Benedetto XVI Omelie 41009


CAPPELLA PAPALE PER LA CANONIZZAZIONE DEI BEATI ZYGMUNT SZCZESNY FELINSKI (1822 – 1895), FRANCISCO COLL Y GUITART (1812 – 1875),

JOZEF DAMIAAN DE VEUSTER (1840 – 1889), RAFAEL ARNÁIZ BARÓN (1911 – 1938), MARIE DE LA CROIX (JEANNE) JUGAN (1792 – 1879)

Basilica Vaticana, Domenica, 11 ottobre 2009

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Cari fratelli e sorelle!

“Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Con questa domanda ha inizio il breve dialogo, che abbiamo ascoltato nella pagina evangelica, tra un tale, altrove identificato come il giovane ricco, e Gesù (cfr
Mc 10,17-30). Non abbiamo molti dettagli circa questo anonimo personaggio; dai pochi tratti riusciamo tuttavia a percepire il suo sincero desiderio di giungere alla vita eterna conducendo un’onesta e virtuosa esistenza terrena. Conosce infatti i comandamenti e li osserva fedelmente sin dalla giovinezza. Eppure tutto questo, che è certo importante, non basta, - dice Gesù - manca una cosa soltanto, ma qualcosa di essenziale. Vedendolo allora ben disposto, il divino Maestro lo fissa con amore e gli propone il salto di qualità, lo chiama all'eroismo della santità, gli chiede di abbandonare tutto per seguirlo: “Vendi quello che hai e dallo ai poveri... e vieni e seguimi!” (Mc 10,21).

“Vieni e seguimi!”. Ecco la vocazione cristiana che scaturisce da una proposta di amore del Signore, e che può realizzarsi solo grazie a una nostra risposta di amore. Gesù invita i suoi discepoli al dono totale della loro vita, senza calcolo e tornaconto umano, con una fiducia senza riserve in Dio. I santi accolgono quest'invito esigente, e si mettono con umile docilità alla sequela di Cristo crocifisso e risorto. La loro perfezione, nella logica della fede talora umanamente incomprensibile, consiste nel non mettere più al centro se stessi, ma nello scegliere di andare controcorrente vivendo secondo il Vangelo. Così hanno fatto i cinque santi che oggi, con grande gioia, vengono posti alla venerazione della Chiesa universale: Zygmunt Szczesny Felinski, Francisco Coll y Guitart, Jozef Damiaan de Veuster, Rafael Arnáiz Barón e Marie de la Croix (Jeanne) Jugan. In essi contempliamo realizzate le parole dell’apostolo Pietro: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mc 10,28) e la consolante assicurazione di Gesù: “non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo , che non riceva già ora... cento volte tanto... insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà” (Mc 10,29-30)

in polacco:
[Zygmunt Szczesny Felinski, Arcivescovo di Varsavia, fondatore della congregazione delle Francescane della Famiglia di Maria, è stato un grande testimone della fede e della carità pastorale in tempi molto difficili per la nazione e per la Chiesa in Polonia. Si preoccupò con zelo della crescita spirituale dei fedeli, aiutava i poveri e gli orfani. All’Accademia Ecclesiastica di San Pietroburgo curò una solida formazione dei sacerdoti. Come Arcivescovo di Varsavia infiammò tutti verso un rinnovamento interiore. Prima dell’insurrezione del gennaio 1863 contro l’annessione russa mise in guardia il popolo dall’inutile spargimento del sangue. Quando però scoppiò la sommossa e ci furono le repressioni, coraggiosamente difese gli oppressi. Per ordine dello zar russo passò vent’anni in esilio a Jaroslaw sul Volga, senza poter fare mai più ritorno nella sua diocesi. In ogni situazione conservò incrollabile la fiducia nella Divina Provvidenza, e così pregava: “Oh, Dio, proteggici non dalle tribolazioni e dalle preoccupazioni di questo mondo… solo moltiplica l’amore nei nostri cuori e fa che con la più profonda umiltà manteniamo l’infinita fiducia nel Tuo aiuto e nella Tua misericordia…”. Oggi il suo donarsi a Dio e agli uomini, pieno di fiducia e di amore, diventa un fulgido esempio per tutta la Chiesa.]

in spagnolo:
[San Paolo nella seconda lettura ci ricorda che "la Parola di Dio è viva, efficace" (He 4,12). In essa, il Padre, che è in cielo, conversa amorevolmente con i suoi figli in ogni tempo (cfr. Dei Verbum DV 22), facendo conoscere loro il suo infinito amore e, in tal modo, incoraggiarli, consolarli e offrire loro il suo disegno di salvezza per l'umanità e per ogni persona. Consapevole di ciò, san Francisco Coll si dedicò con impegno a diffonderla, compiendo così fedelmente la sua vocazione nell'Ordine dei Predicatori, nel quale emise la professione. La sua passione fu predicare, in gran parte in modo itinerante e seguendo la forma delle "missioni popolari", al fine di annunciare e di ravvivare nei paesi e nelle città della Catalogna la Parola di Dio, guidando così le persone all'incontro profondo con Lui. Un incontro che porta alla conversione del cuore, a ricevere con gioia la grazia divina e a mantenere un dialogo costante con Nostro Signore mediante la preghiera. Per questo, la sua attività evangelizzatrice includeva una grande dedizione al sacramento della Riconciliazione, un'enfasi particolare sull'Eucarestia e un'insistenza costante sulla preghiera. Francisco Coll giungeva al cuore degli altri perché trasmetteva quello che egli stesso viveva con passione nel suo intimo, quello che ardeva nel suo cuore: l'amore a Cristo, il suo dono di sé a Lui. Affinché il seme della Parola di Dio trovasse un terreno buono, Francisco fondò la congregazione delle Suore Domenicane dell'Annunciazione, al fine di offrire un'educazione integrale ai bambini e ai giovani, di modo che potessero scoprire la ricchezza insondabile che è Cristo, questo amico fedele che non ci abbandona mai e non si stanca di stare al nostro fianco, animando la nostra speranza con la sua Parola di vita].

in fiammingo e francese:
[Jozef De Veuster, che nella Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria ha ricevuto il nome di Damiaan, quando aveva ventitré (23) anni, nel 1863, lasciò il suo Paese natale, le Fiandre, per annunciare il Vangelo all'altra parte del mondo, nelle Isole Hawaii. La sua attività missionaria, che gli ha dato tanta gioia, raggiunge il suo culmine nella carità. Non senza paura e ripugnanza, fece la scelta di andare nell'Isola di Molokai al servizio dei lebbrosi che si trovavano là, abbandonati da tutti; così si espose alla malattia della quale essi soffrivano. Con loro si sentì a casa. Il servitore della Parola divenne così un servitore sofferente, lebbroso con i lebbrosi, durante gli ultimi quattro anni della sua vita.
Per seguire Cristo, il Padre Damiano non ha solo lasciato la sua patria, ma ha anche messo in gioco la sua salute: perciò egli - come dice la parola di Gesù che ci è stata annunciata nel Vangelo di oggi - ha ricevuto la vita eterna (cfr. Mc Mc 10,30)
In questo ventesimo anniversario della canonizzazione di un altro santo belga, Fratel Mutien-Marie, la Chiesa in Belgio è riunita ancora una volta per rendere grazie a Dio per uno dei suoi figli, riconosciuto come un autentico servitore di Dio. Dinanzi a questa nobile figura ricordiamo che è la carità che fa l'unità: la genera e la rende desiderabile. Seguendo san Paolo, san Damiaan ci porta a scegliere le buone battaglie (cfr. 1Tm 1,18), non quelle che portano alla divisione, ma quelle che riuniscono. Ci invita ad aprire gli occhi sulle lebbre che sfigurano l'umanità dei nostri fratelli e chiedono, ancora oggi, più che la nostra generosità, la carità della nostra presenza di servitori.]

in spagnolo:
[Alla figura del giovane che esprime a Gesù il suo desiderio di fare qualcosa di più di adempiere semplicemente ai doveri che la legge impone, tornando al Vangelo di oggi, fa dà contrappunto fratel Rafael, oggi canonizzato, morto a ventisette anni come oblato nella trappa di San Isidro de Deuñas. Anche lui apparteneva a una famiglia agiata e, come egli stesso dice, era di "animo un po' sognatore", ma i suoi sogni non svaniscono dinanzi all'attaccamento ai beni materiali e ad altre mete che la vita del mondo a volte propone con grande insistenza. Disse sì alla proposta di seguire Gesù, in maniera immediata e decisa, senza limiti né condizioni. In tal modo, iniziò un cammino che, dal momento in cui nel monastero si rese conto che "non sapeva pregare", lo condusse in pochi anni sulla vetta della vita spirituale, che descrive con grande semplicità e naturalezza in numerosi scritti. Fratel Rafael, ancora vicino a noi, continua a offrirci con il suo esempio e con le sue opere un percorso attraente, soprattutto per i giovani che non si accontentano di poco, ma aspirano alla piena verità, alla più indicibile gioia, che si raggiungono solo attraverso l'amore di Dio. "Vita di amore... Ecco l'unica ragione per vivere", dice il nuovo santo. E insiste: "Dall'amore di Dio viene tutto". Che il Signore ascolti benigno una delle ultime preghiere di san Rafael Arnáiz, quando, nel donargli tutta la sua vita, lo supplicava: "Prendi me e donati Tu al mondo". Che si doni per ravvivare la vita interiore dei cristiani di oggi! Che si doni affinché i suoi fratelli della trappa e i centri monastici continuino a essere quel faro che fa scoprire l'intimo anelito di Dio che Egli ha posto in ogni cuore umano].

in francese:
[Con la sua ammirevole opera al servizio delle persone anziane e più bisognose, Santa Marie de la Croix è a sua volta un faro che guida le nostre società, che devono sempre riscoprire il posto e il contributo unico di questo periodo della vita. Nata nel 1792 a Cancale, in Bretagna, Jeanne Jugan si preoccupò della dignità dei suoi fratelli e delle sue sorelle in umanità che l'età rendeva vulnerabili, riconoscendo in essi la persona stessa di Cristo. "Guardate il povero con compassione", diceva, "e Gesù vi guarderà con bontà, nel vostro ultimo giorno". Questo sguardo compassionevole verso le persone anziane, che veniva dalla sua profonda comunione con Dio, Jeanne Jugan l'ha mostrato nel suo servizio gioioso e disinteressato, esercitato con dolcezza e umiltà di cuore, volendo essere essa stessa povera fa i poveri. Jeanne ha vissuto il mistero di amore accettando, in pace, l'oscurità e la spoliazione fino alla sua morte. Il suo carisma è sempre attuale, poiché tante persone anziane soffrono di molteplici povertà e di solitudine, venendo a volte persino abbandonate dalle loro famiglie. Lo spirito di ospitalità e di amore fraterno, fondato su una fiducia illimitata nella Provvidenza, la cui sorgente Jeanne Jugan trovava nelle Beatitudini, ha illuminato tutta la sua esistenza. Questo slancio evangelico continua oggi in tutto il mondo nella Congregazione delle Piccole Sorelle dei Poveri, che fondò e che, sul suo esempio, rende testimonianza della misericordia di Dio e dell'amore compassionevole del Cuore di Gesù per i più piccoli. Che Santa Jeanne Jugan sia per le persone anziane una fonte viva di speranza e per le persone che si mettono generosamente al loro servizio un potente stimolo al fine di proseguire e di sviluppare la sua opera!].

Cari fratelli e sorelle, rendiamo grazie al Signore per il dono della santità, che quest'oggi rifulge nella Chiesa con singolare bellezza. Mentre con affetto saluto ciascuno di voi - Cardinali, Vescovi, Autorità civili e militari, sacerdoti, religiosi e religiose, fedeli laici di varie nazionalità che prendete parte a questa solenne celebrazione eucaristica, - vorrei rivolgere a tutti l'invito a lasciarsi attrarre dagli esempi luminosi di questi Santi, a lasciarsi guidare dai loro insegnamenti perché tutta la nostra esistenza diventi un cantico di lode all'amore di Dio. Ci ottenga questa grazia la loro celeste intercessione e soprattutto la materna protezione di Maria, Regina dei Santi e Madre dell'umanità. Amen.



CAPPELLA PAPALE PER LA CONCLUSIONE DELLA II ASSEMBLEA SPECIALE PER L’AFRICA DEL SINODO DEI VESCOVI

Basilica Vaticana, Domenica, 25 ottobre 2009

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Venerati Fratelli!
Cari fratelli e sorelle!

Ecco un messaggio di speranza per l’Africa: l’abbiamo ascoltato or ora dalla Parola di Dio. E’ il messaggio che il Signore della storia non si stanca di rinnovare per l’umanità oppressa e sopraffatta di ogni epoca e di ogni terra, da quando rivelò a Mosè la sua volontà sugli israeliti schiavi in Egitto: “Ho osservato la miseria del mio popolo… ho udito il suo grido… conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo… e per farlo salire verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele” (
Ex 3,7-8). Qual è questa terra? Non è forse il Regno della riconciliazione, della giustizia e della pace, a cui è chiamata l’umanità intera? Il disegno di Dio non muta. E’ lo stesso che fu profetizzato da Geremia, nei magnifici oracoli denominati “Libro della consolazione”, da cui oggi è tratta la prima lettura. E’ un annuncio di speranza per il popolo d’Israele, prostrato dall’invasione dell’esercito di Nabucodonosor, dalla devastazione di Gerusalemme e del Tempio e dalla deportazione in Babilonia. Un messaggio di gioia per il “resto” dei figli di Giacobbe, che annuncia un futuro per essi, perché il Signore li ricondurrà nella loro terra, attraverso una strada diritta e agevole. Le persone bisognose di sostegno, come il cieco e lo zoppo, la donna gravida e la partoriente, sperimenteranno la forza e la tenerezza del Signore: Egli è un padre per Israele, pronto a prendersene cura come del primogenito (cfr Jr 31,7-9).

Il disegno di Dio non muta. Attraverso i secoli e i rivolgimenti della storia, Egli punta sempre alla stessa meta: il Regno della libertà e della pace per tutti. E ciò implica la sua predilezione per quanti di libertà e di pace sono privi, per quanti sono violati nella propria dignità di persone umane. Pensiamo in particolare ai fratelli e alle sorelle che in Africa soffrono povertà, malattie, ingiustizie, guerre e violenze, migrazioni forzate. Questi figli prediletti del Padre celeste sono come il cieco del Vangelo, Bartimeo, che “sedeva lungo la strada a mendicare” (Mc 10,46), alle porte di Gerico. Proprio per quella strada passa Gesù Nazareno. E’ la strada che conduce a Gerusalemme, dove si consumerà la Pasqua, la sua Pasqua sacrificale, alla quale il Messia va incontro per noi. E’ la strada del suo esodo che è anche il nostro: l’unica via che conduce alla terra della riconciliazione, della giustizia e della pace. Su quella via il Signore incontra Bartimeo, che ha perduto la vista. Le loro vie si incrociano, diventano un’unica via. “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”, grida il cieco con fiducia. Replica Gesù: “Chiamatelo!”, e aggiunge: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio è luce e creatore della luce. L’uomo è figlio della luce, fatto per vedere la luce, ma ha perso la vista, e si trova costretto a mendicare. Accanto a lui passa il Signore, che si è fatto mendicante per noi: assetato della nostra fede e del nostro amore. “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio sa, ma chiede; vuole che sia l’uomo a parlare. Vuole che l’uomo si alzi in piedi, che ritrovi il coraggio di domandare ciò che gli spetta per la sua dignità. Il Padre vuole sentire dalla viva voce del figlio la libera volontà di vedere di nuovo la luce, quella luce per la quale lo ha creato. “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù a lui: “Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (Mc 10,51-52).

Cari Fratelli, rendiamo grazie perché questo “misterioso incontro tra la nostra povertà e la grandezza” di Dio si è realizzato anche nell’Assemblea sinodale per l’Africa che oggi si conclude. Dio ha rinnovato la sua chiamata: “Coraggio! Alzati…” (Mc 10,49). E anche la Chiesa che è in Africa, attraverso i suoi Pastori, venuti da tutti i Paesi del Continente, dal Madagascar e dalle altre isole, ha accolto il messaggio di speranza e la luce per camminare sulla via che conduce al Regno di Dio. “Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52). Sì, la fede in Gesù Cristo – quando è bene intesa e praticata – guida gli uomini e i popoli alla libertà nella verità, o, per usare le tre parole del tema sinodale, alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Bartimeo che, guarito, segue Gesù lungo la strada, è immagine dell’umanità che, illuminata dalla fede, si mette in cammino verso la terra promessa. Bartimeo diventa a sua volta testimone della luce, raccontando e dimostrando in prima persona di essere stato guarito, rinnovato, rigenerato. Questo è la Chiesa nel mondo: comunità di persone riconciliate, operatrici di giustizia e di pace; “sale e luce” in mezzo alla società degli uomini e delle nazioni. Perciò il Sinodo ha ribadito con forza – e lo ha manifestato – che la Chiesa è Famiglia di Dio, nella quale non possono sussistere divisioni su base etnica, linguistica o culturale. Testimonianze commoventi ci hanno mostrato che, anche nei momenti più bui della storia umana, lo Spirito Santo è all’opera e trasforma i cuori delle vittime e dei persecutori perché si riconoscano fratelli. La Chiesa riconciliata è potente lievito di riconciliazione nei singoli Paesi e in tutto il Continente africano.

La seconda lettura ci offre un’ulteriore prospettiva: la Chiesa, comunità che segue Cristo sulla via dell’amore, ha una forma sacerdotale. La categoria del sacerdozio, come chiave interpretativa del mistero di Cristo e, di conseguenza, della Chiesa, è stata introdotta nel Nuovo Testamento dall’Autore della Lettera agli Ebrei. La sua intuizione prende origine dal Salmo 110, citato nel brano odierno, là dove il Signore Dio, con solenne giuramento, assicura al Messia: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Ps 110,4). Riferimento che ne richiama un altro, tratto dal Salmo 2, nel quale il Messia annuncia il decreto del Signore che dice di lui: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (Ps 110,7). Da questi testi deriva l’attribuzione a Gesù Cristo del carattere sacerdotale, non in senso generico, bensì “secondo l’ordine di Melchisedek”, vale a dire il sacerdozio sommo ed eterno, di origine non umana ma divina. Se ogni sommo sacerdote “è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (He 5,1), solo Lui, il Cristo, il Figlio di Dio, possiede un sacerdozio che si identifica con la sua stessa Persona, un sacerdozio singolare e trascendente, da cui dipende la salvezza universale. Questo suo sacerdozio Cristo l’ha trasmesso alla Chiesa mediante lo Spirito Santo; pertanto la Chiesa ha in se stessa, in ogni suo membro, in forza del Battesimo, un carattere sacerdotale. Ma – qui c’è un aspetto decisivo – il sacerdozio di Gesù Cristo non è più primariamente rituale, bensì esistenziale. La dimensione del rito non viene abolita, ma, come appare chiaramente nell’istituzione dell’Eucaristia, prende significato dal Mistero pasquale, che porta a compimento i sacrifici antichi e li supera. Nascono così contemporaneamente un nuovo sacrificio, un nuovo sacerdozio ed anche un nuovo tempio, e tutti e tre coincidono con il Mistero di Gesù Cristo. Unita a Lui mediante i Sacramenti, la Chiesa prolunga la sua azione salvifica, permettendo agli uomini di essere risanati mediante la fede, come il cieco Bartimeo. Così la Comunità ecclesiale, sulle orme del suo Maestro e Signore, è chiamata a percorrere decisamente la strada del servizio, a condividere fino in fondo la condizione degli uomini e delle donne del suo tempo, per testimoniare a tutti l’amore di Dio e così seminare speranza.

Cari amici, questo messaggio di salvezza la Chiesa lo trasmette coniugando sempre l’evangelizzazione e la promozione umana. Prendiamo ad esempio la storica Enciclica Populorum progressio: ciò che il Servo di Dio Paolo VI elaborò in termini di riflessione, i missionari l’hanno realizzato e continuano a realizzarlo sul campo, promuovendo uno sviluppo rispettoso delle culture locali e dell’ambiente, secondo una logica che ora, dopo più di 40 anni, appare l’unica in grado di far uscire i popoli africani dalla schiavitù della fame e delle malattie. Questo significa trasmettere l’annuncio di speranza secondo una “forma sacerdotale”, cioè vivendo in prima persona il Vangelo, cercando di tradurlo in progetti e realizzazioni coerenti con il principio dinamico fondamentale, che è l’amore. In queste tre settimane, la Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi ha confermato ciò che il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II aveva già messo bene a fuoco, e che ho voluto anch’io approfondire nella recente Enciclica Caritas in veritate: occorre, cioè, rinnovare il modello di sviluppo globale, in modo che sia capace di “includere tutti i popoli e non solamente quelli adeguatamente attrezzati” (). Quanto la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto a partire dalla sua visione dell’uomo e della società, oggi è richiesto anche dalla globalizzazione (cfr ibid. ). Questa – occorre ricordare – non va intesa fatalisticamente come se le sue dinamiche fossero prodotte da anonime forze impersonali e indipendenti dalla volontà umana. La globalizzazione è una realtà umana e come tale è modificabile secondo l’una o l’altra impostazione culturale. La Chiesa lavora con la sua concezione personalista e comunitaria, per orientare il processo in termini di relazionalità, di fraternità e di condivisione (cfr ibid., ).

“Coraggio, alzati!…”. Così quest’oggi il Signore della vita e della speranza si rivolge alla Chiesa e alle popolazioni africane, al termine di queste settimane di riflessione sinodale. Alzati, Chiesa in Africa, famiglia di Dio, perché ti chiama il Padre celeste che i tuoi antenati invocavano come Creatore, prima di conoscerne la vicinanza misericordiosa, rivelatasi nel suo Figlio unigenito, Gesù Cristo. Intraprendi il cammino di una nuova evangelizzazione con il coraggio che proviene dallo Spirito Santo. L’urgente azione evangelizzatrice, di cui molto si è parlato in questi giorni, comporta anche un appello pressante alla riconciliazione, condizione indispensabile per instaurare in Africa rapporti di giustizia tra gli uomini e per costruire una pace equa e duratura nel rispetto di ogni individuo e di ogni popolo; una pace che ha bisogno e si apre all’apporto di tutte le persone di buona volontà al di là delle rispettive appartenenze religiose, etniche, linguistiche, culturali e sociali. In tale impegnativa missione tu, Chiesa pellegrina nell’Africa del terzo millennio, non sei sola. Ti è vicina con la preghiera e la solidarietà fattiva tutta la Chiesa cattolica, e dal Cielo ti accompagnano i santi e le sante africani, che, con la vita talora sino al martirio, hanno testimoniato piena fedeltà a Cristo.

Coraggio! Alzati, Continente africano, terra che ha accolto il Salvatore del mondo quando da bambino dovette rifugiarsi con Giuseppe e Maria in Egitto per aver salva la vita dalla persecuzione del re Erode. Accogli con rinnovato entusiasmo l’annuncio del Vangelo perché il volto di Cristo possa illuminare con il suo splendore la molteplicità delle culture e dei linguaggi delle tue popolazioni. Mentre offre il pane della Parola e dell’Eucaristia, la Chiesa si impegna anche ad operare, con ogni mezzo disponibile, perché a nessun africano manchi il pane quotidiano. Per questo, insieme all’opera di primaria urgenza dell’evangelizzazione, i cristiani sono attivi negli interventi di promozione umana.

Cari Padri Sinodali, al termine di queste mie riflessioni, desidero rivolgervi il mio saluto più cordiale, ringraziandovi per la vostra edificante partecipazione. Tornando a casa, voi, Pastori della Chiesa in Africa, portate la mia benedizione alle vostre Comunità. Trasmettete a tutti l’appello risuonato sovente in questo Sinodo alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Mentre si chiude l’Assemblea sinodale non posso non rinnovare la mia viva riconoscenza al Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi e a tutti i suoi collaboratori. Un grato pensiero esprimo ai cori della comunità nigeriana di Roma e del Collegio Etiopico, che contribuiscono all’animazione di questa liturgia. E infine voglio ringraziare quanti hanno accompagnato i lavori sinodali con la preghiera. La Vergine Maria ricompensi tutti e ciascuno, e ottenga alla Chiesa in Africa di crescere in ogni parte di quel grande Continente, diffondendo dappertutto il “sale” e la “luce” del Vangelo.


CAPPELLA PAPALE IN SUFFRAGIO DEI CARDINALI E VESCOVI DEFUNTI NEL CORSO DELL'ANNO

Basilica Vaticana, Giovedì, 5 novembre 2009

51109
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

cari fratelli e sorelle!

“Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!”. Le parole del Salmo 122, che abbiamo cantato poco fa, ci invitano ad elevare lo sguardo del cuore verso la “casa del Signore”, verso il Cielo dove è misteriosamente raccolta, nella visione beatifica di Dio, la schiera di tutti i Santi che la liturgia ci ha fatto contemplare qualche giorno fa. Alla solennità dei Santi è seguita la commemorazione di tutti i Fedeli defunti. Queste due celebrazioni, vissute in un profondo clima di fede e di preghiera, ci aiutano a meglio percepire il mistero della Chiesa nella sua totalità e a comprendere sempre più che la vita deve essere una continua vigile attesa, un pellegrinaggio verso la vita eterna, compimento ultimo che dà senso e pienezza al nostro cammino terreno. Alle porte della Gerusalemme celeste “già sono fermi i nostri piedi” (
Ps 122,2).

A questa meta definitiva sono ormai giunti i compianti Cardinali: Avery Dulles, Pio Laghi, Stéphanos II Ghattas, Stephen Kim Sou-Hwan, Paul Joseph Pham Ðình Tung, Umberto Betti, Jean Margéot, e i numerosi Arcivescovi e Vescovi che ci hanno lasciato durante quest’ultimo anno. Li ricordiamo con affetto e rendiamo grazie a Dio per il bene che hanno compiuto. In loro suffragio offriamo il Sacrificio eucaristico, raccolti, come ogni anno, in questa Basilica Vaticana. Pensiamo a loro nella comunione, reale e misteriosa, che unisce noi pellegrini sulla terra a quanti ci hanno preceduti nell’aldilà, certi che la morte non spezza i vincoli di fraternità spirituale sigillati dai Sacramenti del Battesimo e dell’Ordine.

In questi venerati nostri Fratelli amiamo riconoscere i servi di cui parla la parabola evangelica poc’anzi proclamata: servi fedeli, che il padrone, di ritorno dalle nozze, ha trovato svegli e pronti (cfr Lc 12,36-38); pastori che hanno servito la Chiesa assicurando al gregge di Cristo la necessaria cura; testimoni del Vangelo che, nella varietà dei doni e dei compiti, hanno dato prova di operosa vigilanza, di generosa dedizione alla causa del Regno di Dio. Ogni celebrazione eucaristica, alla quale tante volte essi pure hanno partecipato dapprima come fedeli e poi come sacerdoti, anticipa nel modo più eloquente quanto il Signore ha promesso: Egli stesso, sommo ed eterno Sacerdote, farà mettere i suoi servi a tavola e passerà a servirli (cfr Lc 12,37). Sulla Mensa eucaristica, convito nuziale della Nuova Alleanza, Cristo, Agnello pasquale si fa nostro cibo, distrugge la morte e ci dona la sua vita, la vita senza fine. Fratelli e sorelle, anche noi restiamo desti e vigilanti: ci trovi così “il padrone quando torna dalle nozze, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba” (cfr Lc 12,38). Anche noi, allora, come i servi del Vangelo, saremo Beati!

“Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” (Sg 3,1). La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, parla di giusti perseguitati, messi ingiustamente a morte. Ma se anche la loro morte – sottolinea l’Autore sacro – avviene in circostanze umilianti e dolorose tali da sembrare una sciagura, in verità per chi ha fede non è così: “essi sono nella pace” e, se pur subirono castighi agli occhi degli uomini, “la loro speranza è piena di immortalità” (Sg 3,3-4). È doloroso il distacco dai propri cari, è un enigma carico di inquietudine l’evento della morte, ma, per i credenti, comunque esso avvenga, è sempre illuminato dalla “speranza dell’immortalità”. La fede ci sostiene in questi momenti umanamente carichi di tristezza e di sconforto: “Ai tuoi occhi la vita non è tolta ma trasformata – ricorda la liturgia -; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel Cielo” (Prefazio dei defunti). Cari fratelli e sorelle, sappiamo bene e lo sperimentiamo nel nostro cammino che non mancano difficoltà e problemi in questa vita, ci sono situazioni di sofferenza e di dolore, momenti difficili da comprendere e accettare. Tutto però acquista valore e significato se viene considerato nella prospettiva dell’eternità. Ogni prova, infatti, accolta con perseverante pazienza ed offerta per il Regno di Dio, torna a nostro vantaggio spirituale già quaggiù e soprattutto nella vita futura, in Cielo. In questo mondo siamo di passaggio, saggiati nel crogiuolo come l’oro, afferma la Sacra Scrittura (cfr Sg 3,6). Misteriosamente associati alla passione di Cristo, possiamo fare della nostra esistenza un’offerta gradita al Signore, un volontario sacrificio di amore.

Nel Salmo responsoriale e poi nella seconda lettura, tratta dalla prima Lettera di Pietro, troviamo come un’eco alle parole del libro della Sapienza. Mentre il Salmo 122, riprendendo il canto dei pellegrini che ascendono alla Città santa e dopo un lungo cammino giungono pieni di gioia alle sue porte, ci proietta nel clima di festa del Paradiso, san Pietro ci esorta, durante il pellegrinaggio terreno, a tener viva nel cuore la prospettiva della speranza, di una “speranza viva” (1P 1,3). Di fronte all’inevitabile dissolversi della scena di questo mondo – egli annota – ci è data la promessa di un’“eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1P 1,4), perché Dio ci ha rigenerati, nella sua grande misericordia, “mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti” (1P 1,3). Ecco il motivo per cui dobbiamo essere “ricolmi di gioia”, anche se siamo afflitti da varie pene. Se, infatti, perseveriamo nel bene, la nostra fede, purificata da molte prove, risplenderà un giorno in tutto il suo fulgore e tornerà a nostra lode, gloria e onore quando Gesù si manifesterà nella sua gloria. Sta qui la ragione della nostra speranza, che già qui ci fa esultare “di gioia indicibile e gloriosa”, mentre siamo in cammino verso la meta della nostra fede: la salvezza delle anime (cfr 1P 1,6-8).

Cari fratelli e sorelle, è con tali sentimenti che vogliamo affidare alla Divina Misericordia questi Cardinali, Arcivescovi e Vescovi, con i quali abbiamo lavorato insieme nella vigna del Signore. Definitivamente liberati da ciò che resta in loro dell’umana fragilità li accolga il Padre celeste nel suo Regno eterno e conceda loro il premio promesso ai buoni e fedeli servitori del Vangelo. Li accompagni, con la sua materna sollecitudine, la Vergine Santa, e apra loro le porte del Paradiso. Aiuti la Vergine Maria anche noi, ancora viandanti sulla terra, a mantenere fisso lo sguardo verso la patria che ci attende; ci incoraggi a restare pronti “con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese” per accogliere il Signore “quando arriva e bussa” (Lc 12,35-36). A qualsiasi ora e in qualsiasi momento. Amen!



VISITA PASTORALE A BRESCIA E CONCESIO

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA

Piazza Paolo VI - Brescia, Domenica, 8 novembre 2009

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Cari fratelli e sorelle!

È grande la mia gioia nel poter spezzare con voi il pane della Parola di Dio e dell’Eucaristia, qui, nel cuore della Diocesi di Brescia, dove nacque ed ebbe la formazione giovanile il servo di Dio Giovanni Battista Montini, Papa Paolo VI. Vi saluto tutti con affetto e vi ringrazio per la vostra calorosa accoglienza! Ringrazio in particolare il Vescovo, Mons. Luciano Monari, per le espressioni che mi ha rivolto all’inizio della celebrazione, e con lui saluto i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti e i diaconi, i religiosi e le religiose, e tutti gli operatori pastorali. Ringrazio il Sindaco per le sue parole e per il suo dono, e le altre Autorità civili e militari. Un pensiero speciale rivolgo agli ammalati che si trovano all’interno del Duomo.

Al centro della Liturgia della Parola di questa domenica – la 32.ma del Tempo Ordinario – troviamo il personaggio della vedova povera, o, più precisamente, troviamo il gesto che ella compie gettando nel tesoro del Tempio gli ultimi spiccioli che le rimangono. Un gesto che, grazie allo sguardo attento di Gesù, è diventato proverbiale: “l’obolo della vedova”, infatti, è sinonimo della generosità di chi dà senza riserve il poco che possiede. Prima ancora, però, vorrei sottolineare l’importanza dell’ambiente in cui si svolge tale episodio evangelico, cioè il Tempio di Gerusalemme, centro religioso del popolo d’Israele e il cuore di tutta la sua vita. Il Tempio è il luogo del culto pubblico e solenne, ma anche del pellegrinaggio, dei riti tradizionali, e delle dispute rabbiniche, come quelle riportate nel Vangelo tra Gesù e i rabbini di quel tempo, nelle quali, però, Gesù insegna con una singolare autorevolezza, quella del Figlio di Dio. Egli pronuncia giudizi severi - come abbiamo sentito - nei confronti degli scribi, a motivo della loro ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano. Gesù, insomma, si dimostra affezionato al Tempio come casa di preghiera, ma proprio per questo lo vuole purificare da usanze improprie, anzi, vuole rivelarne il significato più profondo, legato al compimento del suo stesso Mistero, il Mistero della Sua morte e risurrezione, nella quale Egli stesso diventa il nuovo e definitivo Tempio, il luogo dove si incontrano Dio e l’uomo, il Creatore e la Sua creatura.

L’episodio dell’obolo della vedova si inscrive in tale contesto e ci conduce, attraverso lo sguardo stesso di Gesù, a fissare l’attenzione su un particolare fuggevole ma decisivo: il gesto di una vedova, molto povera, che getta nel tesoro del Tempio due monetine. Anche a noi, come quel giorno ai discepoli, Gesù dice: Fate attenzione! Guardate bene che cosa fa quella vedova, perché il suo atto contiene un grande insegnamento; esso, infatti, esprime la caratteristica fondamentale di coloro che sono le “pietre vive” di questo nuovo Tempio, cioè il dono completo di sé al Signore e al prossimo; la vedova del Vangelo, come anche quella dell’Antico Testamento, dà tutto, dà se stessa, e si mette nelle mani di Dio, per gli altri. È questo il significato perenne dell’offerta della vedova povera, che Gesù esalta perché ha dato più dei ricchi, i quali offrono parte del loro superfluo, mentre lei ha dato tutto ciò che aveva per vivere (cfr
Mc 12,44), e così ha dato se stessa.

Cari amici! A partire da questa icona evangelica, desidero meditare brevemente sul mistero della Chiesa, del Tempio vivo di Dio, e così rendere omaggio alla memoria del grande Papa Paolo VI, che alla Chiesa ha consacrato tutta la sua vita. La Chiesa è un organismo spirituale concreto che prolunga nello spazio e nel tempo l’oblazione del Figlio di Dio, un sacrificio apparentemente insignificante rispetto alle dimensioni del mondo e della storia, ma decisivo agli occhi di Dio. Come dice la Lettera agli Ebrei – anche nel testo che abbiamo ascoltato – a Dio è bastato il sacrificio di Gesù, offerto “una volta sola”, per salvare il mondo intero (cfr He 9,26 He 9,28), perché in quell’unica oblazione è condensato tutto l’Amore del Figlio di Dio fattosi uomo, come nel gesto della vedova è concentrato tutto l’amore di quella donna per Dio e per i fratelli: non manca niente e niente vi si potrebbe aggiungere. La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesù, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento. È il Corpo di Cristo che si dona interamente, Corpo spezzato e condiviso, in costante adesione alla volontà del suo Capo. Sono lieto che stiate approfondendo la natura eucaristica della Chiesa, guidati dalla Lettera pastorale del vostro Vescovo.

È questa la Chiesa che il servo di Dio Paolo VI ha amato di amore appassionato e ha cercato con tutte le sue forze di far comprendere e amare. Rileggiamo il suo Pensiero alla morte, là dove, nella parte conclusiva, parla della Chiesa. “Potrei dire – scrive – che sempre l’ho amata … e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse”. Sono gli accenti di un cuore palpitante, che così prosegue: “Vorrei finalmente comprenderla tutta, nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei – continua il Papa - abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni Vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla”. E le ultime parole sono per lei, come alla sposa di tutta la vita: “E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo”.

Che cosa si può aggiungere a parole così alte ed intense? Soltanto vorrei sottolineare quest’ultima visione della Chiesa “povera e libera”, che richiama la figura evangelica della vedova. Così dev’essere la Comunità ecclesiale, per riuscire a parlare all’umanità contemporanea. L’incontro e il dialogo della Chiesa con l’umanità di questo nostro tempo stavano particolarmente a cuore a Giovanni Battista Montini in tutte le stagioni della sua vita, dai primi anni di sacerdozio fino al Pontificato. Egli ha dedicato tutte le sue energie al servizio di una Chiesa il più possibile conforme al suo Signore Gesù Cristo, così che, incontrando lei, l’uomo contemporaneo possa incontrare Lui, Cristo, perché di Lui ha assoluto bisogno. Questo è l’anelito di fondo del Concilio Vaticano II, a cui corrisponde la riflessione del Papa Paolo VI sulla Chiesa. Egli volle esporne programmaticamente alcuni punti salienti nella sua prima Enciclica, Ecclesiam suam, del 6 agosto 1964, quando ancora non avevano visto la luce le Costituzioni conciliari Lumen gentium e Gaudium et spes.

Con quella prima Enciclica il Pontefice si proponeva di spiegare a tutti l’importanza della Chiesa per la salvezza dell’umanità e, al tempo stesso, l’esigenza che tra la Comunità ecclesiale e la società si stabilisca un rapporto di mutua conoscenza e di amore (cfr Enchiridion Vaticanum 2. p. 199,164). “Coscienza”, “rinnovamento”, “dialogo”: queste le tre parole scelte da Paolo VI per esprimere i suoi “pensieri” dominanti – come lui li definisce – all’inizio del ministero petrino, e tutt’e tre riguardano la Chiesa. Anzitutto, l’esigenza che essa approfondisca la coscienza di se stessa: origine, natura, missione, destino finale; in secondo luogo, il suo bisogno di rinnovarsi e purificarsi guardando al modello che è Cristo; infine, il problema delle sue relazioni con il mondo moderno (cfr ibid ., pp. 203-205,166-168). Cari amici – e mi rivolgo in modo speciale ai Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio –, come non vedere che la questione della Chiesa, della sua necessità nel disegno di salvezza e del suo rapporto con il mondo, rimane anche oggi assolutamente centrale? Che, anzi, gli sviluppi della secolarizzazione e della globalizzazione l’hanno resa ancora più radicale, nel confronto con l’oblio di Dio, da una parte, e con le religioni non cristiane, dall’altra? La riflessione di Papa Montini sulla Chiesa è più che mai attuale; e più ancora è prezioso l’esempio del suo amore per lei, inscindibile da quello per Cristo. “Il mistero della Chiesa – leggiamo sempre nell’Enciclica Ecclesiam suam – non è semplice oggetto di conoscenza teologica, dev’essere un fatto vissuto, in cui ancora prima di una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza” (ibid., p 229, n. 178). Questo presuppone una robusta vita interiore, che è – così continua il Papa - “la grande sorgente della spiritualità della Chiesa, modo suo proprio di ricevere le irradiazioni dello Spirito di Cristo, espressione radicale e insostituibile della sua attività religiosa e sociale, inviolabile difesa e risorgente energia nel suo difficile contatto col mondo profano” (ibid., p. 231, n. 179). Proprio il cristiano aperto, la Chiesa aperta al mondo hanno bisogno di una robusta vita interiore.

Carissimi, che dono inestimabile per la Chiesa la lezione del Servo di Dio Paolo VI! E com’è entusiasmante ogni volta rimettersi alla sua scuola! È una lezione che riguarda tutti e impegna tutti, secondo i diversi doni e ministeri di cui è ricco il Popolo di Dio, per l’azione dello Spirito Santo. In questo Anno Sacerdotale mi piace sottolineare come essa interessi e coinvolga in modo particolare i sacerdoti, ai quali Papa Montini riservò sempre un affetto e una sollecitudine speciali. Nell’Enciclica sul celibato sacerdotale egli scrisse: “«Preso da Cristo Gesù» (Ph 3,12) fino all’abbandono di tutto se stesso a lui, il sacerdote si configura più perfettamente a Cristo anche nell’amore col quale l’eterno Sacerdote ha amato la Chiesa suo corpo, offrendo tutto se stesso per lei… La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta infatti l’amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio” (Sacerdotalis caelibatus, 26). Dedico queste parole del grande Papa ai numerosi sacerdoti della Diocesi di Brescia, qui ben rappresentati, come pure ai giovani che si stanno formando nel Seminario. E vorrei ricordare anche quelle che Paolo VI rivolse agli alunni del Seminario Lombardo il 7 dicembre 1968, mentre le difficoltà del post-Concilio si sommavano con i fermenti del mondo giovanile: “Tanti – disse – si aspettano dal Papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a chiunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta… Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera. È questa la condizione che Gesù ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza. Anche il Papa ha bisogno di essere aiutato con la preghiera” (Insegnamenti VI, [1968], 1189). Cari fratelli, gli esempi sacerdotali del Servo di Dio Giovanni Battista Montini vi guidino sempre, e interceda per voi sant’Arcangelo Tadini, che ho poc’anzi venerato nella breve sosta a Botticino.

Mentre saluto ed incoraggio i sacerdoti, non posso dimenticare, specialmente qui a Brescia, i fedeli laici, che in questa terra hanno dimostrato straordinaria vitalità di fede e di opere, nei vari campi dell’apostolato associato e dell’impegno sociale. Negli Insegnamenti di Paolo VI, cari amici bresciani, voi potete trovare indicazioni sempre preziose per affrontare le sfide del presente, quali, soprattutto, la crisi economica, l’immigrazione, l’educazione dei giovani. Al tempo stesso, Papa Montini non perdeva occasione per sottolineare il primato della dimensione contemplativa, cioè il primato di Dio nell’esperienza umana. E perciò non si stancava mai di promuovere la vita consacrata, nella varietà dei suoi aspetti. Egli amò intensamente la multiforme bellezza della Chiesa, riconoscendovi il riflesso dell’infinita bellezza di Dio, che traspare sul volto di Cristo.

Preghiamo perché il fulgore della bellezza divina risplenda in ogni nostra comunità e la Chiesa sia segno luminoso di speranza per l’umanità del terzo millennio. Ci ottenga questa grazia Maria, che Paolo VI volle proclamare, alla fine del Concilio Ecumenico Vaticano II, Madre della Chiesa. Amen!



Benedetto XVI Omelie 41009