Benedetto XVI Omelie 20811


Annunzio della prossima Dichiarazione di San Juan de Ávila a Dottore della Chiesa Universale

Cari fratelli,


Con grande gioia, in questo luogo della santa chiesa Cattedrale di Santa María La Real de la Almudena, desidero annunciare ora al Popolo di Dio che, accogliendo le richieste del Presidente della Conferenza Episcopale Spagnola, il Cardinale Antonio María Rouco Varela, Arcivescovo de Madrid, degli altri Fratelli nell’Episcopato di Spagna, come pure di un gran numero di Arcivescovi e Vescovi di altre parti del mondo, e di molti fedeli, dichiarerò prossimamente San Juan de Ávila, sacerdote, Dottore della Chiesa Universale.

Nel rendere pubblica questa notizia qui, desidero che la parola e l’esempio di questo esimio Pastore illumini i sacerdoti e coloro che si preparano con gioia e speranza a ricevere, un giorno, la Sacra Ordinazione.

Invito tutti a rivolgere lo sguardo verso di lui, e raccomando alla sua intercessione i Vescovi di Spagna e di tutto il mondo, come pure i sacerdoti e seminaristi, perché, perseverando nella stessa fede della quale egli fu maestro, plasmino il loro cuore secondo i sentimenti di Gesù Cristo, il Buon Pastore, al quale sia gloria e onore nei secoli dei secoli. Amen.


21 agosto 2011: Santa Messa conclusiva per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù

21811
Base aerea dei Quattro Venti di Madrid

Domenica, 21 agosto 2011


PAROLE DEL SANTO PADRE ALL'INIZIO DELLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA

Cari giovani,


ho pensato molto a voi in queste ore in cui non ci siamo visti. Spero che abbiate potuto dormire almeno un poco, nonostante l’inclemenza del tempo. Sono sicuro che all’alba di oggi avete levato gli occhi al cielo più di una volta e non solo gli occhi, ma anche il cuore, e questo vi avrà permesso di pregare. Dio sa ricavare il bene da tutto. Con questa fiducia, e sapendo che il Signore non ci abbandona mai, iniziamo la nostra Celebrazione eucaristica pieni di entusiasmo e saldi nella fede.
* * *


OMELIA


Cari giovani,

con la celebrazione dell’Eucaristia giungiamo al momento culminante di questa Giornata Mondiale della Gioventù. Nel vedervi qui, venuti in gran numero da ogni parte, il mio cuore si riempie di gioia pensando all’affetto speciale con il quale Gesù vi guarda. Sì, il Signore vi vuole bene e vi chiama suoi amici (cfr Jn 15,15). Egli vi viene incontro e desidera accompagnarvi nel vostro cammino, per aprirvi le porte di una vita piena e farvi partecipi della sua relazione intima con il Padre. Noi, da parte nostra, coscienti della grandezza del suo amore, desideriamo corrispondere con ogni generosità a questo segno di predilezione con il proposito di condividere anche con gli altri la gioia che abbiamo ricevuto. Certamente, sono molti attualmente coloro che si sentono attratti dalla figura di Cristo e desiderano conoscerlo meglio. Percepiscono che Egli è la risposta a molte delle loro inquietudini personali. Ma chi è Lui veramente? Come è possibile che qualcuno che ha vissuto sulla terra tanti anni fa abbia qualcosa a che fare con me, oggi?

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato (cfr Mt 16,13-20) vediamo descritti due modi distinti di conoscere Cristo. Il primo consisterebbe in una conoscenza esterna, caratterizzata dall’opinione corrente. Alla domanda di Gesù: «La gente chi dice che sia il Figlio dell’Uomo?», i discepoli rispondono: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Vale a dire, si considera Cristo come un personaggio religioso in più di quelli già conosciuti. Poi, rivolgendosi personalmente ai discepoli, Gesù chiede loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro risponde con quella che è la prima confessione di fede: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». La fede va al di là dei semplici dati empirici o storici, ed è capace di cogliere il mistero della persona di Cristo nella sua profondità.

Però la fede non è frutto dello sforzo umano, della sua ragione, bensì è un dono di Dio: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne, né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli». Ha la sua origine nell’iniziativa di Dio, che ci rivela la sua intimità e ci invita a partecipare della sua stessa vita divina. La fede non dà solo alcune informazioni sull’identità di Cristo, bensì suppone una relazione personale con Lui, l’adesione di tutta la persona, con la propria intelligenza, volontà e sentimenti alla manifestazione che Dio fa di se stesso. Così, la domanda «Ma voi, chi dite che io sia?», in fondo sta provocando i discepoli a prendere una decisione personale in relazione a Lui. Fede e sequela di Cristo sono in stretto rapporto. E, dato che suppone la sequela del Maestro, la fede deve consolidarsi e crescere, farsi più profonda e matura, nella misura in cui si intensifica e rafforza la relazione con Gesù, la intimità con Lui. Anche Pietro e gli altri apostoli dovettero avanzare per questo cammino, fino a che l’incontro con il Signore risorto aprì loro gli occhi a una fede piena.

Cari giovani, anche oggi Cristo si rivolge a voi con la stessa domanda che fece agli apostoli: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispondetegli con generosità e audacia, come corrisponde a un cuore giovane qual è il vostro. Ditegli: Gesù, io so che Tu sei il Figlio di Dio, che hai dato la tua vita per me. Voglio seguirti con fedeltà e lasciarmi guidare dalla tua parola. Tu mi conosci e mi ami. Io mi fido di te e metto la mia intera vita nelle tue mani. Voglio che Tu sia la forza che mi sostiene, la gioia che mai mi abbandona.

Nella sua risposta alla confessione di Pietro, Gesù parla della Chiesa: «E io a te dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Che significa ciò? Gesù costruisce la Chiesa sopra la roccia della fede di Pietro, che confessa la divinità di Cristo.

Sì, la Chiesa non è una semplice istituzione umana, come qualsiasi altra, ma è strettamente unita a Dio. Lo stesso Cristo si riferisce ad essa come alla «sua» Chiesa. Non è possibile separare Cristo dalla Chiesa, come non si può separare la testa dal corpo (cfr 1Co 12,12). La Chiesa non vive di se stessa, bensì del Signore. Egli è presente in mezzo ad essa, e le dà vita, alimento e forza.

Cari giovani, permettetemi che, come Successore di Pietro, vi inviti a rafforzare questa fede che ci è stata trasmessa dagli Apostoli, a porre Cristo, il Figlio di Dio, al centro della vostra vita. Però permettetemi anche che vi ricordi che seguire Gesù nella fede è camminare con Lui nella comunione della Chiesa. Non si può seguire Gesù da soli. Chi cede alla tentazione di andare «per conto suo» o di vivere la fede secondo la mentalità individualista, che predomina nella società, corre il rischio di non incontrare mai Gesù Cristo, o di finire seguendo un’immagine falsa di Lui.

Aver fede significa appoggiarsi sulla fede dei tuoi fratelli, e che la tua fede serva allo stesso modo da appoggio per quella degli altri. Vi chiedo, cari amici, di amare la Chiesa, che vi ha generati alla fede, che vi ha aiutato a conoscere meglio Cristo, che vi ha fatto scoprire la bellezza del suo amore. Per la crescita della vostra amicizia con Cristo è fondamentale riconoscere l’importanza del vostro gioioso inserimento nelle parrocchie, comunità e movimenti, così come la partecipazione all’Eucarestia di ogni domenica, il frequente accostarsi al sacramento della riconciliazione e il coltivare la preghiera e la meditazione della Parola di Dio.

Da questa amicizia con Gesù nascerà anche la spinta che conduce a dare testimonianza della fede negli ambienti più diversi, incluso dove vi è rifiuto o indifferenza. Non è possibile incontrare Cristo e non farlo conoscere agli altri. Quindi, non conservate Cristo per voi stessi! Comunicate agli altri la gioia della vostra fede. Il mondo ha bisogno della testimonianza della vostra fede, ha bisogno certamente di Dio. Penso che la vostra presenza qui, giovani venuti dai cinque continenti, sia una meravigliosa prova della fecondità del mandato di Cristo alla Chiesa: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). Anche a voi spetta lo straordinario compito di essere discepoli e missionari di Cristo in altre terre e paesi dove vi è una moltitudine di giovani che aspirano a cose più grandi e, scorgendo nei propri cuori la possibilità di valori più autentici, non si lasciano sedurre dalle false promesse di uno stile di vita senza Dio.

Cari giovani, prego per voi con tutto l’affetto del mio cuore. Vi raccomando alla Vergine Maria, perché vi accompagni sempre con la sua intercessione materna e vi insegni la fedeltà alla Parola di Dio. Vi chiedo anche di pregare per il Papa, perché come Successore di Pietro, possa proseguire confermando i suoi fratelli nella fede. Che tutti nella Chiesa, pastori e fedeli, ci avviciniamo ogni giorno di più al Signore, per crescere nella santità della vita e dare così testimonianza efficace che Gesù Cristo è veramente il Figlio di Dio, il Salvatore di tutti gli uomini e la fonte viva della loro speranza. Amen.


Settembre 2011



VISITA PASTORALE AD ANCONA A CONCLUSIONE DEL XXV CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE ITALIANO


11 settembre 2011: Concelebrazione Eucaristica a conclusione del XXV Congresso Eucaristico Nazionale Italiano

11911
Cantiere Navale di Ancona

Domenica, 11 settembre 2011



Carissimi fratelli e sorelle!

Sei anni fa, il primo viaggio apostolico in Italia del mio pontificato mi condusse a Bari, per il 24° Congresso Eucaristico Nazionale. Oggi sono venuto a concludere solennemente il 25°, qui ad Ancona. Ringrazio il Signore per questi intensi momenti ecclesiali che rafforzano il nostro amore all’Eucaristia e ci vedono uniti attorno all’Eucaristia! Bari e Ancona, due città affacciate sul mare Adriatico; due città ricche di storia e di vita cristiana; due città aperte all’Oriente, alla sua cultura e alla sua spiritualità; due città che i temi dei Congressi Eucaristici hanno contribuito ad avvicinare: a Bari abbiamo fatto memoria di come “senza la Domenica non possiamo vivere”; oggi il nostro ritrovarci è all’insegna dell’“Eucaristia per la vita quotidiana”.

Prima di offrivi qualche pensiero, vorrei ringraziarvi per questa vostra corale partecipazione: in voi abbraccio spiritualmente tutta la Chiesa che è in Italia. Rivolgo un saluto riconoscente al Presidente della Conferenza Episcopale, Cardinale Angelo Bagnasco, per le cordiali parole che mi ha rivolto anche a nome di tutti voi; al mio Legato a questo Congresso, Cardinale Giovanni Battista Re; all’Arcivescovo di Ancona-Osimo, Mons. Edoardo Menichelli, ai Vescovi della Metropolìa, delle Marche e a quelli convenuti numerosi da ogni parte del Paese. Insieme con loro, saluto i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e le consacrate, e i fedeli laici, fra i quali vedo molte famiglie e molti giovani. La mia gratitudine va anche alle Autorità civili e militari e a quanti, a vario titolo, hanno contribuito al buon esito di questo evento.

“Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (
Jn 6,60). Davanti al discorso di Gesù sul pane della vita, nella Sinagoga di Cafarnao, la reazione dei discepoli, molti dei quali abbandonarono Gesù, non è molto lontana dalle nostre resistenze davanti al dono totale che Egli fa di se stesso. Perché accogliere veramente questo dono vuol dire perdere se stessi, lasciarsi coinvolgere e trasformare, fino a vivere di Lui, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda Lettura: “Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8).

“Questa parola è dura!”; è dura perché spesso confondiamo la libertà con l’assenza di vincoli, con la convinzione di poter fare da soli, senza Dio, visto come un limite alla libertà. E’ questa un’illusione che non tarda a volgersi in delusione, generando inquietudine e paura e portando, paradossalmente, a rimpiangere le catene del passato: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto…” – dicevano gli ebrei nel deserto (Ex 16,3), come abbiamo ascoltato. In realtà, solo nell’apertura a Dio, nell’accoglienza del suo dono, diventiamo veramente liberi, liberi dalla schiavitù del peccato che sfigura il volto dell’uomo e capaci di servire al vero bene dei fratelli.

“Questa parola è dura!”; è dura perché l’uomo cade spesso nell’illusione di poter “trasformare le pietre in pane”. Dopo aver messo da parte Dio, o averlo tollerato come una scelta privata che non deve interferire con la vita pubblica, certe ideologie hanno puntato a organizzare la società con la forza del potere e dell’economia. La storia ci dimostra, drammaticamente, come l’obiettivo di assicurare a tutti sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione si sia risolto in un dare agli uomini pietre al posto del pane. Il pane, cari fratelli e sorelle, è “frutto del lavoro dell’uomo”, e in questa verità è racchiusa tutta la responsabilità affidata alle nostre mani e alla nostra ingegnosità; ma il pane è anche, e prima ancora, “frutto della terra”, che riceve dall’alto sole e pioggia: è dono da chiedere, che ci toglie ogni superbia e ci fa invocare con la fiducia degli umili: “Padre (…), dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11).

L’uomo è incapace di darsi la vita da se stesso, egli si comprende solo a partire da Dio: è la relazione con Lui a dare consistenza alla nostra umanità e a rendere buona e giusta la nostra vita. Nel Padre nostro chiediamo che sia santificato il Suo nome, che venga il Suo regno, che si compia la Sua volontà. E’ anzitutto il primato di Dio che dobbiamo recuperare nel nostro mondo e nella nostra vita, perché è questo primato a permetterci di ritrovare la verità di ciò che siamo, ed è nel conoscere e seguire la volontà di Dio che troviamo il nostro vero bene. Dare tempo e spazio a Dio, perché sia il centro vitale della nostra esistenza.

Da dove partire, come dalla sorgente, per recuperare e riaffermare il primato di Dio? Dall’Eucaristia: qui Dio si fa così vicino da farsi nostro cibo, qui Egli si fa forza nel cammino spesso difficile, qui si fa presenza amica che trasforma. Già la Legge data per mezzo di Mosè veniva considerata come “pane del cielo”, grazie al quale Israele divenne il popolo di Dio, ma in Gesù la parola ultima e definitiva di Dio si fa carne, ci viene incontro come Persona. Egli, Parola eterna, è la vera manna, è il pane della vita (cfr Jn 6,32-35) e compiere le opere di Dio è credere in Lui (cfr Jn 6,28-29). Nell’Ultima Cena Gesù riassume tutta la sua esistenza in un gesto che si inscrive nella grande benedizione pasquale a Dio, gesto che Egli vive da Figlio come rendimento di grazie al Padre per il suo immenso amore. Gesù spezza il pane e lo condivide, ma con una profondità nuova, perché Egli dona se stesso. Prende il calice e lo condivide perché tutti ne possano bere, ma con questo gesto Egli dona la “nuova alleanza nel suo sangue”, dona se stesso. Gesù anticipa l’atto di amore supremo, in obbedienza alla volontà del Padre: il sacrificio della Croce. La vita gli sarà tolta sulla Croce, ma già ora Egli la offre da se stesso. Così la morte di Cristo non è ridotta ad un’esecuzione violenta, ma è trasformata da Lui in un libero atto d’amore, in un atto di auto-donazione, che attraversa vittoriosamente la stessa morte e ribadisce la bontà della creazione uscita dalle mani di Dio, umiliata dal peccato e finalmente redenta. Questo immenso dono è a noi accessibile nel Sacramento dell’Eucaristia: Dio si dona a noi, per aprire la nostra esistenza a Lui, per coinvolgerla nel mistero di amore della Croce, per renderla partecipe del mistero eterno da cui proveniamo e per anticipare la nuova condizione della vita piena in Dio, in attesa della quale viviamo.

Ma che cosa comporta per la nostra vita quotidiana questo partire dall’Eucaristia per riaffermare il primato di Dio? La comunione eucaristica, cari amici, ci strappa dal nostro individualismo, ci comunica lo spirito del Cristo morto e risorto, e ci conforma a Lui; ci unisce intimamente ai fratelli in quel mistero di comunione che è la Chiesa, dove l’unico Pane fa dei molti un solo corpo (cfr 1Co 10,17), realizzando la preghiera della comunità cristiana delle origini riportata nel libro della Didaché: “Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una cosa sola, così la tua Chiesa dai confini della terra venga radunata nel tuo Regno” (IX, 4). L’Eucaristia sostiene e trasforma l’intera vita quotidiana. Come ricordavo nella mia prima Enciclica, “nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri”, per cui “un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata” (Deus caritas est, ).

La bimillenaria storia della Chiesa è costellata di santi e sante, la cui esistenza è segno eloquente di come proprio dalla comunione con il Signore, dall’Eucaristia nasca una nuova e intensa assunzione di responsabilità a tutti i livelli della vita comunitaria, nasca quindi uno sviluppo sociale positivo, che ha al centro la persona, specie quella povera, malata o disagiata. Nutrirsi di Cristo è la via per non restare estranei o indifferenti alle sorti dei fratelli, ma entrare nella stessa logica di amore e di dono del sacrificio della Croce; chi sa inginocchiarsi davanti all’Eucaristia, chi riceve il corpo del Signore non può non essere attento, nella trama ordinaria dei giorni, alle situazioni indegne dell’uomo, e sa piegarsi in prima persona sul bisognoso, sa spezzare il proprio pane con l’affamato, condividere l’acqua con l’assetato, rivestire chi è nudo, visitare l’ammalato e il carcerato (cfr Mt 25,34-36). In ogni persona saprà vedere quello stesso Signore che non ha esitato a dare tutto se stesso per noi e per la nostra salvezza. Una spiritualità eucaristica, allora, è vero antidoto all’individualismo e all’egoismo che spesso caratterizzano la vita quotidiana, porta alla riscoperta della gratuità, della centralità delle relazioni, a partire dalla famiglia, con particolare attenzione a lenire le ferite di quelle disgregate. Una spiritualità eucaristica è anima di una comunità ecclesiale che supera divisioni e contrapposizioni e valorizza le diversità di carismi e ministeri ponendoli a servizio dell’unità della Chiesa, della sua vitalità e della sua missione. Una spiritualità eucaristica è via per restituire dignità ai giorni dell’uomo e quindi al suo lavoro, nella ricerca della sua conciliazione con i tempi della festa e della famiglia e nell’impegno a superare l’incertezza del precariato e il problema della disoccupazione. Una spiritualità eucaristica ci aiuterà anche ad accostare le diverse forme di fragilità umana consapevoli che esse non offuscano il valore della persona, ma richiedono prossimità, accoglienza e aiuto. Dal Pane della vita trarrà vigore una rinnovata capacità educativa, attenta a testimoniare i valori fondamentali dell’esistenza, del sapere, del patrimonio spirituale e culturale; la sua vitalità ci farà abitare la città degli uomini con la disponibilità a spenderci nell’orizzonte del bene comune per la costruzione di una società più equa e fraterna.

Cari amici, ripartiamo da questa terra marchigiana con la forza dell’Eucaristia in una costante osmosi tra il mistero che celebriamo e gli ambiti del nostro quotidiano. Non c’è nulla di autenticamente umano che non trovi nell’Eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza: la vita quotidiana diventi dunque luogo del culto spirituale, per vivere in tutte le circostanze il primato di Dio, all’interno del rapporto con Cristo e come offerta al Padre (cfr Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 71 ). Sì, “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4): noi viviamo dell’obbedienza a questa parola, che è pane vivo, fino a consegnarci, come Pietro, con l’intelligenza dell’amore: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Jn 6,68-69).

Come la Vergine Maria, diventiamo anche noi “grembo” disponibile ad offrire Gesù all’uomo del nostro tempo, risvegliando il desiderio profondo di quella salvezza che viene soltanto da Lui. Buon cammino, con Cristo Pane di vita, a tutta la Chiesa che è in Italia! Amen.


VIAGGIO APOSTOLICO IN GERMANIA 22-25 SETTEMBRE 2011


22 settembre 2011: Santa Messa nell’Olympiastadion di Berlin

22911
Olympiastadion di Berlin

Giovedì, 22 settembre 2011




Cari confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,

lo sguardo all’ampio stadio olimpico che voi riempite oggi in gran numero, suscita in me grande gioia e fiducia. Saluto con affetto tutti voi: i fedeli dell’Arcidiocesi di Berlino e delle Diocesi tedesche, nonché i numerosi pellegrini provenienti dai Paesi vicini. Quindici anni or sono, per la prima volta un Papa è venuto nella capitale federale Berlino. Tutti – anche io personalmente - abbiamo un ricordo molto vivo della Visita del mio venerato Predecessore, il Beato Giovanni Paolo II, e della Beatificazione del Prevosto del Duomo di Berlino Bernhard Lichtenberg – insieme a Karl Leisner – avvenuta proprio qui, in questo luogo.

Pensando a questi Beati e a tutta la schiera dei Santi e Beati, possiamo capire che cosa significhi vivere come tralci della vera vite che è Cristo, e portare frutto. Il Vangelo di oggi ci ha richiamato alla mente l’immagine di questa pianta, che è rampicante in modo rigoglioso nell’oriente e simbolo di forza vitale, una metafora per la bellezza e il dinamismo della comunione di Gesù con i suoi discepoli e amici, con noi.

Nella parabola della vite, Gesù non dice: “Voi siete la vite”, ma: “Io sono la vite, voi i tralci” (
Jn 15,5). Ciò significa: “Così come i tralci sono legati alla vite, così voi appartenete a me! Ma appartenendo a me, appartenete anche gli uni agli altri”. E questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale. È la Chiesa, questa comunità di vita con Gesù Cristo e dell'uno per l’altro, che è fondata nel Battesimo e approfondita ogni volta di più nell’Eucaristia. “Io sono la vera vite”; questo, però, in realtà significa: “Io sono voi e voi siete me” – un’inaudita identificazione del Signore con noi, con la sua Chiesa.

Cristo stesso, quella volta, vicino a Damasco, chiese a Saulo, il persecutore della Chiesa: “Perché mi perseguiti?” (Ac 9,4). In tal modo il Signore esprime la comunanza di destino che deriva dall’intima comunione di vita della sua Chiesa con Lui, il Risorto. Egli continua a vivere nella sua Chiesa in questo mondo. Egli è con noi, e noi siamo con Lui. – “Perché mi perseguiti?” –In definitiva è Gesù che vogliono colpire i persecutori della sua Chiesa. E, allo stesso tempo, questo significa che noi non siamo soli quando siamo oppressi a causa della nostra fede. Gesù Cristo è da noi e con noi.

Nella parabola, il Signore Gesù dice ancora una volta: “Io sono la vite vera, e il Padre mio è l’agricoltore” (Jn 15,1), e spiega che il vignaiolo prende il coltello, taglia i tralci secchi e pota quelli che portano frutto perché portino più frutto. Per dirlo con l'immagine del profeta Ezechiele, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, Dio vuole togliere dal nostro petto il cuore morto, di pietra, e darci un cuore vivente, di carne (cfr Ez 36,26). Vuole donarci una vita nuova e piena di forza. un cuore di amore, di bontà e di pace. Cristo è venuto a chiamare i peccatori. Sono loro che hanno bisogno del medico, non i sani (cfr Lc 5,31s.). E così, come dice il Concilio Vaticano II, la Chiesa è il “sacramento universale di salvezza” (Lumen gentium LG 48) che esiste per i peccatori, per noi, per aprire a noi la via della conversione, della guarigione e della vita. Questa è la continua e grande missione della Chiesa, conferitale da Cristo.

Alcuni guardano la Chiesa fermandosi al suo aspetto esteriore. Allora la Chiesa appare solo come una delle tante organizzazioni in una società democratica, secondo le cui norme e leggi, poi, deve essere giudicata e trattata anche una figura così difficile da comprendere come la “Chiesa”. Se poi si aggiunge ancora l'esperienza dolorosa che nella Chiesa ci sono pesci buoni e cattivi, grano e zizzania, e se lo sguardo resta fisso sulle cose negative, allora non si schiude più il mistero grande e bello della Chiesa.

Quindi, non sorge più alcuna gioia per il fatto di appartenere a questa vite che è la “Chiesa”. Insoddisfazione e malcontento vanno diffondendosi, se non si vedono realizzate le proprie idee superficiali ed erronee di “Chiesa” e i propri “sogni di Chiesa”! Allora cessa anche il lieto canto “Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa”, che generazioni di cattolici hanno cantato con convinzione.

Ma torniamo al Vangelo. Il Signore continua così: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me, … perché senza di me – si potrebbe anche tradurre: fuori di me – non potete far nulla” (Jn 15,4).

Ognuno di noi è messo di fronte a tale decisione. Il Signore, nella sua parabola, ci dice di nuovo quanto essa sia seria: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi raccolgono i tralci buttati via, li gettano nel fuoco e li bruciano” (cfr Jn 15,6). Al riguardo, S. Agostino commenta: “L’uno o l’altro spetta al tralcio, o la vite o il fuoco; se [il tralcio] non è nella vite, sarà nel fuoco; quindi affinché non sia nel fuoco, sia nella vite” (In Joan. Ev. tract. 81,3 [PL 35, 1842]).

La scelta qui richiesta ci fa capire, in modo insistente, il significato fondamentale della nostra decisione di vita. Ma, allo stesso tempo, l'immagine della vite è un segno di speranza e di fiducia. Incarnandosi, Cristo stesso è venuto in questo mondo per essere il nostro fondamento. In ogni necessità e aridità, Egli è la sorgente che dona l’acqua della vita che ci nutre e ci fortifica. Egli stesso porta su di sé ogni peccato, paura e sofferenza e, in fine, ci purifica e ci trasforma misteriosamente in tralci buoni che danno vino buono. In questi momenti di bisogno, a volte ci sentiamo come finiti sotto un torchio, come i grappoli d’uva che vengono pigiati completamente. Ma sappiamo che, uniti a Cristo, diventiamo vino maturo. Dio sa trasformare in amore anche le cose pesanti e opprimenti nella nostra vita. Importante è che “rimaniamo” nella vite, in Cristo. In questo breve brano, l’evangelista usa la parola “rimanere” una dozzina di volte. Questo “rimanere-in-Cristo” segna l’intero discorso. Nel nostro tempo di inquietudine e di qualunquismo, in cui così tanta gente perde l’orientamento e il sostegno; in cui la fedeltà dell’amore nel matrimonio e nell’amicizia è diventata così fragile e di breve durata; in cui vogliamo gridare, nel nostro bisogno, come i discepoli di Emmaus: “Signore, resta con noi, perché si fa sera (cfr Lc 24,29), sì, è buio intorno a noi!”; in questo tempo il Signore risorto ci offre un rifugio, un luogo di luce, di speranza e fiducia, di pace e sicurezza. Dove la siccità e la morte minacciano i tralci, là in Cristo c’è futuro, vita e gioia, là c’è sempre perdono e nuovo inizio, trasformazione entrando nel suo amore.

Rimanere in Cristo significa, come abbiamo già visto, rimanere anche nella Chiesa. L’intera comunità dei credenti è saldamente compaginata in Cristo, la vite. In Cristo, tutti noi siamo uniti insieme. In questa comunità Egli ci sostiene e, allo stesso tempo, tutti i membri si sostengono a vicenda. Insieme resistiamo alle tempeste e offriamo protezione gli uni agli altri. Noi non crediamo da soli, crediamo con tutta la Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, con la Chiesa che è in Cielo e sulla terra.

La Chiesa quale annunciatrice della Parola di Dio e dispensatrice dei sacramenti ci unisce con Cristo, la vera vite. La Chiesa quale “pienezza e completamento del Redentore” – come la chiamava Pio XII - (Pio XII, Mystici corporis, AAS 35 [1943] p. 230: “plenitudo et complementum Redemptoris”) è per noi pegno della vita divina e mediatrice dei frutti di cui parla la parabola della vite. Così la Chiesa è il dono più bello di Dio. Pertanto, Agostino poteva dire: “Ognuno possiede lo Spirito Santo nella misura in cui ama la Chiesa” (In Ioan. Ev. tract. 32, 8 [PL 35, 1646]). Con la Chiesa e nella Chiesa possiamo annunciare a tutti gli uomini che Cristo è la fonte della vita, che Egli è presente, che Egli è la grande realtà che cerchiamo e a cui aneliamo. Egli dona se stesso e così ci dona Dio, la felicità, l’amore. Chi crede in Cristo, ha un futuro. Perché Dio non vuole ciò che è arido, morto, artificiale, che alla fine è gettato via, ma vuole ciò che è fecondo e vivo, la vita in abbondanza, e Lui ci dà la vita in abbondanza.

Cari fratelli e sorelle! Auguro a tutti voi e a noi tutti di scoprire sempre più profondamente la gioia di essere uniti con Cristo nella Chiesa – con tutti i suoi affanni e le sue oscurità - di poter trovare nelle vostre necessità conforto e redenzione e che tutti noi possiamo diventare il vino delizioso della gioia e dell’amore di Cristo per questo mondo. Amen.



24 settembre 2011: Santa Messa nella Domplatz di Erfurt

24911
Domplatz di Erfurt

Sabato, 24 settembre 2011


Cari fratelli e sorelle!

“Lodate il Signore in ogni tempo, perché è buono”: così abbiamo appena cantato prima del Vangelo. Sì, abbiamo veramente motivo per ringraziare Dio con tutto il cuore. Se in questa città torniamo indietro col pensiero al 1981, l’anno giubilare di sant’Elisabetta, trent’anni fa, ai tempi della DDR – chi avrebbe immaginato che il muro e il filo spinato alle frontiere sarebbero caduti pochi anni dopo? E se andiamo ancora più indietro, di circa settant’anni fino al 1941, ai tempi del nazionalsocialismo, nella Grande Guerra – chi avrebbe potuto predire che il “Reich millenario” sarebbe stato ridotto in cenere già quattro anni dopo?

Cari fratelli e sorelle, qui in Turingia e nell’allora DDR avete dovuto sopportare una dittatura “bruna” [nazista] e una “rossa” [comunista], che per la fede cristiana avevano l’effetto che ha la pioggia acida. Tante conseguenze tardive di quel tempo sono ancora da smaltire, soprattutto nell’ambito intellettuale e in quello religioso. La maggioranza della gente in questa terra vive ormai lontana dalla fede in Cristo e dalla comunione della Chiesa. Gli ultimi due decenni, però, presentano anche esperienze positive: un orizzonte più ampio, uno scambio al di là delle frontiere, una fiduciosa certezza che Dio non ci abbandona e ci conduce per vie nuove. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”.

Noi tutti siamo convinti che la nuova libertà abbia aiutato a conferire all’uomo una dignità più grande e ad aprire molteplici nuove possibilità. Dal punto di vista della Chiesa possiamo sottolineare con gratitudine molte facilitazioni: nuove possibilità per le attività parrocchiali, la ristrutturazione e l’ampiamento di chiese e di centri parrocchiali, iniziative diocesane di carattere pastorale o culturale. Ma davanti a noi, naturalmente, si presenta la domanda: queste possibilità ci hanno portato anche a crescita nella fede? Non bisogna forse cercare il fondamento della fede e della vita cristiana a un livello più profondo di quello della libertà sociale? Molti cattolici risoluti sono rimasti fedeli a Cristo e alla Chiesa proprio nella difficile situazione di un’oppressione esteriore. E noi oggi dove stiamo? Quelle persone hanno accettato svantaggi personali pur di vivere la propria fede. Vorrei qui ringraziare i sacerdoti e i loro collaboratori e collaboratrici di quei tempi. In particolare, vorrei ricordare la pastorale dei rifugiati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale: allora molti ecclesiastici e laici hanno compiuto grandi cose per attenuare la situazione penosa dei profughi e donare loro una nuova Patria. Non da ultimo, un ringraziamento sincero va ai genitori che, in mezzo alla diaspora e in un ambiente politico ostile alla Chiesa, hanno educato i loro figli nella fede cattolica. Con gratitudine vorrei ricordare le Settimane Religiose per i bambini durante le vacanze, come anche il lavoro fruttuoso delle Case per la gioventù cattolica “Sankt Sebastian” a Erfurt e “Marcel Callo” a Heiligenstadt. Specialmente nell’Eichsfeld molti cristiani cattolici hanno resistito all’ideologia comunista. Voglia Dio ricompensare tutti abbondantemente per la perseveranza nella fede. La testimonianza coraggiosa e il paziente vivere con Lui, la paziente fiducia nella provvidenza di Dio sono come un seme prezioso che promette un abbondante frutto per il futuro.

La presenza di Dio si manifesta sempre in modo particolarmente chiaro nei Santi. La loro testimonianza di fede può darci anche oggi il coraggio per un nuovo risveglio. Pensiamo qui soprattutto ai santi Patroni della Diocesi di Erfurt: Elisabetta di Turingia, Bonifacio e Kilian. Elisabetta venne da un Paese estero, dall’Ungheria, a Wartburg in Turingia. Condusse una vita intensa di preghiera, unita alla penitenza e alla povertà evangelica. Scendeva regolarmente dal suo castello nella città di Eisenach per curarvi di persona i poveri e i malati. La sua vita su questa terra durò poco – raggiunse soltanto l’età di ventiquattro anni –, ma il frutto della sua santità si estende per i secoli. Sant’Elisabetta gode grande stima anche da parte dei cristiani evangelici; può aiutare tutti noi a scoprire la pienezza della fede, la sua bellezza e la sua profondità e la sua forza trasformante e purificante, e a tradurla nella nostra vita quotidiana.

Alle radici cristiane del nostro Paese rimanda anche la fondazione della Diocesi di Erfurt nell’anno 742 da parte di san Bonifacio. Questo evento costituisce, al contempo, la prima menzione documentata della città di Erfurt. Il Vescovo missionario Bonfacio era venuto dall’Inghilterra e faceva parte del suo stile di lavoro di operare in unità essenziale e in stretto collegamento con il Vescovo di Roma, il Successore di san Pietro. Sapeva che la Chiesa deve essere unita attorno a Pietro. Lo veneriamo come “Apostolo della Germania”; morì martire. Due dei suoi compagni che condivisero con lui la testimonianza del sangue per la fede cristiana sono seppelliti qui, nel Duomo di Erfurt: sono i santi Eoban ed Adelar.

Già prima dei missionari anglosassoni ha operato in Turingia san Kilian, un missionario itinerante che proveniva dall’Irlanda. Insieme con due compagni egli morì martire a Würzburg, perché criticava il comportamento moralmente sbagliato del duca di Turingia lì residente. E, infine, non vogliamo dimenticare san Severo, il Patrono della Severikirche qui nella Piazza del Duomo: nel quarto secolo, egli era Vescovo di Ravenna; nell’anno 836, le sue spoglie vennero portate a Erfurt, per radicare più profondamente la fede cristiana in questa regione. Da questi morti, infatti, partiva la testimonianza viva della Chiesa che perdura nel tempo, della fede, che feconda ogni epoca e ci indica il cammino della vita.

Chiediamoci: che cosa hanno in comune questi santi? Come possiamo descrivere l’aspetto particolare della loro vita e comprendere che ci riguarda e che può operare nella nostra vita? I Santi ci mostrano anzitutto che è possibile e che è bene vivere in rapporto con Dio e vivere questo rapporto in modo radicale, metterlo al primo posto e non riservare ad esso soltanto qualche angolo. I santi ci rendono evidente il fatto che Dio, da parte sua, si è rivolto per primo verso di noi. Noi non potremmo giungere fino a Lui e protenderci in qualche modo verso ciò che è ignoto, se non ci avesse amato per primo, se non ci fosse venuto incontro per primo. Dopo essere già venuto incontro ai Padri con le parole della chiamata, Egli stesso si è mostrato a noi in Gesù Cristo e in Lui continua a mostrarsi a noi. Cristo ci viene incontro anche oggi, parla ad ognuno, come ha appena fatto nel Vangelo, e invita ciascuno di noi ad ascoltarlo, ad imparare a comprenderLo e a seguirLo. Questo invito e questa possibilità, i Santi l’hanno valorizzata, hanno riconosciuto il Dio concreto, lo hanno visto e ascoltato, Gli sono andato incontro e hanno camminato con Lui; si sono, per così dire, fatti contagiare da Lui, e si sono protesi dal loro intimo verso di Lui – nel continuo dialogo della preghiera – e da Lui hanno ricevuto la luce che dischiuse loro la vita vera.

La fede è sempre anche essenzialmente un credere insieme con gli altri. Nessuno può credere da solo. Riceviamo la fede, ci dice Paolo, attraverso l’ascolto. E l’ascolto è un processo dell’essere insieme in modo spirituale e fisico. Soltanto nella grande comunione dei fedeli di ogni tempo che hanno trovato Cristo e che sono stati trovati da Lui posso credere. Il fatto di poter credere lo devo innanzitutto a Dio che si rivolge a me e, per così dire, “accende” la mia fede. Ma molto concretamente devo la mia fede a coloro che mi sono vicini e che hanno creduto prima di me e credono insieme con me. Questo grande “con”, senza il quale non può esserci alcuna fede personale, è la Chiesa. E questa Chiesa non si ferma davanti alle frontiere dei Paesi, lo dimostrano le nazionalità dei santi da me menzionati: Ungheria, Inghilterra, Irlanda e Italia. Qui si evidenzia quanto sia importante lo scambio spirituale che si espande attraverso l’intera Chiesa universale. Sì, è stato fondamentale per lo sviluppo della Chiesa nel nostro Paese e continua ad essere fondamentale per ogni tempo: che crediamo insieme in tutti i Continenti e che impariamo gli uni dagli altri a credere. Se noi ci apriamo a tutta la fede in tutta la storia e nelle sue testimonianze in tutta la Chiesa, allora la fede cattolica ha futuro anche come forza pubblica in Germania. Al tempo stesso le figure dei Santi di cui ho parlato ci mostrano la grande fecondità di una vita con Dio, la fecondità di questo amore radicale per Dio e per il prossimo. I Santi, anche dove sono soltanto pochi, cambiano il mondo. E i grandi Santi continuano a essere forze trasformatrici in ogni tempo.

Così i cambiamenti politici dell’anno 1989 nel nostro Paese non erano motivati soltanto dal desiderio di benessere e di libertà di movimento, ma, in modo decisivo, dal desiderio di veracità. Questo desiderio venne tenuto desto, fra l’altro, da persone che stavano totalmente al servizio di Dio e del prossimo ed erano disposte a sacrificare la propria vita. Essi e i santi ricordati ci danno il coraggio di trarre profitto dalla nuova situazione. Non vogliamo nasconderci in una fede solamente privata, ma vogliamo gestire in modo responsabile la libertà raggiunta. Come i santi Kilian, Bonifacio, Adelar, Eoban ed Elisabetta di Turingia vogliamo andare incontro ai nostri concittadini da cristiani ed invitarli a scoprire con noi la pienezza della Buona Novella, la sua presenza e la sua forza vitale e bellezza. Allora assomiglieremo alla famosa campana del Duomo di Erfurt che porta il nome di “Gloriosa”. Essa è ritenuta la più grande campana medioevale del mondo ad oscillazione libera. È un segno vivo del nostro profondo radicamento nella tradizione cristiana, ma anche un richiamo a metterci in cammino ed impegnarci nella missione. Suonerà anche oggi alla fine della Messa solenne. Possa stimolarci a rendere visibile ed udibile nel mondo – secondo l’esempio dei Santi - la testimonianza di Cristo, a rendere udibile e visibile la gloria di Dio e, in tal modo, a vivere in un mondo in cui Dio è presente e rende la vita bella e ricca di significato. Amen.


Benedetto XVI Omelie 20811