Benedetto XVI Omelie 25112

SANTA MESSA CON I NUOVI CARDINALI; Domenica, 25 novembre 2012

25112

Basilica Vaticana

Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo


Signori Cardinali,

venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

La solennità odierna di Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico, si arricchisce dell’accoglienza nel Collegio Cardinalizio di sei nuovi Membri che, secondo la tradizione, ho invitato questa mattina a concelebrare con me l’Eucaristia. A ciascuno di essi rivolgo il mio più cordiale saluto, ringraziando il Cardinale James Michael Harvey per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti. Saluto gli altri Porporati e tutti i Presuli presenti, come pure le distinte Autorità, i Signori Ambasciatori, i sacerdoti, i religiosi e tutti i fedeli, specialmente quelli provenienti dalle Diocesi affidate alla guida pastorale dei nuovi Cardinali.

In quest’ultima domenica dell’anno liturgico la Chiesa ci invita a celebrare il Signore Gesù quale Re dell’universo. Ci chiama a rivolgere lo sguardo al futuro, o meglio in profondità, verso la meta ultima della storia, che sarà il regno definitivo ed eterno di Cristo. Egli era all’inizio con il Padre quando è stato creato il mondo, e manifesterà pienamente la sua signoria alla fine dei tempi, quando giudicherà tutti gli uomini. Le tre Letture di oggi ci parlano di questo regno. Nel brano evangelico che abbiamo ascoltato, tratto dal Vangelo di San Giovanni, Gesù si trova in una situazione umiliante - quella di accusato -, davanti al potere romano. E’ stato arrestato, insultato, schernito, e ora i suoi nemici sperano di ottenerne la condanna al supplizio della croce. L’hanno presentato a Pilato come uno che aspira al potere politico, come il sedicente re dei Giudei. Il procuratore romano compie la sua indagine e interroga Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» (
Jn 18,33). Rispondendo a questa domanda, Gesù chiarisce la natura del suo regno e della sua stessa messianicità, che non è potere mondano, ma amore che serve; Egli afferma che il suo regno non va assolutamente confuso con un qualsiasi regno politico: «Il mio regno non è di questo mondo … non è di quaggiù» (Jn 18,36).

E’ chiaro che Gesù non ha nessuna ambizione politica. Dopo la moltiplicazione dei pani, la gente, entusiasmata dal miracolo, lo voleva prendere per farlo re, per rovesciare il potere romano e stabilire così un nuovo regno politico, che sarebbe stato considerato come il regno di Dio tanto atteso. Ma Gesù sa che il regno di Dio è di tutt’altro genere, non si basa sulle armi e sulla violenza. Ed è proprio la moltiplicazione dei pani che diventa, da un lato, segno della sua messianicità, ma, dall’altro, uno spartiacque nella sua attività: da quel momento il cammino verso la Croce si fa sempre più chiaro; lì, nel supremo atto di amore, risplenderà il regno promesso, il regno di Dio. Ma la folla non comprende, è delusa, e Gesù si ritira sul monte da solo a pregare, a parlare con il Padre (cfr Jn 6,1-15). Nel racconto della Passione vediamo come anche i discepoli, pur avendo condiviso la vita con Gesù e ascoltato le sue parole, pensavano ad un regno politico, instaurato anche con l’aiuto della forza. Nel Getsemani, Pietro aveva sfoderato la sua spada e iniziato a combattere, ma Gesù lo aveva fermato (cfr Jn 18,10-11). Egli non vuole essere difeso con le armi, ma vuole compiere la volontà del Padre fino in fondo e stabilire il suo regno non con le armi e la violenza, ma con l’apparente debolezza dell’amore che dona la vita. Il regno di Dio è un regno completamente diverso da quelli terreni.

Ed è per questo che davanti ad un uomo indifeso, fragile, umiliato, come è Gesù, un uomo di potere come Pilato rimane sorpreso; sorpreso perché sente parlare di un regno, di servitori. E pone una domanda che gli sarà sembrata paradossale: «Dunque tu sei re?». Che tipo di re può essere un uomo in quelle condizioni? Ma Gesù risponde in modo affermativo: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Jn 18,37). Gesù parla di re, di regno, ma il riferimento non è al dominio, bensì alla verità. Pilato non comprende: ci può essere un potere che non si ottiene con mezzi umani? Un potere che non risponda alla logica del dominio e della forza? Gesù è venuto per rivelare e portare una nuova regalità, quella di Dio; è venuto per rendere testimonianza alla verità di un Dio che è amore (cfr 1Jn 4,8 1Jn 4,16) e che vuole stabilire un regno di giustizia, di amore e di pace (cfr Prefazio). Chi è aperto all’amore, ascolta questa testimonianza e l’accoglie con fede, per entrare nel regno di Dio.

Questa prospettiva la ritroviamo nella prima Lettura che abbiamo ascoltato. Il profeta Daniele predice il potere di un misterioso personaggio collocato tra cielo e terra: «Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Da 7,13-14). Sono parole che prospettano un re che domina da mare a mare fino ai confini della terra, con un potere assoluto che non sarà mai distrutto. Questa visione del Profeta, una visione messianica, viene illuminata e trova la sua realizzazione in Cristo: il potere del vero Messia, potere che non tramonta mai e che non sarà mai distrutto, non è quello dei regni della terra che sorgono e cadono, ma è quello della verità e dell’amore. Con ciò comprendiamo come la regalità annunciata da Gesù nelle parabole e rivelata in modo aperto ed esplicito davanti al Procuratore romano, è la regalità della verità, l’unica che dà a tutte le cose la loro luce e la loro grandezza.

Nella seconda Lettura l’autore dell’Apocalisse afferma che anche noi partecipiamo alla regalità di Cristo. Nell’acclamazione rivolta a «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» dichiara che Cristo «ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,5-6). Anche qui è chiaro che si tratta di un regno fondato sulla relazione con Dio, con la verità, e non di un regno politico. Con il suo sacrificio, Gesù ci ha aperto la strada per un rapporto profondo con Dio: in Lui siamo diventati veri figli adottivi, siamo resi così partecipi della sua regalità sul mondo. Essere discepoli di Gesù significa, allora, non lasciarsi affascinare dalla logica mondana del potere, ma portare nel mondo la luce della verità e dell’amore di Dio. L’autore dell’Apocalisse allarga poi lo sguardo alla seconda venuta di Gesù per giudicare gli uomini e stabilire per sempre il regno divino, e ci ricorda che la conversione, come risposta alla grazia divina, è la condizione per l’instaurazione di questo regno (cfr Ap 1,7). E’ un forte invito rivolto a tutti e a ciascuno: convertirsi sempre di nuovo al regno di Dio, alla signoria di Dio, della Verità, nella nostra vita. Lo invochiamo quotidianamente nella preghiera del “Padre nostro” con le parole “Venga il tuo regno”, che è dire a Gesù: Signore facci essere tuoi, vivi in noi, raccogli l’umanità dispersa e sofferente, perché in Te tutto sia sottomesso al Padre della misericordia e dell’amore.

A voi, cari e venerati Fratelli Cardinali – penso in particolare a quelli creati ieri – viene affidata questa impegnativa responsabilità: dare testimonianza al regno di Dio, alla verità. Ciò significa far emergere sempre la priorità di Dio e della sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Fatevi imitatori di Gesù, il quale, davanti a Pilato, nella situazione umiliante descritta dal Vangelo, ha manifestato la sua gloria: quella di amare sino all’estremo, donando la propria vita per le persone amate. Questa è la rivelazione del regno di Gesù. E per questo, con un cuore solo ed un’anima sola, preghiamo: «Adveniat regnum tuum». Amen.



I DOMENICA DI AVVENTO - PRIMI VESPRI; INCONTRO CON GLI UNIVERSITARI DEGLI ATENEI ROMANI E DELLE UNIVERSITÀ PONTIFICIE; Sabato, 1° dicembre 2012

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Basilica Vaticana






«Colui che vi chiama è fedele» (
1Th 5,24).

Cari amici universitari,

le parole dell’Apostolo Paolo ci guidano a cogliere il vero significato dell’Anno liturgico, che questa sera iniziamo insieme con la recita dei Primi Vespri di Avvento. L’intero cammino dell’anno della Chiesa è orientato a scoprire e a vivere la fedeltà del Dio di Gesù Cristo che nella grotta di Betlemme si presenterà a noi, ancora una volta, nel volto di un bambino. Tutta la storia della salvezza è un percorso di amore, di misericordia e di benevolenza: dalla creazione alla liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto, dal dono della Legge sul Sinai al ritorno in patria dalla schiavitù babilonese. Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe è stato sempre il Dio vicino, che non ha mai abbandonato il suo popolo. Più volte ne ha subito con tristezza l’infedeltà e atteso con pazienza il ritorno, sempre nella libertà di un amore che precede e sostiene l’amato, attento alla sua dignità e alle sue attese più profonde.

Dio non si è chiuso nel suo Cielo, ma si è chinato sulle vicende dell’uomo: un mistero grande che giunge a superare ogni possibile attesa. Dio entra nel tempo dell’uomo nel modo più impensato: facendosi bambino e percorrendo le tappe della vita umana, affinché tutta la nostra esistenza, spirito, anima e corpo - come ci ha ricordato san Paolo - possa conservarsi irreprensibile ed essere elevata alle altezze di Dio. E tutto questo lo fa per il suo amore fedele verso l’umanità. L’amore quando è vero tende per sua natura al bene dell’altro, al maggior bene possibile, e non si limita a rispettare semplicemente gli impegni di amicizia assunti, ma va oltre, senza calcolo, né misura. E’ proprio ciò che ha compiuto il Dio vivo e vero, il cui mistero profondo ci viene rivelato nelle parole di san Giovanni: «Dio è amore» (1Jn 4,8 1Jn 4,16). Questo Dio in Gesù di Nazaret assume in sé l’intera umanità, l’intera storia dell’umanità, e le dà una svolta nuova, decisiva, verso un nuovo essere persona umana, caratterizzato dall’essere generato da Dio e dal tendere verso di Lui (cfr L’infanzia di Gesù, Rizzoli-LEV 2012, p. 19).

Cari giovani, illustri Rettori e Professori, è per me motivo di grande gioia condividere queste riflessioni con voi che qui rappresentate il mondo universitario romano, nel quale confluiscono, pur nelle loro specifiche identità, le Università statali e private di Roma e le Istituzioni pontificie, che da tanti anni camminano insieme dando viva testimonianza di un fecondo dialogo e di collaborazione tra i diversi saperi e la teologia. Saluto e ringrazio il Cardinale Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il Rettore dell’Università di Roma “Foro Italico” e la vostra rappresentante, per le parole che mi hanno rivolto a nome di tutti. Saluto con viva cordialità il Cardinale Vicario e il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, come pure le diverse autorità accademiche presenti.

Con speciale affetto saluto voi, cari giovani universitari degli Atenei romani, che avete rinnovato la vostra professione di fede sulla Tomba dell’apostolo Pietro. Voi state vivendo il tempo della preparazione alle grandi scelte della vostra vita e al servizio nella Chiesa e nella società. Questa sera potete sperimentare che non siete soli: sono con voi i docenti, i cappellani universitari, gli animatori dei collegi. E’ con voi il Papa! E, soprattutto, siete inseriti nella grande comunità accademica romana, in cui è possibile camminare nella preghiera, nella ricerca, nel confronto, nella testimonianza per il Vangelo. E’ un dono prezioso per la vostra vita; sappiatelo vedere come un segno della fedeltà di Dio, che vi offre occasioni per conformare la vostra esistenza a quella di Cristo, per lasciarvi santificare da Lui fino alla perfezione (cfr 1Th 5,23). L’anno liturgico che iniziamo con questi Vespri sarà anche per voi il cammino in cui ancora una volta rivivere il mistero di questa fedeltà di Dio, sulla quale siete chiamati a fondare, come su una roccia sicura, la vostra vita. Celebrando e vivendo con tutta la Chiesa questo itinerario di fede, sperimenterete che Gesù Cristo è l’unico Signore del cosmo e della storia, senza il quale ogni costruzione umana rischia di vanificarsi nel nulla. La liturgia, vissuta nel suo vero spirito, è sempre la scuola fondamentale per vivere la fede cristiana, una fede «teologale», che vi coinvolge in tutto il vostro essere – spirito, anima e corpo – per farvi diventare pietre vive nella costruzione della Chiesa e collaboratori della nuova evangelizzazione. In modo particolare, nell’Eucaristia, il Dio vivente si rende così vicino, da farsi cibo che sostiene il cammino, presenza che trasforma col fuoco del suo amore.

Cari amici, viviamo in un contesto in cui spesso incontriamo l’indifferenza verso Dio. Ma penso che nel profondo di quanti - anche tra i vostri coetanei - vivono la lontananza da Dio, ci sia una interiore nostalgia di infinito, di trascendenza. A voi il compito di testimoniare nelle aule universitarie il Dio vicino, che si manifesta anche nella ricerca della verità, anima di ogni impegno intellettuale. A tale proposito esprimo il mio compiacimento e il mio incoraggiamento per il programma di pastorale universitaria dal titolo: «Il Padre lo vide da lontano. L’oggi dell’uomo, l’oggi di Dio», proposto dall’Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato di Roma. La fede è la porta che Dio apre nella nostra vita per condurci all’incontro con Cristo, nel quale l’oggi dell’uomo si incontra con l’oggi di Dio. La fede cristiana non è adesione ad un dio generico o indefinito, ma al Dio vivo che in Gesù Cristo, Verbo fatto carne, è entrato nella nostra storia e si è rivelato come il Redentore dell’uomo. Credere significa affidare la propria vita a Colui che solo può darle pienezza nel tempo e aprirla ad una speranza oltre il tempo.

Riflettere sulla fede, in quest'Anno della fede, è l’invito che desidero rivolgere a tutta la comunità accademica di Roma. Il continuo dialogo tra le Università statali o private e quelle pontificie lascia sperare in una presenza sempre più significativa della Chiesa nell’ambito della cultura non solo romana, ma italiana ed internazionale. Le Settimane culturali e il Simposio internazionale dei docenti che si svolgerà a giugno prossimo, saranno un esempio di questa esperienza, che spero possa realizzarsi in tutte le città universitarie dove sono presenti atenei statali, privati e pontifici.

Cari amici, «colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo» (1Th 5,24); farà di voi annunciatori della sua presenza. Nella preghiera di questa sera incamminiamoci idealmente verso la grotta di Betlemme per gustare la vera gioia del Natale: la gioia di accogliere al centro della nostra vita, sull’esempio della Vergine Maria e di san Giuseppe, quel Bambino che ci ricorda che gli occhi di Dio sono aperti sul mondo e su ogni uomo (cfr Za 12,4). Gli occhi di Dio sono aperti su di noi perché Lui è fedele al suo amore! Solo questa certezza può condurre l’umanità verso traguardi di pace e di prosperità, in questo momento storico delicato e complesso. Anche la prossima Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro sarà per voi giovani universitari una grande occasione per manifestare la fecondità storica della fedeltà di Dio, offrendo la vostra testimonianza e il vostro impegno per il rinnovamento morale e sociale del mondo. La consegna dell’Icona di Maria Sedes Sapientiae alla delegazione universitaria brasiliana da parte della Cappellania universitaria di Roma Tre, che quest’anno celebra il suo ventennale, è un segno di questo comune impegno di voi giovani universitari di Roma.

A Maria, Sede della Sapienza, affido tutti voi e i vostri cari; lo studio, l’insegnamento, la vita degli Atenei; specialmente l’itinerario di formazione e di testimonianza in questo Anno della fede. Le lampade che porterete nelle vostre cappellanie siano sempre alimentate dalla vostra fede umile ma piena di adorazione, perché ciascuno di voi sia una luce di speranza e di pace nell’ambiente universitario. Amen.




VISITA ALLA PARROCCHIA ROMANA "SAN PATRIZIO AL COLLE PRENESTINO", 16 dicembre 2012

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III Domenica di Avvento "Gaudete"





Cari fratelli e sorelle della Parrocchia di San Patrizio!

Sono molto lieto di essere in mezzo a voi e di celebrare con voi e per voi la Santa Eucaristia. Vorrei anzitutto offrirvi qualche pensiero alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato. In questa terza domenica di Avvento, chiamata domenica «Gaudete», la Liturgia ci invita alla gioia. L’Avvento è un tempo di impegno e di conversione per preparare la venuta del Signore, ma la Chiesa oggi ci fa pregustare la gioia del Natale ormai vicino. In effetti, l’Avvento è anche tempo di gioia, perché in esso si risveglia nei cuori dei credenti l’attesa del Salvatore, e attendere la venuta di una persona amata è sempre motivo di gioia. Questo aspetto gioioso è presente nelle prime Letture bibliche di questa domenica. Il Vangelo invece corrisponde all’altra dimensione caratteristica dell’Avvento: quella della conversione in vista della manifestazione del Salvatore, annunciato da Giovanni Battista.

La prima Lettura che abbiamo sentito è un invito insistente alla gioia. Il brano inizia con l’espressione: «Rallégrati, figlia di Sion… esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme» (
So 3,14), che è simile a quella dell’annuncio dell’angelo a Maria: «Rallégrati, piena di grazia» (Lc 1,26). Il motivo essenziale per cui la figlia di Sion può esultare è espresso nell’affermazione che abbiamo appena ascoltato: «il Signore è in mezzo a te» (So 3,15 So 3,17); letteralmente sarebbe «è nel tuo grembo», con un chiaro riferimento al dimorare di Dio nell’Arca dell’Alleanza, posta sempre in mezzo al popolo di Israele. Il profeta vuole dirci che non c’è più alcun motivo di sfiducia, di scoraggiamento, di tristezza, qualunque sia la situazione che si deve affrontare, perché siamo certi della presenza del Signore, che da sola basta a rasserenare e rallegrare i cuori. Il profeta Sofonia, inoltre, fa capire che questa gioia è reciproca: noi siamo invitati a rallegrarci, ma anche il Signore si rallegra per la sua relazione con noi; infatti, il profeta scrive: «Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (v. 17). La gioia che viene promessa in questo testo profetico trova il suo compimento in Gesù, che è nel grembo di Maria, la “Figlia di Sion”, e pone così la sua dimora in mezzo a noi (cfr Jn 1,14). Egli infatti, venendo nel mondo, ci dona la sua gioia, come Egli stesso confida ai suoi discepoli: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Jn 15,11). Gesù reca agli uomini la salvezza, una nuova relazione con Dio che vince il male e la morte, e porta la vera gioia per questa presenza del Signore che viene a illuminare il nostro cammino che spesso è oppresso dalle tenebre e dall’egoismo. E possiamo riflettere se realmente siamo consapevoli di questo fatto della presenza del Signore tra noi, che non è un Dio lontano, ma un Dio con noi, un Dio in mezzo a noi, che sta con noi qui nella Santa Eucaristia, sta con noi nella Chiesa viva. E noi dobbiamo essere portatori di questa presenza di Dio. E così Dio gioisce per noi e noi possiamo avere la gioia: Dio c’è, e Dio è buono, e Dio è vicino.

Nella seconda Lettura che abbiamo ascoltato san Paolo invita i cristiani di Filippi a rallegrarsi nel Signore. Possiamo rallegrarci? E perché bisogna rallegrarsi? La risposta di san Paolo è: perché «il Signore è vicino!» (Ph 4,5). Tra pochi giorni celebreremo il Natale, la festa della venuta di Dio, che si è fatto bambino e nostro fratello per stare con noi e condividere la nostra condizione umana. Dobbiamo rallegrarci per questa sua vicinanza, per questa sua presenza e cercare di capire sempre più che realmente è vicino, e così essere penetrati dalla realtà della bontà di Dio, della gioia che Cristo è con noi. Paolo dice con forza in un'altra Lettera che nulla può separarci dall’amore di Dio che si è manifestato in Cristo. Solo il peccato ci allontana da Lui, ma questo è un fattore di separazione che noi stessi introduciamo nel nostro rapporto con il Signore. Però, anche quando noi ci allontaniamo, Egli non cessa di amarci e continua ad esserci vicino con la sua misericordia, con la sua disponibilità a perdonare e a riaccoglierci nel suo amore. Perciò, così prosegue san Paolo, non dobbiamo mai angustiarci, possiamo sempre esporre al Signore le nostre richieste, le nostre necessità, le nostre preoccupazioni, «con preghiere e suppliche» (v. 6). E questo è un grande motivo di gioia: sapere che è sempre possibile pregare il Signore e che il Signore ci ascolta, che Dio non è lontano, ma ascolta realmente, ci conosce, e sapere che non respinge mai le nostre preghiere, anche se non risponde sempre così come noi desideriamo, ma risponde. E l’Apostolo aggiunge: pregare «con ringraziamenti» (ibid.). La gioia che il Signore ci comunica deve trovare in noi l’amore riconoscente. Infatti, la gioia è piena quando riconosciamo la sua misericordia, quando diventiamo attenti ai segni della sua bontà, se realmente percepiamo che questa bontà di Dio è con noi, e lo ringraziamo per quanto riceviamo da Lui ogni giorno. Chi accoglie i doni di Dio in modo egoistico, non trova la vera gioia; invece chi trae occasione dai doni ricevuti da Dio per amarlo con sincera gratitudine e per comunicare agli altri il suo amore, questi ha il cuore veramente pieno di gioia. Ricordiamolo!

Dopo le due Letture veniamo al Vangelo. Il Vangelo di oggi ci dice che per accogliere il Signore che viene dobbiamo prepararci guardando bene alla nostra condotta di vita. Alle diverse persone che gli chiedono che cosa devono fare per essere pronte alla venuta del Messia (cfr Lc 3,10 Lc 3,12 Lc 3,14), Giovanni Battista risponde che Dio non esige niente di straordinario, ma che ciascuno viva secondo criteri di solidarietà e di giustizia; senza di esse non ci si può preparare bene all’incontro con il Signore. Quindi chiediamo anche noi al Signore che cosa aspetta e che cosa vuole che facciamo, e iniziamo a capire che non esige cose straordinarie, ma vivere la vita ordinaria in rettitudine e bontà. Infine Giovanni Battista indica chi dobbiamo seguire con fedeltà e coraggio. Anzitutto nega di essere lui stesso il Messia e poi proclama con fermezza: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali» (v. 16). Qui notiamo la grande umiltà di Giovanni nel riconoscere che la sua missione è quella di preparare la strada a Gesù. Dicendo «io vi battezzo con acqua», vuol far capire che la sua è un’azione simbolica. Egli infatti non può eliminare e perdonare i peccati: battezzando con acqua, può solo indicare che bisogna cambiare la vita. Nello stesso tempo Giovanni annuncia la venuta del «più forte», che «vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (ibid.). E, come abbiamo ascoltato, questo grande profeta usa immagini forti per invitare alla conversione, ma non lo fa con lo scopo di incutere timore, piuttosto lo fa per spronare ad accogliere bene l’Amore di Dio, che solo può purificare veramente la vita. Dio si fa uomo come noi per donarci una speranza che è certezza: se lo seguiamo, se viviamo con coerenza la nostra vita cristiana, Egli ci attirerà a Sé, ci condurrà alla comunione con Lui; e nel nostro cuore ci sarà la vera gioia e la vera pace, anche nelle difficoltà, anche nei momenti di debolezza.

Cari amici! Sono contento di pregare con voi il Signore che si rende presente nell’Eucaristia per essere sempre con noi. Saluto cordialmente il Cardinale Vicario, il Vescovo Ausiliare del Settore, il vostro Parroco Don Fabio Fasciani, che ringrazio per le sue parole nelle quali mi ha esposto la situazione della parrocchia, la ricchezza spirituale della vita parrocchiale, e saluto tutti i Sacerdoti presenti. Saluto quanti sono attivi nell’ambito della parrocchia: i catechisti, i membri del coro e dei vari gruppi parrocchiali, come pure gli aderenti al Cammino Neocatecumenale, qui impegnati nella missione. Vedo con gioia tanti bambini che seguono la parola di Dio in diversi livelli, preparandosi alla Comunione, alla Cresima e al dopo Cresima, alla vita. Benvenuti! Sono felice di vedere qui una Chiesa viva! Estendo il mio pensiero alle Oblate della Madonna del Rosario, presenti nel territorio della parrocchia, e a tutti gli abitanti del quartiere, specialmente agli anziani, ai malati, alle persone sole e in difficoltà. Per tutti e per ciascuno prego in questa Santa Messa.

La vostra parrocchia, formatasi sul Colle Prenestino tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’80, dopo le difficoltà iniziali dovute alla mancanza di strutture e di servizi, si è dotata di una nuova bella chiesa, inaugurata nel 2007 dopo una lunga attesa. Questo edificio sacro sia pertanto uno spazio privilegiato per crescere nella conoscenza e nell’amore di Colui che tra pochi giorni accoglieremo nella gioia del Natale come Redentore del mondo e nostro Salvatore. Non mancate di venirlo a trovare spesso, per sentire ancora di più la sua presenza che dona forza. Mi rallegro per il senso di appartenenza alla comunità parrocchiale che, nel corso di questi anni, è venuto sempre più maturando e consolidandosi. Vi incoraggio affinché cresca sempre più la corresponsabilità pastorale in una prospettiva di autentica comunione fra tutte le realtà presenti, chiamate a vivere la complementarietà nella diversità. In modo particolare, desidero richiamare a voi tutti l’importanza e la centralità dell’Eucaristia nella vita personale e comunitaria. La Santa Messa sia al centro della vostra Domenica, che va riscoperta e vissuta come giorno di Dio e della comunità, giorno in cui lodare e celebrare Colui che è morto e risorto per la nostra salvezza e ci chiede di vivere insieme nella gioia di una comunità aperta e pronta ad accogliere ogni persona sola o in difficoltà. Allo stesso modo, vi esorto ad accostarvi con regolarità al sacramento della Riconciliazione, soprattutto in questo tempo di Avvento.

Conosco quanto fate nella preparazione dei ragazzi e dei giovani ai Sacramenti della vita cristiana. L’Anno della fede, che stiamo vivendo, deve diventare un’occasione per far crescere e consolidare l’esperienza della catechesi, in modo da permettere a tutto il quartiere di conoscere e approfondire il Credo della Chiesa e incontrare il Signore come una Persona viva. Rivolgo uno speciale pensiero alle famiglie, con l’augurio che possano pienamente realizzare la propria vocazione all’amore con generosità e perseveranza. E una speciale parola di affetto e di amicizia il Papa vuole dirigerla anche a voi, carissimi ragazzi, ragazze e giovani che mi ascoltate, ed ai vostri coetanei che vivono in questa parrocchia. Sentitevi veri protagonisti della nuova evangelizzazione, mettendo le vostre fresche energie, il vostro entusiasmo e le vostre capacità a servizio di Dio e degli altri, nella comunità.

Cari fratelli e sorelle, come abbiamo detto all’inizio di questa celebrazione, la liturgia odierna ci chiama alla gioia e alla conversione. Apriamo il nostro spirito a questo invito; corriamo incontro al Signore che viene, invocando e imitando san Patrizio, grande evangelizzatore, e la Vergine Maria, che ha atteso e preparato, silenziosa e orante, la nascita del Redentore. Amen!




SANTA MESSA DI MEZZANOTTE; Lunedì, 24 dicembre 2012

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SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE


Basilica Vaticana




Cari fratelli e sorelle!

Sempre di nuovo la bellezza di questo Vangelo tocca il nostro cuore – una bellezza che è splendore della verità. Sempre di nuovo ci commuove il fatto che Dio si fa bambino, affinché noi possiamo amarlo, affinché osiamo amarlo, e, come bambino, si mette fiduciosamente nelle nostre mani. Dio dice quasi: So che il mio splendore ti spaventa, che di fronte alla mia grandezza tu cerchi di affermare te stesso. Ebbene, vengo dunque a te come bambino, perché tu possa accogliermi ed amarmi.

Sempre di nuovo mi tocca anche la parola dell’evangelista, detta quasi di sfuggita, che per loro non c’era posto nell’alloggio. Inevitabilmente sorge la domanda su come andrebbero le cose, se Maria e Giuseppe bussassero alla mia porta. Ci sarebbe posto per loro? E poi ci viene in mente che questa notizia, apparentemente casuale, della mancanza di posto nell’alloggio che spinge la Santa Famiglia nella stalla, l’evangelista Giovanni l’ha approfondita e portata all’essenza scrivendo: “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (
Jn 1,11). Così la grande questione morale su come stiano le cose da noi riguardo ai profughi, ai rifugiati, ai migranti ottiene un senso ancora più fondamentale: abbiamo veramente posto per Dio, quando Egli cerca di entrare da noi? Abbiamo tempo e spazio per Lui? Non è forse proprio Dio stesso ad essere respinto da noi? Ciò comincia col fatto che non abbiamo tempo per Dio. Quanto più velocemente possiamo muoverci, quanto più efficaci diventano gli strumenti che ci fanno risparmiare tempo, tanto meno tempo abbiamo a disposizione. E Dio? La questione che riguarda Lui non sembra mai urgente. Il nostro tempo è già completamente riempito. Ma le cose vanno ancora più in profondità. Dio ha veramente un posto nel nostro pensiero? La metodologia del nostro pensare è impostata in modo che Egli, in fondo, non debba esistere. Anche se sembra bussare alla porta del nostro pensiero, Egli deve essere allontanato con qualche ragionamento. Per essere ritenuto serio, il pensiero deve essere impostato in modo da rendere superflua l’“ipotesi Dio”. Non c’è posto per Lui. Anche nel nostro sentire e volere non c’è lo spazio per Lui. Noi vogliamo noi stessi, vogliamo le cose che si possono toccare, la felicità sperimentabile, il successo dei nostri progetti personali e delle nostre intenzioni. Siamo completamente “riempiti” di noi stessi, così che non rimane alcuno spazio per Dio. E per questo non c’è neppure spazio per gli altri, per i bambini, per i poveri, per gli stranieri. A partire dalla semplice parola circa il posto mancante nell’alloggio possiamo renderci conto di quanto ci sia necessaria l’esortazione di san Paolo: “Lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare!” (Rm 12,2). Paolo parla del rinnovamento, del dischiudere il nostro intelletto (nous); parla, in generale, del modo in cui vediamo il mondo e noi stessi. La conversione di cui abbiamo bisogno deve giungere veramente fino alle profondità del nostro rapporto con la realtà. Preghiamo il Signore affinché diventiamo vigili verso la sua presenza, affinché sentiamo come Egli bussa in modo sommesso eppure insistente alla porta del nostro essere e del nostro volere. Preghiamolo affinché nel nostro intimo si crei uno spazio per Lui. E affinché in questo modo possiamo riconoscerlo anche in coloro mediante i quali si rivolge a noi: nei bambini, nei sofferenti e negli abbandonati, negli emarginati e nei poveri di questo mondo.

C’è ancora una seconda parola nel racconto di Natale sulla quale vorrei riflettere insieme a voi: l’inno di lode che gli angeli intonano dopo il messaggio circa il neonato Salvatore: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini del suo compiacimento”. Dio è glorioso. Dio è luce pura, splendore della verità e dell’amore. Egli è buono. È il vero bene, il bene per eccellenza. Gli angeli che lo circondano trasmettono in primo luogo semplicemente la gioia per la percezione della gloria di Dio. Il loro canto è un’irradiazione della gioia che li riempie. Nelle loro parole sentiamo, per così dire, qualcosa dei suoni melodiosi del cielo. Là non è sottesa alcuna domanda sullo scopo, c’è semplicemente il dato di essere colmi della felicità proveniente dalla percezione del puro splendore della verità e dell’amore di Dio. Da questa gioia vogliamo lasciarci toccare: esiste la verità. Esiste la pura bontà. Esiste la luce pura. Dio è buono ed Egli è il potere supremo al di sopra di tutti i poteri. Di questo fatto dovremmo semplicemente gioire in questa notte, insieme agli angeli e ai pastori.

Con la gloria di Dio nel più alto dei cieli è in relazione la pace sulla terra tra gli uomini. Dove non si dà gloria a Dio, dove Egli viene dimenticato o addirittura negato, non c’è neppure pace. Oggi, però, diffuse correnti di pensiero asseriscono il contrario: le religioni, in particolare il monoteismo, sarebbero la causa della violenza e delle guerre nel mondo; occorrerebbe prima liberare l’umanità dalle religioni, affinché si crei poi la pace; il monoteismo, la fede nell’unico Dio, sarebbe prepotenza, causa di intolleranza, perché in base alla sua natura esso vorrebbe imporsi a tutti con la pretesa dell’unica verità. È vero che, nella storia, il monoteismo è servito di pretesto per l’intolleranza e la violenza. È vero che una religione può ammalarsi e giungere così ad opporsi alla sua natura più profonda, quando l’uomo pensa di dover egli stesso prendere in mano la causa di Dio, facendo così di Dio una sua proprietà privata. Contro questi travisamenti del sacro dobbiamo essere vigilanti. Se un qualche uso indebito della religione nella storia è incontestabile, non è tuttavia vero che il “no” a Dio ristabilirebbe la pace. Se la luce di Dio si spegne, si spegne anche la dignità divina dell’uomo. Allora egli non è più l’immagine di Dio, che dobbiamo onorare in ciascuno, nel debole, nello straniero, nel povero. Allora non siamo più tutti fratelli e sorelle, figli dell’unico Padre che, a partire dal Padre, sono in correlazione vicendevole. Che generi di violenza arrogante allora compaiono e come l’uomo disprezzi e schiacci l’uomo lo abbiamo visto in tutta la sua crudeltà nel secolo scorso. Solo se la luce di Dio brilla sull’uomo e nell’uomo, solo se ogni singolo uomo è voluto, conosciuto e amato da Dio, solo allora, per quanto misera sia la sua situazione, la sua dignità è inviolabile. Nella Notte Santa, Dio stesso si è fatto uomo, come aveva annunciato il profeta Isaia: il bambino qui nato è “Emmanuele”, Dio con noi (cfr Is 7,14). E nel corso di tutti questi secoli davvero non ci sono stati soltanto casi di uso indebito della religione, ma dalla fede in quel Dio che si è fatto uomo sono venute sempre di nuovo forze di riconciliazione e di bontà. Nel buio del peccato e della violenza, questa fede ha inserito un raggio luminoso di pace e di bontà che continua a brillare.

Così Cristo è la nostra pace e ha annunciato la pace ai lontani e ai vicini (cfr Ep 2,14 Ep 2,17). Come non dovremmo noi pregarlo in quest’ora: Sì, Signore, annuncia a noi anche oggi la pace, ai lontani e ai vicini. Fa’ che anche oggi le spade siano forgiate in falci (cfr Is 2,4), che al posto degli armamenti per la guerra subentrino aiuti per i sofferenti. Illumina le persone che credono di dover esercitare violenza nel tuo nome, affinché imparino a capire l’assurdità della violenza e a riconoscere il tuo vero volto. Aiutaci a diventare uomini “del tuo compiacimento” – uomini secondo la tua immagine e così uomini di pace.

Appena gli angeli si furono allontanati, i pastori dicevano l’un l’altro: Orsù, passiamo di là, a Betlemme e vediamo questa parola che è accaduta per noi (cfr Lc 2,15). I pastori si affrettavano nel loro cammino verso Betlemme, ci dice l’evangelista (cfr 2,16). Una santa curiosità li spingeva a vedere in una mangiatoia questo bambino, del quale l’angelo aveva detto che era il Salvatore, il Cristo, il Signore. La grande gioia, di cui l’angelo aveva parlato, aveva toccato il loro cuore e metteva loro le ali.

Andiamo di là, a Betlemme, dice la liturgia della Chiesa oggi a noi. Trans-eamus traduce la Bibbia latina: “attraversare”, andare di là, osare il passo che va oltre, la “traversata”, con cui usciamo dalle nostre abitudini di pensiero e di vita e oltrepassiamo il mondo meramente materiale per giungere all’essenziale, al di là, verso quel Dio che, da parte sua, è venuto di qua, verso di noi. Vogliamo pregare il Signore, perché ci doni la capacità di oltrepassare i nostri limiti, il nostro mondo; perché ci aiuti a incontrarlo, specialmente nel momento in cui Egli stesso, nella Santissima Eucaristia, si pone nelle nostre mani e nel nostro cuore.

Andiamo di là, a Betlemme: con queste parole che, insieme con i pastori, ci diciamo l’un l’altro, non dobbiamo pensare soltanto alla grande traversata verso il Dio vivente, ma anche alla città concreta di Betlemme, a tutti i luoghi in cui il Signore ha vissuto, operato e sofferto. Preghiamo in quest’ora per le persone che oggi lì vivono e soffrono. Preghiamo perché lì ci sia pace. Preghiamo perché Israeliani e Palestinesi possano sviluppare la loro vita nella pace dell’unico Dio e nella libertà. Preghiamo anche per i Paesi circostanti, per il Libano, per la Siria, per l’Iraq e così via: affinché lì si affermi la pace. Che i cristiani in quei Paesi dove la nostra fede ha avuto origine possano conservare la loro dimora; che cristiani e musulmani costruiscano insieme i loro Paesi nella pace di Dio.

I pastori si affrettavano. Una santa curiosità e una santa gioia li spingevano. Tra noi forse accade molto raramente che ci affrettiamo per le cose di Dio. Oggi Dio non fa parte delle realtà urgenti. Le cose di Dio, così pensiamo e diciamo, possono aspettare. Eppure Egli è la realtà più importante, l’Unico che, in ultima analisi, è veramente importante. Perché non dovremmo essere presi anche noi dalla curiosità di vedere più da vicino e di conoscere ciò che Dio ci ha detto? Preghiamolo affinché la santa curiosità e la santa gioia dei pastori tocchino in quest’ora anche noi, e andiamo quindi con gioia di là, a Betlemme – verso il Signore che anche oggi viene nuovamente verso di noi. Amen.




Benedetto XVI Omelie 25112