Benedetto XVI Omelie 9111


25 gennaio 2011: Festa della Conversione di San Paolo Apostolo - Celebrazione dei Vespri

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A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA PER L'UNITÀ DEI CRISTIANI

Basilica di San Paolo fuori le Mura

Martedì, 25 gennaio 2011




Cari fratelli e sorelle,

Seguendo l’esempio di Gesù, che alla vigilia della sua passione pregò il Padre per i suoi discepoli “perché tutti siano una sola cosa” (
Jn 17,21), i cristiani continuano incessantemente ad invocare da Dio il dono dell’unità. Questa richiesta si fa più intensa durante la Settimana di Preghiera, che oggi si conclude, quando le Chiese e Comunità ecclesiali meditano e pregano insieme per l’unità di tutti i cristiani. Quest’anno il tema offerto alla nostra meditazione è stato proposto dalle Comunità cristiane di Gerusalemme, alle quali vorrei esprimere il mio vivo ringraziamento, accompagnato dall’assicurazione dell’affetto e della preghiera sia da parte mia che di tutta la Chiesa. I cristiani della Città Santa ci invitano a rinnovare e rafforzare il nostro impegno per il ristabilimento della piena unità meditando sul modello di vita dei primi discepoli di Cristo riuniti a Gerusalemme: “Essi – leggiamo negli Atti degli Apostoli – erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (Ac 2,42). È questo il ritratto della prima comunità, nata a Gerusalemme il giorno stesso di Pentecoste, suscitata dalla predicazione che l’Apostolo Pietro, ripieno di Spirito Santo, rivolge a tutti coloro che erano giunti nella Città Santa per la festa. Una comunità non chiusa in se stessa, ma, sin dal suo nascere, cattolica, universale, capace di abbracciare genti di lingue e di culture diverse, come lo stesso libro degli Atti degli Apostoli ci testimonia. Una comunità non fondata su un patto tra i suoi membri, né dalla semplice condivisione di un progetto o di un’ideale, ma dalla comunione profonda con Dio, che si è rivelato nel suo Figlio, dall’incontro con il Cristo morto e risorto.

In un breve sommario, che conclude il capitolo iniziato con la narrazione della discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, l’evangelista Luca presenta sinteticamente la vita di questa prima comunità: quanti avevano accolto la parola predicata da Pietro ed erano stati battezzati, ascoltavano la Parola di Dio, trasmessa dagli Apostoli; stavano volentieri insieme, facendosi carico dei servizi necessari e condividendo liberamente e generosamente i beni materiali; celebravano il sacrificio di Cristo sulla Croce, il suo mistero di morte e risurrezione, nell’Eucaristia, ripetendo il gesto dello spezzare il pane; lodavano e ringraziavano continuamente il Signore, invocando il suo aiuto nelle difficoltà. Questa descrizione, però, non è semplicemente un ricordo del passato e nemmeno la presentazione di un esempio da imitare o di una meta ideale da raggiungere. Essa è piuttosto affermazione della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nella vita della Chiesa. È un’attestazione, piena di fiducia, che lo Spirito Santo, unendo tutti in Cristo, è il principio dell’unità della Chiesa e fa dei credenti una sola cosa.

L’insegnamento degli Apostoli, la comunione fraterna, lo spezzare il pane e la preghiera sono le forme concrete di vita della prima comunità cristiana di Gerusalemme riunita dall’azione dello Spirito Santo, ma al tempo stesso costituiscono i tratti essenziali di tutte le comunità cristiane, di ogni tempo e di ogni luogo. In altri termini, potremmo dire che essi rappresentano anche le dimensioni fondamentali dell’unità del Corpo visibile della Chiesa.

Dobbiamo essere riconoscenti perché, nel corso degli ultimi decenni, il movimento ecumenico, “sorto per impulso della grazia dello Spirito Santo” (Unitatis redintegratio UR 1), ha fatto significativi passi in avanti, che hanno reso possibile raggiungere incoraggianti convergenze e consensi su svariati punti, sviluppando tra le Chiese e le Comunità ecclesiali rapporti di stima e rispetto reciproco, come pure di collaborazione concreta di fronte alle sfide del mondo contemporaneo. Sappiamo bene, tuttavia, che siamo ancora lontani da quella unità per la quale Cristo ha pregato e che troviamo riflessa nel ritratto della prima comunità di Gerusalemme. L’unità alla quale Cristo, mediante il suo Spirito, chiama la Chiesa non si realizza solo sul piano delle strutture organizzative, ma si configura, ad un livello molto più profondo, come unità espressa “nella confessione di una sola fede, nella comune celebrazione del culto divino e nella fraterna concordia della famiglia di Dio” (ibid., UR 2). La ricerca del ristabilimento dell'unità tra i cristiani divisi non può pertanto ridursi ad un riconoscimento delle reciproche differenze ed al conseguimento di una pacifica convivenza: ciò a cui aneliamo è quell’unità per cui Cristo stesso ha pregato e che per sua natura si manifesta nella comunione della fede, dei sacramenti, del ministero. Il cammino verso questa unità deve essere avvertito come imperativo morale, risposta ad una precisa chiamata del Signore. Per questo occorre vincere la tentazione della rassegnazione e del pessimismo, che è mancanza di fiducia nella potenza dello Spirito Santo. Il nostro dovere è proseguire con passione il cammino verso questa meta con un dialogo serio e rigoroso per approfondire il comune patrimonio teologico, liturgico e spirituale; con la reciproca conoscenza; con la formazione ecumenica delle nuove generazioni e, soprattutto, con la conversione del cuore e con la preghiera. Infatti, come ha dichiarato il Concilio Vaticano II, il “santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica Chiesa di Cristo, supera le forze e le doti umane” e, perciò, la nostra speranza va riposta per prima cosa “nell’orazione di Cristo per la Chiesa, nell’amore del Padre per noi e nella potenza dello Spirito Santo” (ibid., UR 24).

In questo cammino di ricerca della piena unità visibile tra tutti i cristiani ci accompagna e ci sostiene l’Apostolo Paolo, del quale quest’oggi celebriamo solennemente la Festa della Conversione. Egli, prima che gli apparisse il Risorto sulla via di Damasco dicendogli: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (Ac 9,5), era uno tra i più accaniti avversari delle prime comunità cristiane. L’evangelista Luca descrive Saulo tra coloro che approvarono l’uccisione di Stefano, nei giorni in cui scoppiò una violenta persecuzione contro i cristiani di Gerusalemme (cfr Ac 8,1). Dalla Città Santa Saulo partì per estendere la persecuzione dei cristiani fino in Siria e, dopo la sua conversione, vi ritornò per essere introdotto presso gli Apostoli da Barnaba, il quale si fece garante dell’autenticità del suo incontro con il Signore. Da allora Paolo fu ammesso, non solo come membro della Chiesa, ma anche come predicatore del Vangelo assieme agli altri Apostoli, avendo ricevuto, come loro, la manifestazione del Signore Risorto e la chiamata speciale ad essere “strumento eletto” per portare il suo nome dinanzi ai popoli (cfr Ac 9,15). Nei suoi lunghi viaggi missionari Paolo, peregrinando per città e regioni diverse, non dimenticò mai il legame di comunione con la Chiesa di Gerusalemme. La colletta in favore dei cristiani di quella comunità, i quali, molto presto, ebbero bisogno di essere soccorsi (cfr 1Co 16,1), occupò un posto importante nelle preoccupazioni di Paolo, che la considerava non solo un’opera di carità, ma il segno e la garanzia dell’unità e della comunione tra le Chiese da lui fondate e quella primitiva Comunità della Città Santa, un segno dell’unità dell’unica Chiesa di Cristo.

In questo clima di intensa preghiera, desidero rivolgere il mio cordiale saluto a tutti i presenti: al Cardinale Francesco Monterisi, Arciprete di questa Basilica, al Cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e agli altri Cardinali, ai Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, all’Abate ed ai monaci benedettini di questa antica comunità, ai religiosi e alle religiose, ai laici che rappresentano l’intera comunità diocesana di Roma. In modo speciale vorrei salutare i Fratelli e le Sorelle delle altre Chiese e Comunità ecclesiali qui rappresentate questa sera. Tra essi mi è particolarmente gradito rivolgere il mio saluto ai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese Orientali Ortodosse, la cui riunione si svolge qui a Roma in questi giorni. Affidiamo al Signore il buon successo del vostro incontro, perché possa rappresentare un passo in avanti verso la tanto auspicata unità.

Einen besonderen Gruß möchte ich auch an die Vertreter der Vereinigten Evangelisch-Lutherischen Kirche Deutschlands richten, die unter der Leitung des bayerischen Landesbischofs nach Rom gekommen sind.

Cari fratelli e sorelle, fiduciosi nell’intercessione della Vergine Maria, Madre di Cristo e Madre della Chiesa, invochiamo, dunque, il dono dell'unità. Uniti a Maria, che il giorno di Pentecoste era presente nel Cenacolo insieme agli Apostoli, ci rivolgiamo a Dio fonte di ogni dono perché si rinnovi per noi oggi il miracolo della Pentecoste e, guidati dallo Spirito Santo, tutti i cristiani ristabiliscano la piena unità in Cristo. Amen.



Febbraio 2011



2 febbraio 2011: Festa della Presentazione del Signore - Giornata della Vita Consacrata

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Basilica Vaticana

Martedì, 2 febbraio 2011




Cari fratelli e sorelle!

Nella Festa odierna contempliamo il Signore Gesù che Maria e Giuseppe presentano al tempio “per offrirlo al Signore” (
Lc 2,22). In questa scena evangelica si rivela il mistero del Figlio della Vergine, il consacrato del Padre, venuto nel mondo per compiere fedelmente la sua volontà (cfr He 10,5-7). Simeone lo addita come “luce per illuminare le genti” (Lc 2,32) e annuncia con parola profetica la sua offerta suprema a Dio e la sua vittoria finale (cfr Lc 2,32-35). È l’incontro dei due Testamenti, Antico e Nuovo. Gesù entra nell’antico tempio, Lui che è il nuovo Tempio di Dio: viene a visitare il suo popolo, portando a compimento l’obbedienza alla Legge ed inaugurando i tempi ultimi della salvezza.

E’ interessante osservare da vicino questo ingresso del Bambino Gesù nella solennità del tempio, in un grande “via vai” di tante persone, prese dai loro impegni: i sacerdoti e i leviti con i loro turni di servizio, i numerosi devoti e pellegrini, desiderosi di incontrarsi con il Dio santo di Israele. Nessuno di questi però si accorge di nulla. Gesù è un bambino come gli altri, figlio primogenito di due genitori molto semplici. Anche i sacerdoti risultano incapaci di cogliere i segni della nuova e particolare presenza del Messia e Salvatore. Solo due anziani, Simeone ed Anna, scoprono la grande novità. Condotti dallo Spirito Santo, essi trovano in quel Bambino il compimento della loro lunga attesa e vigilanza. Entrambi contemplano la luce di Dio, che viene ad illuminare il mondo, ed il loro sguardo profetico si apre al futuro, come annuncio del Messia: “Lumen ad revelationem gentium!” (Lc 2,32). Nell’atteggiamento profetico dei due vegliardi è tutta l’Antica Alleanza che esprime la gioia dell’incontro con il Redentore. Alla vista del Bambino, Simeone e Anna intuiscono che è proprio Lui l’Atteso.

La Presentazione di Gesù al tempio costituisce un’eloquente icona della totale donazione della propria vita per quanti, uomini e donne, sono chiamati a riprodurre nella Chiesa e nel mondo, mediante i consigli evangelici, “i tratti caratteristici di Gesù - vergine, povero ed obbediente” (Esort. ap. postsinod. Vita consecrata VC 1). Perciò la Festa odierna è stata scelta dal Venerabile Giovanni Paolo II per celebrare l’annuale Giornata della Vita Consacrata. In questo contesto, rivolgo un saluto cordiale e riconoscente al Monsignor João Braz de Aviz, che da poco ho nominato Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e per le Società di Vita Apostolica, con il Segretario e i collaboratori. Con affetto saluto i Superiori Generali presenti e tutte le persone consacrate.

Vorrei proporre tre brevi pensieri per la riflessione in questa Festa.

Il primo: l’icona evangelica della Presentazione di Gesù al tempio contiene il simbolo fondamentale della luce; la luce che, partendo da Cristo, si irradia su Maria e Giuseppe, su Simeone ed Anna e, attraverso di loro, su tutti. I Padri della Chiesa hanno collegato questa irradiazione al cammino spirituale. La vita consacrata esprime tale cammino, in modo speciale, come “filocalia”, amore per la bellezza divina, riflesso della bontà di Dio (cfr ibid., VC 19). Sul volto di Cristo risplende la luce di tale bellezza. “La Chiesa contempla il volto trasfigurato di Cristo, per confermarsi nella fede e non rischiare lo smarrimento davanti al suo volto sfigurato sulla Croce ... essa è la Sposa davanti allo Sposo, partecipe del suo mistero, avvolta dalla sua luce, [dalla quale] sono raggiunti tutti i suoi figli … Ma un’esperienza singolare della luce che promana dal Verbo incarnato fanno certamente i chiamati alla vita consacrata. La professione dei consigli evangelici, infatti, li pone quale segno e profezia per la comunità dei fratelli e per il mondo” (ibid., VC 15).

In secondo luogo, l’icona evangelica manifesta la profezia, dono dello Spirito Santo. Simeone ed Anna, contemplando il Bambino Gesù, intravvedono il suo destino di morte e di risurrezione per la salvezza di tutte le genti e annunciano tale mistero come salvezza universale. La vita consacrata è chiamata a tale testimonianza profetica, legata alla sua duplice attitudine contemplativa e attiva. Ai consacrati e alle consacrate è dato infatti di manifestare il primato di Dio, la passione per il Vangelo praticato come forma di vita e annunciato ai poveri e agli ultimi della terra. “In forza di tale primato nulla può essere anteposto all’amore personale per Cristo e per i poveri in cui Egli vive. ... La vera profezia nasce da Dio, dall’amicizia con Lui, dall’ascolto attento della sua Parola nelle diverse circostanze della storia” (ibid., VC 84). In questo modo la vita consacrata, nel suo vissuto quotidiano sulle strade dell’umanità, manifesta il Vangelo e il Regno già presente e operante.

In terzo luogo, l’icona evangelica della Presentazione di Gesù al tempio manifesta la sapienza di Simeone ed Anna, la sapienza di una vita dedicata totalmente alla ricerca del volto di Dio, dei suoi segni, della sua volontà; una vita dedicata all’ascolto e all’annuncio della sua Parola. “«Faciem tuam, Domine, requiram»: il tuo volto, Signore, io cerco (Ps 26,8) … La vita consacrata è nel mondo e nella Chiesa segno visibile di questa ricerca del volto del Signore e delle vie che conducono a Lui (cfr Jn 14,8) … La persona consacrata testimonia dunque l’impegno, gioioso e insieme laborioso, della ricerca assidua e sapiente della volontà divina” (cfr Cong. per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Istruz. Il servizio dell’autorità e l’obbedienza. Faciem tuam Domine requiram [2008], 1).

Cari fratelli e sorelle, siate ascoltatori assidui della Parola, perché ogni sapienza di vita nasce dalla Parola del Signore! Siate scrutatori della Parola, attraverso la lectio divina, poiché la vita consacrata “nasce dall’ascolto della Parola di Dio ed accoglie il Vangelo come sua norma di vita. Vivere nella sequela di Cristo casto, povero ed obbediente è in tal modo una «esegesi» vivente della Parola di Dio. Lo Spirito Santo, in forza del quale è stata scritta la Bibbia, è il medesimo che illumina di luce nuova la Parola di Dio ai fondatori e alle fondatrici. Da essa è sgorgato ogni carisma e di essa ogni regola vuole essere espressione, dando origine ad itinerari di vita cristiana segnati dalla radicalità evangelica” (Esort. ap. postsinodale Verbum Domini, 83 ).

Viviamo oggi, soprattutto nelle società più sviluppate, una condizione segnata spesso da una radicale pluralità, da una progressiva emarginazione della religione dalla sfera pubblica, da un relativismo che tocca i valori fondamentali. Ciò esige che la nostra testimonianza cristiana sia luminosa e coerente e che il nostro sforzo educativo sia sempre più attento e generoso. La vostra azione apostolica, in particolare, cari fratelli e sorelle, diventi impegno di vita, che accede, con perseverante passione, alla Sapienza come verità e come bellezza, “splendore della verità”. Sappiate orientare con la sapienza della vostra vita, e con la fiducia nelle possibilità inesauste della vera educazione, l’intelligenza e il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo verso la “vita buona del Vangelo”.

In questo momento, il mio pensiero va con speciale affetto a tutti i consacrati e le consacrate, in ogni parte della terra, e li affido alla Beata Vergine Maria:

O Maria, Madre della Chiesa,
affido a te tutta la vita consacrata,
affinché tu le ottenga la pienezza della luce divina:
viva nell’ascolto della Parola di Dio,
nell’umiltà della sequela di Gesù tuo Figlio e nostro Signore,
nell’accoglienza della visita dello Spirito Santo,
nella gioia quotidiana del magnificat,
perché la Chiesa sia edificata dalla santità di vita
di questi tuoi figli e figlie,
nel comandamento dell’amore. Amen.




5 febbraio 2011: Cinque Ordinazioni Episcopali

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Basilica Vaticana

Sabato, 5 febbraio 2011




Cari fratelli e sorelle!

Saluto con affetto questi cinque Fratelli Presbiteri che tra poco riceveranno l’Ordinazione Episcopale: Mons. Savio Hon Tai-Fai, Mons. Marcello Bartolucci, Mons. Celso Morga Iruzubieta, Mons. Antonio Guido Filipazzi e Mons. Edgar Peña Parra. Desidero esprimere loro la gratitudine mia e della Chiesa per il servizio svolto fino ad ora con generosità e dedizione e formulare l’invito ad accompagnarli con la preghiera nel ministero a cui sono chiamati nella Curia Romana e nelle Rappresentanze Pontificie come Successori degli Apostoli, perché siano sempre illuminati e guidati dallo Spirito Santo nella messe del Signore.

“La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (
Lc 10,2). Questa parola dal Vangelo della Messa di oggi ci tocca particolarmente da vicino in quest’ora. È l’ora della missione: il Signore manda voi, cari amici, nella sua messe. Dovete cooperare in quell’incarico di cui parla il profeta Isaia nella prima lettura: “Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati” (Is 61,1). È questo il lavoro per la messe nel campo di Dio, nel campo della storia umana: portare agli uomini la luce della verità, liberarli dalla povertà di verità, che è la vera tristezza e la vera povertà dell’uomo. Portare loro il lieto annuncio che non è soltanto parola, ma evento: Dio, Lui stesso, è venuto da noi. Egli ci prende per mano, ci trae verso l’alto, verso se stesso, e così il cuore spezzato viene risanato. Ringraziamo il Signore perché manda operai nella messe della storia del mondo. Ringraziamo perché manda voi, perché avete detto di sì e perché in quest’ora pronuncerete nuovamente il vostro “sì” all’essere operai del Signore per gli uomini.

“La messe è abbondante” – anche oggi, proprio oggi. Anche se può sembrare che grandi parti del mondo moderno, degli uomini di oggi, volgano le spalle a Dio e ritengano la fede una cosa del passato – esiste tuttavia l’anelito che finalmente vengano stabiliti la giustizia, l’amore, la pace, che povertà e sofferenza vengano superate, che gli uomini trovino la gioia. Tutto questo anelito è presente nel mondo di oggi, l’anelito verso ciò che è grande, verso ciò che è buono. È la nostalgia del Redentore, di Dio stesso, anche lì dove Egli viene negato. Proprio in quest’ora il lavoro nel campo di Dio è particolarmente urgente e proprio in quest’ora sentiamo in modo particolarmente doloroso la verità della parola di Gesù: “Sono pochi gli operai”. Al tempo stesso il Signore ci lascia capire che non possiamo essere semplicemente noi da soli a mandare operai nella sua messe; che non è una questione di management, della nostra propria capacità organizzativa. Gli operai per il campo della sua messe li può mandare solo Dio stesso. Ma Egli li vuole mandare attraverso la porta della nostra preghiera. Noi possiamo cooperare per la venuta degli operai, ma possiamo farlo solo cooperando con Dio. Così quest’ora del ringraziamento per il realizzarsi di un invio in missione è, in modo particolare, anche l’ora della preghiera: Signore, manda operai nella tua messe! Apri i cuori alla tua chiamata! Non permettere che la nostra supplica sia vana!

La liturgia della giornata odierna ci dà quindi due definizioni della vostra missione di Vescovi, di sacerdoti di Gesù Cristo: essere operai nella messe della storia del mondo con il compito di risanare aprendo le porte del mondo alla signoria di Dio, affinché la volontà di Dio sia fatta sulla terra come in cielo. E poi il nostro ministero viene descritto quale cooperazione alla missione di Gesù Cristo, quale partecipazione al dono dello Spirito Santo, dato a Lui in quanto Messia, il Figlio unto da Dio. La Lettera agli Ebrei – la seconda lettura – completa ancora questo a partire dall’immagine del sommo sacerdote Melchìsedek, che è un rinvio misterioso a Cristo, il vero Sommo Sacerdote, il Re di pace e di giustizia.

Ma vorrei anche dire qualcosa su come questo grande compito sia da svolgere nella pratica – su che cosa esiga concretamente da noi. Per la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, le Comunità cristiane di Gerusalemme avevano scelto quest’anno le parole degli Atti degli Apostoli, in cui san Luca vuole illustrare in modo normativo quali sono gli elementi fondamentali dell’esistenza cristiana nella comunione della Chiesa di Gesù Cristo. Si esprime così: “Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (Ac 2,42). In questi quattro elementi portanti dell’essere della Chiesa è descritto al contempo anche il compito essenziale dei suoi Pastori. Tutti e quattro gli elementi sono tenuti insieme mediante l’espressione “erano perseveranti” – “erant perseverantes”: la Bibbia latina traduce così l’espressione greca p??s?a?te???: la perseveranza, l’assiduità, appartiene all’essenza dell’essere cristiani ed è fondamentale per il compito dei Pastori, degli operai nella messe del Signore. Il Pastore non deve essere una canna di palude che si piega secondo il soffio del vento, un servo dello spirito del tempo. L’essere intrepido, il coraggio di opporsi alle correnti del momento appartiene in modo essenziale al compito del Pastore. Non deve essere una canna di palude, bensì – secondo l’immagine del Salmo primo – deve essere come un albero che ha radici profonde nelle quali sta saldo e ben fondato. Ciò non ha niente a che fare con la rigidità o l’inflessibilità. Solo dove c’è stabilità c’è anche crescita. Il cardinale Newman, il cui cammino fu marcato da tre conversioni, dice che vivere è trasformarsi. Ma le sue tre conversioni e le trasformazioni in esse avvenute sono tuttavia un unico cammino coerente: il cammino dell’obbedienza verso la verità, verso Dio; il cammino della vera continuità che proprio così fa progredire.

“Perseverare nell’insegnamento degli Apostoli” – la fede ha un contenuto concreto. Non è una spiritualità indeterminata, una sensazione indefinibile per la trascendenza. Dio ha agito e proprio Lui ha parlato. Ha realmente fatto qualcosa e ha realmente detto qualcosa. Certamente, la fede è, in primo luogo, un affidarsi a Dio, un rapporto vivo con Lui. Ma il Dio al quale ci affidiamo ha un volto e ci ha donato la sua Parola. Possiamo contare sulla stabilità della sua Parola. La Chiesa antica ha riassunto il nucleo essenziale dell’insegnamento degli Apostoli nella cosiddetta Regula fidei, che, in sostanza, è identica alle Professioni di Fede. È questo il fondamento attendibile, sul quale noi cristiani ci basiamo anche oggi. È la base sicura sulla quale possiamo costruire la casa della nostra fede, della nostra vita (cfr Mt 7,24 ss). E di nuovo, la stabilità e la definitività di ciò che crediamo non significano rigidità. Giovanni della Croce ha paragonato il mondo della fede ad una miniera in cui scopriamo sempre nuovi tesori – tesori nei quali si sviluppa l’unica fede, la professione del Dio che si manifesta in Cristo. Come Pastori della Chiesa viviamo di questa fede e così possiamo anche annunciarla come il lieto messaggio che ci rende sicuri dell’amore di Dio e dell’essere noi amati da Lui.

Il secondo pilastro dell’esistenza ecclesiale, san Luca lo chiama ???????a – communio. Dopo il Concilio Vaticano II, questo termine è diventato una parola centrale della teologia e dell’annuncio, perché in esso, di fatto, si esprimono tutte le dimensioni dell’essere cristiani e della vita ecclesiale. Che cosa Luca voglia precisamente esprimere con tale parola in questo testo, non lo sappiamo. Possiamo quindi tranquillamente comprenderla in base al contesto globale del Nuovo Testamento e della Tradizione apostolica. Una prima grande definizione di communio l’ha data san Giovanni all’inizio della sua Prima Lettera: Quello che abbiamo veduto e udito, quello che le nostre mani hanno toccato, noi lo annunciamo a voi, perché anche voi abbiate communio con noi. E la nostra communio è comunione con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo (cfr 1Jn 1,1-4). Dio si è reso per noi visibile e toccabile e così ha creato una reale comunione con Lui stesso. Entriamo in tale comunione attraverso il credere e il vivere insieme con coloro che Lo hanno toccato. Con loro e tramite loro, noi stessi in certo qual modo Lo vediamo, e tocchiamo il Dio fattosi vicino. Così la dimensione orizzontale e quella verticale sono qui inscindibilmente intrecciate l’una con l’altra. Con lo stare in comunione con gli Apostoli, con lo stare nella loro fede, noi stessi stiamo in contatto con il Dio vivente. Cari amici, a tale scopo serve il ministero dei Vescovi: che questa catena della comunione non si interrompa. È questa l’essenza della Successione apostolica: conservare la comunione con coloro che hanno incontrato il Signore in modo visibile e tangibile e così tenere aperto il Cielo, la presenza di Dio in mezzo a noi. Solo mediante la comunione con i Successori degli Apostoli siamo anche in contatto con il Dio incarnato. Ma vale anche l’inverso: solo grazie alla comunione con Dio, solo grazie alla comunione con Gesù Cristo questa catena dei testimoni rimane unita. Vescovi non si è mai da soli, ci dice il Vaticano II, ma sempre soltanto nel collegio dei Vescovi. Questo, poi, non può rinchiudersi nel tempo della propria generazione. Alla collegialità appartiene l’intreccio di tutte le generazioni, la Chiesa vivente di tutti i tempi. Voi, cari Confratelli, avete la missione di conservare questa comunione cattolica. Sapete che il Signore ha incaricato san Pietro e i suoi successori di essere il centro di tale comunione, i garanti dello stare nella totalità della comunione apostolica e della sua fede. Offrite il vostro aiuto perché rimanga viva la gioia per la grande unità della Chiesa, per la comunione di tutti i luoghi e i tempi, per la comunione della fede che abbraccia il cielo e la terra. Vivete la communio, e vivete con il cuore, giorno per giorno, il suo centro più profondo in quel momento sacro, in cui il Signore stesso si dona nella santa Comunione.

Con ciò siamo già giunti al successivo elemento fondamentale dell’esistenza ecclesiale, menzionato da san Luca: lo spezzare il pane. Lo sguardo dell’Evangelista, a questo punto, torna indietro ai discepoli di Emmaus, che riconobbero il Signore dal gesto dello spezzare il pane. E da lì, lo sguardo torna ancora più indietro all’ora dell’Ultima Cena, in cui Gesù, nello spezzare il pane, distribuì se stesso, si fece pane per noi ed anticipò la sua morte e la sua risurrezione. Spezzare il pane – la santa Eucaristia è il centro della Chiesa e deve essere il centro del nostro essere cristiani e della nostra vita sacerdotale. Il Signore si dona a noi. Il Risorto entra nel mio intimo e vuole trasformarmi per farmi entrare in una profonda comunione con Lui. Così mi apre anche a tutti gli altri: noi, i molti, siamo un solo pane e un solo corpo, dice san Paolo (cfr 1Co 10,17). Cerchiamo di celebrare l’Eucaristia con una dedizione, un fervore sempre più profondo, cerchiamo di impostare i nostri giorni secondo la sua misura, cerchiamo di lasciarci plasmare da essa. Spezzare il pane – con ciò è espresso insieme anche il condividere, il trasmettere il nostro amore agli altri. La dimensione sociale, il condividere non è un’appendice morale che s’aggiunge all’Eucaristia, ma è parte di essa. Ciò risulta chiaramente proprio dal versetto che negli Atti degli Apostoli segue a quello citato poc’anzi: “Tutti i credenti … avevano ogni cosa in comune”, dice San Luca (Lc 2,44). Stiamo attenti che la fede si esprima sempre nell’amore e nella giustizia degli uni verso gli altri e che la nostra prassi sociale sia ispirata dalla fede; che la fede sia vissuta nell’amore.

Come ultimo pilastro dell’esistenza ecclesiale, Luca menziona “le preghiere”. Egli parla al plurale: preghiere. Che cosa vuol dire con questo? Probabilmente pensa alla partecipazione della prima Comunità di Gerusalemme alle preghiere nel tempio, agli ordinamenti comuni della preghiera. Così si mette in luce una cosa importante. La preghiera, da una parte, deve essere molto personale, un unirmi nel più profondo a Dio. Deve essere la mia lotta con Lui, la mia ricerca di Lui, il mio ringraziamento per Lui e la mia gioia in Lui. Tuttavia, non è mai soltanto una cosa privata del mio “io” individuale, che non riguarda gli altri. Pregare è essenzialmente anche sempre un pregare nel “noi” dei figli di Dio. Solo in questo “noi” siamo figli del nostro Padre, che il Signore ci ha insegnato a pregare. Solo questo “noi” ci apre l’accesso al Padre. Da una parte, la nostra preghiera deve diventare sempre più personale, toccare e penetrare sempre più profondamente il nucleo del nostro “io”. Dall’altra, deve sempre nutrirsi della comunione degli oranti, dell’unità del Corpo di Cristo, per plasmarmi veramente a partire dall’amore di Dio. Così il pregare, in ultima analisi, non è un’attività tra le altre, un certo angolo del mio tempo. Pregare è la risposta all’imperativo che sta all’inizio del Canone nella Celebrazione eucaristica: Sursum corda – in alto i cuori! È l’ascendere della mia esistenza verso l’altezza di Dio. In san Gregorio Magno si trova una bella parola al riguardo. Egli ricorda che Gesù chiama Giovanni Battista una “lampada che arde e risplende” (Jn 5,35) e continua: “ardente per il desiderio celeste, risplendente per la parola. Quindi, affinché sia conservata la veridicità dell’annuncio, deve essere conservata l’altezza della vita” (Hom. in Ez. 1,11,7 CCL 142, 134). L’altezza, la misura alta della vita, che proprio oggi è così essenziale per la testimonianza in favore di Gesù Cristo, la possiamo trovare solo se nella preghiera ci lasciamo continuamente tirare da Lui verso la sua altezza.

Duc in altum (Lc 5,4) – Prendi il largo e gettate le reti per la pesca. Questo disse Gesù a Pietro e ai suoi compagni quando li chiamò a diventare “pescatori di uomini”. Duc in altum – Papa Giovanni Paolo II, nei suoi ultimi anni, ha ripreso con forza questa parola e l’ha proclamata a voce alta ai discepoli del Signore di oggi. Duc in altum – dice il Signore in quest’ora a voi, cari amici. Siete stati chiamati per incarichi che riguardano la Chiesa universale. Siete chiamati a gettare la rete del Vangelo nel mare agitato di questo tempo per ottenere l’adesione degli uomini a Cristo; per tirarli fuori, per così dire, dalle acque saline della morte e dal buio nel quale la luce del cielo non penetra. Dovete portarli sulla terra della vita, nella comunione con Gesù Cristo.

In un passo del primo libro della sua opera sulla Santissima Trinità, sant’Ilario di Poitiers prorompe improvvisamente in una preghiera: Per questo, dice, prego “affinché Tu gonfi le vele dispiegate della nostra fede e della nostra professione con il soffio del Tuo Spirito e mi spinga avanti nella traversata del mio annuncio” (I 37 CCL 62, 35s). Sì, per questo preghiamo in quest’ora per voi, cari amici. Dispiegate quindi le vele delle vostre anime, le vele della fede, della speranza, dell’amore, affinché lo Spirito Santo possa gonfiarle e concedervi un viaggio benedetto come pescatori di uomini nell’oceano del nostro tempo. Amen.

Marzo 2011


Benedetto XVI Omelie 9111