente collaborazione. Chiedo anche a tutti i Fratelli nell’Episcopato di essermi accanto con la preghiera e col consiglio, perché possa essere veramente il Servus servorum Dei. Come Pietro e gli altri Apostoli costituirono per volere del Signore un unico Collegio apostolico, allo stesso modo il Successore di Pietro e i Vescovi, successori degli Apostoli, - il Concilio lo ha con forza ribadito (cfr Lumen gentium LG 22) -, devono essere tra loro strettamente uniti. Questa comunione collegiale, pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni del Romano Pontefice e dei Vescovi, è a servizio della Chiesa e dell’unità nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l’efficacia dell’azione evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul quale hanno avanzato i miei venerati Predecessori, intendo proseguire anch’io, unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo.

3. Mi sta dinanzi, in particolare, la testimonianza del Papa Giovanni Paolo II. Egli lascia una Chiesa più coraggiosa, più libera, più giovane. Una Chiesa che, secondo il suo insegnamento ed esempio, guarda con serenità al passato e non ha paura del futuro. Col Grande Giubileo essa si è introdotta nel nuovo millennio recando nelle mani il Vangelo, applicato al mondo attuale attraverso l’autorevole rilettura del Concilio Vaticano II. Giustamente il Papa Giovanni Paolo II ha indicato il Concilio quale "bussola" con cui orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio (cfr Lett. ap. Novo millennio ineunte, NM 57-58). Anche nel suo Testamento spirituale egli annotava: "Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito" (17.III.2000).

Anch’io, pertanto, nell’accingermi al servizio che è proprio del Successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei Predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa. Ricorrerà proprio quest’anno il 40.mo anniversario della conclusione dell’Assise conciliare (8 dicembre 1965). Col passare degli anni, i Documenti conciliari non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata.

4. In maniera quanto mai significativa, il mio Pontificato inizia mentre la Chiesa sta vivendo lo speciale Anno dedicato all’Eucaristia. Come non cogliere in questa provvidenziale coincidenza un elemento che deve caratterizzare il ministero al quale sono stato chiamato? L’Eucaristia, cuore della vita cristiana e sorgente della missione evangelizzatrice della Chiesa, non può non costituire il centro permanente e la fonte del servizio petrino che mi è stato affidato.

L’Eucaristia rende costantemente presente il Cristo risorto, che a noi continua a donarsi, chiamandoci a partecipare alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Dalla piena comunione con Lui scaturisce ogni altro elemento della vita della Chiesa, in primo luogo la comunione tra tutti i fedeli, l’impegno di annuncio e di testimonianza del Vangelo, l’ardore della carità verso tutti, specialmente verso i poveri e i piccoli.

In questo anno, pertanto, dovrà essere celebrata con particolare rilievo la Solennità del Corpus Domini. L’Eucaristia sarà poi al centro, in agosto, della Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia e, in ottobre, dell’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà sul tema: "L’Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa". A tutti chiedo di intensificare nei prossimi mesi l’amore e la devozione a Gesù Eucaristia e di esprimere in modo coraggioso e chiaro la fede nella presenza reale del Signore, soprattutto mediante la solennità e la correttezza delle celebrazioni.

Lo chiedo in modo speciale ai Sacerdoti, ai quali penso in questo momento con grande affetto. Il Sacerdozio ministeriale è nato nel Cenacolo, insieme con l’Eucaristia, come tante volte ha sottolineato il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II. "L’esistenza sacerdotale deve avere a speciale titolo una «forma eucaristica»", ha scritto nella sua ultima Lettera per il Giovedì Santo (n. 1). A tale scopo contribuisce innanzitutto la devota celebrazione quotidiana della santa Messa, centro della vita e della missione di ogni Sacerdote.

5. Alimentati e sostenuti dall’Eucaristia, i cattolici non possono non sentirsi stimolati a tendere a quella piena unità che Cristo ha ardentemente auspicato nel Cenacolo. Di questo supremo anelito del Maestro divino il Successore di Pietro sa di doversi fare carico in modo del tutto particolare. A lui infatti è stato affidato il compito di confermare i fratelli (cfr Lc 22,32).

Con piena consapevolezza, pertanto, all’inizio del suo ministero nella Chiesa di Roma che Pietro ha irrorato col suo sangue, l’attuale suo Successore si assume come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere. Egli è cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo.

Il dialogo teologico è necessario, l’approfondimento delle motivazioni storiche di scelte avvenute nel passato è pure indispensabile. Ma ciò che urge maggiormente è quella "purificazione della memoria", tante volte evocata da Giovanni Paolo II, che sola può disporre gli animi ad accogliere la piena verità di Cristo. E’ davanti a Lui, supremo Giudice di ogni essere vivente, che ciascuno di noi deve porsi, nella consapevolezza di dovere un giorno a Lui rendere conto di quanto ha fatto o non ha fatto nei confronti del grande bene della piena e visibile unità di tutti i suoi discepoli.

L’attuale Successore di Pietro si lascia interpellare in prima persona da questa domanda ed è disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo. Sulla scia dei suoi Predecessori, egli è pienamente determinato a coltivare ogni iniziativa che possa apparire opportuna per promuovere i contatti e l’intesa con i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali. Ad essi, anzi, invia anche in questa occasione il più cordiale saluto in Cristo, unico Signore di tutti.

6. Torno con la memoria, in questo momento, all’indimenticabile esperienza vissuta da noi tutti in occasione della morte e dei funerali del compianto Giovanni Paolo II. Attorno alle sue spoglie mortali, adagiate sulla nuda terra, si sono raccolti i Capi delle Nazioni, persone d’ogni ceto sociale, e specialmente giovani, in un indimenticabile abbraccio di affetto e di ammirazione. A lui ha guardato con fiducia il mondo intero. E’ sembrato a molti che quella intensa partecipazione, amplificata sino ai confini del pianeta dai mezzi di comunicazione sociale, fosse come una corale richiesta di aiuto rivolta al Papa da parte dell’odierna umanità che, turbata da incertezze e timori, si interroga sul suo futuro.

La Chiesa di oggi deve ravvivare in se stessa la consapevolezza del compito di riproporre al mondo la voce di Colui che ha detto: "Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Jn 8,12). Nell’intraprendere il suo ministero il nuovo Papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo.

Con questa consapevolezza mi rivolgo a tutti, anche a coloro che seguono altre religioni o che semplicemente cercano una risposta alle domande fondamentali dell’esistenza e ancora non l’hanno trovata. A tutti mi rivolgo con semplicità ed affetto, per assicurare che la Chiesa vuole continuare a tessere con loro un dialogo aperto e sincero, alla ricerca del vero bene dell’uomo e della società.

Invoco da Dio l’unità e la pace per la famiglia umana e dichiaro la disponibilità di tutti i cattolici a cooperare per un autentico sviluppo sociale, rispettoso della dignità d’ogni essere umano.

Non risparmierò sforzi e dedizione per proseguire il promettente dialogo avviato dai miei venerati Predecessori con le diverse civiltà, perché dalla reciproca comprensione scaturiscano le condizioni di un futuro migliore per tutti.

Penso in particolare ai giovani. A loro, interlocutori privilegiati del Papa Giovanni Paolo II, va il mio affettuoso abbraccio nell’attesa, se piacerà a Dio, di incontrarli a Colonia in occasione della prossima Giornata Mondiale della Gioventù. Con voi, cari giovani, futuro e speranza della Chiesa e dell’umanità, continuerò a dialogare, ascoltando le vostre attese nell’intento di aiutarvi a incontrare sempre più in profondità il Cristo vivente, l’eternamente giovane.

7. Mane nobiscum, Domine! Resta con noi Signore! Quest’invocazione, che forma il tema dominante della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II per l’Anno dell’Eucaristia, è la preghiera che sgorga spontanea dal mio cuore, mentre mi accingo ad iniziare il ministero a cui Cristo mi ha chiamato. Come Pietro, anch’io rinnovo a Lui la mia incondizionata promessa di fedeltà. Lui solo intendo servire dedicandomi totalmente al servizio della sua Chiesa.

A sostegno di questa promessa invoco la materna intercessione di Maria Santissima, nelle cui mani pongo il presente e il futuro della mia persona e della Chiesa. Intervengano con la loro intercessione anche i Santi Apostoli Pietro e Paolo e tutti i Santi.

Con questi sentimenti imparto a voi, venerati Fratelli Cardinali, a coloro che partecipano a questo rito e a quanti sono in ascolto mediante la televisione e la radio una speciale, affettuosa Benedizione.


SANTA MESSA, IMPOSIZIONE DEL PALLIO E CONSEGNA DELL’ANELLO DEL PESCATORE PER L’INIZIO DEL MINISTERO PETRINO

Piazza San Pietro, Domenica, 24 aprile 2005

24405

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
distinte Autorità e Membri del Corpo diplomatico,
carissimi Fratelli e Sorelle!

Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle litanie dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del nostro Santo Padre Giovanni Paolo II; in occasione dell'ingresso dei Cardinali in Conclave, ed anche oggi, quando le abbiamo nuovamente cantate con l'invocazione: Tu illum adiuva - sostieni il nuovo successore di San Pietro. Ogni volta in un modo del tutto particolare ho sentito questo canto orante come una grande consolazione. Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II! Il Papa che per ben 26 anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo. Egli varcava la soglia verso l'altra vita - entrando nel mistero di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è mai solo - non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli - i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell'aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua. Di nuovo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in conclave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano. Infatti alla comunità dei santi non appartengono solo le grandi figure che ci hanno preceduto e di cui conosciamo i nomi. Noi tutti siamo la comunità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci simili a se medesimo. Sì, la Chiesa è viva - questa è la meravigliosa esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto. Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua resurrezione.

La Chiesa è viva – così saluto con grande gioia e gratitudine voi tutti, che siete qui radunati, venerati Confratelli Cardinali e Vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi, operatori pastorali, catechisti. Saluto voi, religiosi e religiose, testimoni della trasfigurante presenza di Dio. Saluto voi, fedeli laici, immersi nel grande spazio della costruzione del Regno di Dio che si espande nel mondo, in ogni espressione della vita. Il discorso si fa pieno di affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo, non sono ancora in piena comunione con noi; ed a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio. Il mio pensiero, infine – quasi come un’onda che si espande – va a tutti gli uomini del nostro tempo, credenti e non credenti.

Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo. Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi.

Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita – questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica – magari in modo anche doloroso – e così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo soltanto Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa. L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza. Il simbolo dell’agnello ha ancora un altro aspetto. Nell’Antico Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era un’immagine del loro potere, un’immagine cinica: i popoli erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli si rivela come il vero pastore: “Io sono il buon pastore… Io offro la mia vita per le pecore”, dice Gesù di se stesso (
Jn 10,14 s). Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini.

Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. “Pasci le mie pecore”, dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento. Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento. Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri.

Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia odierna l’insediamento nel Ministero Petrino, è la consegna dell’anello del pescatore. La chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: “E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Jn 21,11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell’inizio: anche allora i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione: “Non temere! D’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5,1-11). Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. E’ proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. E’ proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo.

Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell’immagine del pastore che in quella del pescatore emerge in modo molto esplicito la chiamata all’unità. “Ho ancora altre pecore, che non sono di questo ovile; anch’esse io devo condurre ed ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo pastore” (Jn 10,16), dice Gesù al termine del discorso del buon pastore. E il racconto dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazione: “sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Jn 21,11). Ahimè, amato Signore, essa ora si è strappata! vorremmo dire addolorati. Ma no – non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità, che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa nella preghiera al Signore, come mendicanti: sì, Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa’ che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad essere servitori dell’unità!

In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani. Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen.


VISITA DEL SANTO PADRE ALLA BASILICA DI SAN PAOLO FUORI LE MURA

Lunedì, 25 aprile 2005

25505


Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari Fratelli e Sorelle nel Signore!

Rendo grazie a Dio che, all’inizio del mio ministero di Successore di Pietro, mi concede di sostare in preghiera presso il sepolcro dell’apostolo Paolo. E’ questo per me un pellegrinaggio tanto desiderato, un gesto di fede, che compio a nome mio, ma anche a nome della diletta Diocesi di Roma, della quale il Signore mi ha costituito Vescovo e Pastore, e della Chiesa universale affidata alle mie premure pastorali. Un pellegrinaggio, per così dire, alle radici della missione, di quella missione che Cristo risorto affidò a Pietro, agli Apostoli e, in modo singolare, anche a Paolo, spingendolo ad annunciare il Vangelo alle genti, fino a giungere in questa Città, dove, dopo avere a lungo predicato il Regno di Dio (
Ac 28,31), rese con il sangue l’estrema testimonianza al suo Signore, che lo aveva “conquistato” (Ph 3,12) e inviato.

Prima ancora che la Provvidenza lo conducesse a Roma, l’Apostolo scrisse ai cristiani di questa Città, capitale dell’Impero, la sua Lettera più importante sotto il profilo dottrinale. Ne è stata proclamata poc’anzi la parte iniziale, un denso preambolo in cui l’Apostolo saluta la comunità di Roma presentandosi quale “servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione” (Rm 1,1). E più avanti aggiunge: “Per mezzo di lui [Cristo] abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti” (Rm 1,5).

Cari amici, come Successore di Pietro, sono qui per ravvivare nella fede questa “grazia dell’apostolato”, perché Dio, secondo un’altra espressione dell’Apostolo delle genti, mi ha affidato “la sollecitudine per tutte le Chiese” (2Co 11,28). E’ dinanzi ai nostri occhi l’esempio del mio amato e venerato predecessore Giovanni Paolo II, un Papa missionario, la cui attività così intensa, testimoniata da oltre cento viaggi apostolici oltre i confini d’Italia, è davvero inimitabile. Che cosa lo spingeva ad un simile dinamismo se non lo stesso amore di Cristo che trasformò l’esistenza di san Paolo (cfr 2Co 5,14)? Voglia il Signore alimentare anche in me un simile amore, perché non mi dia pace di fronte alle urgenze dell’annuncio evangelico nel mondo di oggi. La Chiesa è per sua natura missionaria, suo compito primario è l’evangelizzazione. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dedicato all’attività missionaria il Decreto denominato, appunto, “Ad gentes”, che ricorda come “gli Apostoli… seguendo l’esempio di Cristo, «predicarono la parola della verità e generarono le Chiese» (S. Aug., Enarr. in PS 44,23, PL 36,508)” e che “è compito dei loro successori dare continuità a quest’opera, perché «la parola di Dio corra e sia glorificata» (2Th 3,1) e il Regno di Dio sia annunciato e stabilito in tutta la terra” (AGD 1).

All’inizio del terzo millennio, la Chiesa sente con rinnovata vivezza che il mandato missionario di Cristo è più che mai attuale. Il Grande Giubileo del Duemila l’ha condotta a “ripartire da Cristo”, contemplato nella preghiera, perché la luce della sua verità sia irradiata a tutti gli uomini, anzitutto con la testimonianza della santità. Mi è caro qui ricordare il motto che san Benedetto pose nella sua Regola, esortando i suoi monaci a “nulla assolutamente anteporre all’amore di Cristo” (cap. RB 4). In effetti, la vocazione sulla via di Damasco portò Paolo proprio a questo: a fare di Cristo il centro della sua vita, lasciando tutto per la sublimità della conoscenza di lui e del suo mistero d’amore, ed impegnandosi poi ad annunciarlo a tutti, specialmente ai pagani, “a gloria del suo nome” (Rm 1,5). La passione per Cristo lo portò a predicare il Vangelo non solo con la parola, ma con la stessa vita, sempre più conformata al suo Signore. Alla fine, Paolo annunciò Cristo con il martirio, e il suo sangue, insieme a quello di Pietro e di tanti altri testimoni del Vangelo, irrigò questa terra e rese feconda la Chiesa di Roma, che presiede alla comunione universale della carità (cfr s. Ignazio Ant., Ad Rom., Inscr.: Funk, I, 252).

Il secolo ventesimo è stato un tempo di martirio. Lo ha messo in grande risalto il Papa Giovanni Paolo II, che ha chiesto alla Chiesa di “aggiornare il Martirologio” e ha canonizzato e beatificato numerosi martiri della storia recente. Se dunque il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani, all’inizio del terzo millennio è lecito attendersi una rinnovata fioritura della Chiesa, specialmente là dove essa ha maggiormente sofferto per la fede e per la testimonianza del Vangelo.

Questo auspicio affidiamo all’intercessione di san Paolo. Voglia egli ottenere alla Chiesa di Roma, in particolare al suo Vescovo, e a tutto il Popolo di Dio, la gioia di annunciare e testimoniare a tutti la Buona Novella di Cristo Salvatore.


Benedetto XVI Omelie