Benedetto XVI Omelie 25107


CAPPELLA PAPALE PER LE ESEQUIE DEL SIGNOR CARDINALE ANTONIO MARÍA JAVIERRE ORTAS, S.D.B.

Basilica Vaticana, Venerdì, 2 febbraio 2007

2607
Cari fratelli e sorelle,

ieri, all’indomani della memoria liturgica di San Giovanni Bosco, è partito per il Cielo un suo figlio spirituale, il caro e venerato Cardinale Antonio María Javierre Ortas. Si è trovato circondato, al momento della sua dipartita, dalla preghiera corale di suffragio che i Salesiani sono soliti elevare per i Confratelli e le Consorelle defunti proprio il giorno dopo la festa del Fondatore. Alla sua famiglia religiosa si unisce oggi la Curia Romana, si uniscono i parenti e gli amici, con la presente celebrazione, nel giorno in cui la liturgia ricorda la Presentazione del Signore al Tempio. Le parole dell’anziano Simeone che stringe fra le sua braccia il Bambino Gesù, risuonano in questa circostanza con particolare emozione: “Nunc dimittis servum tuum Domine, secundum verbum tuum in pace - Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola” (
Lc 2,29). E’ la preghiera che la Chiesa eleva a Dio quando scende la notte, ed è quanto mai significativo ricordarla oggi, ripensando a questo nostro Fratello giunto al tramonto della sua vita terrena.

Misercordias Domini in aeternum cantabo”. Facciamo nostre queste parole, tratte dal suo diario spirituale, mentre accompagniamo il Cardinale Javierre Ortas nel suo viaggio verso la casa del Padre. Nato a Siétamo, in Diocesi di Huesca, il 21 febbraio 1921, egli ha avuto in dono una lunga esistenza, animata sin dalla giovinezza da uno spiccato spirito missionario. Seguendo l’esempio di don Bosco avrebbe voluto vivere la sua vocazione di salesiano a diretto contatto con la gioventù, in terra di missione, ma la Provvidenza lo ha chiamato ad altre mansioni. Egli è stato così apostolo negli ambienti dell’Università e della Curia Romana, senza però mai perdere occasione per svolgere un’intensa attività spirituale nell’ambito più propriamente teologico e in quello più vasto della cultura, soprattutto animando gruppi di professori e di religiosi, e come cappellano tra gli universitari. Il suo è stato un servizio ecclesiale, fedele e generoso, sempre disponibile e cordiale. Benché fosse giunto a un’età ragguardevole, ci ha lasciato in modo piuttosto improvviso. Spinti dalla fede, ma anche da affetto per la sua venerata persona, siamo ora riuniti intorno all’altare del Signore e ci accingiamo ad offrire per lui il Sacrificio eucaristico.

Risuonano nell’animo le parole di Cristo che abbiamo ascoltato poco fa nel Vangelo: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Jn 6,51). E’ questa una delle espressioni di Gesù che racchiudono in sintesi tutto il suo mistero. Ed è confortante ascoltarla e meditarla mentre preghiamo per un’anima sacerdotale che ha trovato nell’Eucaristia il centro della sua vita. La comunione sacramentale, intima e perseverante, con il Corpo e il Sangue di Cristo, opera una trasformazione profonda della persona ed il frutto di questo processo interiore, che la coinvolge tutta, è quanto afferma di sé l’apostolo Paolo scrivendo ai Filippesi: “Mihi vivere Christus est” (Ph 1,21). Il morire allora è un “guadagno” perché solo morendo si può realizzare pienamente quell’“essere-in-Cristo” di cui la comunione eucaristica è pegno su questa terra.

Ieri, ho potuto avere tra le mani alcune lettere che il Cardinale Javierre aveva indirizzato all’amato Giovanni Paolo II e dalle quali emerge proprio questo riferimento privilegiato all’Eucaristia. Nel 1992, al momento in cui ricevette la nomina a Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, egli scrisse: “Huelga repetir en esta ocasión mi voluntad incondicionada de servicio. Cuente, Santidad, con mi esfuerzo sincero de conducir a término el cometido que se me ha encomendado. Lo imagino gravitando por completo en torno a la EUCARISTIA – scritto tutto maiuscolo –. Todo gira en torno ese baricentro”. In occasione poi del 50° anniversario della sua Ordinazione sacerdotale, nella lettera di ringraziamento al Santo Padre per gli auguri inviatigli scriveva: “Al tempo della mia ordinazione a Salamanca il sacerdozio gravitava integralmente intorno all’Eucaristia ... E’ una gioia rivivere i sentimenti della nostra ordinazione, consci che nell’Eucaristia, sacramento del Sacrificio, Cristo attualizza in pienezza il suo unico Sacerdozio”. Alla mensa celeste, a quel convito messianico di cui parla Isaia nella prima Lettura, dove la morte è eliminata per sempre e le lacrime sono asciugate su ogni volto (cfr Is 25,8), il caro Cardinale defunto ora prende parte con gioia. In attesa di condividere anche noi, quando il Signore vorrà, questo eterno convito di amore, ci accomuna ora, noi ancora pellegrini e lui già arrivato alla meta, il canto risuonato nel Salmo responsoriale: “Dominus pascit me, et nihil mihi deerit: in loco pascuae, ibi me collocavit” (Ps 22,1-2). Sì, per l’uomo che vive in Cristo la morte non fa paura; egli sperimenta in ogni momento quanto il salmista afferma con fiducia: “Nam et si ambulavero in valle umbrae mortis, non timebo mala, quoniam tu mecum es” (Ps 22,4).

Tu mecum es”: questa espressione rimanda ad un’altra che Gesù risorto rivolse agli Apostoli, e che questo nostro Fratello scelse quale suo motto episcopale: “Ego vobiscum sum” (Mt 28,20). In effetti, il Cardinale Javierre Ortas ha voluto che la sua esistenza personale e la sua missione ecclesiale fossero un messaggio di speranza; attraverso il suo apostolato, seguendo l’esempio di san Giovanni Bosco, si è sforzato di comunicare a tutti che Cristo è sempre con noi. Lui, figlio della patria di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, quante volte ha pregato nel suo cuore: “Nada te turbe, / nada te espante. / Quien a Dios tiene / nada le falta / … / Solo Dios basta”. E’ proprio perché abituato a vivere sorretto da queste convinzioni che il Cardinale Javierre Ortas, al momento di congedarsi dal ministero attivo nella Curia, poteva scrivere nuovamente al Papa parole intrise di speranza: “No me resta sino impetrar que el Señor utilice – en registro divino – la bondad de su Vicario cuando en la tarde de la vida – no lejana – suene para mi la hora del examen sobre el amor”.

Nello stemma di questo nostro compianto Fratello è raffigurata una barca legata a due colonne: la barca è la Chiesa, il timoniere è il Papa e le due colonne sono l’Eucaristia e la Madonna. Come degno figlio di Don Bosco, era profondamente devoto di Maria, amata e venerata col titolo di Ausiliatrice. Della Madonna, “Ancilla Domini”, ha cercato di imitare lo stile di un servizio discreto e generoso. Lasciò l’incarico di Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti “in punta di piedi” per dedicarsi al servizio che invece non si deve mai lasciare: la preghiera. Ed ora che il Padre celeste lo ha voluto con sé, sono certo che in Cielo – dove confidiamo che il Signore lo abbia accolto nel suo abbraccio paterno – continua a pregare per noi. Mi piace concludere con una sua riflessione, che ci conduce all’abbraccio del Redentore: E’ meraviglioso – egli scriveva - pensare che non importa la serie dei peccati della nostra vita, che basta alzare gli occhi e vedere il gesto del Salvatore che ci accoglie uno ad uno con bontà infinita, con estrema amabilità. In questa prospettiva, egli concludeva, “la despedida se nimba de esperanza y de gozo”.


STAZIONE QUARESIMALE PRESIEDUTA DAL SANTO PADRE NELLA BASILICA DI SANTA SABINA ALL’AVENTINO

Mercoledì delle Ceneri, 21 febbraio 2007

21207
Cari fratelli e sorelle!

Con la processione penitenziale siamo entrati nell’austero clima della Quaresima ed introducendoci nella Celebrazione eucaristica abbiamo poc’anzi pregato perché il Signore aiuti il popolo cristiano ad “iniziare un cammino di vera conversione per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male” (Orazione Colletta). Nel ricevere tra poco le ceneri sul capo, riascolteremo ancora un chiaro invito alla conversione che può esprimersi in una duplice formula: “Convertitevi e credete al vangelo”, oppure: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”. Proprio per la ricchezza dei simboli e dei testi biblici e liturgici, il Mercoledì delle Ceneri viene considerato la “porta” della Quaresima. In effetti, l’odierna liturgia ed i gesti che la contrassegnano formano un insieme che anticipa in modo sintetico la fisionomia stessa dell’intero periodo quaresimale. Nella sua tradizione, la Chiesa non si limita ad offrirci la tematica liturgica e spirituale dell’itinerario quaresimale, ma ci indica pure gli strumenti ascetici e pratici per percorrerlo fruttuosamente.

“Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti”. Con queste parole inizia la Prima Lettura, tratta dal libro del profeta Gioele (
Jl 2,12). Le sofferenze, le calamità che affliggevano in quel periodo la terra di Giuda spingono l’autore sacro ad incoraggiare il popolo eletto alla conversione, a tornare cioè con fiducia filiale al Signore lacerandosi il cuore e non le vesti. Egli infatti, ricorda il profeta, “è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura” (Jl 2,13). L’invito che Gioele rivolge ai suoi ascoltatori vale anche per noi, cari fratelli e sorelle. Non esitiamo a ritrovare l’amicizia di Dio perduta con il peccato; incontrando il Signore sperimentiamo la gioia del suo perdono. E così, quasi rispondendo alle parole del profeta, abbiamo fatto nostra l’invocazione del ritornello del Salmo responsoriale: “Perdonaci, Signore, abbiamo peccato”. Proclamando il Salmo 50, il grande Salmo penitenziale, ci siamo appellati alla misericordia divina; abbiamo chiesto al Signore che la potenza del suo amore ci ridoni la gioia di essere salvati.

Con questo spirito, iniziamo il tempo favorevole della Quaresima, come ci ha ricordato san Paolo nella Seconda Lettura, per lasciarci riconciliare con Dio in Cristo Gesù. L’Apostolo si presenta come ambasciatore di Cristo e mostra chiaramente come proprio in forza di Lui, venga offerta al peccatore, e cioè a ciascuno di noi, la possibilità di un’autentica riconciliazione. «Colui che non aveva conosciuto peccato, - egli dice - Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Co 5,21). Solo Cristo può trasformare ogni situazione di peccato in novità di grazia. Ecco perché assume un forte impatto spirituale l’esortazione che Paolo indirizza ai cristiani di Corinto: ”Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”; e ancora: “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2Co 5,20 2Co 6,2). Mentre Gioele parlava del futuro giorno del Signore come di un giorno di terribile giudizio, san Paolo, riferendosi alla parola del profeta Isaia, parla di “momento favorevole”, di “giorno della salvezza”. Il futuro giorno del Signore è divenuto l’“oggi”. Il giorno terribile si è trasformato nella Croce e nella Risurrezione di Cristo, nel giorno della salvezza. E questo giorno è ora, come abbiamo ascoltato nel Canto al Vangelo: “Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore”. L’appello alla conversione, alla penitenza risuona quest’oggi con tutta la sua forza, perché la sua eco ci accompagni in ogni momento della vita.

La liturgia del Mercoledì delle Ceneri indica così nella conversione del cuore a Dio la dimensione fondamentale del tempo quaresimale. Questo è il richiamo assai suggestivo che ci viene dal tradizionale rito dell’imposizione delle ceneri, che tra poco rinnoveremo. Rito che riveste un duplice significato: il primo relativo al cambiamento interiore, alla conversione e alla penitenza, mentre il secondo richiama la precarietà dell’umana condizione, come è facile cogliere dalle due diverse formule che accompagnano il gesto. Qui a Roma, la processione penitenziale del mercoledì delle Ceneri parte da sant’Anselmo per concludersi in questa basilica di santa Sabina, dove ha luogo la prima stazione quaresimale. A questo proposito è interessante ricordare che l’antica liturgia romana, attraverso le stazioni quaresimali, aveva elaborato una singolare geografia della fede, partendo dall’idea che, con l’arrivo degli apostoli Pietro e Paolo e con la distruzione del Tempio, Gerusalemme si fosse trasferita a Roma. La Roma cristiana veniva intesa come una ricostruzione della Gerusalemme del tempo di Gesù dentro le mura dell’Urbe. Questa nuova geografia interiore e spirituale, insita nella tradizione delle chiese “stazionali” della Quaresima, non é un semplice ricordo del passato, né una vuota anticipazione del futuro; al contrario, intende aiutare i fedeli a percorrere un cammino interiore, il cammino della conversione e della riconciliazione, per giungere alla gloria della Gerusalemme celeste dove abita Dio.

Cari fratelli e sorelle, abbiamo quaranta giorni per approfondire questa straordinaria esperienza ascetica e spirituale. Nel Vangelo che è stato proclamato, Gesù indica quali sono gli strumenti utili per compiere l’autentico rinnovamento interiore e comunitario: le opere di carità (l’elemosina), la preghiera e la penitenza (il digiuno). Sono le tre pratiche fondamentali care pure alla tradizione ebraica, perché contribuiscono a purificare l’uomo davanti a Dio (cfr Mt 6,1-6 Mt 6,16-18). Tali gesti esteriori, che vanno compiuti per piacere a Dio e non per ottenere l’approvazione e il consenso degli uomini, sono a Lui accetti se esprimono la determinazione del cuore a servirlo, con semplicità e generosità. Ce lo ricorda anche uno dei Prefazi quaresimali dove, a proposito del digiuno, leggiamo questa singolare espressione: «ieiunio… mentem elevas: con il digiuno elevi lo spirito» (Prefazio IV).

Il digiuno, al quale la Chiesa ci invita in questo tempo forte, non nasce certo da motivazioni di ordine fisico od estetico, ma scaturisce dall’esigenza che l’uomo ha di una purificazione interiore che lo disintossichi dall’inquinamento del peccato e del male; lo educhi a quelle salutari rinunce che affrancano il credente dalla schiavitù del proprio io; lo renda più attento e disponibile all’ascolto di Dio e al servizio dei fratelli. Per questa ragione il digiuno e le altre pratiche quaresimali sono considerate dalla tradizione cristiana “armi” spirituali per combattere il male, le passioni cattive e i vizi. Al riguardo, mi piace riascoltare insieme a voi un breve commento di san Giovanni Crisostomo. “Come al finir dell’inverno – egli scrive – torna la stagione estiva e il navigante trascina in mare la nave, il soldato ripulisce le armi e allena il cavallo per la lotta, l’agricoltore affila la falce, il viandante rinvigorito si accinge al lungo viaggio e l’atleta depone le vesti e si prepara alle gare; così anche noi, all’inizio di questo digiuno, quasi al ritorno di una primavera spirituale forbiamo le armi come i soldati, affiliamo la falce come gli agricoltori, e come nocchieri riassettiamo la nave del nostro spirito per affrontare i flutti delle assurde passioni, come viandanti riprendiamo il viaggio verso il cielo e come atleti ci prepariamo alla lotta con lo spogliamento di tutto” (Omelie al popolo antiocheno, 3).

Nel messaggio per la Quaresima, ho invitato a vivere questi quaranta giorni di speciale grazia come un tempo “eucaristico”. Attingendo a quella fonte inesauribile di amore che è l’Eucaristia, nella quale Cristo rinnova il sacrificio redentore della Croce, ogni cristiano può perseverare nell’itinerario che oggi solennemente intraprendiamo. Le opere di carità (l’elemosina), la preghiera, il digiuno insieme ad ogni altro sincero sforzo di conversione trovano il loro più alto significato e valore nell’Eucaristia, centro e culmine della vita della Chiesa e della storia della salvezza. “Questo sacramento che abbiamo ricevuto, o Padre, – così pregheremo al termine della Santa Messa - ci sostenga nel cammino quaresimale, santifichi il nostro digiuno e lo renda efficace per la guarigione del nostro spirito”. Chiediamo a Maria di accompagnarci perché, al termine della Quaresima, possiamo contemplare il Signore risorto, interiormente rinnovati e riconciliati con Dio e con i fratelli. Amen!


VISITA ALL’ISTITUTO PENALE PER MINORI "CASAL DEL MARMO" DI ROMA

Cappella del "Padre Misericordioso", IV Domenica di Quaresima, 18 marzo 2007

18307
Cari fratelli e sorelle,
cari ragazzi e ragazze!

Sono venuto volentieri a farvi visita, e il momento più importante del nostro incontro è la Santa Messa, nella quale si rinnova il dono dell’amore di Dio: amore che ci consola e dà pace, specialmente nei momenti difficili della vita. In questo clima di preghiera vorrei rivolgere il mio saluto a ciascuno di voi: al Ministro della Giustizia, Onorevole Clemente Mastella, al quale esprimo uno speciale riconoscimento, al Capo Dipartimento Giustizia Minorile, Signora Melìta Cavallo, alle altre Autorità intervenute, ai responsabili, agli operatori, agli educatori e al personale di questa struttura penale minorile, ai volontari, ai familiari e a tutti i presenti. Saluto il Cardinale Vicario e il Vescovo Ausiliare, Mons. Benedetto Tùzia. Saluto in modo speciale Mons. Giorgio Caniato, Ispettore Generale dei Cappellani degli Istituti di Prevenzione e Pena, e il vostro Cappellano, che ringrazio per essersi fatti interpreti dei vostri sentimenti all’inizio della Santa Messa.

Nella Celebrazione eucaristica è Cristo stesso che si fa presente in mezzo a noi; anzi di più: Egli viene ad illuminarci con il suo insegnamento - nella Liturgia della Parola - e a nutrirci con il suo Corpo ed il suo Sangue - nella Liturgia Eucaristica e nella Comunione. Egli viene così ad insegnarci ad amare, viene a renderci capaci di amare e cos’ capaci di vivere. Ma, direte forse, quanto è difficile amare sul serio, vivere bene! Qual è il segreto dell’amore, il segreto della vita? Ritorniamo al Vangelo. In questo Vangelo appaiono tre persone: il padre e i due figli. Ma dietro alle persone appaiono due progetti di vita abbastanza diversi. Ambedue i figli vivono in pace, sono agricoltori assai benestanti, hanno quindi di che vivere, vendono bene i loro prodotti, la vita sembra essere buona.

E tuttavia il figlio più giovane trova man mano questa vita noiosa, insoddisfacente: non può essere questa – egli pensa - tutta la vita: ogni giorno alzarsi, che so io, forse alle 6, poi secondo le tradizioni di Israele una preghiera, una lettura della Sacra Bibbia, poi si va a lavorare e alla fine ancora una preghiera. Così, giorno dopo giorno, lui pensa: Ma no, la vita è di più, devo trovare un’altra vita in cui io sia realmente libero, possa fare quanto mi piace; una vita libera da questa disciplina e da queste norme dei comandamenti di Dio, degli ordini del padre; vorrei essere solo io e avere la vita tutta totalmente per me, con tutte le sue bellezze. Adesso, invece, è soltanto lavoro...

E così decide di prendere tutto il suo patrimonio e di andarsene. Il padre è molto rispettoso e generoso e rispetta la libertà del figlio: è lui che deve trovare il suo progetto di vita. E lui va, come dice il Vangelo, in un paese molto lontano. Lontano probabilmente geograficamente, perché vuole un cambiamento, ma anche interiormente perché vuole una vita totalmente diversa. Adesso la sua idea è: libertà, fare quanto voglio fare, non conoscere queste norme di un Dio che è lontano, non essere nel carcere di questa disciplina della casa, fare quanto è bello, quanto mi piace, avere la vita con tutta la sua bellezza e la sua pienezza.

E in un primo momento - potremmo pensare forse per alcuni mesi – tutto va liscio: egli trova bello avere raggiunto finalmente la vita, si sente felice. Ma poi, man mano, sente anche qui la noia, anche qui è sempre lo stesso. E alla fine rimane un vuoto sempre più inquietante; sempre più vivo si fa il sentimento che questo non è ancora la vita, anzi, andando avanti con tutte queste cose, la vita si allontana sempre di più. Tutto diventa vuoto: anche ora si ripropone la schiavitù del fare le stesse cose. E alla fine anche i soldi si esauriscono e il giovane trova che il suo livello di vita è al di sotto di quello dei porci.

Allora comincia a riflettere e si chiede se era quella realmente la strada della vita: una libertà interpretata come fare quanto voglio io, vivere, avere la vita solo per me o se invece non sarebbe forse più vita vivere per gli altri, contribuire alla costruzione del mondo, alla crescita della comunità umana... Comincia così il nuovo cammino, un cammino interiore. Il ragazzo riflette e considera tutti questi nuovi aspetti del problema e comincia a vedere che era molto più libero a casa, essendo proprietario anche lui, contribuendo alla costruzione della casa e della società in comunione con il Creatore, conoscendo lo scopo della sua vita, indovinando il progetto che Dio aveva per lui. In questo cammino interiore, in questa maturazione di un nuovo progetto di vita, vivendo poi anche il cammino esteriore, il figlio più giovane si mette in moto per ritornare, per ricominciare con la sua vita, perché ha ormai capito che quello preso era il binario sbagliato. Devo ripartire con un altro concetto, egli si dice, devo ricominciare.

E arriva alla casa del padre che gli ha lasciato la sua libertà per dargli la possibilità di capire interiormente che cosa è vivere, che cosa è non vivere. Il padre con tutto il suo amore lo abbraccia, gli offre una festa e la vita può cominciare di nuovo partendo da questa festa. Il figlio capisce che proprio il lavoro, l’umiltà, la disciplina di ogni giorno crea la vera festa e la vera libertà. Così ritorna a casa interiormente maturato e purificato: Ha capito che cosa è vivere. Certamente anche in futuro la sua vita non sarà facile, le tentazioni ritorneranno, ma egli è ormai pienamente consapevole che una vita senza Dio non funziona: manca l’essenziale, manca la luce, manca il perché, manca il grande senso dell’essere uomo. Ha capito che Dio possiamo conoscerlo solo sulla base delle sua Parola. Noi cristiani possiamo aggiungere che sappiamo chi è Dio da Gesù, nel quale ci si è mostrato realmente il volto di Dio). Il giovane capisce che i Comandamenti di Dio non sono ostacoli per la libertà e per una vita bella, ma sono gli indicatori della strada su cui camminare per trovare la vita. Capisce che anche il lavoro, la disciplina l’impegnarsi non per sé, ma per gli altri allarga la vita. E proprio questa fatica di impegnarsi nel lavoro dà profondità alla vita, perché si sperimenta la soddisfazione di aver alla fine contribuito a fare crescere questo mondo che diventa più libero e più bello.

Non vorrei adesso parlare dell’altro figlio che è rimasto a casa, ma nella sua reazione di invidia vediamo che interiormente anche lui sognava che sarebbe forse molto meglio prendersi tutte le libertà. Anche lui nel suo intimo deve “ritornare a casa” e capire di nuovo che cosa è la vita, capire che si vive veramente solo con Dio, con la sua Parola, nella comunione della propria famiglia, del lavoro; nella comunione della grande Famiglia di Dio. Non vorrei adesso entrare in questi dettagli: lasciamo che ognuno di noi abbia il suo modo di applicare questo Vangelo a sé. Le situazioni nostre sono diverse e ognuno ha il suo mondo. Questo non toglie che siamo tutti toccati e tutti possiamo entrare con il nostro cammino interiore nella profondità del Vangelo.

Solo alcune piccole osservazioni, ancora. Il Vangelo ci aiuta a capire chi è veramente Dio: Egli è il Padre misericordioso che in Gesù ci ama oltre ogni misura. Gli errori che commettiamo, anche se grandi, non intaccano la fedeltà del suo amore. Nel sacramento della confessione possiamo sempre di nuovo ripartire con la vita: Egli ci accoglie, ci restituisce la dignità di figli suoi. Riscopriamo quindi questo sacramento del perdono che fa sgorgare la gioia in un cuore rinato alla vita vera.

Inoltre questa parabola ci aiuta a capire chi è l’uomo: non è una “monade”, un’entità isolata che vive solo per se stessa e deve avere la vita solo per se stessa. Al contrario, noi viviamo con gli altri, siamo creati insieme con gli altri e solo nello stare con gli altri, nel donarci agli altri troviamo la vita. L’uomo è una creatura in cui Dio ha impresso la sua immagine, una creatura che è attratta nell’orizzonte della sua Grazia, ma è anche una creatura fragile, esposta al male; capace però anche di bene. E finalmente l’uomo è una persona libera. Dobbiamo capire che cosa è la libertà e cosa è solo l’apparenza della libertà. La libertà, potremmo dire, è un trampolino di lancio per tuffarsi nel mare infinito della bontà divina, ma può diventare anche un piano inclinato sul quale scivolare verso l’abisso del peccato e del male e perdere così anche la libertà e la nostra dignità.

Cari amici, siamo nel tempo della Quaresima, dei quaranta giorni prima della Pasqua. In questo tempo di Quaresima la Chiesa ci aiuta a fare questo cammino interiore e ci invita alla conversione che, prima di essere uno sforzo sempre importante per cambiare i nostri comportamenti, è un’opportunità per decidere di alzarci e ripartire, abbandonare cioè il peccato e scegliere di tornare a Dio. Facciamo - questo è l’imperativo della Quaresima - facciamo insieme questo cammino di liberazione interiore. Ogni volta che, come oggi, partecipiamo all’Eucaristia, fonte e scuola dell’amore, diventiamo capaci di vivere questo amore, di annunziarlo e di testimoniarlo con la nostra vita. Occorre però che decidiamo di andare verso Gesù, come ha fatto il figlio prodigo, ritornando interiormente ed esteriormente dal padre. Al tempo stesso dobbiamo abbandonare l’atteggiamento egoista del figlio maggiore sicuro di sé, che condanna facilmente gli altri, chiude il cuore alla comprensione, all’accoglienza e al perdono dei fratelli e dimentica che anche lui ha bisogno del perdono. Ci ottengano questo dono Maria Vergine e san Giuseppe, il mio patrono, la cui festa sarà domani, e che ora invoco in modo particolare per ciascuno di voi e per le persone a voi care.



VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SANTA FELICITA E FIGLI MARTIRI

V Domenica di Quaresima, 25 marzo 2007

25307
Cari fratelli e sorelle
della Parrocchia di santa Felicita e figli martiri!

Sono venuto volentieri a farvi visita in questa V Domenica di Quaresima. A voi tutti il mio cordiale saluto. Innanzitutto rivolgo il mio pensiero al Cardinale Vicario e al Vescovo Ausiliare Mons. Enzo Dieci. Saluto poi con affetto i Padri Vocazionisti, ai quali è affidata la Parrocchia fin dal suo nascere, nel 1958, ed in modo speciale il vostro parroco, don Eusebio Mosca, che ringrazio per le gentili parole con cui mi ha brevemente presentato la realtà della vostra comunità. Saluto gli altri sacerdoti, i religiosi, le religiose, i catechisti, i laici impegnati e quanti offrono in diverse maniere il proprio contributo alle molteplici attività della Parrocchia - pastorali, educative e di promozione umana - dirette con una attenzione prioritaria ai bambini, ai giovani e alle famiglie. Saluto la comunità filippina, abbastanza numerosa nel vostro territorio, che qui si raccoglie ogni domenica per la santa Messa celebrata nella propria lingua. Estendo il mio saluto a tutti gli abitanti del quartiere Fidene, formato in misura crescente da persone che provengono da altre regioni d’Italia e da diversi Paesi del mondo.

Qui, come altrove, non mancano certo situazioni di disagio sia materiale che morale, situazioni che domandano a voi, cari amici, un impegno costante per testimoniare che l’amore di Dio, manifestatosi appieno in Cristo crocifisso e risorto, abbraccia in modo concreto tutti senza distinzione di razza e cultura. Questa è in fondo la missione di ogni comunità parrocchiale, chiamata ad annunciare il Vangelo e ad essere luogo di accoglienza e di ascolto, di formazione e di condivisione fraterna, di dialogo e di perdono. Come può una comunità cristiana mantenersi fedele a questo suo mandato? Come può diventare sempre più una famiglia di fratelli animati dall’Amore? La parola di Dio che poc’anzi abbiamo ascoltato, e che risuona con singolare eloquenza nel nostro cuore durante questo tempo quaresimale, ci ricorda che il nostro pellegrinaggio terreno è irto di difficoltà e di prove, come il cammino del popolo eletto nel deserto prima di giungere alla terra promessa. Ma l’intervento divino, assicura Isaia nella prima Lettura, può renderlo facile, trasformando la steppa in un paese confortevole e ricco di acque (cfr
Is 43,19-20). Al profeta fa eco il Salmo responsoriale: mentre richiama la gioia del ritorno dall’esilio babilonese, invoca il Signore perché intervenga a favore dei "prigionieri" che nell’andare vanno piangendo, ma nel tornare sono pieni di giubilo perché Iddio è presente, e come in passato, compirà anche in futuro "grandi cose per noi".

Questa stessa consapevolezza deve animare ogni comunità cristiana fornita dal suo Signore di abbondanti provviste spirituali per attraversare il deserto di questo mondo e trasformarlo in un fertile giardino. Queste provviste sono l’ascolto docile della sua Parola, i Sacramenti e ogni altra risorsa spirituale della liturgia e della preghiera personale. In definitiva, la vera provvista è il suo amore. L’amore che spinse Gesù ad immolarsi per noi, ci trasforma e ci rende a nostra volta capaci di seguirlo fedelmente. Sulla scia di quanto la liturgia ci ha proposto la scorsa domenica, l’odierna pagina evangelica ci aiuta a capire che solo l’amore di Dio può cambiare dal di dentro l’esistenza dell’uomo e conseguentemente di ogni società, perché solo il suo amore infinito lo libera dal peccato, che è la radice di ogni male. Se è vero che Dio è giustizia, non bisogna dimenticare che Egli è soprattutto amore: se odia il peccato, è perché ama infinitamente ogni persona umana. Ama ognuno di noi e la sua fedeltà è così profonda da non lasciarsi scoraggiare nemmeno dal nostro rifiuto. In particolare oggi Gesù ci provoca alla conversione interiore: ci spiega perché Egli perdona e ci insegna a fare del perdono ricevuto e donato ai fratelli il "pane quotidiano" della nostra esistenza.

Il brano evangelico narra l’episodio della donna adultera in due suggestive scene: nella prima assistiamo a una disputa tra Gesù e gli scribi e i farisei riguardo a una donna sorpresa in flagrante adulterio e, secondo la prescrizione contenuta nel Libro del Levitico (cfr Lv 20,10), condannata alla lapidazione. Nella seconda scena si snoda un breve e commovente dialogo tra Gesù e la peccatrice. Gli spietati accusatori della donna, citando la legge di Mosè provocano Gesù – lo chiamano "maestro" (Didáskale)- chiedendogli se sia giusto lapidarla. Conoscono la sua misericordia e il suo amore per i peccatori e sono curiosi di vedere come se la caverà in un caso del genere, che secondo la legge mosaica non presentava dubbi. Ma Gesù si mette subito dalla parte della donna; in primo luogo scrivendo per terra parole misteriose, che l’evangelista non rivela, e poi pronunciando quella frase diventata famosa:"Chi di voi è senza peccato (usa il termine anamártetos, che viene utilizzato nel Nuovo Testamento soltanto qui), scagli per primo la pietra contro di lei" (Jn 8,7). Nota sant’Agostino che "il Signore, rispondendo, rispetta la legge e non abbandona la sua mansuetudine". Ed aggiunge che con queste sue parole obbliga gli accusatori a entrare dentro se stessi e guardando se stessi a scoprirsi peccatori. Per cui,"colpiti da queste parole come da una freccia grossa quanto una trave, uno dopo l’altro se ne andarono" (In Io. Ev. tract 33,5).

Uno dopo l’altro, dunque, gli accusatori che avevano voluto provocare Gesù, se ne vanno "cominciando dai più anziani fino agli ultimi". Quando tutti sono partiti il divino Maestro resta solo con la donna. Conciso ed efficace il commento di sant’Agostino: "relicti sunt duo: misera et misericordia, restano solo loro due, la misera e la misericordia" (Ibid.). Fermiamoci, cari fratelli e sorelle, a contemplare questa scena dove si trovano a confronto la miseria dell’uomo e la misericordia divina, una donna accusata di un grande peccato e Colui, che pur essendo senza peccato, si è addossato i peccati del mondo intero. Egli, che era rimasto chinato a scrivere nella polvere, ora alza gli occhi ed incontra quelli della donna. Non chiede spiegazioni, non esige scuse. Non è ironico quando le domanda: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?" (Jn 8,10). Ed è sconvolgente nella sua replica: "Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più" (Jn 8,11). Ancora sant’Agostino, nel suo commento, osserva: "Il Signore condanna il peccato, non il peccatore. Infatti, se avesse tollerato il peccato avrebbe detto: Neppure io ti condanno, va’, vivi come vuoi… per quanto grandi siano i tuoi peccati, io ti libererò da ogni pena e da ogni sofferenza. Ma non disse così"(Io. Ev. tract. 33,6)

Cari amici, dalla parola di Dio che abbiamo ascoltato emergono indicazioni concrete per la nostra vita. Gesù non intavola con i suoi interlocutori una discussione teorica: non gli interessa vincere una disputa a proposito di un’interpretazione della legge mosaica, ma il suo obbiettivo è salvare un’anima e rivelare che la salvezza si trova solo nell’amore di Dio. Per questo è venuto sulla terra, per questo morirà in croce ed il Padre lo risusciterà il terzo giorno. E’ venuto Gesù per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l’inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore. Anche in questo episodio, dunque, comprendiamo che il vero nostro nemico è l’attaccamento al peccato, che può condurci al fallimento della nostra esistenza. Gesù congeda la donna adultera con questa consegna: "Va e d’ora in poi non peccare più". Le concede il perdono affinché "d’ora in poi" non pecchi più. In un episodio analogo, quello della peccatrice pentita che troviamo nel Vangelo di Luca (Lc 7,36-50) Egli accoglie e rimanda in pace una donna che si è pentita. Qui, invece, l’adultera riceve il perdono in mondo incondizionato. In entrambi i casi – per la peccatrice pentita e per l’adultera – il messaggio é unico. In un caso si sottolinea che non c’è perdono senza pentimento; qui si pone in evidenza che solo il perdono divino e il suo amore ricevuto con cuore aperto e sincero ci danno la forza di resistere al male e di "non peccare più". L’atteggiamento di Gesù diviene in tal modo un modello da seguire per ogni comunità, chiamata a fare dell’amore e del perdono il cuore pulsante della sua vita.

Cari fratelli e sorelle, nel cammino quaresimale che stiamo percorrendo e che si avvia rapidamente al suo termine, ci accompagni la certezza che Iddio non ci abbandona mai e che il suo amore è sorgente di gioia e di pace; è forza che ci spinge potentemente sulla strada della santità, se necessario anche sino al martirio. Così avvenne per i figli e poi per la coraggiosa madre Felicita, patroni della vostra Parrocchia. Per loro intercessione vi conceda il Signore di incontrare sempre più in profondità Cristo e di seguirlo con docile fedeltà perché, come avvenne per l’apostolo Paolo, anche voi possiate con sincerità proclamare: "Tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo" (Ph 3,8). L’esempio e l’intercessione di questi santi siano per voi un costante incoraggiamento a seguire il sentiero del Vangelo senza esitazioni e senza compromessi. Vi ottenga questa generosa fedeltà la Vergine Maria, che domani contempleremo nel mistero dell’Annunciazione e alla quale affido tutti voi e l’intera popolazione di questa borgata di Fidene. Amen.


Benedetto XVI Omelie 25107