Benedetto XVI Omelie 50407


SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

Basilica di San Giovanni in Laterano, Giovedì Santo, 5 aprile 2007

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Cari fratelli e sorelle,

nella lettura dal Libro dell’Esodo, che abbiamo appena ascoltato, viene descritta la celebrazione della Pasqua di Israele così come nella Legge mosaica aveva trovato la sua forma vincolante. All’origine può esserci stata una festa di primavera dei nomadi. Per Israele, tuttavia, ciò si era trasformato in una festa di commemorazione, di ringraziamento e, allo stesso tempo, di speranza. Al centro della cena pasquale, ordinata secondo determinate regole liturgiche, stava l’agnello come simbolo della liberazione dalla schiavitù in Egitto. Per questo l’haggadah pasquale era parte integrante del pasto a base di agnello: il ricordo narrativo del fatto che era stato Dio stesso a liberare Israele “a mano alzata”. Egli, il Dio misterioso e nascosto, si era rivelato più forte del faraone con tutto il potere che aveva a sua disposizione. Israele non doveva dimenticare che Dio aveva personalmente preso in mano la storia del suo popolo e che questa storia era continuamente basata sulla comunione con Dio. Israele non doveva dimenticarsi di Dio.

La parola della commemorazione era circondata da parole di lode e di ringraziamento tratte dai Salmi. Il ringraziare e benedire Dio raggiungeva il suo culmine nella berakha, che in greco è detta eulogia o eucaristia: il benedire Dio diventa benedizione per coloro che benedicono. L’offerta donata a Dio ritorna benedetta all’uomo. Tutto ciò ergeva un ponte dal passato al presente e verso il futuro: ancora non era compiuta la liberazione di Israele. Ancora la nazione soffriva come piccolo popolo nel campo delle tensioni tra le grandi potenze. Il ricordarsi con gratitudine dell’agire di Dio nel passato diventava così al contempo supplica e speranza: Porta a compimento ciò che hai cominciato! Donaci la libertà definitiva!

Questa cena dai molteplici significati Gesù celebrò con i suoi la sera prima della sua Passione. In base a questo contesto dobbiamo comprendere la nuova Pasqua, che Egli ci ha donato nella Santa Eucaristia. Nei racconti degli evangelisti esiste un’apparente contraddizione tra il Vangelo di Giovanni, da una parte, e ciò che, dall’altra, ci comunicano Matteo, Marco e Luca. Secondo Giovanni, Gesù morì sulla croce precisamente nel momento in cui, nel tempio, venivano immolati gli agnelli pasquali. La sua morte e il sacrificio degli agnelli coincisero. Ciò significa, però, che Egli morì alla vigilia della Pasqua e quindi non poté personalmente celebrare la cena pasquale – questo, almeno, è ciò che appare. Secondo i tre Vangeli sinottici, invece, l’Ultima Cena di Gesù fu una cena pasquale, nella cui forma tradizionale Egli inserì la novità del dono del suo corpo e del suo sangue. Questa contraddizione fino a qualche anno fa sembrava insolubile. La maggioranza degli esegeti era dell’avviso che Giovanni non aveva voluto comunicarci la vera data storica della morte di Gesù, ma aveva scelto una data simbolica per rendere così evidente la verità più profonda: Gesù è il nuovo e vero agnello che ha sparso il suo sangue per tutti noi.

La scoperta degli scritti di Qumran ci ha nel frattempo condotto ad una possibile soluzione convincente che, pur non essendo ancora accettata da tutti, possiede tuttavia un alto grado di probabilità. Siamo ora in grado di dire che quanto Giovanni ha riferito è storicamente preciso. Gesù ha realmente sparso il suo sangue alla vigilia della Pasqua nell’ora dell’immolazione degli agnelli. Egli però ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il calendario di Qumran, quindi almeno un giorno prima – l’ha celebrata senza agnello, come la comunità di Qumran, che non riconosceva il tempio di Erode ed era in attesa del nuovo tempio. Gesù dunque ha celebrato la Pasqua senza agnello – no, non senza agnello: in luogo dell’agnello ha donato se stesso, il suo corpo e il suo sangue. Così ha anticipato la sua morte in modo coerente con la sua parola: “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso” (
Jn 10,18). Nel momento in cui porgeva ai discepoli il suo corpo e il suo sangue, Egli dava reale compimento a questa affermazione. Ha offerto Egli stesso la sua vita. Solo così l’antica Pasqua otteneva il suo vero senso.

San Giovanni Crisostomo, nelle sue catechesi eucaristiche ha scritto una volta: Che cosa stai dicendo, Mosè? Il sangue di un agnello purifica gli uomini? Li salva dalla morte? Come può il sangue di un animale purificare gli uomini, salvare gli uomini, avere potere contro la morte? Di fatto – continua il Crisostomo – l’agnello poteva costituire solo un gesto simbolico e quindi l’espressione dell’attesa e della speranza in Qualcuno che sarebbe stato in grado di compiere ciò di cui il sacrificio di un animale non era capace. Gesù celebrò la Pasqua senza agnello e senza tempio e, tuttavia, non senza agnello e senza tempio. Egli stesso era l’Agnello atteso, quello vero, come aveva preannunciato Giovanni Battista all’inizio del ministero pubblico di Gesù: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” (Jn 1,29). Ed è Egli stesso il vero tempio, il tempio vivente, nel quale abita Dio e nel quale noi possiamo incontrare Dio ed adorarlo. Il suo sangue, l’amore di Colui che è insieme Figlio di Dio e vero uomo, uno di noi, quel sangue può salvare. Il suo amore, quell’amore in cui Egli si dona liberamente per noi, è ciò che ci salva. Il gesto nostalgico, in qualche modo privo di efficacia, che era l’immolazione dell’innocente ed immacolato agnello, ha trovato risposta in Colui che per noi è diventato insieme Agnello e Tempio.

Così al centro della Pasqua nuova di Gesù stava la Croce. Da essa veniva il dono nuovo portato da Lui. E così essa rimane sempre nella Santa Eucaristia, nella quale possiamo celebrare con gli Apostoli lungo il corso dei tempi la nuova Pasqua. Dalla croce di Cristo viene il dono. “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso”. Ora Egli la offre a noi. L’haggadah pasquale, la commemorazione dell’agire salvifico di Dio, è diventata memoria della croce e risurrezione di Cristo – una memoria che non ricorda semplicemente il passato, ma ci attira entro la presenza dell’amore di Cristo. E così la berakha, la preghiera di benedizione e ringraziamento di Israele, è diventata la nostra celebrazione eucaristica, in cui il Signore benedice i nostri doni – pane e vino – per donare in essi se stesso. Preghiamo il Signore di aiutarci a comprendere sempre più profondamente questo mistero meraviglioso, ad amarlo sempre di più e in esso amare sempre di più Lui stesso. Preghiamolo di attirarci con la santa comunione sempre di più in se stesso. Preghiamolo di aiutarci a non trattenere la nostra vita per noi stessi, ma a donarla a Lui e così ad operare insieme con Lui, affinché gli uomini trovino la vita – la vita vera che può venire solo da Colui che è Egli stesso la Via, la Verità e la Vita. Amen.



VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA

Basilica Vaticana, Sabato Santo, 7 aprile 2007

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Cari fratelli e sorelle!

Dai tempi più antichi la liturgia del giorno di Pasqua comincia con le parole: Resurrexi et adhuc tecum sum – sono risorto e sono sempre con te; tu hai posto su di me la tua mano. La liturgia vi vede la prima parola del Figlio rivolta al Padre dopo la risurrezione, dopo il ritorno dalla notte della morte nel mondo dei viventi. La mano del Padre lo ha sorretto anche in questa notte, e così Egli ha potuto rialzarsi, risorgere.

La parola è tratta dal Salmo 138 e lì ha inizialmente un significato diverso. Questo Salmo è un canto di meraviglia per l’onnipotenza e l’onnipresenza di Dio, un canto di fiducia in quel Dio che non ci lascia mai cadere dalle sue mani. E le sue mani sono mani buone. L’orante immagina un viaggio attraverso tutte le dimensioni dell’universo – che cosa gli accadrà? “Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra…», nemmeno le tenebre per te sono oscure … per te le tenebre sono come luce” (
Ps 139,8-12 [138],8-12).

Nel giorno di Pasqua la Chiesa ci dice: Gesù Cristo ha compiuto per noi questo viaggio attraverso le dimensioni dell’universo. Nella Lettera agli Efesini leggiamo che Egli è disceso nelle regioni più basse della terra e che Colui che è disceso è il medesimo che è anche asceso al di sopra di tutti i cieli per riempire l’universo (cfr Ep 4,9 s). Così la visione del Salmo è diventata realtà. Nell’oscurità impenetrabile della morte Egli è entrato come luce – la notte divenne luminosa come il giorno, e le tenebre divennero luce. Perciò la Chiesa giustamente può considerare la parola di ringraziamento e di fiducia come parola del Risorto rivolta al Padre: “Sì, ho fatto il viaggio fin nelle profondità estreme della terra, nell’abisso della morte e ho portato la luce; e ora sono risorto e sono per sempre afferrato dalle tue mani”. Ma questa parola del Risorto al Padre è diventata anche una parola che il Signore rivolge a noi: “Sono risorto e ora sono sempre con te”, dice a ciascuno di noi. La mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani. Sono presente perfino alla porta della morte. Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là ti aspetto io e trasformo per te le tenebre in luce.

Questa parola del Salmo, letta come colloquio del Risorto con noi, è allo stesso tempo una spiegazione di ciò che succede nel Battesimo. Il Battesimo, infatti, è più di un lavacro, di una purificazione. È più dell’assunzione in una comunità. È una nuova nascita. Un nuovo inizio della vita. Il passo della Lettera ai Romani, che abbiamo appena ascoltato, dice con parole misteriose che nel Battesimo siamo stati “innestati” nella somiglianza con la morte di Cristo. Nel Battesimo ci doniamo a Cristo – Egli ci assume in sé, affinché poi non viviamo più per noi stessi, ma grazie a Lui, con Lui e in Lui; affinché viviamo con Lui e così per gli altri. Nel Battesimo abbandoniamo noi stessi, deponiamo la nostra vita nelle sue mani, così da poter dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Se in questo modo ci doniamo, accettando una specie di morte del nostro io, allora ciò significa anche che il confine tra morte e vita diventa permeabile. Al di qua come al di là della morte siamo con Cristo e per questo, da quel momento in avanti, la morte non è più un vero confine. Paolo ce lo dice in modo molto chiaro nella sua Lettera ai Filippesi: “Per me il vivere è Cristo. Se posso essere presso di Lui (cioè se muoio) è un guadagno. Ma se rimango in questa vita, posso ancora portare frutto. Così sono messo alle strette tra queste due cose: essere sciolto – cioè essere giustiziato – ed essere con Cristo, sarebbe assai meglio; ma rimanere in questa vita è più necessario per voi” (cfr Ph 1,21 ss). Di qua e di là del confine della morte egli è con Cristo – non esiste più una vera differenza. Sì, è vero: “Alle spalle e di fronte tu mi circondi. Sempre sono nelle tue mani”. Ai Romani Paolo ha scritto: “Nessuno … vive per se stesso e nessuno muore per se stesso … sia che viviamo, sia che moriamo, siamo … del Signore” (Rm 14,7 s).

Cari battezzandi, è questa la novità del Battesimo: la nostra vita appartiene a Cristo, non più a noi stessi. Ma proprio per questo non siamo soli neppure nella morte, ma siamo con Lui che vive sempre. Nel Battesimo, insieme con Cristo, abbiamo già fatto il viaggio cosmico fin nelle profondità della morte. Accompagnati da Lui, anzi, accolti da Lui nel suo amore, siamo liberi dalla paura. Egli ci avvolge e ci porta, ovunque andiamo – Egli che è la Vita stessa.

Ritorniamo ancora alla notte del Sabato Santo. Nel Credo professiamo circa il cammino di Cristo: “Discese agli inferi”. Che cosa accadde allora? Poiché non conosciamo il mondo della morte, possiamo figurarci questo processo del superamento della morte solo mediante immagini che rimangono sempre poco adatte. Con tutta la loro insufficienza, tuttavia, esse ci aiutano a capire qualcosa del mistero. La liturgia applica alla discesa di Gesù nella notte della morte la parola del Salmo 23 [Ps 24]: “Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche!” La porta della morte è chiusa, nessuno può tornare indietro da lì. Non c’è una chiave per questa porta ferrea. Cristo, però, ne possiede la chiave. La sua Croce spalanca le porte della morte, le porte irrevocabili. Esse ora non sono più invalicabili. La sua Croce, la radicalità del suo amore è la chiave che apre questa porta. L’amore di Colui che, essendo Dio, si è fatto uomo per poter morire – questo amore ha la forza per aprire la porta. Questo amore è più forte della morte. Le icone pasquali della Chiesa orientale mostrano come Cristo entra nel mondo dei morti. Il suo vestito è luce, perché Dio è luce. “La notte è chiara come il giorno, le tenebre sono come luce” (cfr Ps 139,12 [138],12). Gesù che entra nel mondo dei morti porta le stimmate: le sue ferite, i suoi patimenti sono diventati potenza, sono amore che vince la morte. Egli incontra Adamo e tutti gli uomini che aspettano nella notte della morte. Alla loro vista si crede addirittura di udire la preghiera di Giona: “Dal profondo degli inferi ho gridato, e tu hai ascoltato la mia voce” (Jon 2,3). Il Figlio di Dio nell’incarnazione si è fatto una cosa sola con l’essere umano – con Adamo. Ma solo in quel momento, in cui compie l’atto estremo dell’amore discendendo nella notte della morte, Egli porta a compimento il cammino dell’incarnazione. Mediante il suo morire Egli prende per mano Adamo, tutti gli uomini in attesa e li porta alla luce.

Ora, tuttavia, si può domandare: Ma che cosa significa questa immagine? Quale novità è lì realmente accaduta per mezzo di Cristo? L’anima dell’uomo, appunto, è di per sé immortale fin dalla creazione – che cosa di nuovo ha portato Cristo? Sì, l’anima è immortale, perché l’uomo in modo singolare sta nella memoria e nell’amore di Dio, anche dopo la sua caduta. Ma la sua forza non basta per elevarsi verso Dio. Non abbiamo ali che potrebbero portarci fino a tale altezza. E tuttavia, nient’altro può appagare l’uomo eternamente, se non l’essere con Dio. Un’eternità senza questa unione con Dio sarebbe una condanna. L’uomo non riesce a giungere in alto, ma anela verso l’alto: “Dal profondo grido a te…” Solo il Cristo risorto può portarci su fino all’unione con Dio, fin dove le nostre forze non possono arrivare. Egli prende davvero la pecora smarrita sulle sue spalle e la porta a casa. Aggrappati al suo Corpo noi viviamo, e in comunione con il suo Corpo giungiamo fino al cuore di Dio. E solo così è vinta la morte, siamo liberi e la nostra vita è speranza.

È questo il giubilo della Veglia Pasquale: noi siamo liberi. Mediante la risurrezione di Gesù l’amore si è rivelato più forte della morte, più forte del male. L’amore Lo ha fatto discendere ed è al contempo la forza nella quale Egli ascende. La forza per mezzo della quale ci porta con sé. Uniti col suo amore, portati sulle ali dell’amore, come persone che amano scendiamo insieme con Lui nelle tenebre del mondo, sapendo che proprio così saliamo anche con Lui. Preghiamo quindi in questa notte: Signore, dimostra anche oggi che l’amore è più forte dell’odio. Che è più forte della morte. Discendi anche nelle notti e negli inferi di questo nostro tempo moderno e prendi per mano coloro che aspettano. Portali alla luce! Sii anche nelle mie notti oscure con me e conducimi fuori! Aiutami, aiutaci a scendere con te nel buio di coloro che sono in attesa, che gridano dal profondo verso di te! Aiutaci a portarvi la tua luce! Aiutaci ad arrivare al “sì” dell’amore, che ci fa discendere e proprio così salire insieme con te! Amen.


CAPPELLA PAPALE IN OCCASIONE DELL’ 80° GENETLIACO DEL SANTO PADRE

Piazza San Pietro, Seconda Domenica di Pasqua, 15 aprile 2007

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Cari fratelli e sorelle,

secondo una vecchia tradizione, l’odierna domenica prende il nome di Domenica "in Albis". In questo giorno, i neofiti della veglia pasquale indossavano ancora una volta la loro veste bianca, simbolo della luce che il Signore aveva loro donato nel Battesimo. In seguito avrebbero poi deposto la veste bianca, ma la nuova luminosità ad essi comunicata la dovevano introdurre nella loro quotidianità; la fiamma delicata della verità e del bene che il Signore aveva acceso in loro, la dovevano custodire diligentemente per portare così in questo nostro mondo qualcosa della luminosità e della bontà di Dio.

Il Santo Padre Giovanni Paolo II volle che questa domenica fosse celebrata come la Festa della Divina Misericordia: nella parola "misericordia", egli trovava riassunto e nuovamente interpretato per il nostro tempo l’intero mistero della Redenzione. Egli visse sotto due regimi dittatoriali e, nel contatto con povertà, necessità e violenza, sperimentò profondamente la potenza delle tenebre, da cui è insidiato il mondo anche in questo nostro tempo. Ma sperimentò pure, e non meno fortemente, la presenza di Dio che si oppone a tutte queste forze con il suo potere totalmente diverso e divino: con il potere della misericordia. È la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura tutta peculiare di Dio – la sua santità, il potere della verità e dell’amore. Due anni orsono, dopo i primi Vespri di questa Festività, Giovanni Paolo II terminava la sua esistenza terrena. Morendo egli è entrato nella luce della Divina Misericordia di cui, al di là della morte e a partire da Dio, ora ci parla in modo nuovo. Abbiate fiducia – egli ci dice – nella Divina Misericordia! Diventate giorno per giorno uomini e donne della misericordia di Dio! La misericordia è la veste di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo. Non dobbiamo lasciare che questa luce si spenga; al contrario essa deve crescere in noi ogni giorno e così portare al mondo il lieto annuncio di Dio.

Proprio in questi giorni particolarmente illuminati dalla luce della divina misericordia, cade una coincidenza per me significativa: posso volgere indietro lo sguardo su 80 anni di vita. Saluto quanti sono qui convenuti per celebrare con me questa ricorrenza. Saluto innanzitutto i Signori Cardinali, con un particolare pensiero di gratitudine al Decano del Collegio cardinalizio, il Signor Cardinale Angelo Sodano, che s’è fatto autorevole interprete dei comuni sentimenti. Saluto gli Arcivescovi e Vescovi, tra i quali gli Ausiliari della Diocesi di Roma, della mia Diocesi; saluto i Prelati e gli altri membri del Clero, i Religiosi e le Religiose e tutti i fedeli presenti. Un pensiero deferente e grato rivolgo inoltre alle Personalità politiche e ai membri del Corpo Diplomatico, che hanno voluto onorarmi con la loro presenza. Saluto infine, con fraterno affetto, l’inviato personale del Patriarca ecumenico Bartolomeo I, Sua Eminenza Ioannis, Metropolita di Pergamo, esprimendo apprezzamento per il gesto gentile e auspicando che il dialogo teologico cattolico-ortodosso possa proseguire con lena rinnovata.

Siamo qui raccolti per riflettere sul compiersi di un non breve periodo della mia esistenza. Ovviamente, la liturgia non deve servire per parlare del proprio io, di se stesso; tuttavia, la propria vita può servire per annunciare la misericordia di Dio. "Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto per me ha fatto", dice un Salmo (65 [
Ps 66,16). Ho sempre considerato un grande dono della Misericordia Divina che la nascita e la rinascita siano state a me concesse, per così dire insieme, nello stesso giorno, nel segno dell’inizio della Pasqua. Così, in uno stesso giorno, sono nato membro della mia propria famiglia e della grande famiglia di Dio. Sì, ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza di che cosa significa "famiglia"; ho potuto fare l’esperienza di che cosa vuol dire paternità, cosicché la parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibile dal di dentro; sulla base dell’esperienza umana mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo. Davanti a Lui noi portiamo una responsabilità, ma allo stesso tempo Egli ci dona la fiducia, perché nella sua giustizia traspare sempre la misericordia e la bontà con cui accetta anche la nostra debolezza e ci sorregge, così che man mano possiamo imparare a camminare diritti. Ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza profonda di che cosa significa bontà materna, sempre aperta a chi cerca rifugio e proprio così in grado di darmi la libertà. Ringrazio Dio per mia sorella e mio fratello che, con il loro aiuto, mi sono stati fedelmente vicini lungo il corso della vita. Ringrazio Dio per i compagni incontrati nel mio cammino, per i consiglieri e gli amici che Egli mi ha donato. Ringrazio in modo particolare perché, fin dal primo giorno, ho potuto entrare e crescere nella grande comunità dei credenti, nella quale è spalancato il confine tra vita e morte, tra cielo e terra; ringrazio per aver potuto apprendere tante cose attingendo alla sapienza di questa comunità, nella quale sono racchiuse non solo le esperienze umane fin dai tempi più remoti: la sapienza di questa comunità non è soltanto sapienza umana, ma in essa ci raggiunge la sapienza stessa di Dio – la Sapienza eterna.

Nella prima lettura di questa domenica ci viene raccontato che, agli albori della Chiesa nascente, la gente portava i malati nelle piazze, perché, quando Pietro passava, la sua ombra li coprisse: a quest’ombra si attribuiva una forza risanatrice. Quest’ombra, infatti, proveniva dalla luce di Cristo e perciò recava in sé qualcosa del potere della sua bontà divina. L’ombra di Pietro, mediante la comunità della Chiesa cattolica, ha coperto la mia vita fin dall’inizio, e ho appreso che essa è un’ombra buona – un’ombra risanatrice, perché, appunto, proviene in definitiva da Cristo stesso. Pietro era un uomo con tutte le debolezze di un essere umano, ma soprattutto era un uomo pieno di una fede appassionata in Cristo, pieno di amore per Lui. Per il tramite della sua fede e del suo amore la forza risanatrice di Cristo, la sua forza unificante, è giunta agli uomini pur frammista a tutta la debolezza di Pietro. Cerchiamo anche oggi l’ombra di Pietro, per stare nella luce di Cristo!

Nascita e rinascita; famiglia terrena e grande famiglia di Dio – è questo il grande dono delle molteplici misericordie di Dio, il fondamento sul quale ci appoggiamo. Proseguendo nel cammino della vita mi venne incontro poi un dono nuovo ed esigente: la chiamata al ministero sacerdotale. Nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1951, quando noi – c’erano oltre quaranta compagni – ci trovammo nella cattedrale di Frisinga prostrati sul pavimento e su di noi furono invocati tutti i santi, la consapevolezza della povertà della mia esistenza di fronte a questo compito mi pesava. Sì, era una consolazione il fatto che la protezione dei santi di Dio, dei vivi e dei morti, venisse invocata su di noi. Sapevo che non sarei rimasto solo. E quale fiducia infondevano le parole di Gesù, che poi durante la liturgia dell’Ordinazione potemmo ascoltare dalle labbra del Vescovo: "Non vi chiamo più servi, ma amici". Ho potuto farne un’esperienza profonda: Egli, il Signore, non è soltanto Signore, ma anche amico. Egli ha posto la sua mano su di me e non mi lascerà. Queste parole venivano allora pronunciate nel contesto del conferimento della facoltà di amministrare il Sacramento della riconciliazione e così, nel nome di Cristo, di perdonare i peccati. È la stessa cosa che oggi abbiamo ascoltato nel Vangelo: il Signore alita sui suoi discepoli. Egli concede loro il suo Spirito – lo Spirito Santo: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi…". Lo Spirito di Gesù Cristo è potenza di perdono. È potenza della Divina Misericordia. Dà la possibilità di iniziare da capo – sempre di nuovo. L’amicizia di Gesù Cristo è amicizia di Colui che fa di noi persone che perdonano, di Colui che perdona anche a noi, ci risolleva di continuo dalla nostra debolezza e proprio così ci educa, infonde in noi la consapevolezza del dovere interiore dell’amore, del dovere di corrispondere alla sua fiducia con la nostra fedeltà.

Nel brano evangelico di oggi abbiamo anche ascoltato il racconto dell’incontro dell’apostolo Tommaso col Signore risorto: all’apostolo viene concesso di toccare le sue ferite e così egli lo riconosce – lo riconosce, al di là dell’identità umana del Gesù di Nazaret, nella sua vera e più profonda identità: "Mio Signore e mio Dio!" (Jn 20,28). Il Signore ha portato con sé le sue ferite nell’eternità. Egli è un Dio ferito; si è lasciato ferire dall’amore verso di noi. Le ferite sono per noi il segno che Egli ci comprende e che si lascia ferire dall’amore verso di noi. Queste sue ferite – come possiamo noi toccarle nella storia di questo nostro tempo! Egli, infatti, si lascia sempre di nuovo ferire per noi. Quale certezza della sua misericordia e quale consolazione esse significano per noi! E quale sicurezza ci danno circa quello che Egli è: "Mio Signore e mio Dio!" E come costituiscono per noi un dovere di lasciarci ferire a nostra volta per Lui!

Le misericordie di Dio ci accompagnano giorno per giorno. Basta che abbiamo il cuore vigilante per poterle percepire. Siamo troppo inclini ad avvertire solo la fatica quotidiana che a noi, come figli di Adamo, è stata imposta. Se però apriamo il nostro cuore, allora possiamo, pur immersi in essa, constatare continuamente anche quanto Dio sia buono con noi; come Egli pensi a noi proprio nelle piccole cose, aiutandoci così a raggiungere quelle grandi. Con il peso accresciuto della responsabilità, il Signore ha portato anche nuovo aiuto nella mia vita. Ripetutamente vedo con gioia riconoscente quanto è grande la schiera di coloro che mi sostengono con la loro preghiera; che con la loro fede e con il loro amore mi aiutano a svolgere il mio ministero; che sono indulgenti con la mia debolezza, riconoscendo anche nell’ombra di Pietro la luce benefica di Gesù Cristo. Per questo vorrei in quest’ora ringraziare di cuore il Signore e tutti voi. Vorrei concludere questa omelia con la preghiera del santo Papa Leone Magno, quella preghiera che, proprio trent’anni fa, scrissi sull’immagine-ricordo della mia consacrazione episcopale: "Pregate il nostro buon Dio, affinché voglia nei nostri giorni rafforzare la fede, moltiplicare l’amore e aumentare la pace. Egli renda me, suo misero servo, sufficiente per il suo compito e utile per la vostra edificazione e mi conceda uno svolgimento del servizio tale che, insieme con il tempo donato, cresca la mia dedizione. Amen".


VISITA PASTORALE A VIGEVANO E PAVIA


CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA

Piazza Ducale, Vigevano, Sabato, 21 aprile 2007

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Cari fratelli e sorelle,

"Gettate la rete… e troverete!" (
Jn 21,6).

Abbiamo riascoltato queste parole di Gesù nel brano evangelico appena proclamato. Esse sono inserite nel racconto della terza apparizione del Risorto ai discepoli presso le rive del mare di Tiberiade, che narra la pesca miracolosa. Dopo lo "scandalo" della Croce essi erano tornati alla loro terra e al loro lavoro di pescatori, cioè a quelle attività che svolgevano prima di incontrare Gesù. Erano tornati alla vita di prima e questo fa intendere il clima di dispersione e di smarrimento che regnava nella loro comunità (cfr Mc 14,27 Mt 26,31). Era difficile per i discepoli comprendere ciò che era avvenuto. Ma, mentre tutto sembrava finito, di nuovo, come sulla via di Emmaus, è ancora Gesù a venire verso i suoi amici. Stavolta li incontra sul mare, luogo che richiama alla mente le difficoltà e le tribolazioni della vita; li incontra sul far del mattino, dopo un'inutile fatica durata l'intera notte. La loro rete è vuota. In certo modo, ciò appare come il bilancio della loro esperienza con Gesù: lo avevano conosciuto, gli erano stati accanto, ed Egli aveva loro promesso tante cose. Eppure ora si ritrovavano con la rete vuota di pesci.

Ma ecco che all'alba Gesù va loro incontro; essi però non lo riconoscono subito (cfr Jn 21,4). L'"alba" nella Bibbia indica spesso il momento di interventi straordinari di Dio. Nel Libro dell'Esodo, ad esempio, "alla veglia del mattino" il Signore interviene "dalla colonna di fuoco e di nube" per salvare il suo popolo in fuga dall'Egitto (cfr Ex 14,24). Ed ancora, è sul far del giorno che Maria Maddalena e le altre donne accorse al sepolcro incontrano il Signore risorto. Anche nel brano evangelico che stiamo meditando è ormai passata la notte e ai discepoli provati dalla fatica, delusi per non aver pescato nulla, il Signore dice: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete!" (Jn 21,6). Normalmente i pesci cadono nella rete durante la notte, quando è buio, e non di mattina, quando l'acqua è ormai trasparente. I discepoli però si fidarono di Gesù e il risultato fu una pesca miracolosamente abbondante, tanto che non riuscivano più a tirare su la rete per la grande quantità di pesci raccolti (cfr Jn 21,6). A questo punto Giovanni, illuminato dall'amore, si rivolge a Pietro e dice: "È il Signore!" (Jn 21,7). Lo sguardo perspicace del discepolo che Gesù amava - icona del credente - riconosce il Maestro presente sulla riva del lago. "È il Signore!": questa sua spontanea professione di fede è anche per noi un invito a proclamare che Cristo risorto è il Signore della nostra vita.

Cari fratelli e sorelle, possa questa sera la Chiesa che è in Vigevano ripetere con l'entusiasmo di Giovanni: Gesù Cristo "è il Signore!". E possa la vostra Comunità diocesana ascoltare il Signore che, per bocca mia, vi ripete: "Getta la rete, Chiesa di Vigevano, e troverai!". Sono venuto infatti tra voi soprattutto per incoraggiarvi ad essere ardimentosi testimoni di Cristo. È la fiduciosa adesione alla sua parola che renderà fruttuosi i vostri sforzi pastorali. Quando il lavoro nella vigna del Signore sembra risultare vano, come la fatica notturna degli Apostoli, non bisogna dimenticare che Gesù è in grado di ribaltare tutto in un momento. La pagina evangelica, che abbiamo ascoltato, ci ricorda, da una parte, che dobbiamo impegnarci nelle attività pastorali come se il risultato dipendesse totalmente dai nostri sforzi. Dall'altra, ci fa comprendere, però, che il vero successo della nostra missione totalmente è dono della Grazia. Nei misteriosi disegni della sua sapienza, Dio sa quando è il tempo di intervenire. Ed allora, come la docile adesione alla parola del Signore fece sì che si riempisse la rete dei discepoli, così in ogni tempo, anche nostro, lo Spirito del Signore può rendere efficace la missione della Chiesa nel mondo.

Cari fratelli e sorelle, con grande gioia mi trovo in mezzo a voi: vi ringrazio e saluto tutti cordialmente. Vi saluto come rappresentanti del Popolo di Dio raccolto in questa Chiesa particolare, che ha il suo centro spirituale nella Cattedrale, sul cui sagrato stiamo celebrando l'Eucaristia. Saluto con affetto il vostro Vescovo, Mons. Claudio Baggini, e lo ringrazio per le cordiali parole che mi ha rivolto all'inizio della Celebrazione; con lui saluto il Metropolita il Cardinale Dionigi Tettamanzi, i Vescovi lombardi e gli altri Presuli. Rivolgo uno speciale e caloroso saluto ai sacerdoti, complimentandomi per la generosità con cui svolgono il loro servizio ecclesiale, senza badare a fatiche e disagi. Estendo il mio saluto alle persone consacrate, agli operatori pastorali e a tutti i fedeli laici, la cui preziosa collaborazione è indispensabile per la vita delle varie comunità. Non può mancare un affettuoso pensiero per i seminaristi, che sono la speranza della Diocesi. Un saluto deferente va poi alle Autorità civili, alle quali sono grato per il significativo messaggio di cortesia che la loro presenza esprime. Il mio pensiero si dirige, infine, ai fedeli riuniti nelle varie parrocchie per seguire questo incontro mediante la televisione e a quanti partecipano a questa assemblea eucaristica nelle piazze e nelle strade adiacenti a questa suggestiva Piazza Ducale, a cui fa da sfondo l'artistica facciata del Duomo. Essa è stata ideata dall'illustre Vescovo di Vigevano Mons. Juan Caramuel, scienziato di fama europea, di cui avete ricordato solennemente nei mesi scorsi il 4° centenario della nascita. Questa facciata, dalla singolare architettura, congiunge armoniosamente il tempio alla piazza e al castello con la sua torre, simboleggiando così la sintesi mirabile di una tradizione in cui si intrecciano le due dimensioni essenziali della vostra Città: quella civile e quella religiosa.

"Gettate la rete... e troverete!" (Jn 21,6). Cara Comunità ecclesiale di Vigevano, che cosa significa in concreto l'invito di Cristo a "gettare la rete"? Significa in primo luogo, come per i discepoli, credere in Lui e fidarsi della sua parola. Anche a voi, come a loro, Gesù chiede di seguirlo con fede sincera e salda. Ponetevi pertanto in ascolto della sua parola e meditatela ogni giorno. Questo docile ascolto trova per voi concreta attuazione nelle decisioni dell'ultimo vostro Sinodo diocesano, conclusosi nel 1999. Al termine di quel cammino sinodale, l'amato Giovanni Paolo II, che vi incontrò il 17 aprile 1999 in un'Udienza speciale, ebbe ad esortarvi a "prendere il largo e a non avere paura di inoltrarvi in mare aperto" (Insegnamenti, XXII, 1, 1999, p. 764). Mai si spenga nei vostri cuori l'entusiasmo missionario suscitato nella vostra Comunità diocesana da quella provvidenziale Assise, ispirata e voluta dal compianto Vescovo Mons. Giovanni Locatelli, il quale aveva ardentemente auspicato una visita del Papa a Vigevano. Seguendo gli orientamenti fondamentali del Sinodo e le direttive del vostro attuale Pastore, restate uniti tra di voi ed apritevi ai vasti orizzonti dell'evangelizzazione.

Vi sia di costante guida questa parola del Signore: "Tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Jn 13,35). Portare i pesi gli uni degli altri, condividere, collaborare, sentirsi corresponsabili è lo spirito che deve costantemente animare la vostra Comunità. Questo stile di comunione esige il contributo di tutti: del Vescovo e dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose, dei fedeli laici, delle associazioni e dei vari gruppi di impegno apostolico. Le singole parrocchie, come tessere di un mosaico, in piena sintonia tra loro, formeranno una Chiesa particolare viva, organicamente inserita nell'intero Popolo di Dio. Un contributo indispensabile possono offrire all'evangelizzazione le associazioni, le comunità ed i gruppi laicali, sia per la formazione che per l'animazione spirituale, caritativa, sociale e culturale, operando sempre in armonia con la pastorale diocesana e secondo le indicazioni del Vescovo. Vi incoraggio poi a proseguire nel prendervi cura dei giovani, sia dei "vicini" come pure di quelli che chiamiamo "lontani". In questa prospettiva, non stancatevi di promuovere in modo organico e capillare una pastorale vocazionale che aiuti i giovani nella ricerca di un significato vero da dare alla propria esistenza. E che dire infine della famiglia? È l'elemento portante della vita sociale, per cui solo lavorando in favore delle famiglie si può rinnovare il tessuto della comunità ecclesiale - vedo che siamo d'accordo - e della stessa società civile.

Questa vostra Terra è ricca di tradizioni religiose, di fermenti spirituali e di un'operosa vita cristiana. Nel corso dei secoli la fede ne ha forgiato il pensiero, l'arte e la cultura, promuovendo solidarietà e rispetto della dignità umana. Espressione quanto mai eloquente di questo vostro ricco patrimonio cristiano sono le esemplari figure di sacerdoti e di laici i quali, con una proposta di vita radicata nel Vangelo e nell'insegnamento della Chiesa, hanno testimoniato, specialmente nella temperie sociale della fine dell''800 e dei primi decenni del '900, gli autentici valori evangelici, come valido sostegno di una convivenza libera e giusta, attenta in modo particolare ai più bisognosi. Questa luminosa eredità spirituale, riscoperta ed alimentata, non può non rappresentare un sicuro punto di riferimento per un efficace servizio all'uomo del nostro tempo e per un cammino di civiltà e di autentico progresso.

"Gettate la rete... e troverete!". Questo comando di Gesù è stato docilmente accolto dai santi e la loro esistenza ha sperimentato il miracolo di una pesca spirituale abbondante. Penso in modo speciale ai celesti vostri Patroni: sant'Ambrogio, san Carlo Borromeo, il beato Matteo Carreri. Penso pure a due illustri figli di questa Terra, dei quali è in corso la causa di beatificazione: il venerabile Francesco Pianzola, sacerdote animato da ardente spirito evangelico, che seppe andare incontro alle povertà spirituali del suo tempo con un coraggioso stile missionario, attento ai più lontani e particolarmente ai giovani; e il Servo di Dio Teresio Olivelli, laico di Azione Cattolica, morto a soli 29 anni nel campo di concentramento di Hersbruck, vittima sacrificale di una brutale violenza, alla quale egli oppose tenacemente l'ardore della carità. Queste due eccezionali figure di fedeli discepoli di Cristo costituiscono un segno eloquente delle meraviglie operate dal Signore nella Chiesa vigevanese. Rispecchiatevi in questi modelli, che rendono manifesta l'azione della Grazia e sono per il Popolo di Dio un incoraggiamento a seguire Cristo sul sentiero esigente della santità.

Cari fratelli e sorelle della diocesi di Vigevano! Il mio pensiero va, infine, alla Madre di Dio, che voi venerate con il titolo di Madonna della Bozzola. A Lei affido ogni vostra Comunità, perché ottenga una rinnovata effusione dello Spirito Santo su questa cara Diocesi. La faticosa ma sterile pesca notturna dei discepoli è ammonimento perenne per la Chiesa di tutti i tempi: da soli, senza Gesù, non possiamo fare nulla! Nell'impegno apostolico non bastano le nostre forze: senza la Grazia divina il nostro lavoro, pur ben organizzato, risulta inefficace. Preghiamo insieme perché la vostra Comunità diocesana sappia accogliere con gioia il mandato di Cristo e con rinnovata generosità sia pronta a "gettare" le reti. Sperimenterà allora certamente una pesca miracolosa, segno della potenza dinamica della parola e della presenza del Signore, che incessantemente conferisce al suo popolo una "rinnovata giovinezza dello Spirito" (Colletta).




Benedetto XVI Omelie 50407