Benedetto XVI Omelie 11102

CANONIZZAZIONE DI GIACOMO BERTHIEU, PEDRO CALUNGSOD, GIOVANNI BATTISTA PIAMARTA, MARIA DEL MONTE CARMELO SALLÉS Y BARANGUERAS

MARIANNA COPE, CATERINA TEKAKWITHA, ANNA SCHÄFFER; Domenica, 21 ottobre 2012

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Piazza San Pietro





Il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (cfr
Mc 10,45).

Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Oggi la Chiesa ascolta ancora una volta queste parole di Gesù, pronunciate durante il cammino verso Gerusalemme, dove si doveva compiere il suo mistero di passione, morte e risurrezione. Sono parole che contengono il senso della missione di Cristo sulla terra, segnata dalla sua immolazione, dalla sua donazione totale. In questa terza domenica di ottobre, nella quale si celebra la Giornata Missionaria Mondiale, la Chiesa le ascolta con particolare intensità e ravviva la consapevolezza di essere tutta intera in perenne stato di servizio all’uomo e al Vangelo, come Colui che ha offerto se stesso fino al sacrificio della vita.

Rivolgo il mio saluto cordiale a tutti voi, che riempite Piazza San Pietro, in particolare le Delegazioni ufficiali e i pellegrini venuti per festeggiare i sette nuovi Santi. Saluto con affetto i Cardinali e i Vescovi che in questi giorni stanno partecipando all’Assemblea sinodale sulla Nuova Evangelizzazione. E’ felice la coincidenza tra questa Assise e la Giornata Missionaria; e la Parola di Dio che abbiamo ascoltato risulta illuminante per entrambe. Essa mostra lo stile dell’evangelizzatore, chiamato a testimoniare ed annunciare il messaggio cristiano conformandosi a Gesù Cristo, seguendo la sua stessa vita. Questo vale sia per la missione ad gentes, sia per la nuova evangelizzazione nelle regioni di antica cristianità.

Il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (cfr Mc 10,45).

Queste parole hanno costituito il programma di vita dei sette Beati che oggi la Chiesa iscrive solennemente nella gloriosa schiera dei Santi. Con eroico coraggio essi hanno speso la loro esistenza nella totale consacrazione a Dio e nel generoso servizio ai fratelli. Sono figli e figlie della Chiesa, che hanno scelto la vita del servizio seguendo il Signore. La santità nella Chiesa ha sempre la sua sorgente nel mistero della Redenzione, che viene prefigurato dal profeta Isaia nella prima Lettura: il Servo del Signore è il Giusto che «giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità» (Is 53,11); questo Servo è Gesù Cristo, crocifisso, risorto e vivo nella gloria. L’odierna canonizzazione costituisce un’eloquente conferma di tale misteriosa realtà salvifica. La tenace professione di fede di questi sette generosi discepoli di Cristo, la loro conformazione al Figlio dell’Uomo risplende oggi in tutta la Chiesa.

[Jacques Berthieu, nato nel 1838, in Francia, fu ben presto conquistato da Gesù Cristo. Durante il suo ministero in parrocchia, ebbe il desiderio ardente di salvare le anime. Diventato gesuita, voleva percorrere il mondo per la gloria di Dio. Pastore infaticabile nell’Isola Santa Maria e poi nel Madagascar, lottò contro l’ingiustizia, mentre recava sollievo ai poveri e ai malati. I Malgasci lo consideravano come un sacerdote venuto dal cielo, dicendo: Lei è il nostro ‘padre e madre’! Si fece tutto a tutti, attingendo nella preghiera e nell’amore del Cuore di Gesù la forza umana e sacerdotale di giungere fino al martirio nel 1896. Morì dicendo: «Preferisco morire piuttosto che rinunciare alla mia fede». Cari amici, la vita di questo evangelizzatore sia un incoraggiamento e un modello per i sacerdoti, affinché siano uomini di Dio come lui! Il suo esempio aiuti i numerosi cristiani oggi perseguitati a causa della fede! Possa la sua intercessione, in questo Anno della fede, portare frutti per il Madagascar e il continente africano! Dio benedica il popolo malgascio!]

[Pedro Calungsod nacque intorno al 1654, nella regione di Visayas nelle Filippine. Il suo amore per Cristo lo spinse a prepararsi per diventare catechista con i missionari Gesuiti di quel luogo. Nel 1668, assieme ad altri giovani catechisti, accompagnò il P. Diego Luis de San Vitores alle Isole Marianas per evangelizzare il popolo Chamorro. La vita là era dura e i missionari soffrirono persecuzioni a causa di invidie e calunnie. Pedro, però, dimostrò fede e carità profonde e continuò a catechizzare i molti convertiti, dando testimonianza a Cristo mediante una vita di purezza e di dedizione al Vangelo. Molto intenso era il suo desiderio di guadagnare anime a Cristo, e ciò lo rese risoluto nell’accettare il martirio. Morì il 2 aprile 1672. Testimoni raccontano che Pedro avrebbe potuto mettersi in salvo ma scelse di rimanere al fianco di P. Diego. Il sacerdote ebbe modo di dare l’assoluzione a Pedro prima di essere lui stesso ucciso. Possano l’esempio e la coraggiosa testimonianza di Pedro Calungsod ispirare le care popolazioni delle Filippine ad annunciare il Regno di Dio con forza e guadagnare anime a Dio!]

Giovanni Battista Piamarta, sacerdote della diocesi di Brescia, fu un grande apostolo della carità e della gioventù. Avvertiva l’esigenza di una presenza culturale e sociale del cattolicesimo nel mondo moderno, pertanto si dedicò all’elevazione cristiana, morale e professionale delle nuove generazioni con la sua illuminata carica di umanità e di bontà. Animato da fiducia incrollabile nella Divina Provvidenza e da profondo spirito di sacrificio, affrontò difficoltà e fatiche per dare vita a diverse opere apostoliche, tra le quali: l’Istituto degli Artigianelli, l’Editrice Queriniana, la Congregazione maschile della Santa Famiglia di Nazareth e la Congregazione delle Umili Serve del Signore. Il segreto della sua intensa ed operosa vita sta nelle lunghe ore che egli dedicava alla preghiera. Quando era oberato di lavoro, aumentava il tempo per l’incontro, cuore a cuore, con il Signore. Preferiva le soste davanti al santissimo Sacramento, meditando la passione, morte e risurrezione di Cristo, per attingere forza spirituale e ripartire alla conquista del cuore della gente, specie dei giovani, per ricondurli alle sorgenti della vita con sempre nuove iniziative pastorali.

[«Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo». Con queste parole, la liturgia ci invita a fare nostro questo inno a Dio creatore e provvidente, accettando il suo progetto nella nostra vita. Così fece santa Maria del Carmelo Sallés y Barangueras, religiosa nata a Vic, in Spagna, nel 1848. Ella, vedendo realizzata la sua speranza, dopo molte vicissitudini, contemplando lo sviluppo della Congregazione delle Religiose Concezioniste Missionarie dell’Insegnamento, che aveva fondato nel 1892, poté cantare insieme con la Madre di Dio: «Di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono». La sua opera educativa, affidata alla Vergine Immacolata, continua a portare frutti abbondanti in mezzo alla gioventù mediante l’impegno generoso delle sue figlie, che come lei si pongono nelle mani del Dio che tutto può.]

[Rivolgo ora lo sguardo a Marianne Cope, nata nel 1838 ad Heppenheim, in Germania. Quando aveva un anno soltanto fu portata negli Stati Uniti, e nel 1862 entrò nel Terz’Ordine Regolare di san Francesco a Syracuse, New York. In seguito, come Superiora Generale della sua Congregazione, Madre Marianne accolse di sua volontà una chiamata a prendersi cura dei lebbrosi delle Hawaii, dopo che molti altri avevano rifiutato. Si recò là con sei consorelle, per gestire un ospedale a Oahu e successivamente fondare l’ospedale Malulani a Maui ed aprire una casa per ragazze i cui genitori erano lebbrosi. Dopo cinque anni, accettò l’invito ad aprire una casa per donne e ragazze nella stessa isola di Molokai, coraggiosamente andandovi lei stessa ed in pratica terminando il proprio contatto con il mondo esterno. Là si prese cura di padre Damiano, già famoso per la sua eroica attività fra i lebbrosi, curandolo sino alla morte e prendendone il posto fra i lebbrosi maschi. Quando ancora si poteva fare poco per quanti soffrivano di questa terribile malattia, Marianne Cope dimostrò l’amore, il coraggio e l’entusiasmo più alti. Ella è un luminoso e forte esempio della migliore tradizione cattolica nell’accudire alle sorelle e dello spirito del suo amato san Francesco.]

[Kateri Tekakwitha nacque nell’odierno stato di New York nel 1656 da padre Mohawk e da madre cristiana algonchina, che le trasmise il senso del Dio vivente. Fu battezzata all’età di vent’anni e, per fuggire dalle persecuzioni, si rifugiò nella missione di san Francesco Saverio vicino a Montreal. Là lavorò, fedele alle tradizioni del suo popolo - anche se rinunciò alle convinzioni religiose della sua gente - sino alla morte all’età di 24 anni. Vivendo un’esistenza semplice, Kateri rimase fedele al suo amore per Gesù, alla preghiera e alla Messa quotidiana. Il suo più grande desiderio era conoscere Dio e fare ciò che a Lui piace.]

[Kateri ci impressiona per l’azione della grazia nella sua vita in assenza di sostegni esterni, e per il coraggio nella vocazione tanto particolare nella sua cultura. In lei, fede e cultura si arricchiscono a vicenda! Il suo esempio ci aiuti a vivere là dove siamo, senza rinnegare ciò che siamo, amando Gesù! Santa Kateri, patrona del Canada e prima santa amerinda, noi ti affidiamo il rinnovamento della fede nelle prime nazioni e in tutta l’America del Nord! Dio benedica le prime nazioni!]

[Anna Schäffer di Mindelstetten, da giovane, voleva entrare a far parte di un Ordine religioso missionario. Essendo di modesta provenienza, cercò di guadagnare come domestica la dote necessaria per essere accolta in convento. In questo lavoro ebbe un grave incidente con ustioni inguaribili alle gambe, che la costrinsero al letto per tutta la vita. Così, il letto di dolore diventò per lei cella conventuale e la sofferenza costituì il suo servizio missionario. Inizialmente si lamentava della propria sorte, ma poi giunse a interpretare la sua situazione come una chiamata amorevole del Crocifisso a seguirLo. Confortata dalla Comunione quotidiana, ella diventò un’instancabile strumento di intercessione nella preghiera e un riflesso dell’amore di Dio per molte persone che cercavano il suo consiglio. Possa il suo apostolato di preghiera e di sofferenza, di sacrificio e di espiazione costituire un esempio luminoso per i fedeli nella sua Patria, e la sua intercessione rafforzi il movimento cristiano di hospice [centri di cure palliative per malati terminali] nel loro benefico servizio.]

Cari fratelli e sorelle! Questi nuovi Santi, diversi per origine, lingua, nazione e condizione sociale, sono uniti con l’intero Popolo di Dio nel mistero di salvezza di Cristo, il Redentore. Insieme a loro, anche noi qui riuniti con i Padri sinodali venuti da ogni parte del mondo, con le parole del Salmo proclamiamo al Signore che «egli è nostro aiuto e nostro scudo», e lo invochiamo: «Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo» (Ps 32,20-22). Possa la testimonianza dei nuovi Santi, della loro vita generosamente offerta per amore di Cristo, parlare oggi a tutta la Chiesa, e la loro intercessione possa rafforzarla e sostenerla nella sua missione di annunciare il Vangelo al mondo intero.



SANTA MESSA PER LA CONCLUSIONE DEL SINODO DEI VESCOVI; Domenica, 28 ottobre 2012

28102
Basilica Vaticana






Venerati Fratelli,
illustri Signori e Signore,
cari fratelli e sorelle!

Il miracolo della guarigione del cieco Bartimeo ha una posizione rilevante nella struttura del Vangelo di Marco. E’ collocato infatti alla fine della sezione che viene chiamata «viaggio a Gerusalemme», cioè l’ultimo pellegrinaggio di Gesù alla Città santa, per la Pasqua in cui Egli sa che lo attendono la passione, la morte e la risurrezione. Per salire a Gerusalemme dalla valle del Giordano, Gesù passa da Gerico, e l’incontro con Bartimeo avviene all’uscita dalla città, «mentre – annota l’evangelista – Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla» (10,46), quella folla che, di lì a poco, acclamerà Gesù come Messia nel suo ingresso in Gerusalemme. Proprio lungo la strada stava seduto a mendicare Bartimeo, il cui nome significa «figlio di Timeo», come dice lo stesso evangelista. Tutto il Vangelo di Marco è un itinerario di fede, che si sviluppa gradualmente alla scuola di Gesù. I discepoli sono i primi attori di questo percorso di scoperta, ma vi sono anche altri personaggi che occupano un ruolo importante, e Bartimeo è uno di questi. La sua è l’ultima guarigione prodigiosa che Gesù compie prima della sua passione, e non a caso è quella di un cieco, una persona cioè i cui occhi hanno perso la luce. Sappiamo anche da altri testi che la condizione di cecità ha un significato pregnante nei Vangeli. Rappresenta l’uomo che ha bisogno della luce di Dio, la luce della fede, per conoscere veramente la realtà e camminare nella via della vita. Essenziale è riconoscersi ciechi, bisognosi di questa luce, altrimenti si rimane ciechi per sempre (cfr
Jn 9,39-41).

Bartimeo, dunque, in quel punto strategico del racconto di Marco, è presentato come modello. Egli non è cieco dalla nascita, ma ha perso la vista: è l’uomo che ha perso la luce e ne è consapevole, ma non ha perso la speranza, sa cogliere la possibilità di incontro con Gesù e si affida a Lui per essere guarito. Infatti, quando sente che il Maestro passa sulla sua strada, grida: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47), e lo ripete con forza (v. 48). E quando Gesù lo chiama e gli chiede che cosa vuole da Lui, risponde: «Rabbunì, che io veda di nuovo!» (v. 51). Bartimeo rappresenta l’uomo che riconosce il proprio male e grida al Signore, fiducioso di essere sanato. La sua invocazione, semplice e sincera, è esemplare, e infatti – come quella del pubblicano al tempio: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13) – è entrata nella tradizione della preghiera cristiana. Nell’incontro con Cristo, vissuto con fede, Bartimeo riacquista la luce che aveva perduto, e con essa la pienezza della propria dignità: si rialza in piedi e riprende il cammino, che da quel momento ha una guida, Gesù, e una strada, la stessa che Gesù percorre. L’evangelista non ci dirà più nulla di Bartimeo, ma in lui ci presenta chi è il discepolo: colui che, con la luce della fede, segue Gesù «lungo la strada» (v. 52).

Sant’Agostino, in uno dei suoi scritti, fa sulla figura di Bartimeo un’osservazione molto particolare, che può essere interessante e significativa anche oggi per noi. Il Santo Vescovo di Ippona riflette sul fatto che, in questo caso, Marco riporti il nome non solo della persona che viene guarita, ma anche del padre, e giunge alla conclusione che «Bartimeo, figlio di Timeo, era un personaggio decaduto da prosperità molto grande, e la sua condizione di miseria doveva essere universalmente nota e di pubblico dominio in quanto non era soltanto cieco ma un mendicante che sedeva lungo la strada. Per questo motivo Marco volle ricordare lui solo, perché l’avere egli ricuperato la vista conferì al miracolo tanta risonanza quanto era grande la fama della sventura capitata al cieco» (Il consenso degli evangelisti, 2, 65, 125: PL 34, 1138). Così Sant’Agostino.

Questa interpretazione, che Bartimeo sia una persona decaduta da una condizione di «grande prosperità», ci fa pensare; ci invita a riflettere sul fatto che ci sono ricchezze preziose per la nostra vita che possiamo perdere, e che non sono materiali. In questa prospettiva, Bartimeo potrebbe rappresentare quanti vivono in regioni di antica evangelizzazione, dove la luce della fede si è affievolita, e si sono allontanati da Dio, non lo ritengono più rilevante per la vita: persone che perciò hanno perso una grande ricchezza, sono «decadute» da un’alta dignità - non quella economica o di potere terreno, ma quella cristiana -, hanno perso l’orientamento sicuro e solido della vita e sono diventati, spesso inconsciamente, mendicanti del senso dell’esistenza. Sono le tante persone che hanno bisogno di una nuova evangelizzazione, cioè di un nuovo incontro con Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio (cfr Mc 1,1), che può aprire nuovamente i loro occhi e insegnare loro la strada. E’ significativo che, mentre concludiamo l’Assemblea sinodale sulla Nuova Evangelizzazione, la Liturgia ci proponga il Vangelo di Bartimeo. Questa Parola di Dio ha qualcosa da dire in modo particolare a noi, che in questi giorni ci siamo confrontati sull’urgenza di annunciare nuovamente Cristo là dove la luce della fede si è indebolita, là dove il fuoco di Dio è come un fuoco di brace, che chiede di essere ravvivato, perché sia fiamma viva che dà luce e calore a tutta la casa.

La nuova evangelizzazione riguarda tutta la vita della Chiesa. Essa si riferisce, in primo luogo, alla pastorale ordinaria che deve essere maggiormente animata dal fuoco dello Spirito, per incendiare i cuori dei fedeli che regolarmente frequentano la Comunità e che si radunano nel giorno del Signore per nutrirsi della sua Parola e del Pane di vita eterna. Vorrei qui sottolineare tre linee pastorali emerse dal Sinodo. La prima riguarda i Sacramenti dell’iniziazione cristiana.E’ stata riaffermata l’esigenza di accompagnare con un’appropriata catechesi la preparazione al Battesimo, alla Cresima e all’Eucaristia. È stata pure ribadita l’importanza della Penitenza, sacramento della misericordia di Dio. Attraverso questo itinerario sacramentale passa la chiamata del Signore alla santità, rivolta a tutti i cristiani. Infatti, è stato più volte ripetuto che i veri protagonisti della nuova evangelizzazione sono i santi: essi parlano un linguaggio a tutti comprensibile con l’esempio della vita e con le opere della carità.

In secondo luogo, la nuova evangelizzazione è essenzialmente connessa con la missione ad gentes. La Chiesa ha il compito di evangelizzare, di annunciare il Messaggio di salvezza agli uomini che tuttora non conoscono Gesù Cristo. Anche nel corso delle riflessioni sinodali è stato sottolineato che esistono tanti ambienti in Africa, in Asia e in Oceania i cui abitanti aspettano con viva attesa, talvolta senza esserne pienamente coscienti, il primo annuncio del Vangelo. Pertanto occorre pregare lo Spirito Santo affinché susciti nella Chiesa un rinnovato dinamismo missionario i cui protagonisti siano, in modo speciale, gli operatori pastorali e i fedeli laici. La globalizzazione ha causato un notevole spostamento di popolazioni; pertanto, il primo annuncio si impone anche nei Paesi di antica evangelizzazione. Tutti gli uomini hanno il diritto di conoscere Gesù Cristo e il suo Vangelo; e a ciò corrisponde il dovere dei cristiani, di tutti i cristiani – sacerdoti, religiosi e laici –, di annunciare la Buona Notizia.

Un terzo aspetto riguarda le persone battezzate che però non vivono le esigenze del Battesimo. Nel corso dei lavori sinodali è stato messo in luce che queste persone si trovano in tutti i continenti, specialmente nei Paesi più secolarizzati. La Chiesa ha un’attenzione particolare verso di loro, affinché incontrino nuovamente Gesù Cristo, riscoprano la gioia della fede e ritornino alla pratica religiosa nella comunità dei fedeli. Oltre ai metodi pastorali tradizionali, sempre validi, la Chiesa cerca di adoperare anche metodi nuovi, curando pure nuovi linguaggi, appropriati alle differenti culture del mondo, proponendo la verità di Cristo con un atteggiamento di dialogo e di amicizia che ha fondamento in Dio che è Amore. In varie parti del mondo, la Chiesa ha già intrapreso tale cammino di creatività pastorale, per avvicinare le persone allontanate o in ricerca del senso della vita, della felicità e, in definitiva, di Dio. Ricordiamo alcune importanti missioni cittadine, il «Cortile dei gentili», la missione continentale, e così via. Non c’è dubbio che il Signore, Buon Pastore, benedirà abbondantemente tali sforzi che provengono dallo zelo per la sua Persona e per il suo Vangelo.

Cari fratelli e sorelle, Bartimeo, avuta di nuovo la vista da Gesù, si aggiunse alla schiera dei discepoli, tra i quali sicuramente ve n’erano altri che, come lui, erano stati guariti dal Maestro. Così sono i nuovi evangelizzatori: persone che hanno fatto l’esperienza di essere risanati da Dio, mediante Gesù Cristo. E la loro caratteristica è una gioia del cuore, che dice con il Salmista: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia» (Ps 125,3). Anche noi, oggi, ci rivolgiamo al Signore Gesù, Redemptor hominis e Lumen gentium, con gioiosa riconoscenza, facendo nostra una preghiera di San Clemente di Alessandria: «Fino ad ora ho errato nella speranza di trovare Dio, ma poiché tu mi illumini, o Signore, trovo Dio per mezzo di te, e ricevo il Padre da te, divengo tuo coerede, poiché non ti sei vergognato di avermi per fratello. Cancelliamo, dunque, cancelliamo l’oblio della verità, l’ignoranza: e rimuovendo le tenebre che ci impediscono la vista come nebbia per gli occhi, contempliamo il vero Dio …; giacché una luce dal cielo brillò su di noi sepolti nelle tenebre e prigionieri dell’ombra di morte, [una luce] più pura del sole, più dolce della vita di quaggiù» (Protrettico, 113,2 – 114,1). Amen.



CAPPELLA PAPALE IN SUFFRAGIO DEI CARDINALI E VESCOVI DEFUNTI NEL CORSO DELL'ANNO; Sabato, 3 novembre 2012

31112
Basilica Vaticana, Altare della Cattedra





Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Nei nostri cuori è presente e vivo il clima della comunione dei Santi e della commemorazione dei fedeli defunti, che la liturgia ci ha fatto vivere in modo intenso nelle celebrazioni dei giorni scorsi. In particolare, la visita ai cimiteri ci ha permesso di rinnovare il legame con le persone care che ci hanno lasciato; la morte, paradossalmente, conserva ciò che la vita non può trattenere. Come i nostri defunti hanno vissuto, che cosa hanno amato, temuto e sperato, che cosa hanno rifiutato, lo scopriamo, infatti, in modo singolare proprio dalle tombe, che sono rimaste quasi come uno specchio della loro esistenza, del loro mondo: esse ci interpellano e ci inducono a riannodare un dialogo che la morte ha messo in crisi. Così, i luoghi della sepoltura costituiscono come una sorta di assemblea, nella quale i vivi incontrano i propri defunti e con loro rinsaldano i vincoli di una comunione che la morte non ha potuto interrompere. E qui a Roma, in quei cimiteri peculiari che sono le catacombe, avvertiamo, come in nessun altro luogo, i legami profondi con la cristianità antica, che sentiamo così vicina. Quando ci inoltriamo nei corridoi delle catacombe romane - come pure in quelli dei cimiteri delle nostre città e dei nostri paesi -, è come se noi varcassimo una soglia immateriale ed entrassimo in comunicazione con coloro che lì custodiscono il loro passato, fatto di gioie e di dolori, di sconfitte e di speranze. Ciò avviene, perché la morte riguarda l’uomo di oggi esattamente come quello di allora; e anche se tante cose dei tempi passati ci sono diventate estranee, la morte è rimasta la stessa.

Di fronte a questa realtà, l’essere umano di ogni epoca cerca uno spiraglio di luce che faccia sperare, che parli ancora di vita, e anche la visita alle tombe esprime questo desiderio. Ma come rispondiamo noi cristiani alla questione della morte? Rispondiamo con la fede in Dio, con uno sguardo di solida speranza che si fonda sulla Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. Allora la morte apre alla vita, a quella eterna, che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo. La fede ci dice che la vera immortalità alla quale aspiriamo non è un’idea, un concetto, ma una relazione di comunione piena con il Dio vivente: è lo stare nelle sue mani, nel suo amore, e diventare in Lui una cosa sola con tutti i fratelli e le sorelle che Egli ha creato e redento, con l’intera creazione. La nostra speranza allora riposa sull’amore di Dio che risplende nella Croce di Cristo e che fa risuonare nel cuore le parole di Gesù al buon ladrone: «Oggi con me sarai nel paradiso» (
Lc 23,43). Questa è la vita giunta alla sua pienezza: quella in Dio; una vita che noi ora possiamo soltanto intravedere come si scorge il cielo sereno attraverso la nebbia.

In questo clima di fede e di preghiera, cari Fratelli, siamo raccolti attorno all’altare per offrire il Sacrificio eucaristico in suffragio dei Cardinali, degli Arcivescovi e dei Vescovi che, durante l’anno trascorso, hanno terminato la loro esistenza terrena. In modo particolare ricordiamo i compianti Fratelli Cardinali John Patrick Foley, Anthony Bevilacqua, José Sánchez, Ignace Moussa Daoud, Luis Aponte Martínez, Rodolfo Quezada Toruno, Eugênio de Araújo Sales, Paul Shan Kuo-hsi, Carlo Maria Martini, Fortunato Baldelli. Estendiamo il nostro affettuoso ricordo anche a tutti gli Arcivescovi e Vescovi defunti, chiedendo al Signore, pietoso, giusto e misericordioso (cfr Ps 114), di voler loro concedere il premio eterno promesso ai fedeli servitori del Vangelo.

Ripensando alla testimonianza di questi nostri venerati Fratelli, possiamo riconoscere in essi quei discepoli «miti», «misericordiosi», «puri di cuore», «operatori di pace» di cui ci ha parlato la pericope evangelica (Mt 5,1-12): amici del Signore che, fidandosi della sua promessa, nelle difficoltà e anche nelle persecuzioni hanno conservato la gioia della fede, ed ora abitano per sempre la casa del Padre e godono della ricompensa celeste, ricolmi di felicità e di grazia. I Pastori che oggi ricordiamo hanno, infatti, servito la Chiesa con fedeltà e amore, affrontando talvolta prove onerose, pur di assicurare al gregge loro affidato attenzione e cura. Nella varietà delle rispettive doti e mansioni, hanno dato esempio di solerte vigilanza, di saggia e zelante dedizione al Regno di Dio, offrendo un prezioso contributo alla stagione post-conciliare, tempo di rinnovamento in tutta la Chiesa.

La Mensa eucaristica, alla quale si sono accostati, dapprima come fedeli e poi, quotidianamente, come ministri, anticipa nel modo più eloquente quanto il Signore ha promesso nel «discorso della montagna»: il possesso del Regno dei cieli, il prendere parte alla mensa della Gerusalemme celeste. Preghiamo perché ciò si compia per tutti. La nostra preghiera è alimentata da questa ferma speranza che «non delude» (Rm 5,5), perché garantita da Cristo che ha voluto vivere nella carne l’esperienza della morte per trionfare su di essa con il prodigioso avvenimento della Risurrezione. «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24,5-6). Questo annuncio degli angeli, proclamato la mattina di Pasqua presso il sepolcro vuoto, è giunto attraverso i secoli fino a noi, e ci propone, anche in questa assemblea liturgica, il motivo essenziale della nostra speranza. Infatti, «se siamo morti con Cristo – ricorda san Paolo alludendo a ciò che è avvenuto nel Battesimo, – crediamo che anche vivremo con lui» (Rm 6,8). È lo stesso Spirito Santo, per mezzo del quale l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori, a far sì che la nostra speranza non sia vana (cfr Rm 5,5). Dio Padre, ricco di misericordia, che ha dato alla morte il suo Figlio unigenito quando eravamo ancora peccatori, come non ci donerà la salvezza ora che siamo giustificati per il sangue di Lui (cfr Rm 5,6-11)? La nostra giustizia si basa sulla fede in Cristo. È Lui il «Giusto», preannunciato in tutte le Scritture; è grazie al suo Mistero pasquale che, varcando la soglia della morte, i nostri occhi potranno vedere Dio, contemplare il suo volto (cfr Jb 19,27).

Alla singolare esistenza umana del Figlio di Dio si affianca quella della sua Madre Santissima, che, sola tra tutte le creature, veneriamo Immacolata e piena di grazia. I nostri Fratelli Cardinali e Vescovi, di cui oggi facciamo memoria, sono stati amati con predilezione dalla Vergine Maria e hanno ricambiato il suo amore con devozione filiale. Alla sua materna intercessione vogliamo oggi affidare le loro anime, affinché siano da Lei introdotti nel Regno eterno del Padre, attorniati da tanti loro fedeli per i quali hanno speso la vita. Col suo sguardo premuroso vegli Maria su di essi, che ora dormono il sonno della pace in attesa della beata risurrezione. E noi eleviamo a Dio per loro la nostra preghiera, sorretti dalla speranza di ritrovarci tutti un giorno, uniti per sempre in Paradiso. Amen.



CONCISTORO ORDINARIO PUBBLICO PER LA CREAZIONE DI NUOVI CARDINALI



Cappella papale - Sabato, 24 novembre 2012

24112
Basilica Vaticana


«Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica».


Cari fratelli e sorelle!

Queste parole, che tra poco pronunceranno solennemente i nuovi Cardinali emettendo la professione di fede, fanno parte del simbolo niceno-costantinopolitano, la sintesi della fede della Chiesa che ognuno riceve al momento del Battesimo. Solo professando e custodendo intatta questa regola di verità siamo autentici discepoli del Signore. In questo Concistoro, vorrei soffermarmi in particolare sul significato del termine «cattolica», che indica un tratto essenziale della Chiesa e della sua missione. Il discorso sarebbe ampio e potrebbe essere impostato secondo diverse prospettive: oggi mi limito a qualche pensiero.

Le note caratteristiche della Chiesa rispondono al disegno divino, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica: «È Cristo che, per mezzo dello Spirito Santo, concede alla sua Chiesa di essere una, santa, cattolica e apostolica, ed è ancora lui che la chiama a realizzare ciascuna di queste caratteristiche» (
CEC 811). Nello specifico, la Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr Da 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (Da 7,13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

Gesù poi invia la sua Chiesa non ad un gruppo, ma alla totalità del genere umano per radunarlo, nella fede, in un unico popolo al fine di salvarlo, come esprime bene il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica Lumen gentium: «Tutti gli uomini sono chiamati a far parte del nuovo Popolo di Dio. Perciò questo Popolo, restando uno e unico, deve estendersi a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si compia il disegno della volontà di Dio» (LG 13). L’universalità della Chiesa attinge quindi all’universalità dell’unico disegno divino di salvezza del mondo. Tale carattere universale emerge con chiarezza il giorno della Pentecoste, quando lo Spirito ricolma della sua presenza la prima comunità cristiana, perché il Vangelo si estenda a tutte le nazioni e faccia crescere in tutti i popoli l’unico Popolo di Dio. Così, la Chiesa, fin dai suoi inizi, è orientata kat’holon, abbraccia tutto l’universo. Gli Apostoli rendono testimonianza a Cristo rivolgendosi a uomini provenienti da tutta la terra e ciascuno li comprende come se parlassero nella sua lingua nativa (cfr Ac 2,7-8). Da quel giorno la Chiesa con la «forza dello Spirito Santo», secondo la promessa di Gesù, annuncia il Signore morto e risorto «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (Ac 1,8). La missione universale della Chiesa, pertanto, non sale dal basso, ma scende dall’alto, dallo Spirito Santo, e fin dal suo primo istante è orientata ad esprimersi in ogni cultura per formare così l’unico Popolo di Dio. Non è tanto una comunità locale che si allarga e si espande lentamente, ma è come un lievito che è orientato all’universale, al tutto, e che porta in se stesso l’universalità.

«Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15); «fate discepoli i popoli tutti», dice il Signore (Mt 28,19). Con queste parole Gesù invia gli Apostoli a tutte le creature, perché giunga dovunque l’azione salvifica di Dio. Ma se guardiamo al momento dell’ascensione di Gesù al Cielo, narrata negli Atti degli Apostoli, vediamo che i discepoli sono ancora chiusi nella loro visione, pensano alla restaurazione di un nuovo regno davidico, e domandano al Signore: «è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (Ac 1,6). E come risponde Gesù? Risponde aprendo i loro orizzonti e donando loro la promessa e un compito: promette che saranno ricolmi della potenza dello Spirito Santo e conferisce loro l’incarico di testimoniarlo in tutto il mondo oltrepassando i confini culturali e religiosi entro cui erano abituati a pensare e a vivere, per aprirsi al Regno universale di Dio. E agli inizi del cammino della Chiesa, gli Apostoli e i discepoli partono senza alcuna sicurezza umana, ma con l’unica forza dello Spirito Santo, del Vangelo e della fede. È il fermento che si sparge nel mondo, entra nelle diverse vicende e nei molteplici contesti culturali e sociali, ma rimane un’unica Chiesa. Intorno agli Apostoli fioriscono le comunità cristiane, ma esse sono «la» Chiesa, che, a Gerusalemme, ad Antiochia o a Roma, è sempre la stessa, una e universale. E quando gli Apostoli parlano di Chiesa, non parlano di una propria comunità, parlano della Chiesa di Cristo, e insistono su questa identità unica, universale e totale della Catholica, che si realizza in ogni Chiesa locale. La Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, riflette in se stessa la sorgente della sua vita e del suo cammino: l’unità e la comunione della Trinità.

Nel solco e nella prospettiva dell’unità e universalità della Chiesa si colloca anche il Collegio Cardinalizio: esso presenta una varietà di volti, in quanto esprime il volto della Chiesa universale. Attraverso questo Concistoro, in modo particolare, desidero porre in risalto che la Chiesa è Chiesa di tutti i popoli, e pertanto si esprime nelle varie culture dei diversi Continenti. È la Chiesa di Pentecoste, che nella polifonia delle voci innalza un unico canto armonioso al Dio vivente.

Saluto cordialmente le Delegazioni ufficiali dei vari Paesi, i Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, i fedeli laici delle diverse Comunità diocesane e tutti coloro che partecipano alla gioia dei nuovi membri del Collegio Cardinalizio, ai quali sono legati per il vincolo della parentela, dell’amicizia, della collaborazione. I nuovi Cardinali, che rappresentano varie Diocesi del mondo, sono da oggi aggregati, a titolo tutto speciale, alla Chiesa di Roma e rafforzano così i legami spirituali che uniscono la Chiesa intera, vivificata da Cristo e stretta attorno al Successore di Pietro. Nello stesso tempo, il rito odierno esprime il supremo valore della fedeltà. Infatti, nel giuramento che tra poco voi farete, venerati Fratelli, stanno scritte parole cariche di profondo significato spirituale ed ecclesiale: «Prometto e giuro di rimanere, da ora e per sempre finché avrò vita, fedele a Cristo e al suo Vangelo, costantemente obbediente alla Santa Apostolica Chiesa Romana». E nel ricevere la berretta rossa sentirete ricordarvi che essa indica «che dovete essere pronti a comportarvi con fortezza, fino all’effusione del sangue, per l’incremento della fede cristiana, per la pace e la tranquillità del popolo di Dio». Mentre la consegna dell’anello sarà accompagnata dal monito: «Sappi che con l’amore del Principe degli Apostoli si rafforza il tuo amore verso la Chiesa».

Ecco indicata, in questi gesti e nelle espressioni che li accompagnano, la fisionomia che voi oggi assumete nella Chiesa. D’ora in poi voi sarete ancora più strettamente e intimamente uniti alla Sede di Pietro: i titoli o le diaconie delle chiese dell’Urbe vi ricorderanno il legame che vi stringe, come membri a titolo specialissimo, a questa Chiesa di Roma, che presiede alla carità universale. Specialmente mediante la vostra collaborazione con i Dicasteri della Curia Romana, sarete miei preziosi cooperatori, anzitutto nel ministero apostolico per l’intera cattolicità, quale Pastore dell’intero gregge di Cristo e primo garante della dottrina, della disciplina e della morale.

Cari amici, lodiamo il Signore, che «con larghezza di doni non cessa di arricchire la sua Chiesa sparsa nel mondo» (Orazione) e la rinvigorisce nella perenne giovinezza che le ha dato. A Lui affidiamo il nuovo servizio ecclesiale di questi stimati e venerati Fratelli, affinché possano rendere coraggiosa testimonianza a Cristo, nel dinamismo edificante della fede e nel segno di un incessante amore oblativo. Amen.





Benedetto XVI Omelie 11102