Benedetto XVI Omelie 40312

VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE AL TORRINO; Domenica, 4 marzo 2012

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Cari fratelli e sorelle
della Parrochia di San Giovanni Battista de La Salle!

Innanzitutto vorrei dire, con tutto il mio cuore, grazie per questa accoglienza così cordiale, calorosa. Grazie al buon Parroco per le sue belle parole, grazie per questo spirito di familiarità che trovo. Siamo realmente famiglia di Dio e il fatto che vedete nel Papa anche il papà, è per me una cosa molto bella che mi incoraggia! Ma adesso dobbiamo pensare che anche il Papa non è l’ultima istanza: l’ultima istanza è il Signore e guardiamo al Signore per percepire, per capire – in quanto possibile – qualcosa del messaggio di questa seconda Domenica della Quaresima.

La liturgia di questo giorno ci prepara sia al mistero della Passione – lo abbiamo sentito nella prima Lettura – sia alla gioia della Risurrezione.

La prima Lettura ci riferisce l’episodio in cui Dio mette alla prova Abramo (cfr
Gn 22,1-18). Egli aveva un unico figlio, Isacco, natogli in vecchiaia. Era il figlio della promessa, il figlio che avrebbe dovuto portare poi la salvezza anche ai popoli. Ma un giorno Abramo riceve da Dio il comando di offrirlo in sacrificio. L’anziano patriarca si trova di fronte alla prospettiva di un sacrificio che per lui, padre, è certamente il più grande che si possa immaginare. Tuttavia non esita neppure un istante e, dopo aver preparato il necessario, parte insieme ad Isacco per il luogo stabilito. E possiamo immaginare questa camminata verso la cima del monte, che cosa sia successo nel suo cuore e nel cuore del figlio. Costruisce un altare, colloca la legna e, legato il ragazzo, afferra il coltello per immolarlo. Abramo si fida totalmente di Dio, da essere disposto anche a sacrificare il proprio figlio e, con il figlio, il futuro, perché senza figlio la promessa della terra era niente, finisce nel niente. E sacrificando il figlio sacrifica se stesso, tutto il suo futuro, tutta la promessa. È realmente un atto di fede radicalissimo. In questo momento viene fermato da un ordine dall’alto: Dio non vuole la morte, ma la vita, il vero sacrificio non dà morte, ma è la vita e l’obbedienza di Abramo è diventa fonte di una immensa benedizione fino ad oggi. Lasciamo questo, ma possiamo meditare questo mistero.

Nella seconda Lettura, san Paolo afferma che Dio stesso ha compiuto un sacrificio: ci ha dato il suo proprio Figlio, lo ha donato sulla Croce per vincere il peccato e la morte, per vincere il maligno e per superare tutta la malizia che esiste nel mondo. E questa straordinaria misericordia di Dio suscita l’ammirazione dell’Apostolo e una profonda fiducia nella forza dell’amore di Dio per noi; afferma, infatti san Paolo: «[Dio], che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,32). Se Dio dà se stesso nel Figlio, ci dà tutto. E Paolo insiste sulla potenza del sacrificio redentore di Cristo contro ogni altro potere che può insidiare la nostra vita. Egli si chiede: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi ci condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (vv. 33-34). Noi siamo nel cuore di Dio, questa è la nostra grande fiducia. Questo crea amore e nell’amore andiamo verso Dio. Se Dio ha donato il proprio Figlio per tutti noi, nessuno potrà accusarci, nessuno potrà condannarci, nessuno potrà separarci dal suo immenso amore. Proprio il sacrificio supremo di amore sulla Croce, che il Figlio di Dio ha accettato e scelto volontariamente, diventa fonte della nostra giustificazione, della nostra salvezza. E pensiamo che nella Sacra Eucaristia è sempre presente questo atto del Signore che nel suo cuore rimane in eterno, e questo atto del suo cuore ci attira, ci unisce con se stesso.

Finalmente, il Vangelo ci parla dell’episodio della trasfigurazione (cfr Mc 9,2-10): Gesù si manifesta nella sua gloria prima del sacrificio della Croce e Dio Padre lo proclama suo Figlio prediletto, l’amato, e invita i discepoli ad ascoltarlo. Gesù sale su un alto monte e prende con sé tre apostoli – Pietro, Giacomo e Giovanni –, che gli saranno particolarmente vicini nell’estrema agonia, su un altro monte, quello degli Ulivi. Da poco il Signore aveva annunciato la sua passione e Pietro non era riuscito a capire perché il Signore, il Figlio di Dio, parlasse di sofferenza, di rifiuto, di morte, di croce, anzi si era opposto con decisione a questa prospettiva. Ora Gesù prende con sé i tre discepoli per aiutarli a comprendere che la strada per giungere alla gloria, la strada dell’amore luminoso che vince le tenebre, passa attraverso il dono totale di sé, passa attraverso lo scandalo della Croce. E il Signore sempre di nuovo deve prendere con sé anche noi, almeno per cominciare a capire che questo è il cammino necessario. La trasfigurazione è un momento anticipato di luce che aiuta anche noi a guardare alla passione di Gesù con lo sguardo della fede. Essa, sì, è un mistero di sofferenza, ma è anche la «beata passione» perché è - nel nucleo - un mistero di amore straordinario di Dio; è l’esodo definitivo che ci apre la porta verso la libertà e la novità della Risurrezione, della salvezza dal male. Ne abbiamo bisogno nel nostro cammino quotidiano, spesso segnato anche dal buio del male!

Cari fratelli e sorelle! Come ho già detto, sono molto lieto di essere in mezzo a voi, oggi, per celebrare il Giorno del Signore. Saluto cordialmente il Cardinale Vicario, il Vescovo Ausiliare del Settore, il vostro Parroco, don Giampaolo Perugini, che ringrazio, ancora una volta, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome di tutti voi e anche per i graditi doni che mi avete offerto. Saluto i Vicari Parrocchiali. E saluto le Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, qui presenti da tanti anni, particolarmente benemerite per la vita di questa parrocchia, che ha trovato pronta e generosa ospitalità nella loro casa nei primi tre anni di vita. Estendo poi il mio saluto ai Fratelli delle Scuole Cristiane, naturalmente affezionati a questa chiesa parrocchiale che porta il nome del loro Fondatore. Saluto, inoltre, quanti sono attivi nell’ambito della Parrocchia: mi riferisco ai catechisti, ai membri delle Associazioni e dei Movimenti, come pure dei diversi gruppi parrocchiali. Vorrei infine estendere il mio pensiero a tutti gli abitanti del quartiere, specialmente agli anziani, ai malati, alle persone sole e in difficoltà.

Venendo oggi in mezzo a voi, ho notato la particolare posizione di questa chiesa, posta nel punto più alto del quartiere, e dotata di un campanile slanciato, quasi un dito o una freccia verso il cielo. Mi pare sia questa una indicazione importante: come i tre apostoli del Vangelo, anche noi abbiamo bisogno di salire sul monte della trasfigurazione per ricevere la luce di Dio, perché il suo Volto illumini il nostro volto. Ed è nella preghiera personale e comunitaria che noi incontriamo il Signore non come un’idea, o come una proposta morale, ma come una Persona che vuole entrare in rapporto con noi, che vuole essere amico e vuole rinnovare la nostra vita per renderla come la sua. E questo incontro non è solo un fatto personale; questa vostra chiesa posta nel punto più alto del quartiere vi ricorda che il Vangelo deve essere comunicato, annunciato a tutti. Non aspettiamo che altri vengano a portare messaggi diversi, che non conducono alla vera vita, fatevi voi stessi missionari di Cristo ai fratelli là dove vivono, lavorano, studiano o soltanto trascorrono il tempo libero. Conosco le tante e significative opere di evangelizzazione che state attuando, in particolare attraverso l’oratorio chiamato «Stella polare», - sono felice di portare anche questa camicia [la maglietta dell’oratorio] - dove, grazie al volontariato di persone competenti e generose e con il coinvolgimento delle famiglie, si favorisce l’aggregazione dei ragazzi attraverso l’attività sportiva, senza trascurare però la formazione culturale, attraverso l’arte e la musica, e soprattutto si educa al rapporto con Dio, ai valori cristiani e ad una sempre più consapevole partecipazione alla celebrazione eucaristica domenicale.

Mi rallegro che il senso di appartenenza alla comunità parrocchiale sia venuto sempre più maturando e consolidandosi nel corso degli anni. La fede va vissuta insieme e la parrocchia è un luogo in cui si impara a vivere la propria fede nel «noi» della Chiesa. E desidero incoraggiarvi affinché cresca anche la corresponsabilità pastorale, in una prospettiva di autentica comunione fra tutte le realtà presenti, che sono chiamate a camminare insieme, a vivere la complementarietà nella diversità, a testimoniare il «noi» della Chiesa, della famiglia di Dio. Conosco l’impegno che mettete nella preparazione dei ragazzi e dei giovani ai Sacramenti della vita cristiana. Il prossimo «Anno della fede» sia un’occasione propizia anche per questa parrocchia per far crescere e consolidare l’esperienza della catechesi sulle grandi verità della fede cristiana, in modo da permettere a tutto il quartiere di conoscere e approfondire il Credo della Chiesa, e superare quell’«analfabetismo religioso» che è uno dei più grandi problemi del nostro oggi.

Cari amici! La vostra è una comunità giovane – si vede -costituita da famiglie giovani, e tanti sono, grazie a Dio, i bambini e i ragazzi che la popolano. A questo proposito, vorrei ricordare il compito della famiglia e dell’intera comunità cristiana di educare alla fede, aiutati in ciò dal tema del corrente anno pastorale, dagli orientamenti pastorali proposti dalla Conferenza Episcopale Italiana e senza dimenticare il profondo e sempre attuale insegnamento di san Giovanni Battista de La Salle. In particolare, care famiglie, voi siete l’ambiente di vita in cui si muovono i primi passi della fede; siate comunità in cui si impara a conoscere ed amare sempre di più il Signore, comunità in cui ci si arricchisce a vicenda per vivere una fede veramente adulta.

Vorrei, infine, richiamare a voi tutti l’importanza e la centralità dell’Eucaristia nella vita personale e comunitaria. La santa Messa sia al centro della vostra Domenica, che va riscoperta e vissuta come giorno di Dio e della comunità, giorno in cui lodare e celebrare Colui che è morto e risorto per la nostra salvezza, giorno in cui vivere insieme nella gioia di una comunità aperta e pronta ad accogliere ogni persona sola o in difficoltà. Riuniti attorno all’Eucaristia, infatti, avvertiamo più facilmente come la missione di ogni comunità cristiana sia quella di recare il messaggio dell’amore di Dio a tutti gli uomini. Ecco perché è importante che l’Eucaristia sia sempre il cuore della vita dei fedeli, come lo è quest’oggi.

Cari fratelli e sorelle! Dal Tabor, il monte della Trasfigurazione, l’itinerario quaresimale ci conduce fino al Golgota, monte del supremo sacrificio di amore dell’unico Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. In quel sacrificio è racchiusa la più grande forza di trasformazione dell’uomo e della storia. Assumendo su di sé ogni conseguenza del male e del peccato, Gesù è risorto il terzo giorno come vincitore della morte e del Maligno. La Quaresima ci prepara a partecipare personalmente a questo grande mistero della fede, che celebreremo nel Triduo della passione, morte e risurrezione di Cristo. Alla Vergine Maria affidiamo il nostro cammino quaresimale, come quello della Chiesa intera. Ella, che ha seguito il suo Figlio Gesù fino alla Croce, ci aiuti ad essere discepoli fedeli di Cristo, cristiani maturi, per poter partecipare insieme con Lei alla pienezza della gioia pasquale. Amen!



VESPRI IN OCCASIONE DELLA VISITA DELL'ARCIVESCOVO DI CANTERBURY; Sabato, 10 marzo 2012

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Basilica di San Gregorio al Celio






Vostra Grazia,
Venerati Fratelli,
cari Monaci e Monache Camaldolesi,
cari fratelli e sorelle!

È per me motivo di grande gioia essere qui oggi in questa Basilica di San Gregorio al Celio per la solenne celebrazione vespertina nella memoria del Transito di San Gregorio Magno. Con voi, cari Fratelli e Sorelle della Famiglia camaldolese, rendo grazie a Dio per i mille anni dalla fondazione del Sacro Eremo di Camaldoli da parte di san Romualdo. Mi rallegro vivamente della presenza, in questa particolare circostanza, di Sua Grazia il Dottor Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury. A Lei, caro Fratello in Cristo, a ciascuno di voi, cari Monaci e Monache, e a tutti i presenti rivolgo il mio cordiale saluto.

Abbiamo ascoltato due brani di san Paolo. Il primo, tratto dalla Seconda Lettera ai Corinzi, è particolarmente in sintonia con il tempo liturgico che stiamo vivendo: la Quaresima. Esso, infatti, contiene l’esortazione dell’Apostolo ad approfittare del momento favorevole per accogliere la grazia di Dio. Il momento favorevole è naturalmente quello in cui Gesù Cristo è venuto a rivelarci e donarci l’amore di Dio per noi, con la sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione. Il “giorno della salvezza” è quella realtà che san Paolo chiama in un altro luogo la “pienezza dei tempi”, il momento in cui Dio incarnandosi entra in modo del tutto singolare nel tempo e lo riempie con la sua grazia. A noi spetta dunque accogliere questo dono, che è Gesù stesso: la sua Persona, la sua Parola, il suo Santo Spirito. Inoltre, sempre nella prima Lettura che abbiamo ascoltato, san Paolo ci parla anche di se stesso e del suo apostolato: di come egli si sforzi di essere fedele a Dio nel suo ministero, perché esso sia veramente efficace e non risulti invece di ostacolo per la fede. Queste parole ci fanno pensare a san Gregorio Magno, alla testimonianza luminosa che diede al popolo di Roma e alla Chiesa intera con un servizio irreprensibile e pieno di zelo per il Vangelo. Veramente si può applicare anche a Gregorio ciò che Paolo scrisse di sé: la grazia di Dio in lui non è stata vana (cfr
1Co 15,10). E’ questo, in realtà, il segreto per la vita di ciascuno di noi: accogliere la grazia di Dio e acconsentire con tutto il cuore e con tutte le forze alla sua azione. E’ questo il segreto anche della vera gioia, e della pace profonda.

La seconda Lettura era tratta invece dalla Lettera ai Colossesi. Sono le parole – sempre così toccanti per il loro afflato spirituale e pastorale – che l’Apostolo rivolge ai membri di quella comunità per formarli secondo il Vangelo, perché qualunque cosa facciano, “in parole e opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù” (Col 3,17). “Siate perfetti” aveva detto il Maestro ai suoi discepoli; e ora l’Apostolo esorta a vivere secondo questa misura alta della vita cristiana che è la santità. Può farlo perché i fratelli a cui si rivolge sono “scelti da Dio, santi e amati”. Anche qui alla base di tutto c’è la grazia di Dio, c’è il dono della chiamata, il mistero dell’incontro con Gesù vivo. Ma questa grazia domanda la risposta dei battezzati: richiede l’impegno di rivestirsi dei sentimenti di Cristo: tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, perdono reciproco, e sopra tutto, come sintesi e coronamento, l’agape, l’amore che Dio ci ha donato mediante Gesù e che lo Spirito Santo ha effuso nei nostri cuori. E per rivestirsi di Cristo è necessario che la sua Parola abiti tra noi e in noi con tutta la sua ricchezza, e in abbondanza. In un clima di costante rendimento di grazie, la comunità cristiana si nutre della Parola e fa risalire verso Dio, come canto di lode, la Parola che Lui stesso ci ha donato. Ed ogni azione, ogni gesto, ogni servizio, viene compiuto all’interno di questa relazione profonda con Dio, nel movimento interiore dell’amore trinitario che scende verso di noi e risale verso Dio, movimento che nella celebrazione del Sacrificio eucaristico trova la sua forma più alta.

Questa Parola illumina anche le liete circostanze che ci vedono riuniti oggi, nel nome di San Gregorio Magno. Grazie alla fedeltà e alla benevolenza del Signore, la Congregazione dei Monaci Camaldolesi dell’Ordine di San Benedetto ha potuto percorrere mille anni di storia, nutrendosi quotidianamente della Parola di Dio e dell’Eucaristia, così come aveva insegnato loro il fondatore san Romualdo, secondo il “triplex bonum” della solitudine, della vita in comune e dell’evangelizzazione. Figure esemplari di uomini e donne di Dio, come san Pier Damiani, Graziano – l’autore del Decretum – san Bruno di Querfurt e i Cinque Fratelli martiri, Rodolfo I e II, la Beata Gherardesca, la Beata Giovanna da Bagno e il Beato Paolo Giustiniani; uomini di scienza e di arte come Fra Mauro il Cosmografo, Lorenzo Monaco, Ambrogio Traversari, Pietro Delfino e Guido Grandi; storici illustri come gli Annalisti Camaldolesi Giovanni Benedetto Mittarelli e Anselmo Costadoni; zelanti Pastori della Chiesa, fra i quali spicca il Papa Gregorio XVI, hanno mostrato gli orizzonti e la grande fecondità della tradizione camaldolese.

Ogni fase della lunga storia dei Camaldolesi ha conosciuto testimoni fedeli del Vangelo, non soltanto nel silenzio del nascondimento e della solitudine e nella vita comune condivisa con i fratelli, ma anche nel servizio umile e generoso verso tutti. Particolarmente feconda è stata l’accoglienza offerta dalle foresterie camaldolesi. Ai tempi dell’umanesimo fiorentino le mura di Camaldoli hanno accolto le famose disputationes, alle quali partecipavano grandi umanisti quali Marsilio Ficino e Cristoforo Landino; negli anni drammatici della seconda guerra mondiale, gli stessi chiostri hanno propiziato la nascita del famoso “Codice di Camaldoli”, una delle fonti più significative della Costituzione della Repubblica Italiana. Non furono meno fecondi gli anni del Concilio Vaticano II, durante i quali sono maturate tra i Camaldolesi personalità di grande valore, che hanno arricchito la Congregazione e la Chiesa e hanno promosso nuovi slanci e insediamenti negli Stati Uniti d’America, in Tanzania, in India e in Brasile. In tutto questo, era garanzia di fecondità il sostegno di monaci e monache che accompagnavano le nuove fondazioni con la preghiera costante, vissuta nel profondo della loro “reclusione”, qualche volta fino all’eroismo.

Il 17 settembre 1993, il Beato Papa Giovanni Paolo II, incontrando i monaci nel Sacro Eremo di Camaldoli, commentava il tema del loro imminente Capitolo Generale, “Scegliere la speranza, scegliere il futuro”, con queste parole: “Scegliere la speranza e il futuro significa, in ultima analisi, scegliere Dio … Significa scegliere Cristo, speranza di ogni uomo”. E aggiungeva: “Ciò avviene, in particolare, in quella forma di vita che Dio stesso ha suscitato nella Chiesa ispirando San Romualdo a fondare la Famiglia benedettina di Camaldoli, con la caratteristica complementarità di Eremo e Monastero, vita solitaria e vita cenobitica tra loro coordinate”. Il mio Beato Predecessore sottolineò inoltre che “scegliere Dio vuol dire anche coltivare umilmente e pazientemente – accettando, appunto, i tempi di Dio – il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso”, sempre a partire dalla fedeltà al carisma originario ricevuto da san Romualdo e trasmesso attraverso una millenaria e pluriforme tradizione.

Incoraggiati dalla visita e dalle parole del Successore di Pietro, voi monaci e monache camaldolesi avete proseguito il vostro cammino ricercando sempre di nuovo il giusto equilibrio tra lo spirito eremitico e quello cenobitico, tra l’esigenza di dedicarvi interamente a Dio nella solitudine e quella sostenervi nella preghiera comune e quella di accogliere i fratelli perché possano attingere alle sorgenti della vita spirituale e giudicare le vicende del mondo con coscienza veramente evangelica. Così voi cercate di conseguire quella perfecta caritas che san Gregorio Magno considerava punto di arrivo di ogni manifestazione della fede, impegno che trova conferma nel motto del vostro stemma: “Ego Vobis, Vos Mihi”, sintesi della formula di alleanza tra Dio e il suo popolo, e fonte della perenne vitalità del vostro carisma.

Il Monastero di San Gregorio al Celio è il contesto romano in cui celebriamo il millennio di Camaldoli insieme con Sua Grazia l’Arcivescovo di Canterbury che, insieme con noi, riconosce questo Monastero come luogo nativo del legame tra il Cristianesimo nelle Terre britanniche e la Chiesa di Roma. L’odierna celebrazione è dunque connotata da un profondo carattere ecumenico che, come sappiamo, fa parte ormai dello spirito camaldolese contemporaneo. Questo Monastero camaldolese romano ha sviluppato con Canterbury e la Comunione Anglicana, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, legami ormai tradizionali. Per la terza volta oggi il Vescovo di Roma incontra l’Arcivescovo di Canterbury nella casa di san Gregorio Magno. Ed è giusto che sia così, perché precisamente da questo Monastero il Papa Gregorio scelse Agostino e i suoi quaranta monaci per inviarli a portare il Vangelo fra gli Angli, poco più di mille e quattrocento anni fa. La presenza costante di monaci in questo luogo, e per un tempo così lungo, è già in se stessa testimonianza della fedeltà di Dio alla sua Chiesa, che siamo felici di poter proclamare al mondo intero. Il segno che insieme porremo davanti al santo altare dove Gregorio stesso celebrava il Sacrificio eucaristico, ci auguriamo che resti non soltanto come ricordo del nostro incontro fraterno, ma anche come stimolo per tutti i fedeli, Cattolici ed Anglicani, affinché, visitando a Roma i sepolcri gloriosi dei santi Apostoli e Martiri, rinnovino anche l’impegno di pregare costantemente e di operare per l’unità, per vivere pienamente secondo quell’“ut unum sint” che Gesù ha rivolto al Padre.

Questo desiderio profondo, che abbiamo la gioia di condividere, lo affidiamo alla celeste intercessione di San Gregorio Magno e di San Romualdo. Amen.


VIAGGIO APOSTOLICO IN MESSICO E NELLA REPUBBLICA DI CUBA (23-29 MARZO 2012)


SANTA MESSA - León, Parco Expo Bicentenario, Domenica, 25 marzo 2012

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Cari fratelli e sorelle,


Sono contento di essere tra voi, e desidero ringraziare vivamente Mons. José Guadalupe Martín Rábago, Arcivescovo di Leòn, per le sue gentili parole di benvenuto. Saluto l'Episcopato messicano, come pure i Signori Cardinali e gli altri Vescovi qui presenti, in particolare quelli che provengono dall'America Latina e dai Caraibi. Rivolgo inoltre il mio cordiale saluto alle Autorità che ci accompagnano e a tutti coloro che si sono riuniti per partecipare a questa Santa Messa presieduta dal Successore di Pietro.

"Crea in me, Signore, un cuore puro" (
Ps 50,12), abbiamo invocato nel Salmo responsoriale. Questa esclamazione mostra la profondità con la quale dobbiamo prepararci per celebrare, la prossima settimana, il grande mistero della passione, morte e risurrezione del Signore. Questo ci aiuta anche a guardare nel profondo del cuore umano, specialmente nei momenti che uniscono dolore e speranza, come quelli che attraversa attualmente il popolo messicano ed anche altri popoli dell'America Latina.

L'anelito di un cuore puro, sincero, umile, gradito a Dio, era già molto sentito da Israele, man mano che prendeva coscienza della persistenza del male e del peccato nel suo seno, come un potere praticamente implacabile ed impossibile da superare. Non restava che confidare nella misericordia di Dio onnipotente e nella speranza che Egli cambiasse dal di dentro, dal cuore, una situazione insopportabile, oscura e senza futuro. Così si aprì la strada al ricorso alla misericordia infinita del Signore, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 33,11). Un cuore puro, un cuore nuovo, è quello che si riconosce impotente da sé stesso e si mette nelle mani di Dio per continuare a sperare nelle sue promesse. In questo modo, il salmista può dire convinto al Signore: “torneranno a te i peccatori” (Ps 50,15). E, verso la fine del salmo, darà una spiegazione che è contemporaneamente una ferma confessione di fede: “Un cuore affranto e umiliato, tu non lo disprezzi” (v. 19).

La storia di Israele narra anche grandi gesta e battaglie, ma nel momento di affrontare la sua esistenza più autentica, il suo destino più decisivo, cioè la salvezza, più che nelle proprie forze, ripone la sua speranza in Dio che può ricreare un cuore nuovo, non insensibile e arrogante. Questo può ricordare oggi ad ognuno di noi ed ai nostri popoli che, quando si tratta della vita personale e comunitaria, nella sua dimensione più profonda, non basteranno le strategie umane per salvarci. Si deve ricorrere anche all'unico che può dare vita in pienezza, perché Egli stesso è l'essenza della vita ed il suo autore, e ci ha fatto partecipi di essa attraverso il suo Figlio Gesù Cristo.

Il Vangelo di oggi prosegue facendoci vedere come questo antico anelito alla vita piena si è realizzato realmente in Cristo. Lo spiega san Giovanni in un passaggio nel quale si incrociano il desiderio di alcuni greci di vedere a Gesù ed il momento in cui il Signore sta per essere glorificato. Alla domanda dei greci, rappresentanti del mondo pagano, Gesù risponde dicendo: “È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato” (Jn 12,23). Risposta strana che sembra incoerente con la domanda dei greci. Che cosa c’entra la glorificazione di Gesù con la richiesta di incontrarsi con Lui? In realtà c'è una relazione. Qualcuno potrebbe pensare - osserva san Agostino - che Gesù si sentisse glorificato perché andavano da Lui i pagani; qualcosa di simile all'applauso della moltitudine che dà “gloria” ai grandi del mondo, diremmo oggi. Ma non è così. “Conveniva che alla sublimità della sua glorificazione precedesse l'umiltà della sua passione” (In Joannis EV 51,9, PL 35, 1766).

La risposta di Gesù, che annuncia la sua passione imminente, dice che un incontro occasionale in quei momenti sarebbe superfluo e forse ingannevole. Quello che i greci vogliono vedere, in realtà lo vedranno innalzato sulla croce, dalla quale Egli attirerà tutti a sé (cfr Jn 12,32). Lì inizierà la sua “gloria”, a causa del suo sacrificio di espiazione per tutti, come il chicco di grano caduto in terra, che, morendo, germina e dà frutto abbondante. Incontreranno Colui che, sicuramente senza saperlo, andavano cercando nel loro cuore: il vero Dio che si rende riconoscibile a tutti i popoli. Questo è anche il modo in cui Nostra Signora di Guadalupe ha mostrato il suo divino Figlio a san Juan Diego. Non come un eroe portentoso da leggenda, ma come il vero Dio per il quale si vive, il Creatore delle persone, della vicinanza e della prossimità, il Creatore del Cielo e della Terra (cfr Nican Mopohua, v. 33). Ella, in quello momento, fece quello che aveva già sperimentato nelle Nozze di Cana. Davanti all’imbarazzo per la mancanza di vino, indicò chiaramente ai servi che la via a seguire era suo Figlio: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Jn 2,5).

Cari fratelli, venendo qui ho potuto avvicinarmi al monumento a Cristo Re, in cima la “Cubilete”. Il mio venerato Predecessore, il beato Papa Giovanni Paolo II, benché lo desiderasse ardentemente, non poté visitare questo luogo emblematico della fede del popolo messicano, nei suoi viaggi a questa cara terra. Sicuramente oggi si rallegrerà dal cielo che il Signore mi abbia concesso la grazia di poter stare ora con voi, così come avrà benedetto i tanti milioni di messicani che hanno voluto venerare, recentemente, le sue reliquie in tutti gli angoli del Paese. Ebbene, in questo monumento si rappresenta Cristo Re. Ma le corone che lo accompagnano, una da sovrano ed un'altra di spine, indicano che la sua regalità non è come molti la intesero e la intendono. Il suo regno non consiste nel potere dei suoi eserciti per sottomettere gli altri con la forza o la violenza. Si fonda su un potere più grande, che conquista i cuori: l'amore di Dio che Egli ha portato al mondo col suo sacrificio e la verità, di cui ha dato testimonianza. Questa è la sua signoria che nessuno gli potrà togliere e che nessuno deve dimenticare. Per questo è giusto che, innanzitutto, questo santuario sia un luogo di pellegrinaggio, di preghiera fervente, di conversione, di riconciliazione, di ricerca della verità e accoglienza della grazia. A Lui, a Cristo, chiediamo che regni nei nostri cuori, rendendoli puri, docili, pieni di speranza e coraggiosi nella loro umiltà.

Anche oggi, da questo parco, con il quale si vuole ricordare il bicentenario della nascita della Nazione messicana, che ha unito molte differenze, ma con un destino ed un’aspirazione comuni, chiediamo a Cristo un cuore puro, dove egli possa abitare come Principe della pace, “grazie al potere di Dio, che è il potere del bene, il potere dell'amore”. E, affinché Dio abiti in noi, bisogna ascoltarlo, bisogna lasciarsi interpellare dalla sua Parola ogni giorno, meditandola nel proprio cuore, sull’esempio di Maria (cfr Lc 2,51). Così cresce la nostra amicizia personale con Lui, si impara quello che Egli attende da noi e si riceve incoraggiamento per farlo conoscere agli altri.

In Aparecida, i Vescovi dell'America Latina e dei Caraibi hanno colto con lungimiranza la necessità di confermare, rinnovare e rivitalizzare la novità del Vangelo, radicata nella storia di queste terre “dall'incontro personale e comunitario con Gesù Cristo che susciti discepoli e missionari” (Documento conclusivo, 11). La Misión Continental che si sta portando avanti, diocesi per diocesi, in questo Continente, ha precisamente l’obiettivo di far arrivare questa convinzione a tutti i cristiani e alle comunità ecclesiali, affinché resistano alla tentazione di una fede superficiale e abitudinaria, a volte frammentaria ed incoerente. Anche qui si deve superare la stanchezza della fede e recuperare “la gioia di essere cristiani, l’essere sostenuti dalla felicità interiore di conoscere Cristo e di appartenere alla sua Chiesa. Da questa gioia nascono anche le energie per servire Cristo nelle situazioni opprimenti di sofferenza umana, per mettersi a sua disposizione, senza ripiegarsi sul proprio benessere” (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2011). Lo vediamo molto bene nei Santi, che si dedicarono completamente alla causa del Vangelo con entusiasmo e con gioia, senza badare ai sacrifici, anche quello della propria vita. Il loro cuore era una opzione incondizionata per Cristo dal quale avevano imparato ciò che significa veramente amare fino alla fine.

In questo senso, l’“Anno della fede”, che ho convocato per tutta la Chiesa, “è un invito ad un'autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo… La fede, infatti, cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia” (Lett. ap. Porta fidei, 11 ottobre 2011, 6.7).

Chiediamo alla Vergine Maria che ci aiuti a purificare il nostro cuore, specialmente nell’avvicinarci alla celebrazione delle feste di Pasqua, affinché giungiamo a partecipare meglio al Mistero di salvezza del suo Figlio, come Ella lo ha fatto conoscere in queste Terre. E chiediamole anche che continui ad accompagnare e proteggere i suoi cari figli messicani e latinoamericani, affinché Cristo regni nelle loro vite e li aiuti a promuovere con coraggio la pace, la concordia, la giustizia e la solidarietà. Amen.





VESPRI CON I VESCOVI DEL MESSICO E DELL'AMERICA LATINA, Cattedrale della Madre Santissima della Luce, León - Domenica, 25 marzo 2012

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Signori Cardinali,
Cari Fratelli nell'Episcopato

È una grande gioia pregare con tutti voi in questa Basilica-Cattedrale di León, dedicata a Nostra Signora della Luce. Nella bella immagine che si venera in questo tempio, la Santissima Vergine tiene il suo Figlio in una mano con grande tenerezza, mentre stende l'altra per soccorrere i peccatori. Così vede Maria la Chiesa di tutti i tempi, che la loda per averci dato il Redentore ed a Lei si affida perché è la Madre che il suo divin Figlio ci ha affidato dalla croce. Per questo, noi l'imploriamo frequentemente come "speranza nostra”, perché ci ha mostrato Gesù e trasmesso i prodigi che Dio ha fatto e fa per l'umanità, in maniera semplice, come spiegandoli ai piccoli della casa.

Un segno decisivo di questi prodigi ce lo offre la Lettura breve che è stata proclamata in questi Vespri. Gli abitanti di Gerusalemme ed i suoi capi non riconobbero Cristo, ma, condannandolo a morte, in realtà, diedero compimento alle parole dei profeti (cfr
Ac 13,27). Sì, la malvagità e l'ignoranza degli uomini non è capace di frenare il piano divino della salvezza, la redenzione. Il male non può fare tanto.

Un'altra meraviglia di Dio ce la ricorda il secondo Salmo che abbiamo appena recitato: la “rupe” si trasforma “in un lago, la roccia in sorgenti d’ acqua” (Ps 113,8). Quello che potrebbe essere pietra di inciampo e di scandalo, col trionfo di Gesù sulla morte si trasforma in pietra angolare: “Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi” (Ps 117,23). Non ci sono motivi, dunque, per arrendersi alla prepotenza del male. E chiediamo al Signore Risorto che manifesti la sua forza nelle nostre debolezze e mancanze.

Attendevo con grande desiderio questo incontro con voi, Pastori della Chiesa di Cristo che peregrina in Messico e nei diversi Paesi di questo grande Continente, come un'occasione per guardare insieme Cristo, che vi ha affidato il prezioso compito di annunciare il Vangelo in questi Paesi di forte tradizione cattolica. La situazione attuale delle vostre diocesi presenta certamente sfide e difficoltà di origine molto diversa. Ma, sapendo che il Signore è risorto, possiamo proseguire fiduciosi, con la convinzione che il male non ha l'ultima parola della storia, e che Dio è capace di aprire nuovi spazi ad una speranza che non delude (cfr Rm 5,5).

Ringrazio per il cordiale saluto che mi ha rivolto l’Arcivescovo di Tlalnepantla, Presidente della Conferenza Episcopale Messicana e del Consiglio Episcopale Latinoamericano, facendosi interprete e portavoce di tutti. Chiedo a voi, Pastori delle varie Chiese particolari, che, ritornando alle vostre sedi, trasmettiate ai vostri fedeli l'affetto profondo del Papa, che porta nel suo cuore tutte le loro sofferenze e le loro attese.

Vedendo nei vostri volti il riflesso delle preoccupazioni del gregge di cui avete cura, mi vengono alla mente le Assemblee del Sinodo dei Vescovi, nelle quali i partecipanti applaudono quando intervengono coloro che esercitano il loro ministero in situazioni particolarmente dolorose per la vita e la missione della Chiesa. Questo gesto germoglia dalla fede nel Signore, e significa fraternità nel lavoro apostolico, come pure gratitudine ed ammirazione per coloro che seminano il Vangelo tra le spine, alcune in forma di persecuzione, altre di esclusione o di disprezzo. Non mancano neppure preoccupazioni per la mancanza di mezzi e risorse umane, o i limiti imposti alla libertà della Chiesa nell’adempimento della sua missione.

Il Successore di Pietro partecipa a questi sentimenti e ringrazia per la vostra sollecitudine pastorale paziente ed umile. Voi non siete soli nelle difficoltà, e neppure lo siete nei successi della evangelizzazione. Tutti siamo uniti nelle sofferenze e nella consolazione (cfr 2Co 1,5). Sappiate che avete un posto particolare nella preghiera di colui che ha ricevuto da Cristo l'incarico di confermare nella fede i suoi fratelli (cfr Lc 22,31), che li incoraggia anche nella missione di far sì che il Nostro Signore Gesù Cristo sia conosciuto sempre di più, amato e seguito in queste terre, senza lasciarsi spaventare dalle contrarietà.

La fede cattolica ha segnato in modo significativo la vita, i costumi e la storia di questo Continente, nel quale molte delle sue nazioni stanno commemorando il bicentenario della propria indipendenza. E’ un momento storico nel quale ha continuato a splendere il nome di Cristo, arrivato qui per opera di insigni e generosi missionari che lo proclamarono con coraggio e con sapienza. Essi donarono tutto per Cristo, mostrando che l'uomo trova in Lui la propria consistenza e la forza necessaria per vivere in pienezza ed edificare una società degna dell'essere umano, come il suo Creatore l'ha voluto. L'ideale di non anteporre nulla al Signore e di far penetrare la Parola di Dio in tutti, servendosi delle caratteristiche proprie e delle migliori tradizioni, continua ad essere un prezioso orientamento per i Pastori di oggi.

Le iniziative che vengono realizzate a motivo dell’“Anno della fede” devono essere finalizzate a condurre gli uomini a Cristo, la cui grazia permetterà loro di lasciare le catene del peccato che li rende schiavi e di avanzare verso la libertà autentica e responsabile. In questo un aiuto è dato anche dalla Misión continental, promossa in Aparecida, che sta già raccogliendo tanti frutti di rinnovamento ecclesiale nelle Chiese particolari dell'America Latina e dei Caraibi. Tra essi, lo studio, la diffusione e la meditazione della Sacra Scrittura, che annuncia l'amore di Dio e la nostra salvezza. In questo senso, vi esorto a continuare ad aprire i tesori del Vangelo, affinché si trasformino in forza di speranza, libertà e salvezza per tutti gli uomini (cfr Rm 1,16). E siate anche fedeli testimoni ed interpreti della parola del Figlio incarnato, che visse per compiere la volontà del Padre e, essendo uomo con gli uomini, si prodigò per essi fino alla morte.

Cari Fratelli nell'Episcopato, nell'orizzonte pastorale e di evangelizzazione che si apre davanti a noi, è di capitale rilevanza seguire con grande attenzione i seminaristi, incoraggiandoli affinché non si vantino “di sapere altro se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso” (1Co 2,2). Non meno fondamentale è la vicinanza ai sacerdoti, ai quali non deve mancare mai la comprensione e l'incoraggiamento del loro Vescovo e, se fosse necessario, anche la sua paterna ammonizione su atteggiamenti inopportuni. Sono i vostri primi collaboratori nella comunione sacramentale del sacerdozio, ai quali dovete mostrare una costante e privilegiata vicinanza. Lo stesso si deve dire delle diverse forme di vita consacrata, i cui carismi devono essere stimati con gratitudine ed accompagnati con responsabilità e rispetto del dono ricevuto. Ed un'attenzione sempre più speciale si deve riservare ai laici maggiormente impegnati nella catechesi, nell'animazione liturgica o nell'azione caritativa e nell’impegno sociale. La loro formazione nella fede è cruciale per rendere presente e fecondo il Vangelo nella società di oggi. E non è giusto che si sentano considerati come persone di poco conto nella Chiesa, nonostante l'impegno che pongono nel lavorare in essa secondo la loro propria vocazione, ed il gran sacrificio che a volte richiede questa dedizione. In tutto ciò, è particolarmente importante per i Pastori che regni uno spirito di comunione tra sacerdoti, religiosi e laici, evitando divisioni sterili, critiche e diffidenze nocive.

Con questi fervidi auspici, vi invito ad essere sentinelle che proclamano giorno e notte la gloria di Dio, che è la vita dell'uomo. Siate dalla parte di coloro che sono emarginati dalla violenza, dal potere o da una ricchezza che ignora coloro ai quali manca quasi tutto. La Chiesa non può separare la lode a Dio dal servizio agli uomini. L'unico Dio Padre e Creatore è quello che ci ha costituiti fratelli: essere uomo è essere fratello e custode del prossimo. In questo cammino, unita a tutta l'umanità, la Chiesa deve rivivere ed attualizzare quello che è stato Gesù: il Buon Samaritano, che venendo da lontano si è inserito nella storia degli uomini, ci ha sollevati e si è prodigato per la nostra guarigione.

Cari Fratelli nell'Episcopato, la Chiesa in America Latina, che molte volte si è unita a Gesù Cristo nella sua passione, deve continuare ad essere seme di speranza, che permetta a tutti di vedere come i frutti della Risurrezione raggiungono ed arricchiscono queste terre.

Che la Madre di Dio, invocata con il titolo di Maria Santissima della Luce, dissipi le tenebre del nostro mondo e illumini il nostro cammino, affinché possiamo confermare nella fede il popolo latinoamericano nelle sue fatiche e speranze, con fermezza, con coraggio e con fede ferma in colui che tutto può e tutti ama fino all’estremo. Amen.






Benedetto XVI Omelie 40312