Benedetto XVI Omelie 17067


CAPPELLA PAPALE PER LE ESEQUIE DEL SIGNOR CARDINALE ANGELO FELICI

Basilica Vaticana, Martedì, 19 giugno 2007

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Poc’anzi nel Vangelo abbiamo ascoltato queste parole di Cristo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (
Jn 6,54). Esse illuminano la nostra fede e sostengono la nostra speranza nel momento mesto e solenne che stiamo vivendo, mentre, raccolti attorno all’Altare, ci apprestiamo a dare l’ultimo saluto, con sentimenti di affetto e di fervida riconoscenza, al nostro venerato Fratello, il Cardinale Angelo Felici. Con lui e per lui vogliamo confessare, con particolare intensità, la consapevolezza che nell’Eucaristia siamo misteriosamente resi partecipi della morte e risurrezione del Signore, credendo fermamente che Dio prepara per i suoi servi buoni e fedeli il premio della vita che non avrà mai fine. E’ questa la fede che ha guidato la lunga e feconda esistenza sacerdotale del Cardinale Felici. Con questa fede egli ha celebrato il divino Sacrificio, cercando nell’Eucaristia il riferimento costante del suo itinerario spirituale; con questa fede ha attinto dall’Eucaristia la forza per svolgere il suo zelante lavoro nella vigna del Signore! Confidiamo che ora il Padre lo abbia accolto nella sua casa per partecipare al convito del cielo. Raccolti intorno all’Altare, preghiamo perché questo nostro fratello nel sacerdozio possa vedere faccia a faccia Gesù Cristo, il suo Signore (cfr 1Co 13,12), che sulla terra si è sforzato di servire con amore.

In questo momento risuona nel nostro animo con singolare eco l’esortazione dell’apostolo Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Jn 3,16). Potremo dire che queste parole sintetizzano in modo efficace l’intento profondo che ha orientato la vita e il ministero ecclesiale del compianto Cardinale. Originario dell’antica e nobile città di Segni, l’adolescente Angelo Felici rispose prontamente alla chiamata del Signore e fu accolto nel Pontificio Collegio Leoniano di Anagni, dove compì gli studi di filosofia e teologia. Ricevuto il Suddiaconato, venne subito orientato alla Pontificia Accademia Ecclesiastica e il 4 aprile 1942, non ancora ventitreenne, ricevette l’Ordinazione sacerdotale. La sua formazione intellettuale proseguì allora nel campo giuridico: frequentò i corsi Utriusque Iuris dell’Ateneo Lateranense e quindi passò all’Università Gregoriana, dove conseguì il Dottorato in Diritto Canonico.

Il suo sacerdozio sarà in pratica dedicato per intero a servire la Sede Apostolica, collaborando strettamente con il Successore di Pietro. Entrato infatti il 1° luglio del 1945 in Segreteria di Stato, acquisì una notevole esperienza circa i rapporti della Santa Sede con gli Stati, lavorando dapprima con il Cardinale Tardini e poi con il Cardinale Cicognani. Per questa sua competenza e per la sua provata fedeltà, il Servo di Dio Paolo VI lo nominò Sotto-Segretario di quella che si chiamava allora la Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari. In quello stesso periodo unì al servizio alla Santa Sede l’insegnamento dello stile diplomatico agli alunni della Pontificia Accademia Ecclesiastica fino a quando, nel luglio del 1967, fu eletto Arcivescovo e inviato come Pro-Nunzio Apostolico nei Paesi Bassi dove rimase per nove anni. Nel ’76 divenne Rappresentante Pontificio in Portogallo, dopo tre anni passò a Parigi e là ebbe in sorte di accogliere per ben tre volte l’amato Giovanni Paolo II, in occasione dei suoi pellegrinaggi apostolici in Francia. Richiamato nel 1988 a Roma, fu creato Cardinale con il Titolo dei Santi Biagio e Carlo ai Catinari, e divenne Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Servizio che il caro e venerato Cardinale Felici portò a compimento fino al ’95, per ricoprire in seguito il ruolo di Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei sino all’anno 2000.

Mi piace qui ricordare ciò che il Servo di Dio Giovanni Paolo II ebbe a scrivergli in occasione del suo 50° anniversario di Sacerdozio e 25° di Episcopato, ponendo in rilievo lo scrupoloso senso del dovere che lo contraddistingueva e la sua sollecita esecuzione delle direttive nell’affrontare i problemi e gli affari pubblici della Chiesa universale. Il suo ministero episcopale – affermava il Papa – è stato tutto dedicato al bene dei fedeli, alla missione benefica dei Romani Pontefici e della Sede Apostolica. Vogliamo ora rendere grazie al Signore per l’abbondante messe di frutti apostolici che egli, con l’aiuto della grazia divina, ha potuto raccogliere nei vari ambiti della sua illuminata e preziosa attività pastorale e diplomatica. Domandiamo al Buon Pastore che, riconoscendo la carità con cui il compianto Cardinale ha operato durante la sua lunga vita terrena, lo voglia ammettere a contemplare la luce radiosa del suo Volto glorioso.

Mentre pertanto ci apprestiamo a dare l’estremo commiato a questo nostro venerato Fratello, le parole del Libro della Sapienza, che sono state proclamate poco fa, ravvivino nel nostro cuore la luce della fiducia nel Dio della vita: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” (Sg 3,1). Sì, le anime degli amici di Dio riposano nella pace del suo cuore. Questa certezza, che sempre dobbiamo alimentare, ci sia costante ammonimento a restare vigili nell’orazione e a perseverare umilmente e fedelmente nel lavoro a servizio della Chiesa. Solo in Dio trova riposo l’anima del giusto; solo chi in Lui confida non sarà confuso in eterno. “In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum”.

Sicuramente il compianto Cardinale Angelo Felici ha atteso la morte e ad essa si è preparato con questo spirito e con questa consapevolezza. Tra le sue carte se ne è trovata commovente testimonianza. Una immaginetta, raffigurante la Mater Salvatoris, venerata nella Cappella del Pontificio Collegio Leoniano – luogo dei suoi studi giovanili –, reca a tergo questa invocazione: “In Te, o Signore, ho sperato, e nella tua Santissima Madre; che io non sia confuso in eterno”. Quante volte egli avrà ripetuto le parole di questa preghiera, scritta di suo pugno in previsione dell’ultima partenza! Possiamo considerarle come il testamento spirituale che egli ci lascia: parole che, meglio di ogni altra considerazione, quest’oggi ci aiutano a riflettere e a pregare. Il Cardinale Angelo Felici ha affidato la sua vita e la sua morte alla Madre del Salvatore e proprio a Lei vogliamo consegnare la sua anima. Maria che questo nostro Fratello ha amato ed invocato quale Madre tenera e premurosa, lo riceva adesso tra le sue braccia come figlio carissimo e lo accompagni all’incontro con Cristo, con Colui che “con la sua vittoria ci redime dalla morte e ci richiama con sé a vita nuova” (cfr Prefazio dei Defunti, V). Amen!


CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

Basilica di San Paolo Fuori le Mura, Giovedì, 28 giugno 2007

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Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

In questi Primi Vespri della Solennità dei santi Pietro e Paolo facciamo grata memoria di questi due Apostoli, il cui sangue, insieme a quello di tanti altri testimoni del Vangelo, ha reso feconda la Chiesa di Roma. Nel loro ricordo sono lieto di salutare tutti voi, cari fratelli e sorelle, a cominciare dal Signor Cardinale Arciprete e dagli altri Cardinali e Vescovi presenti, dal Padre Abate e dalla Comunità benedettina cui è affidata questa Basilica, fino agli ecclesiastici, alle religiose e ai religiosi e ai fedeli laici qui convenuti. Un saluto particolare dirigo alla Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ricambia la presenza della Delegazione della Santa Sede ad Istanbul, in occasione della festa di sant’Andrea. Come ho avuto modo di dire qualche giorno fa, questi incontri e iniziative non costituiscono semplicemente uno scambio di cortesie tra Chiese, ma vogliono esprimere il comune impegno di fare tutto il possibile per affrettare i tempi della piena comunione tra l’Oriente e l’Occidente cristiani. Con questi sentimenti, mi dirigo con deferenza ai Metropoliti Emmanuel e Gennadios, inviati dal caro Fratello Bartolomeo I, al quale rivolgo un pensiero grato e cordiale. Questa Basilica, che ha visto eventi di profondo significato ecumenico, ci ricorda quanto sia importante pregare insieme per implorare il dono dell’unità, quell’unità per la quale san Pietro e san Paolo hanno speso la loro esistenza sino al supremo sacrificio del sangue.

Un’antichissima tradizione, che risale ai tempi apostolici, narra che proprio a poca distanza da questo luogo avvenne l’ultimo loro incontro prima del martirio: i due si sarebbero abbracciati, benedicendosi a vicenda. E sul portale maggiore di questa Basilica essi sono raffigurati insieme, con le scene del martirio di entrambi. Fin dall’inizio, dunque, la tradizione cristiana ha considerato Pietro e Paolo inseparabili l’uno dall’altro, anche se ebbero ciascuno una missione diversa da compiere: Pietro per primo confessò la fede in Cristo, Paolo ottenne in dono di poterne approfondire la ricchezza. Pietro fondò la prima comunità dei cristiani provenienti dal popolo eletto, Paolo divenne l’apostolo dei pagani. Con carismi diversi operarono per un'unica causa: la costruzione della Chiesa di Cristo. Nell’Ufficio delle Letture, la liturgia offre alla nostra meditazione questo noto testo di sant’Agostino: “Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì... Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli” (Disc. 295, 7.8). E san Leone Magno commenta: “Dei loro meriti e delle loro virtù, superiori a quanto si possa dire, nulla dobbiamo pensare che li opponga, nulla che li divida, perché l’elezione li ha resi pari, la fatica simili e la fine uguali” (In natali apostol., 69, 6-7).

A Roma il legame che accomuna Pietro e Paolo nella missione, ha assunto sin dai primi secoli un significato molto specifico. Come la mitica coppia di fratelli Romolo e Remo, ai quali si faceva risalire la nascita di Roma, così Pietro e Paolo furono considerati i fondatori della Chiesa di Roma. Dice in proposito san Leone Magno rivolgendosi alla Città: “Sono questi i tuoi santi padri, i tuoi veri pastori, che per farti degna del regno dei cieli, hanno edificato molto più bene e più felicemente di coloro che si adoperarono per gettare le prime fondamenta delle tue mura”(Omelie 82,7). Per quanto umanamente diversi l’uno dall’altro, e benché il rapporto tra di loro non fosse esente da tensioni, Pietro e Paolo appaiono dunque come gli iniziatori di una nuova città, come concretizzazione di un modo nuovo e autentico di essere fratelli, reso possibile dal Vangelo di Gesù Cristo. Per questo si potrebbe dire che oggi la Chiesa di Roma celebra il giorno della sua nascita, giacché i due Apostoli ne posero le fondamenta. Ed inoltre Roma oggi avverte con più consapevolezza quale sia la sua missione e la sua grandezza. Scrive san Giovanni Crisostomo che “il cielo non è splendido quando il sole diffonde i suoi raggi, come lo è la città di Roma, che irradia lo splendore di quelle fiaccole ardenti (Pietro e Paolo) per tutto il mondo… Questo è il motivo per cui amiamo questa città…per queste due colonne della Chiesa” (Comm.a RM 32).

Dell’apostolo Pietro faremo memoria particolarmente domani, celebrando il divin Sacrificio nella Basilica Vaticana, edificata sul luogo dove egli subì il martirio. Questa sera il nostro sguardo si volge a san Paolo, le cui reliquie sono custodite con grande venerazione in questa Basilica. All’inizio della Lettera ai Romani, come abbiamo ascoltato poco fa, egli saluta la comunità di Roma presentandosi quale «servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione» (
Rm 1,1). Utilizza il termine servo, in greco doulos, che indica una relazione di totale e incondizionata appartenenza a Gesù, il Signore, e che traduce l’ebraico ‘ebed, alludendo così ai grandi servi che Dio ha scelto e chiamato per un’importante e specifica missione. Paolo è consapevole di essere “apostolo per vocazione”, cioè non per autocandidatura né per incarico umano, ma soltanto per chiamata ed elezione divina. Nel suo epistolario, più volte l’Apostolo delle genti ripete che tutto nella sua vita è frutto dell’iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio (cfr 1Co 15,9-10 2Co 4,1 Ga 1,15). Egli fu scelto «per annunciare il vangelo di Dio» (Rm 1,1), per propagare l’annuncio della Grazia divina che riconcilia in Cristo l’uomo con Dio, con se stesso e con gli altri.

Dalle sue Lettere sappiamo che Paolo fu tutt’altro che un abile parlatore; anzi condivideva con Mosè e con Geremia la mancanza di talento oratorio. «La sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2Co 10,10), dicevano di lui i suoi avversari. Gli straordinari risultati apostolici che poté conseguire non sono pertanto da attribuire ad una brillante retorica o a raffinate strategie apologetiche e missionarie. Il successo del suo apostolato dipende soprattutto da un coinvolgimento personale nell’annunciarne il Vangelo con totale dedizione a Cristo; dedizione che non temette rischi, difficoltà e persecuzioni: “Né morte né vita – scriveva ai Romani – né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39). Da ciò possiamo trarre una lezione quanto mai importante per ogni cristiano. L’azione della Chiesa è credibile ed efficace solo nella misura in cui coloro che ne fanno parte sono disposti a pagare di persona la loro fedeltà a Cristo, in ogni situazione. Dove manca tale disponibilità, viene meno l’argomento decisivo della verità da cui la Chiesa stessa dipende.

Cari fratelli e sorelle, come agli inizi, anche oggi Cristo ha bisogno di apostoli pronti a sacrificare se stessi. Ha bisogno di testimoni e di martiri come san Paolo: un tempo persecutore violento dei cristiani, quando sulla via di Damasco cadde a terra abbagliato dalla luce divina, passò senza esitazione dalla parte del Crocifisso e lo seguì senza ripensamenti. Visse e lavorò per Cristo; per Lui soffrì e morì. Quanto attuale è oggi il suo esempio!

E proprio per questo, sono lieto di annunciare ufficialmente che all’apostolo Paolo dedicheremo uno speciale anno giubilare dal 28 giugno 2008 al 29 giugno 2009, in occasione del bimillenario della sua nascita, dagli storici collocata tra il 7 e il 10 d.C. Questo “Anno Paolino” potrà svolgersi in modo privilegiato a Roma, dove da venti secoli si conserva sotto l’altare papale di questa Basilica il sarcofago, che per concorde parere degli esperti ed incontrastata tradizione conserva i resti dell’apostolo Paolo. Presso la Basilica Papale e presso l’attigua omonima Abbazia Benedettina potranno quindi avere luogo una serie di eventi liturgici, culturali ed ecumenici, come pure varie iniziative pastorali e sociali, tutte ispirate alla spiritualità paolina. Inoltre, una speciale attenzione potrà essere data ai pellegrinaggi che da varie parti vorranno recarsi in forma penitenziale presso la tomba dell’Apostolo per trovare giovamento spirituale. Saranno pure promossi Convegni di studio e speciali pubblicazioni sui testi paolini, per far conoscere sempre meglio l’immensa ricchezza dell’insegnamento in essi racchiuso, vero patrimonio dell’umanità redenta da Cristo. Inoltre, in ogni parte del mondo, analoghe iniziative potranno essere realizzate nelle Diocesi, nei Santuari, nei luoghi di culto da parte di Istituzioni religiose, di studio o di assistenza, che portano il nome di san Paolo o che si ispirano alla sua figura e al suo insegnamento. C’è infine un particolare aspetto che dovrà essere curato con singolare attenzione durante la celebrazione dei vari momenti del bimillenario paolino: mi riferisco alla dimensione ecumenica. L’Apostolo delle genti, particolarmente impegnato a portare la Buona Novella a tutti i popoli, si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani. Voglia egli guidarci e proteggerci in questa celebrazione bimillenaria, aiutandoci a progredire nella ricerca umile e sincera della piena unità di tutte le membra del Corpo mistico di Cristo. Amen!


CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

Basilica Vaticana, Venerdì, 29 giugno 2007

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Parole introduttive del Santo Padre alla Celebrazione e all'Atto penitenziale:


Fratelli e Sorelle amati dal Signore e amati in Cristo anche da me, Servo dei servi di Dio; noi oggi siamo nella gioia perché celebriamo il martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo, che hanno edificato la Chiesa di Roma, la nostra Chiesa: Pietro è stato la roccia posta come fondamento alla Chiesa, Paolo la voce data al Vangelo nella sua corsa tra le genti. Sono qui con noi, quale segno di amore fraterno e di attesa della comunione visibile, gli inviati dell'amato Patriarca di Costantinopoli: rinnoviamo ancora una volta la nostra volontà di predisporre tutto affinché si possa compiere la preghiera di Gesù per l'unità dei credenti in lui. Siamo lieti di accogliere qui presso il soglio di Pietro i Metropoliti che riceveranno il Pallio, segno del dolce giogo di Cristo, che li ha voluti quali pastori del suo gregge, e segno del vincolo di comunione con questa Sede Apostolica. Tutti insieme con fede e amore celebriamo la nostra comunione con i Santi del cielo e con i credenti sulla terra, e rinnoviamo la nostra volontà di conversione all'unico Signore.

Cari fratelli e sorelle!

Ieri pomeriggio mi sono recato nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, dove ho celebrato i Primi Vespri dell’odierna Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Accanto al sepolcro dell’Apostolo delle genti ho reso omaggio alla sua memoria e ho annunciato l’Anno Paolino che, in occasione del bimillenario della sua nascita, si svolgerà dal 28 giugno 2008 al 29 giugno 2009. Stamani, secondo la tradizione, ci ritroviamo invece presso il sepolcro di San Pietro. Sono presenti, per ricevere il Pallio, gli Arcivescovi Metropoliti nominati durante l’ultimo anno, ai quali va il mio speciale saluto. E’ presente anche, inviata dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, un’eminente Delegazione, che accolgo con cordiale riconoscenza ripensando allo scorso 30 novembre, quando mi trovavo a Istanbul - Costantinopoli per la festa di Sant’Andrea. Saluto il Metropolita greco ortodosso di Francia, Emmanuel, il Metropolita di Sassima, Gennadios, e il Diacono Andreas. Siate i benvenuti, cari fratelli. Ogni anno la visita che reciprocamente ci rendiamo è segno che la ricerca della piena comunione è sempre presente nella volontà del Patriarca ecumenico e del Vescovo di Roma.

La festa di oggi mi offre l’opportunità di tornare ancora una volta a meditare sulla confessione di Pietro, momento decisivo del cammino dei discepoli con Gesù. I Vangeli sinottici lo collocano nei pressi di Cesarea di Filippo (cfr
Mt 16,13-20 Mc 8,27-30 Lc 9,18-22). Giovanni, per parte sua, ci conserva un’altra significativa confessione di Pietro, dopo il miracolo dei pani e il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (cfr Jn 6,66-70). Matteo, nel testo appena proclamato, ricorda l’attribuzione a Simone da parte di Gesù del soprannome di Cefa, "Pietra". Gesù afferma di voler edificare "su questa pietra" la sua Chiesa e, in questa prospettiva, conferisce a Pietro il potere delle chiavi (cfr Mt 16,17-19). Da questi racconti emerge chiaramente che la confessione di Pietro è inseparabile dall’incarico pastorale a lui affidato nei confronti del gregge di Cristo.

Secondo tutti gli Evangelisti, la confessione di Simone avviene in un momento decisivo della vita di Gesù, quando, dopo la predicazione in Galilea, Egli si dirige risolutamente verso Gerusalemme per portare a compimento, con la morte in croce e la risurrezione, la sua missione salvifica. I discepoli sono coinvolti in questa decisione: Gesù li invita a fare una scelta che li porterà a distinguersi dalla folla per diventare la comunità dei credenti in Lui, la sua "famiglia", l’inizio della Chiesa. In effetti, ci sono due modi di "vedere" e di "conoscere" Gesù: uno – quello della folla – più superficiale, l’altro – quello dei discepoli – più penetrante e autentico. Con la duplice domanda: "Che cosa dice la gente – Che cosa dite voi di me?", Gesù invita i discepoli a prendere coscienza di questa diversa prospettiva. La gente pensa che Gesù sia un profeta. Questo non è falso, ma non basta; è inadeguato. Si tratta, in effetti, di andare in profondità, di riconoscere la singolarità della persona di Gesù di Nazaret, la sua novità. Anche oggi è così: molti accostano Gesù, per così dire, dall’esterno. Grandi studiosi ne riconoscono la statura spirituale e morale e l’influsso sulla storia dell’umanità, paragonandolo a Buddha, Confucio, Socrate e ad altri sapienti e grandi personaggi della storia. Non giungono però a riconoscerlo nella sua unicità. Viene in mente ciò che disse Gesù a Filippo durante l’Ultima Cena: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?" (Jn 14,9). Spesso Gesù è considerato anche come uno dei grandi fondatori di religioni, da cui ognuno può prendere qualcosa per formarsi una propria convinzione. Come allora, dunque, anche oggi la "gente" ha opinioni diverse su Gesù. E come allora, anche a noi, discepoli di oggi, Gesù ripete la sua domanda: "E voi, chi dite che io sia?". Vogliamo fare nostra la risposta di Pietro. Secondo il Vangelo di Marco Egli disse: "Tu sei il Cristo" (Mc 8,29); in Luca l’affermazione è: "Il Cristo di Dio" (Lc 9,20); in Matteo suona: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16); infine in Giovanni: "Tu sei il Santo di Dio" (Jn 6,69). Sono tutte risposte giuste, valide anche per noi.

Soffermiamoci in particolare sul testo di Matteo, riportato dalla liturgia odierna. Secondo alcuni studiosi, la formula che vi compare presuppone il contesto post-pasquale, e addirittura sarebbe legata ad un’apparizione personale di Gesù risorto a Pietro; un’apparizione analoga a quella che ebbe Paolo sulla via di Damasco. In realtà, l’incarico conferito dal Signore a Pietro è radicato nel rapporto personale che il Gesù storico ebbe con il pescatore Simone, a partire dal primo incontro con lui, quando gli disse: "Tu sei Simone… ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" (Jn 1,42). Lo sottolinea l’evangelista Giovanni, pescatore anche lui e socio, col fratello Giacomo, dei due fratelli Simone e Andrea. Il Gesù che, dopo la risurrezione chiamò Saulo, è lo stesso che – ancora immerso nella storia - avvicinò, dopo il battesimo nel Giordano, i quattro fratelli pescatori, allora discepoli del Battista (cfr Jn 1,35-42). Egli andò a cercarli sulla riva del lago di Galilea, e li chiamò a seguirlo per essere "pescatori di uomini" (cfr Mc 1,16-20). A Pietro poi affidò un compito particolare, riconoscendo così in lui uno speciale dono di fede da parte del Padre celeste. Tutto questo, evidentemente, fu poi illuminato dall’esperienza pasquale, ma rimanendo sempre fermamente ancorato nelle vicende storiche precedenti la Pasqua. Il parallelismo tra Pietro e Paolo è suggestivo, ma non può sminuire la portata del cammino storico di Simone con il suo Maestro e Signore, che fin dall’inizio gli attribuì la caratteristica di "roccia" su cui avrebbe edificato la sua nuova comunità, la Chiesa.

Nei Vangeli sinottici la confessione di Pietro è sempre seguita dall’annuncio da parte di Gesù della sua prossima passione. Un annuncio di fronte al quale Pietro reagisce, perché non riesce ancora a capire. Eppure si tratta di un elemento fondamentale, su cui perciò Gesù insiste con forza. Infatti, i titoli attribuiti a Lui da Pietro – tu sei "il Cristo", "il Cristo di Dio", "il Figlio del Dio vivente" – si comprendono autenticamente solo alla luce del mistero della sua morte e risurrezione. Ed è vero anche l’inverso: l’avvenimento della Croce rivela il suo senso pieno soltanto se "quest’uomo", che ha patito ed è morto in croce, "era veramente Figlio di Dio", per usare le parole pronunciate dal centurione dinanzi al Crocifisso (cfr Mc 15,39). Questi testi dicono chiaramente che l’integrità della fede cristiana è data dalla confessione di Pietro, illuminata dall’insegnamento di Gesù sulla sua "via" verso la gloria, cioè sul suo modo assolutamente singolare di essere il Messia e il Figlio di Dio. Una "via" stretta, un "modo" scandaloso per i discepoli di ogni tempo, che inevitabilmente sono portati a pensare secondo gli uomini e non secondo Dio (cfr Mt 16,23). Anche oggi, come ai tempi di Gesù, non basta possedere la giusta confessione di fede: è necessario sempre di nuovo imparare dal Signore il modo proprio in cui egli è il Salvatore e la via sulla quale dobbiamo seguirlo. Dobbiamo infatti riconoscere che, anche per il credente, la Croce è sempre dura da accettare. L’istinto spinge ad evitarla, e il tentatore induce a pensare che sia più saggio preoccuparsi di salvare se stessi piuttosto che perdere la propria vita per fedeltà all’amore.

Che cosa era difficile da accettare per la gente a cui Gesù parlava? Che cosa continua ad esserlo anche per molta gente di oggi? Difficile da accettare è il fatto che Egli pretenda di essere non solo uno dei profeti, ma il Figlio di Dio, e rivendichi per sé la stessa autorità di Dio. Ascoltandolo predicare, vedendolo guarire i malati, evangelizzare i piccoli e i poveri, riconciliare i peccatori, i discepoli giunsero poco a poco a capire che Egli era il Messia nel senso più alto del termine, vale a dire non solo un uomo inviato da Dio, ma Dio stesso fattosi uomo. Chiaramente, tutto questo era più grande di loro, superava la loro capacità di comprendere. Potevano esprimere la loro fede con i titoli della tradizione giudaica: "Cristo", "Figlio di Dio", "Signore". Ma per aderire veramente alla realtà, quei titoli dovevano in qualche modo essere riscoperti nella loro verità più profonda: Gesù stesso con la sua vita ne ha rivelato il senso pieno, sempre sorprendente, addirittura paradossale rispetto alle concezioni correnti. E la fede dei discepoli ha dovuto adeguarsi progressivamente. Essa ci si presenta come un pellegrinaggio che ha il suo momento sorgivo nell’esperienza del Gesù storico, trova il suo fondamento nel mistero pasquale, ma deve poi avanzare ancora grazie all’azione dello Spirito Santo. Tale è stata anche la fede della Chiesa nel corso della storia, tale è pure la fede di noi, cristiani di oggi. Saldamente appoggiata sulla "roccia" di Pietro, è un pellegrinaggio verso la pienezza di quella verità che il Pescatore di Galilea professò con appassionata convinzione: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16).

Nella professione di fede di Pietro, cari fratelli e sorelle, possiamo sentirci ed essere tutti una cosa sola, malgrado le divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato l’unità della Chiesa con conseguenze che perdurano tuttora. Nel nome dei Santi Pietro e Paolo, rinnoviamo oggi, insieme con i nostri Fratelli venuti da Costantinopoli – che ancora ringrazio per la presenza a questa nostra celebrazione –, l’impegno ad accogliere fino in fondo il desiderio di Cristo, che ci vuole pienamente uniti. Con gli Arcivescovi concelebranti accogliamo il dono e la responsabilità della comunione tra la Sede di Pietro e le Chiese Metropolitane affidate alle loro cure pastorali. Ci guidi e ci accompagni sempre con la sua intercessione la santa Madre di Dio: la sua fede indefettibile, che sostenne la fede di Pietro e degli altri Apostoli, continui a sostenere quella delle generazioni cristiane: Regina degli Apostoli, prega per noi!


SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

Parrocchia di San Tommaso da Villanova, Castel Gandolfo, Mercoledì, 15 agosto 2007

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Cari fratelli e sorelle,

nella sua grande opera "La Città di Dio", Sant’Agostino dice una volta che tutta la storia umana, la storia del mondo, è una lotta tra due amori: l’amore di Dio fino alla perdita di se stesso, fino al dono di se stesso, e l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, fino all’odio degli altri. Questa stessa interpretazione della storia come lotta tra due amori, tra l’amore e l’egoismo, appare anche nella lettura tratta dall’Apocalisse, che abbiamo sentito ora. Qui, questi due amori appaiono in due grandi figure. Innanzitutto vi è il dragone rosso fortissimo, con una manifestazione impressionante ed inquietante del potere senza grazia, senza amore, dell’egoismo assoluto, del terrore, della violenza.

Nel momento in cui san Giovanni scrisse l’Apocalisse, per lui questo dragone era realizzato nel potere degli imperatori romani anticristiani, da Nerone fino a Domiziano. Questo potere appariva illimitato; il potere militare, politico, propagandistico dell’impero romano era tale che davanti ad esso la fede, la Chiesa appariva come una donna inerme, senza possibilità di sopravvivere, tanto meno di vincere. Chi poteva opporsi a questo potere onnipresente, che sembrava in grado di fare tutto? E tuttavia, sappiamo che alla fine ha vinto la donna inerme, ha vinto non l’egoismo, non l’odio; ha vinto l’amore di Dio e l’impero romano si è aperto alla fede cristiana.

Le parole della Sacra Scrittura trascendono sempre il momento storico. E così, questo dragone indica non soltanto il potere anticristiano dei persecutori della Chiesa di quel tempo, ma le dittature materialistiche anticristiane di tutti i periodi. Vediamo di nuovo realizzato questo potere, questa forza del dragone rosso nelle grandi dittature del secolo scorso: la dittatura del nazismo e la dittatura di Stalin avevano tutto il potere, penetravano ogni angolo, l’ultimo angolo. Appariva impossibile che, a lunga scadenza, la fede potesse sopravvivere davanti a questo dragone così forte, che voleva divorare il Dio fattosi bambino e la donna, la Chiesa. Ma in realtà, anche in questo caso alla fine, l’amore fu più forte dell’odio.

Anche oggi esiste il dragone in modi nuovi, diversi. Esiste nella forma delle ideologie materialiste che ci dicono: è assurdo pensare a Dio; è assurdo osservare i comandamenti di Dio; è cosa di un tempo passato. Vale soltanto vivere la vita per sé. Prendere in questo breve momento della vita tutto quanto ci è possibile prendere. Vale solo il consumo, l’egoismo, il divertimento. Questa è la vita. Così dobbiamo vivere. E di nuovo, sembra assurdo, impossibile opporsi a questa mentalità dominante, con tutta la sua forza mediatica, propagandistica. Sembra impossibile oggi ancora pensare a un Dio che ha creato l’uomo e che si è fatto bambino e che sarebbe il vero dominatore del mondo.

Anche adesso questo dragone appare invincibile, ma anche adesso resta vero che Dio è più forte del dragone, che l’amore vince e non l’egoismo. Avendo considerato così le diverse configurazioni storiche del dragone, vediamo ora l’altra immagine: la donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi, circondata da dodici stelle. Anche quest’immagine è multidimensionale. Un primo significato senza dubbio è che è la Madonna, Maria vestita di sole, cioè di Dio, totalmente; Maria che vive in Dio, totalmente, circondata e penetrata dalla luce di Dio. Circondata dalle dodici stelle, cioè dalle dodici tribù d’Israele, da tutto il Popolo di Dio, da tutta la comunione dei santi, e ai piedi la luna, immagine della morte e della mortalità. Maria ha lasciato dietro di sé la morte; è totalmente vestita di vita, è assunta con corpo e anima nella gloria di Dio e così, posta nella gloria, avendo superato la morte, ci dice: Coraggio, alla fine vince l’amore! La mia vita era dire: Sono la serva di Dio, la mia vita era dono di me, per Dio e per il prossimo. E questa vita di servizio arriva ora nella vera vita. Abbiate fiducia, abbiate il coraggio di vivere così anche voi, contro tutte le minacce del dragone.

Questo è il primo significato della donna che Maria è arrivata ad essere. La "donna vestita di sole" è il grande segno della vittoria dell’amore, della vittoria del bene, della vittoria di Dio. Grande segno di consolazione. Ma poi questa donna che soffre, che deve fuggire, che partorisce con un grido di dolore, è anche la Chiesa, la Chiesa pellegrina di tutti i tempi. In tutte le generazioni di nuovo essa deve partorire Cristo, portarlo al mondo con grande dolore in questo modo sofferto. In tutti i tempi perseguitata, vive quasi nel deserto perseguitata dal dragone. Ma in tutti i tempi la Chiesa, il Popolo di Dio vive anche della luce di Dio e viene nutrito - come dice il Vangelo - di Dio, nutrito in se stesso col pane della Santa Eucaristia. E così in tutta la tribolazione, in tutte le diverse situazioni della Chiesa nel corso dei tempi, nelle diverse parti del mondo, soffrendo vince. Ed è la presenza, la garanzia dell’amore di Dio contro tutte le ideologie dell’odio e dell’egoismo.

Vediamo certamente che anche oggi il dragone vuol divorare il Dio fattosi bambino. Non temete per questo Dio apparentemente debole. La lotta è già cosa superata. Anche oggi questo Dio debole è forte: è la vera forza. E così la festa dell’Assunta è l’invito ad avere fiducia in Dio ed è anche invito ad imitare Maria in ciò che Ella stessa ha detto: Sono la serva del Signore, mi metto a disposizione del Signore. Questa è la lezione: andare sulla sua strada; dare la nostra vita e non prendere la vita. E proprio così siamo sul cammino dell’amore che è un perdersi, ma un perdersi che in realtà è l’unico cammino per trovarsi veramente, per trovare la vera vita.

Guardiamo Maria, l’Assunta. Lasciamoci incoraggiare alla fede e alla festa della gioia: Dio vince. La fede apparentemente debole è la vera forza del mondo. L’amore è più forte dell’odio. E diciamo con Elisabetta: Benedetta sei tu fra tutte le donne. Ti preghiamo con tutta la Chiesa: Santa Maria prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.


Benedetto XVI Omelie 17067