Benedetto XVI Omelie 25505


CELEBRAZIONE EUCARISTICA E INSEDIAMENTO SULLA CATHEDRA ROMANA

Basilica di San Giovanni in Laterano, Sabato 7 maggio 2005

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Questo giorno, nel quale posso per la prima volta insediarmi sulla Cattedra del Vescovo di Roma quale successore di Pietro, è il giorno in cui in Italia la Chiesa celebra la Festa dell’Ascensione del Signore. Al centro di questo giorno, troviamo Cristo. E solo grazie a Lui, grazie al mistero del suo ascendere, riusciamo a comprendere il significato della Cattedra, che è a sua volta il simbolo della potestà e della responsabilità del Vescovo. Cosa ci vuol dire allora la Festa dell’Ascensione del Signore? Non vuol dirci che il Signore se ne è andato in qualche luogo lontano dagli uomini e dal mondo. L’Ascensione di Cristo non è un viaggio nello spazio verso gli astri più remoti; perché, in fondo, anche gli astri sono fatti di elementi fisici come la terra. L’Ascensione di Cristo significa che Egli non appartiene più al mondo della corruzione e della morte che condiziona la nostra vita. Significa che Egli appartiene completamente a Dio. Egli – il Figlio Eterno – ha condotto il nostro essere umano al cospetto di Dio, ha portato con sé la carne e il sangue in una forma trasfigurata. L’uomo trova spazio in Dio; attraverso Cristo, l’essere umano è stato portato fin dentro la vita stessa di Dio. E poiché Dio abbraccia e sostiene l’intero cosmo, l’Ascensione del Signore significa che Cristo non si è allontanato da noi, ma che adesso, grazie al Suo essere con il Padre, è vicino ad ognuno di noi, per sempre. Ognuno di noi può darGli del tu; ognuno può chiamarLo. Il Signore si trova sempre a portata di voce. Possiamo allontanarci da Lui interiormente. Possiamo vivere voltandoGli le spalle. Ma Egli ci aspetta sempre, ed è sempre vicino a noi.

Dalle letture della liturgia odierna impariamo anche qualcosa in più sulla concretezza con cui il Signore realizza questo Suo essere vicino a noi. Il Signore promette ai discepoli il Suo Spirito Santo. La prima lettura ci dice che lo Spirito Santo sarà "forza" per i discepoli; il Vangelo aggiunge che sarà guida alla Verità tutt’intera. Gesù ha detto tutto ai Suoi discepoli, essendo Egli stesso la Parola vivente di Dio, e Dio non può dare più di sé stesso. In Gesù, Dio ci ha donato tutto sé stesso - cioè - ci ha donato tutto. Oltre a questo, o accanto a questo, non può esserci nessun’altra rivelazione in grado di comunicare maggiormente o di completare, in qualche modo, la Rivelazione di Cristo. In Lui, nel Figlio, ci è stato detto tutto, ci è stato donato tutto. Ma la nostra capacità di comprendere è limitata; perciò la missione dello Spirito è di introdurre la Chiesa in modo sempre nuovo, di generazione in generazione, nella grandezza del mistero di Cristo. Lo Spirito non pone nulla di diverso e di nuovo accanto a Cristo; non c’è nessuna rivelazione pneumatica accanto a quella di Cristo - come alcuni credono - nessun secondo livello di Rivelazione. No: "prenderà del mio", dice Cristo nel Vangelo (
Jn 16,14). E come Cristo dice soltanto ciò che sente e riceve dal Padre, così lo Spirito Santo è interprete di Cristo. "Prenderà del mio". Non ci conduce in altri luoghi, lontani da Cristo, ma ci conduce sempre più dentro la luce di Cristo. Per questo, la Rivelazione cristiana è, allo stesso tempo, sempre antica e sempre nuova. Per questo, tutto ci è sempre e già donato. Allo stesso tempo, ogni generazione, nell’inesauribile incontro col Signore - incontro mediato dallo Spirito Santo - impara sempre qualcosa di nuovo.

Così, lo Spirito Santo è la forza attraverso la quale Cristo ci fa sperimentare la sua vicinanza. Ma la prima lettura dice anche una seconda parola: mi sarete testimoni. Il Cristo risorto ha bisogno di testimoni che Lo hanno incontrato, di uomini che Lo hanno conosciuto intimamente attraverso la forza dello Spirito Santo. Uomini che avendo, per così dire, toccato con mano, possono testimoniarLo. È così che la Chiesa, la famiglia di Cristo, è cresciuta da "Gerusalemme… fino agli estremi confini della terra", come dice la lettura. Attraverso i testimoni è stata costruita la Chiesa – a cominciare da Pietro e da Paolo, e dai Dodici, fino a tutti gli uomini e le donne che, ricolmi di Cristo, nel corso dei secoli hanno riacceso e riaccenderanno in modo sempre nuovo la fiamma della fede. Ogni cristiano, a suo modo, può e deve essere testimone del Signore risorto. Quando leggiamo i nomi dei santi possiamo vedere quante volte siano stati – e continuino ad essere – anzitutto degli uomini semplici, uomini da cui emanava - ed emana - una luce splendente capace di condurre a Cristo.

Ma questa sinfonia di testimonianze è dotata anche di una struttura ben definita: ai successori degli Apostoli, e cioè ai Vescovi, spetta la pubblica responsabilità di far sì che la rete di queste testimonianze permanga nel tempo. Nel sacramento dell’ordinazione episcopale vengono loro conferite la potestà e la grazia necessarie per questo servizio. In questa rete di testimoni, al Successore di Pietro compete uno speciale compito. Fu Pietro che espresse per primo, a nome degli apostoli, la professione di fede: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16). Questo è il compito di tutti i Successori di Pietro: essere la guida nella professione di fede in Cristo, il Figlio del Dio vivente. La Cattedra di Roma è anzitutto Cattedra di questo credo. Dall’alto di questa Cattedra il Vescovo di Roma è tenuto costantemente a ripetere: Dominus Iesus – "Gesù è il Signore", come Paolo scrisse nelle sue lettere ai Romani (Rm 10,9) e ai Corinzi (1Co 12,3). Ai Corinzi, con particolare enfasi, disse: "Anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra… per noi c’è un solo Dio, il Padre…; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui" (1Co 8,5). La Cattedra di Pietro obbliga coloro che ne sono i titolari a dire - come già fece Pietro in un momento di crisi dei discepoli - quando tanti volevano andarsene: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (Jn 6,68ss). Colui che siede sulla Cattedra di Pietro deve ricordare le parole che il Signore disse a Simon Pietro nell’ora dell’Ultima Cena: "….e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli…." (Lc 22,32). Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole - come sono fragili e deboli le sue proprie forze - costantemente bisognoso di purificazione e di conversione. Ma egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e tenerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto. Nella prima lettera di san Paolo ai Corinzi, troviamo il più antico racconto della risurrezione che abbiamo. Paolo lo ha fedelmente ripreso dai testimoni. Tale racconto dapprima parla della morte del Signore per i nostri peccati, della sua sepoltura, della sua risurrezione, avvenuta il terzo giorno, e poi dice: "Cristo apparve a Cefa e quindi ai Dodici…" (1Co 15,4), Così, ancora una volta, viene riassunto il significato del mandato conferito a Pietro fino alla fine dei tempi: essere testimone del Cristo risorto.

Il Vescovo di Roma siede sulla sua Cattedra per dare testimonianza di Cristo. Così la Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici. Nella Chiesa, la Sacra Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero dell’interpretazione autentica, conferito agli apostoli, appartengono l’una all’altro in modo indissolubile. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò che essi hanno da dirci è importante e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per poter comprendere quel processo vivente con cui è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci, nell’interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa viva, di quella Chiesa affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi.

Questa potestà di insegnamento spaventa tanti uomini dentro e fuori della Chiesa. Si chiedono se essa non minacci la libertà di coscienza, se non sia una presunzione contrapposta alla libertà di pensiero. Non è così. Il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo. Lo fece Papa Giovanni Paolo II, quando, davanti a tutti i tentativi, apparentemente benevoli verso l’uomo, di fronte alle errate interpretazioni della libertà, sottolineò in modo inequivocabile l’inviolabilità dell’essere umano, l’inviolabilità della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale. La libertà di uccidere non è una vera libertà, ma è una tirannia che riduce l’essere umano in schiavitù. Il Papa è consapevole di essere, nelle sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi, alle interpretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegrinante della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella sua purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle mode.

La Cattedra è - diciamolo ancora una volta - simbolo della potestà di insegnamento, che è una potestà di obbedienza e di servizio, affinché la Parola di Dio - la sua verità! - possa risplendere tra di noi, indicandoci la strada. Ma, parlando della Cattedra del Vescovo di Roma, come non ricordare le parole che Sant’Ignazio d’Antiochia scrisse ai Romani? Pietro, provenendo da Antiochia, sua prima sede, si diresse a Roma, sua sede definitiva. Una sede resa definitiva attraverso il martirio con cui legò per sempre la sua successione a Roma. Ignazio, da parte sua, restando Vescovo di Antiochia, era diretto verso il martirio che avrebbe dovuto subire in Roma. Nella sua lettera ai Romani si riferisce alla Chiesa di Roma come a "Colei che presiede nell’amore", espressione assai significativa. Non sappiamo con certezza che cosa Ignazio avesse davvero in mente usando queste parole. Ma per l’antica Chiesa, la parola amore, agape, accennava al mistero dell’Eucaristia. In questo Mistero l’amore di Cristo si fa sempre tangibile in mezzo a noi. Qui, Egli si dona sempre di nuovo. Qui, Egli si fa trafiggere il cuore sempre di nuovo; qui, Egli mantiene la Sua promessa, la promessa che, dalla Croce, avrebbe attirato tutto a sé. Nell’Eucaristia, noi stessi impariamo l’amore di Cristo. E’ stato grazie a questo centro e cuore, grazie all’Eucaristia, che i santi hanno vissuto, portando l’amore di Dio nel mondo in modi e in forme sempre nuove. Grazie all’Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo! La Chiesa non è altro che quella rete - la comunità eucaristica! - in cui tutti noi, ricevendo il medesimo Signore, diventiamo un solo corpo e abbracciamo tutto il mondo. Presiedere nella dottrina e presiedere nell’amore, alla fine, devono essere una cosa sola: tutta la dottrina della Chiesa, alla fine, conduce all’amore. E l’Eucaristia, quale amore presente di Gesù Cristo, è il criterio di ogni dottrina. Dall’amore dipendono tutta la Legge e i Profeti, dice il Signore (Mt 22,40). L’amore è il compimento della legge, scriveva San Paolo ai Romani (Rm 13,10).

Cari Romani, adesso sono il vostro Vescovo. Grazie per la vostra generosità, grazie per la vostra simpatia, grazie per la vostra pazienza! In quanto cattolici, in qualche modo, tutti siamo anche romani. Con le parole del salmo 87, un inno di lode a Sion, madre di tutti i popoli, cantava Israele e canta la Chiesa: "Si dirà di Sion: L’uno e l’altro è nato in essa…" (Ps 87,5). Ugualmente, anche noi potremmo dire: in quanto cattolici, in qualche modo, siamo tutti nati a Roma. Così voglio cercare, con tutto il cuore, di essere il vostro Vescovo, il Vescovo di Roma. E tutti noi vogliamo cercare di essere sempre più cattolici – sempre più fratelli e sorelle nella grande famiglia di Dio, quella famiglia in cui non esistono stranieri. Infine, vorrei ringraziare di cuore il Vicario per la Diocesi di Roma, il Cardinale Camillo Ruini, e anche i Vescovi ausiliari e tutti i suoi collaboratori. Ringrazio di cuore i parroci, il clero di Roma e tutti coloro che, come fedeli, offrono il loro contributo per costruire qui la casa vivente di Dio. Amen.


SANTA MESSA CON ORDINAZIONI PRESBITERALI

Basilica di San Pietro, Domenica di Pentecoste, 15 maggio 2005

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La prima lettura ed il Vangelo della Domenica di Pentecoste ci presentano due grandi immagini della missione dello Spirito Santo. La lettura degli Atti degli Apostoli narra come, il giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo, sotto i segni di un vento potente e del fuoco, irrompe nella comunità orante dei discepoli di Gesù e dà così origine alla Chiesa. Per Israele, la Pentecoste, da festa della mietitura, era divenuta la festa che faceva memoria della conclusione dell’alleanza al Sinai. Dio aveva mostrato la sua presenza al popolo attraverso il vento e il fuoco e gli aveva poi fatto dono della sua legge, dei 10 Comandamenti. Soltanto così l’opera di liberazione, cominciata con l’esodo dall’Egitto, si era pienamente compiuta: la libertà umana è sempre una libertà condivisa, un insieme di libertà. Soltanto in un’ordinata armonia delle libertà, che dischiude a ciascuno il proprio ambito, può reggersi una libertà comune. Perciò il dono della legge sul Sinai non fu una restrizione o un’abolizione della libertà ma il fondamento della vera libertà. E poiché un giusto ordinamento umano può reggersi soltanto se proviene da Dio e se unisce gli uomini nella prospettiva di Dio, ad un ordinato assetto delle libertà umane non possono mancare i comandamenti che Dio stesso dona. Così Israele è divenuto pienamente popolo proprio attraverso l’alleanza con Dio al Sinai. L’incontro con Dio al Sinai potrebbe essere considerato come il fondamento e la garanzia della sua esistenza come popolo. Il vento ed il fuoco, che investirono la comunità dei discepoli di Cristo radunata nel cenacolo, costituirono un ulteriore sviluppo dell’evento del Sinai e gli diedero nuova ampiezza. Si trovavano in quel giorno a Gerusalemme, secondo quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli, “Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo” (
Ac 2,5). Ed ecco che si manifesta il dono caratteristico dello Spirito Santo: tutti costoro comprendono le parole degli apostoli: “Ciascuno li sentiva parlare la propria lingua” (Ac 2,6). Lo Spirito Santo dona di comprendere. Supera la rottura iniziata a Babele - la confusione dei cuori, che ci mette gli uni contro gli altri - e apre le frontiere. Il popolo di Dio che aveva trovato al Sinai la sua prima configurazione, viene ora ampliato fino a non conoscere più alcuna frontiera. Il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, è un popolo che proviene da tutti i popoli. La Chiesa fin dall’inizio è cattolica, questa è la sua essenza più profonda. San Paolo spiega e sottolinea questo nella seconda lettura, quando dice: “Ed in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito” (1Co 12,13). La Chiesa deve sempre nuovamente divenire ciò che essa già è: deve aprire le frontiere fra i popoli e infrangere le barriere fra le classi e le razze. In essa non vi possono essere né dimenticati né disprezzati. Nella Chiesa vi sono soltanto liberi fratelli e sorelle di Gesù Cristo. Vento e fuoco dello Spirito Santo devono senza sosta aprire quelle frontiere che noi uomini continuiamo ad innalzare fra di noi; dobbiamo sempre di nuovo passare da Babele, dalla chiusura in noi stessi, a Pentecoste. Dobbiamo perciò continuamente pregare che lo Spirito Santo ci apra, ci doni la grazia della comprensione, così da divenire il popolo di Dio proveniente da tutti i popoli – ancor più, ci dice San Paolo: in Cristo, che come unico pane nutre tutti noi nell’Eucaristia e ci attira a sé nel suo corpo straziato sulla croce, noi dobbiamo divenire un solo corpo e un solo spirito.

La seconda immagine dell’invio dello Spirito, che troviamo nel Vangelo, è molto più discreta. Ma proprio così fa percepire tutta la grandezza dell’evento della Pentecoste. Il Signore Risorto attraverso le porte chiuse entra nel luogo dove si trovavano i discepoli e li saluta due volte dicendo: la pace sia con voi! Noi, continuamente, chiudiamo le nostre porte; continuamente, vogliamo metterci al sicuro e non essere disturbati dagli altri e da Dio. Perciò possiamo continuamente supplicare il Signore soltanto per questo, perché egli venga a noi superando le nostre chiusure e ci porti il suo saluto. “La pace sia con voi”: questo saluto del Signore è un ponte, che egli getta fra cielo e terra. Egli discende su questo ponte fino a noi e noi possiamo salire, su questo ponte di pace, fino a lui. Su questo ponte, sempre insieme a Lui, anche noi dobbiamo arrivare fino al prossimo, fino a colui che ha bisogno di noi. Proprio abbassandoci insieme a Cristo, noi ci innalziamo fino a lui e fino a Dio: Dio è Amore e perciò la discesa, l’abbassamento, che l’amore ci chiede, è allo stesso tempo la vera ascesa. Proprio così, abbassandoci, noi raggiungiamo l’altezza di Gesù Cristo, la vera altezza dell’essere umano.

Al saluto di pace del Signore seguono due gesti decisivi per la Pentecoste: il Signore vuole che la sua missione continui nei discepoli: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Jn 20,21). Dopo di che egli alita su di loro e dice: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Jn 20,23). Il Signore alita sui discepoli, e così dona loro lo Spirito Santo, il suo Spirito. Il soffio di Gesù è lo Spirito Santo. Riconosciamo qui, anzitutto, un’allusione al racconto della creazione dell’uomo nella Genesi: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita” (Gn 2,7). L’uomo è questa creatura misteriosa, che proviene tutta dalla terra, ma in cui è stato posto il soffio di Dio. Gesù alita sugli apostoli e dona loro in modo nuovo, più grande, il soffio di Dio. Negli uomini, pur con tutti i loro limiti, vi è ora qualcosa di assolutamente nuovo – il soffio di Dio. La vita di Dio abita in noi. Il soffio del suo amore, della sua verità e della sua bontà. Così possiamo vedere qui anche un’allusione al battesimo ed alla cresima – a questa nuova appartenenza a Dio, che il Signore ci dona. Il testo del Vangelo ci invita a questo: a vivere sempre nello spazio del soffio di Gesù Cristo, a ricevere vita da Lui, così che egli inspiri in noi la vita autentica – la vita che nessuna morte può più togliere. Al suo soffio, al dono dello Spirito Santo, il Signore collega il potere di perdonare. Abbiamo udito in precedenza che lo Spirito Santo unisce, infrange le frontiere, conduce gli uni verso gli altri. La forza, che apre e fa superare Babele, è la forza del perdono. Gesù può donare il perdono ed il potere di perdonare, perché egli stesso ha sofferto le conseguenze della colpa e le ha dissolte nella fiamma del suo amore. Il perdono viene dalla croce; egli trasforma il mondo con l’amore che si dona. Il suo cuore aperto sulla croce è la porta attraverso cui entra nel mondo la grazia del perdono. E soltanto questa grazia può trasformare il mondo ed edificare la pace.

Se paragoniamo i due eventi di Pentecoste, il vento potente del 50° giorno e il lieve alitare di Gesù nella sera di Pasqua, ci può tornare in mente il contrasto fra due episodi, accaduti al Sinai, di cui ci parla l’Antico Testamento. Da una parte c’è il racconto del fuoco, del tuono e del vento, che precedono la promulgazione dei 10 Comandamenti e la conclusione dell’alleanza (Ex 19 ss); dall’altra, il misterioso racconto di Elia sull’Oreb. Dopo i drammatici avvenimenti del Monte Carmelo, Elia era fuggito dall’ira di Acab e Gezabele. Quindi, seguendo il comando di Dio, aveva pellegrinato fino al Monte Oreb. Il dono dell’alleanza divina, della fede nel Dio unico, sembrava scomparso in Israele. Elia, in un certo qual modo, deve riaccendere la fiamma della fede sul monte di Dio e riportarla ad Israele. Egli sperimenta, in quel luogo, vento, terremoto e fuoco. Ma Dio non è presente in tutto questo. Allora egli percepisce un mormorio dolce e leggero. E Dio gli parla da questo soffio leggero (1R 19,11-18). Non è forse proprio quel che accade la sera di Pasqua, quando Gesù compare ai suoi Apostoli ad insegnarci cosa qui si vuol dire? Non possiamo forse vedere qui una prefigurazione del servitore di Jahwé, del quale Isaia dice: “Egli non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce” (Is 42,2)? Non appare forse così l’umile figura di Gesù come la vera rivelazione nella quale Dio si manifesta a noi e ci parla? Non sono forse l’umiltà e la bontà di Gesù la vera epifania di Dio? Elia, sul Monte Carmelo, aveva cercato di combattere l’allontanamento da Dio con il fuoco e con la spada, uccidendo i profeti di Baal. Ma in questo modo non aveva potuto ristabilire la fede. Sull’Oreb egli deve apprendere che Dio non è nel vento, nel terremoto, nel fuoco; Elia deve imparare a percepire la voce leggera di Dio e, così, a riconoscere in anticipo colui che ha vinto il peccato non con la forza ma con la sua Passione; colui che, con il suo patire, ci ha donato il potere del perdono. Questo è il modo con cui Dio vince.

Cari ordinandi! In questo modo il messaggio di Pentecoste si rivolge ora direttamente a voi. La scena pentecostale del Vangelo di Giovanni parla di voi ed a voi. A ciascuno di voi, in modo personalissimo, il Signore dice: pace a voi – pace a te! Quando il Signore dice questo, non dona qualcosa ma dona se stesso. Infatti egli stesso è la pace (Ep 2,14). In questo saluto del Signore, possiamo intravedere anche un richiamo al grande mistero della fede, alla Santa Eucaristia, nella quale egli continuamente ci dona se stesso e, in tal modo, la vera pace. Questo saluto si colloca così al centro della vostra missione sacerdotale: il Signore affida a voi il mistero di questo sacramento. Nel suo nome voi potete dire: questo è il mio corpo – questo è il mio sangue. Lasciatevi attirare sempre di nuovo nella Santa Eucaristia, nella comunione di vita con Cristo. Considerate come centro di ogni giornata il poterla celebrare in modo degno. Conducete gli uomini sempre di nuovo a questo mistero. Aiutateli, a partire da essa, a portare la pace di Cristo nel mondo.

Risuona poi, nel Vangelo appena udito, una seconda parola del Risorto: “come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Jn 20,21). Cristo dice questo, in modo molto personale, a ciascuno di voi. Con l’ordinazione sacerdotale voi vi inserite nella missione degli apostoli. Lo Spirito Santo è vento, ma non è amorfo. E’ uno Spirito ordinato. E si manifesta proprio ordinando la missione, nel sacramento del sacerdozio, con cui continua il ministero degli apostoli. Attraverso questo ministero, voi siete inseriti nella grande schiera di coloro che, a partire dalla Pentecoste, hanno ricevuto la missione apostolica. Voi siete inseriti nella comunione del presbiterio, nella comunione con il vescovo e con il Successore di San Pietro, che qui in Roma è anche il vostro vescovo. Tutti noi siamo inseriti nella rete dell’obbedienza alla parola di Cristo, alla parola di colui che ci dà la vera libertà, perché ci conduce negli spazi liberi e negli ampi orizzonti della verità. Proprio in questo comune legame col Signore noi possiamo e dobbiamo vivere il dinamismo dello Spirito. Come il Signore è uscito dal Padre e ci ha donato luce, vita ed amore, così la missione deve continuamente rimetterci in movimento, renderci inquieti, per portare a chi soffre, a chi è nel dubbio, ed anche a chi è riluttante, la gioia di Cristo.

Infine, vi è il potere del perdono. Il sacramento della penitenza è uno dei tesori preziosi della Chiesa, perché solo nel perdono si compie il vero rinnovamento del mondo. Nulla può migliorare nel mondo, se il male non è superato. E il male può essere superato solo con il perdono. Certamente, deve essere un perdono efficace. Ma questo perdono può darcelo solo il Signore. Un perdono che non allontana il male solo a parole, ma realmente lo distrugge. Ciò può avvenire solo con la sofferenza ed è realmente avvenuto con l’amore sofferente di Cristo, dal quale noi attingiamo il potere del perdono.

Infine, cari ordinandi, vi raccomando l’amore alla Madre del Signore. Fate come San Giovanni, che l’accolse nell’intimo del proprio cuore. Lasciatevi rinnovare continuamente dal suo amore materno. Imparate da lei ad amare Cristo. Il Signore benedica il vostro cammino sacerdotale! Amen.


SANTA MESSA E PROCESSIONE EUCARISTICA NELLA SOLENNITÀ DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

Sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano, Giovedì, 26 maggio 2005

3
Nella festa del Corpus Domini, la Chiesa rivive il mistero del Giovedì Santo alla luce della Risurrezione. Anche il Giovedì Santo conosce una sua processione eucaristica, con cui la Chiesa ripete l’esodo di Gesù dal Cenacolo al monte degli Ulivi. In Israele, si celebrava la notte di Pasqua in casa, nell’intimità della famiglia; si faceva così memoria della prima Pasqua, in Egitto – della notte in cui il sangue dell’agnello pasquale, asperso sull’architrave e sugli stipiti delle case, proteggeva contro lo sterminatore. Gesù, in quella notte, esce e si consegna nelle mani del traditore, dello sterminatore e, proprio così, vince la notte, vince le tenebre del male. Solo così, il dono dell’Eucaristia, istituita nel Cenacolo, trova il suo compimento: Gesù dà realmente il suo corpo ed il suo sangue. Attraversando la soglia della morte, diventa Pane vivo, vera manna, nutrimento inesauribile per tutti i secoli. La carne diventa pane di vita.

Nella processione del Giovedì Santo, la Chiesa accompagna Gesù al monte degli Ulivi: è vivo desiderio della Chiesa orante vigilare con Gesù, non lasciarlo solo nella notte del mondo, nella notte del tradimento, nella notte dell’indifferenza di tanti. Nella festa del Corpus Domini, riprendiamo questa processione, ma nella gioia della Risurrezione. Il Signore è risorto e ci precede. Nei racconti della Risurrezione vi è un tratto comune ed essenziale; gli angeli dicono: il Signore "vi precede in Galilea; là lo vedrete" (
Mt 28,7). Considerando ciò più da vicino, possiamo dire che questo "precedere" di Gesù implica una duplice direzione. La prima è – come abbiamo sentito – la Galilea. In Israele, la Galilea era considerata come la porta verso il mondo dei pagani. Ed in realtà proprio in Galilea, sul monte, i discepoli vedono Gesù, il Signore, che dice loro: "Andate.. e ammaestrate tutte le nazioni" (Mt 28,19). L’altra direzione del precedere, da parte del Risorto, appare nel Vangelo di San Giovanni, dalle parole di Gesù a Maddalena: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre.." (Jn 20,17). Gesù ci precede presso il Padre, sale all’altezza di Dio e ci invita a seguirlo. Queste due direzioni del cammino del Risorto non si contraddicono, ma indicano insieme la via della sequela di Cristo. La vera meta del nostro cammino è la comunione con Dio – Dio stesso è la casa dalle molte dimore (cfr Jn 14,2 s). Ma possiamo salire a questa dimora soltanto andando "verso la Galilea" – andando sulle strade del mondo, portando il Vangelo a tutte le nazioni, portando il dono del suo amore agli uomini di tutti i tempi. Perciò il cammino degli apostoli si è esteso fino ai "confini della terra" (cfr Ac 1,6 s); così San Pietro e San Paolo sono andati fino a Roma, città che era allora il centro del mondo conosciuto, vera "caput mundi".

La processione del Giovedì Santo accompagna Gesù nella sua solitudine, verso la "via crucis". La processione del Corpus Domini, invece, risponde in modo simbolico al mandato del Risorto: vi precedo in Galilea. Andate fino ai confini del mondo, portate il Vangelo al mondo. Certo, l’Eucaristia, per la fede, è un mistero di intimità. Il Signore ha istituito il Sacramento nel Cenacolo, circondato dalla sua nuova famiglia, dai dodici apostoli, prefigurazione ed anticipazione della Chiesa di tutti i tempi. Perciò, nella liturgia della Chiesa antica, la distribuzione della santa comunione era introdotta dalle parole: Sancta sanctis – il dono santo è destinato a coloro che sono resi santi. In questo modo, si rispondeva all’ammonimento rivolto da San Paolo ai Corinzi: "Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice.." (1Co 11,28). Tuttavia, da questa intimità, che è dono personalissimo del Signore, la forza del sacramento dell’Eucaristia va oltre le mura delle nostre Chiese. In questo Sacramento, il Signore è sempre in cammino verso il mondo. Questo aspetto universale della presenza eucaristica appare nella processione della nostra festa. Noi portiamo Cristo, presente nella figura del pane, sulle strade della nostra città. Noi affidiamo queste strade, queste case - la nostra vita quotidiana - alla sua bontà. Le nostre strade siano strade di Gesù! Le nostre case siano case per lui e con lui! La nostra vita di ogni giorno sia penetrata dalla sua presenza. Con questo gesto, mettiamo sotto i suoi occhi le sofferenze degli ammalati, la solitudine di giovani e anziani, le tentazioni, le paure – tutta la nostra vita. La processione vuole essere una grande e pubblica benedizione per questa nostra città: Cristo è, in persona, la benedizione divina per il mondo – il raggio della sua benedizione si estenda su tutti noi!

Nella processione del Corpus Domini, accompagniamo il Risorto nel suo cammino verso il mondo intero – come abbiamo detto. E, proprio facendo questo, rispondiamo anche al suo mandato: "Prendete e mangiate... Bevetene tutti" (Mt 26,26 s). Non si può "mangiare" il Risorto, presente nella figura del pane, come un semplice pezzo di pane. Mangiare questo pane è comunicare, è entrare nella comunione con la persona del Signore vivo. Questa comunione, questo atto del "mangiare", è realmente un incontro tra due persone, è un lasciarsi penetrare dalla vita di Colui che è il Signore, di Colui che è il mio Creatore e Redentore. Scopo di questa comunione è l’assimilazione della mia vita alla sua, la mia trasformazione e conformazione a Colui che è Amore vivo. Perciò questa comunione implica l’adorazione, implica la volontà di seguire Cristo, di seguire Colui che ci precede. Adorazione e processione fanno perciò parte di un unico gesto di comunione; rispondono al suo mandato: "Prendete e mangiate".

La nostra processione finisce davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore, nell’incontro con la Madonna, chiamata dal caro Papa Giovanni Paolo II "Donna eucaristica". Davvero Maria, la Madre del Signore, ci insegna che cosa sia entrare in comunione con Cristo: Maria ha offerto la propria carne, il proprio sangue a Gesù ed è divenuta tenda viva del Verbo, lasciandosi penetrare nel corpo e nello spirito dalla sua presenza. Preghiamo Lei, nostra santa Madre, perché ci aiuti ad aprire, sempre più, tutto il nostro essere alla presenza di Cristo; perché ci aiuti a seguirlo fedelmente, giorno per giorno, sulle strade della nostra vita. Amen!


Benedetto XVI Omelie 25505