Agostino - Genesi 1107

I fiumi del paradiso.

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7.13. E un fiume, che irrigava il paradiso, usciva da Eden e di lì si divideva in quattro bracci. Il primo di essi si chiama Fison; questo scorre intorno a tutta la regione di Evilath dove c'è l'oro, e l'oro di quel paese è puro e c'è anche il carbonchio e lo smeraldo. Il secondo fiume si chiama Geon; esso scorre attorno a tutto il paese dell'Etiopia. Il terzo fiume è il Tigri; questo scorre attraverso l'Assiria. Il quarto fiume è l'Eufrate. Parlando di questi fiumi perché mai dovrei sforzarmi ulteriormente di confermare ch'essi sono veri fiumi e non espressioni figurate, come se non fossero delle realtà ma solo nomi significanti qualche altra realtà, dal momento che sono assai noti nei paesi attraverso i quali scorrono, e sono conosciuti quasi da tutti i popoli? Si può anzi costatare che questi fiumi esistono davvero: a due di essi l'antichità ha cambiato il nome, come (è accaduto per) il fiume che ora si chiama Tevere, mentre prima si chiamava Albula; il Geon è infatti lo stesso fiume che ora si chiama Nilo; si chiamava invece Fison quello che ora si chiama Gange; gli altri due, il Tigri e l'Eufrate, al contrario, hanno conservato tuttora il loro nome. Questi riscontri dovrebbero persuaderci a prendere anzitutto in senso letterale gli altri particolari e a non vedervi un modo figurato di parlare, bensì che non sono soltanto dei fatti reali, narrati come storici ma che sono anche figure di qualche altra realtà. Ciò non perché una parabola non possa prendere qualche particolare della realtà benché sia evidente che i fatti raccontati da essa non sono avvenuti in senso letterale. Così il Signore parla di quel tale che scendeva da Gerusalemme a Gerico ed incappò nei briganti. Chi mai non si accorge e non vede chiaramente che si tratta d'una parabola e che tutto quel racconto è allegorico? Cionondimeno le due città nominate nella parabola si possono vedere anche adesso nei propri luoghi. Anche questi quattro fiumi potremmo prenderli in senso figurato, se una qualche necessità ci costringesse a prendere in senso figurato e non letterale tutto il rimanente racconto del paradiso; ma ora, poiché nessuna ragione c'impedisce di prendere i fatti stessi anzitutto in senso letterale, perché non dovremmo seguire semplicemente piuttosto l'autorità della Scrittura relativa alla narrazione dei fatti, prendendoli dapprima come fatti veramente accaduti e poi, alla fine, indagare qual altra realtà potrebbero simboleggiare?

La sorgente e il percorso di quei fiumi.


7.14. Saremo forse imbarazzati (ad ammettere ciò) per il fatto che, a proposito di questi fiumi, si dice che la sorgente di alcuni di essi è nota mentre di altri è del tutto ignota e perciò non può esser preso alla lettera (il racconto biblico), che cioè sarebbero bracci dell'unico fiume del paradiso? Ma poiché non sappiamo affatto dove si trovasse il paradiso, bisognerebbe piuttosto supporre che di lì si diramassero i quattro corsi d'acqua come attesta la Scrittura assolutamente veridica, e che i fiumi di cui si dice che si conosce la sorgente fossero andati a finire sotterra e, dopo aver percorso estese regioni, risgorgassero in altre località in cui si pretende di localizzare la sorgente. Chi non sa che questo fenomeno è comune ad alcuni corsi d'acqua? Ma questo fenomeno si conosce solo nelle regioni ove i fiumi hanno un corso sotterraneo breve.

Si può credere che l'uomo fu posto nel paradiso per lavorarlo senza fatica.

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8.15. Il Signore Dio prese poi l'uomo ch'egli aveva fatto e lo pose nel paradiso perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio inoltre diede il seguente comando ad Adamo: Tu potrai mangiare sicuramente di tutti gli alberi del paradiso, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovrete mangiare perché il giorno che ne mangerete morrete sicuramente. Dopo aver detto più sopra che Dio aveva piantato il paradiso e vi aveva posto l'uomo da lui formato, l'agiografo riprende qui il racconto per narrare in qual modo fosse costituito il paradiso. Ora perciò, riprendendo il racconto, ricorda anche in quali condizioni Dio vi pose l'uomo fatto da lui. Vediamo dunque che cosa voglia dire la frase "per coltivarlo e custodirlo". Che cosa doveva coltivare e che cosa doveva custodire? Volle forse il Signore che il primo uomo lavorasse coltivando la terra? Oppure è forse credibile che Dio condannasse l'uomo al lavoro prima che peccasse? Noi potremmo certamente pensare così, se non vedessimo alcuni coltivare la terra con tanto godimento spirituale che per essi sarebbe un gran castigo esserne distolti per qualche altro lavoro. Qualsiasi diletto dunque, che può arrecare l'agricoltura, era allora certamente di gran lunga maggiore dal momento che nessuna avversità poteva accadere né da parte della terra né dell'atmosfera. L'agricoltura infatti non sarebbe stata un lavoro gravoso, ma un esercizio gioioso della volontà, poiché tutti i prodotti della creazione di Dio, grazie alla collaborazione del lavoro dell'uomo, sarebbero nati più abbondanti e rigogliosi; in tal modo al Creatore sarebbe stata resa una lode maggiore per aver dato all'anima posta in un corpo vivente il metodo razionale e la capacità di lavorare nella misura di quanto desiderava di fare liberamente o nella misura richiesta dai bisogni del corpo che potesse costringere uno a lavorare contro la sua volontà.

L'agricoltura e la potenzialità della natura creata da Dio.


8.16. Quale spettacolo è più grande e meraviglioso, oppure dove mai la ragione umana può meglio conversare in certo qual modo con la natura che quando si è seminato, si sono piantati i virgulti, trapiantati gli arbusti, innestati i maglioli? Allora la mente umana si mette, per così dire, a esaminare che cosa possa o non possa effettuare l'energia di ogni radice e di ogni germe, per qual motivo lo possa o non lo possa, quale efficacia abbia nella natura la potenza invisibile e interna delle sue energie e quale ne abbia la cura applicata dall'esterno. Con queste considerazioni la mente può comprendere che non è qualcosa né chi pianta né chi irriga, ma è Dio che fa crescere; poiché anche il lavoro applicato dall'esterno viene eseguito da un uomo, creato tuttavia da Dio e invisibilmente guidato e regolato da Dio.

La duplice azione della Provvidenza per le creature.

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9.17. Ora, da questo punto la mente eleva lo sguardo a considerare lo stesso mondo come una specie di grande albero della creazione e anche in esso si scopre la duplice attività della Provvidenza: quella naturale e quella volontaria. L'attività naturale della Provvidenza viene esplicata dall'occulta azione di Dio che fa crescere anche gli alberi e le erbe, mentre l'attività volontaria viene esplicata mediante l'opera degli angeli e degli uomini. In virtù della prima attività sono regolate le creature celesti in alto e quelle terrestri in basso, risplendono i luminari e le stelle, si avvicendano il giorno e la notte, la terraferma è solcata e circondata dalle acque, si diffonde l'aria al di sopra della terra, arbusti e animali sono generati e nascono, crescono, s'invecchiano e muoiono; e così avviene per tutto ciò che nelle cose si produce per un impulso interno e naturale. Per mezzo dell'altra attività della Provvidenza si dànno segni, s'impartisce l'insegnamento e s'acquista l'apprendimento, si coltivano i campi, si governano le comunità, si esercitano le varie professioni e ogni altra attività che si compie tanto nel consorzio della città celeste quanto in quello terrestre e mortale: in tal modo anche i malvagi, a loro insaputa, concorrono al bene dei buoni. Anche nell'uomo stesso esercita il suo influsso la duplice attività della Provvidenza: anzitutto esercita l'attività riguardo al corpo, in virtù cioè del moto per cui l'uomo nasce, cresce, invecchia; quella volontaria poi per cui provvediamo a nutrirci, a vestirci, a conservarci. Lo stesso avviene per quanto riguarda l'anima: grazie all'attività naturale essa vive e sente, grazie all'attività volontaria invece impara e acconsente.

L'agricoltura considerata nel senso allegorico: paragone tra l'albero e l'uomo.


9.18. Orbene, come l'azione esterna del coltivatore contribuisce a far progredire lo sviluppo interno di un albero, così per quanto riguarda il corpo dell'uomo, l'azione interna della natura è aiutata all'esterno dalla medicina. Ugualmente, per quanto riguarda l'anima, l'insegnamento impartito dall'esterno contribuisce all'interiore felicità della natura. Ciò che è la negligenza nel coltivare un albero, è per il corpo trascurare le cure mediche, e per l'anima è la pigrizia nell'imparare. Ciò che è per l'albero l'acqua superflua, è per il corpo il nutrimento nocivo e per l'anima è l'incentivo al male. Al di sopra di tutte le cose è Dio che tutto ha creato e tutto governa, crea ogni natura con bontà e governa ogni volontà con giustizia. Che cosa c'è dunque di contrario alla verità se crediamo che l'uomo fu posto nel paradiso per esercitare l'agricoltura non già costretto da un lavoro servile ma spinto da un godimento spirituale adatto alla sua nobiltà? Che cosa c'è di più innocente per chi ha tempo libero, e che cosa desta pensieri più profondi per i sapienti?

:Che significa: per coltivarlo e custodirlo.

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10.19. (L'uomo fu messo nel paradiso) per custodire: ma per custodire che cosa? Forse lo

stesso paradiso? Ma contro chi? Di sicuro non c'era da temere alcun invasore dalle vicinanze né alcuno che avrebbe scompigliato le frontiere, nessun ladro, nessun aggressore. In qual senso dobbiamo intendere dunque che il paradiso materiale potesse essere custodito con mezzi materiali? Tuttavia nemmeno la Scrittura dice: "perché coltivasse e custodisse il paradiso", ma semplicemente: per lavorare e custodire. Se d'altra parte si traducesse più accuratamente alla lettera, dal greco, sta scritto così: Il Signore Dio prese l'uomo che aveva fatto e lo pose nel paradiso per coltivarlo e custodirlo. Ma noi non sappiamo se Dio vi pose l'uomo a lavorare: così interpretò il traduttore: perché lavorasse o coltivasse (ut operaretur), oppure "a lavorare" il medesimo paradiso, cioè "affinché l'uomo coltivasse il paradiso"; il testo è ambiguo e il modo di esprimersi sembra richiedere che non si dica "a lavorare il paradiso", ma "nel paradiso".

Prima ipotesi: spiegazione allegorica.


10.20. Tuttavia, nell'ipotesi che la Scrittura dicesse per lavorare il paradiso nel senso in cui più sopra aveva detto: Ma non c'era (ancora) l'uomo che lavorasse la terra - poiché "lavorare la terra" e "lavorare il paradiso" sono due espressioni identiche - dovremmo spiegare questa frase ambigua nell'uno e nell'altro senso. Ammesso che non sia necessario intendere quella frase nel senso di "custodire il paradiso", ma "nel paradiso", che c'era dunque da custodire nel paradiso? Infatti abbiamo già spiegato che cosa voglia dire - a nostro avviso - lavorare nel paradiso. Diremo forse che l'uomo avrebbe dovuto custodire in se stesso con la disciplina il prodotto da lui ottenuto lavorando nella terra mediante l'agricoltura? In altre parole, allo stesso modo che la terra ubbidiva a lui quando la coltivava, così doveva ubbidire anche lui al Signore, dal quale aveva ricevuto il precetto, in modo da rendergli il frutto dell'ubbidienza e non le spine della disubbidienza? Di conseguenza, poiché l'uomo non volle restare ubbidiente e custodire in se stesso la rassomiglianza dal paradiso da lui coltivato, fu condannato e ricevette in castigo un campo simile a lui. Dio infatti disse: Spine e rovi produrrà la terra per te.

Seconda ipotesi: altra spiegazione allegorica.


10.21. Se invece accettiamo la seconda ipotesi, e intendiamo che l'uomo "coltivava il paradiso" e "custodiva il paradiso", avrebbe, sì, potuto coltivarlo esercitando l'agricoltura -come abbiamo detto più sopra --, ma non avrebbe potuto custodirlo contro furfanti o nemici -che non esistevano - bensì, forse, contro le bestie selvagge. Ma come sarebbe stata possibile una simile cosa? E per qual motivo? Forse che le bestie infierivano già contro l'uomo, dal momento che ciò sarebbe avvenuto solo a causa del peccato? Come infatti è ricordato in seguito dalla Scrittura, fu proprio l'uomo a imporre il nome a tutte le bestie che erano state condotte davanti a lui; inoltre egli stesso il sesto giorno per ordine impartito da Dio ricevette il cibo comune con tutte le bestie. Oppure, se c'era già da temere qualcosa da parte delle bestie, come avrebbe potuto, un uomo solo, difendere il paradiso? Esso infatti non era una piccola località, dato che era irrigata da un fiume tanto grande. L'uomo pertanto avrebbe dovuto difendere il paradiso qualora fosse stato in grado di fortificarlo da ogni lato con una muraglia tanto grande e lunga che non potesse penetrarvi il serpente; ma sarebbe stata un'azione incredibile, se l'uomo avesse potuto scacciarne tutti i serpenti prima di recingerlo da ogni lato con una muraglia!


10.22. Perché dunque trascuriamo l'interpretazione più ovvia? L'uomo fu messo nel paradiso per coltivare lo stesso paradiso, com'è stato spiegato più sopra, mediante il lavoro agricolo non faticoso ma gioioso e adatto a suscitare nella mente di un sapiente pensieri alti e salutari. L'uomo inoltre doveva custodire il paradiso badando di non commettere qualche fallo per cui meritasse d'esserne espulso. Per conseguenza ricevette un precetto osservando il quale avrebbe potuto conservare per sé il paradiso, nel senso cioè che non ne sarebbe stato espulso qualora avesse ubbidito. Giustamente infatti si dice che uno non custodisce un suo bene se agisce in modo da perderlo, anche se quel bene rimane intatto per un altro che lo trova e merita di riceverlo.

Senso preferibile: Dio lavora e conserva l'uomo.


10.23. La frase che discutiamo può avere anche un altro senso che per una giusta ragione io credo preferibile: Dio cioè lavorava e conservava l'uomo in persona. Poiché, allo stesso modo che l'uomo coltiva la terra non per far sì che sia terra, ma renderla con il suo lavoro tale da portar frutto, così Dio in un modo più efficace coltiva l'uomo, creato da lui stesso, perché possa essere reso giusto, purché non si allontani da lui per superbia. Infatti allontanarsi da Dio è ciò che la Scrittura chiama principio della superbia: Principio della superbia dell'uomo -dice la Scrittura -è allontanarsi da Dio. Dio è il Bene immutabile, l'uomo al contrario è un essere mutevole non solo quanto all'anima ma anche quanto al corpo; egli quindi non può essere formato per essere giusto e felice se non si volgerà e resterà stretto al Bene immutabile che è Dio. Per conseguenza il medesimo Dio, che crea l'uomo perché sia uomo, coltiva anche l'uomo e lo custodisce perché sia anche buono e felice; ecco perché la Scrittura con la medesima espressione con cui dice che l'uomo coltiva la terra - ch'era già terra - per renderla bella e feconda, dice che Dio coltiva l'uomo - ch'era già uomo - perché sia buono e saggio, e lo custodisce poiché, quando l'uomo si compiace della propria potenza più di quella di Dio, che è al di sopra di lui, e quando disprezza la signoria di Dio, vive in una continua insicurezza.

Perché la Scrittura chiama qui Dio: il Signore.

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11.24. Io penso perciò che non sia privo di significato, ma che ci richiami alla mente qualcosa d'importante, il fatto che dalla prima riga di questo libro della sacra Scrittura, cioè dalla frase iniziale: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, fino al passo che qui discutiamo, la Scrittura non dice mai "il Signore Iddio", ma soltanto Dio. Ora, al contrario, appena giunta al punto in cui racconta che Dio pose l'uomo nel paradiso per coltivarlo e custodirlo in ubbidienza al suo precetto, la Scrittura dice: Il Signore Iddio prese poi l'uomo ch'egli aveva creato e lo pose nel paradiso a coltivarlo e custodirlo. Dice così non perché Dio non fosse il Signore delle altre creature menzionate in antecedenza, ma perché questa frase non era scritta né per gli angeli né per alcun altro degli esseri creati, bensì per l'uomo, al fine di ricordargli quanto gli sia utile aver Dio per Signore; vivere cioè in ubbidienza sotto la sua sovranità piuttosto che secondo il proprio arbitrio, abusando senza alcuna misura del proprio potere. Ecco perché l'autore sacro non volle usare questa espressione prima di arrivare al punto (del suo racconto) in cui l'uomo sarebbe stato messo nel paradiso per coltivarlo e custodirlo. La Scrittura non dice più, come per le altre opere precedenti: "Dio inoltre prese l'uomo da lui creato", ma dice: Il Signore Dio prese poi l'uomo da lui creato e lo mise nel paradiso per coltivarlo, affinché fosse giusto, e per custodirlo, affinché fosse sicuro operando precisamente sotto la sua sovranità, che è utile non già a Dio, ma a noi. Non è infatti Dio che ha bisogno della nostra sudditanza, ma siamo noi che abbiamo bisogno della sua sovranità, affinché egli ci coltivi e ci custodisca. Ecco perché è lui il vero e solo Signore, poiché noi serviamo lui non per la sua ma per la nostra utilità e salvezza. Se, infatti, fosse lui ad avere bisogno di noi, per ciò stesso non sarebbe il vero Signore, perché saremmo noi a soccorrere la sua indigenza, alla quale sarebbe soggetto anche lui. Giustamente il Salmista dice in un suo Salmo: Io ho detto al Signore: Mio Dio sei tu, poiché non hai bisogno dei miei beni. Quanto a ciò che abbiamo detto, che cioè noi serviamo Dio per il nostro bene e per la nostra salvezza, non dobbiamo prenderlo nel senso che noi aspettiamo qualcos'altro di diverso da lui ma unicamente lui stesso che è il sommo Bene e la nostra salvezza; è così che lo amiamo disinteressatamente conforme a quanto dice il Salmista: Bene è per me stare unito a Dio.

L'uomo è incapace di fare il bene senza Dio.

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12.25. L'uomo non è un essere costituito in modo che, una volta creato, possa compiere alcuna buona azione come se potesse farla da se stesso, qualora venisse abbandonato dal suo Creatore. Tutta la sua azione buona consiste invece nel volgersi verso il proprio Creatore e per opera di lui divenire giusto, pio, saggio e sempre felice; egli però non deve acquisire queste qualità e poi allontanarsi da lui come fa uno che, una volta guarito dal medico del corpo, se ne va per conto suo; poiché il medico del corpo presta solo esternamente la sua opera alla natura che opera internamente sotto l'azione di Dio, che è la causa di tutta la salute con la duplice azione della Provvidenza, di cui abbiamo parlato più sopra. L'uomo dunque non deve volgersi a Dio in modo che, una volta reso giusto, se ne allontani, ma in modo da ricevere sempre la giustificazione da lui. Poiché proprio per il fatto che non si allontana da Dio che non cessa di coltivarlo e custodirlo, viene giustificato da lui che gli è presente, viene illuminato e reso felice finché resta ubbidiente e sottomesso ai suoi precetti.

Come Dio lavora l'uomo.


12.26. L'opera di Dio però non è come quella dell'uomo, il quale - come dicevamo - coltiva la terra perché sia in condizione di produrre ed essere fertile, e dopo aver fatto il proprio lavoro se ne va lasciandola arata o seminata o irrigata o in qualsiasi altro modo preparata; anche se l'agricoltore se ne va, rimane tuttavia l'opera compiuta. Dio invece non fa così: egli coltiva - è vero - l'uomo rendendolo giusto, cioè giustificandolo, ma non in modo che, se egli si allontana, l'opera da lui compiuta rimanga in chi si allontana da lui. Avviene invece piuttosto come avviene nell'aria che non è luminosa per sé ma lo diventa quando è presente la luce poiché, se fosse già luminosa di per sé e non lo diventasse, rimarrebbe luminosa anche quando manca la luce. Così l'uomo viene illuminato da Dio se Dio è presente a lui ma, se Dio è assente, piomba subito nelle tenebre. Da Dio però ci si allontana non a causa di distanze spaziali tra noi e lui, ma a causa dell'avversione della volontà umana che si volge via da lui.

L'uomo diventa buono per mezzo di colui che è immutabilmente buono.


12.27. È dunque Dio - che è immutabilmente buono - colui che colloca e custodisce l'uomo per renderlo e conservarlo buono. Da lui noi dobbiamo essere continuamente fatti e continuamente resi perfetti, restando uniti a lui e rivolti verso di lui, del quale la Scrittura dice: Bene è per me restare unito a Dio, e al quale viene detto: Io conserverò la mia forza rivolto verso di te. Noi infatti siamo opera sua non solo perché fossimo esseri umani ma anche perché fossimo buoni. Anche l'Apostolo infatti, parlando ai fedeli convertiti dall'incredulità, mette in risalto la grazia in virtù della quale sono stati salvati e dice: In virtù di questa grazia infatti voi siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi ma è dono di Dio, né viene dalle opere perché nessuno per caso se ne vanti. Noi infatti siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone predisposte da Dio perché noi le compissimo. E in un altro passo, dopo aver detto: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore, per allontanare da essi il pensiero di attribuire a se stesso il merito d'esser divenuti giusti e buoni, subito soggiunge: È Dio infatti che opera in voi 41. Prese dunque Dio l'uomo da lui creato e lo mise nel paradiso per lavorarlo - cioè perché lavorasse in lui -e custodirlo.

Perché all'uomo fu proibito di mangiare il frutto di quell'albero buono?

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13.28. Il Signore Iddio diede poi questo comando ad Adamo, dicendo: D'ogni albero che si trova nel paradiso tu potrai mangiare sicuramente, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovrai mangiare poiché il giorno che ne mangerete morrete certamente. Se quell'albero, di cui Dio aveva proibito all'uomo di mangiare, fosse stato qualcosa di male, sarebbe potuto sembrare che l'uomo sarebbe rimasto avvelenato a morte proprio dalla natura cattiva di quell'albero. Ma poiché Dio aveva piantato nel paradiso alberi tutti buoni, avendo creato molto buone tutte le cose, e non c'era alcuna natura cattiva, poiché in nessuna cosa c'è alcuna natura di male - ma ciò lo esamineremo con più attenzione, se il Signore vorrà, quando parleremo del serpente - all'uomo fu proibito di toccare quell'albero, che non era cattivo, affinché la stessa osservanza del precetto fosse in se stessa un bene per lui e la trasgressione del male.

Il gran bene dell'ubbidienza e il gran male della disubbidienza.


13.29. Non si sarebbe potuto mostrare meglio e più esattamente qual gran male è la disubbidienza in se stessa, dal momento che l'uomo si rese colpevole di peccato solo per aver toccato, contro il divieto, una cosa che, se l'avesse toccata senza che gli fosse stata proibita, di certo non avrebbe peccato. Poiché se uno, per esempio, dice: "Non toccate quest'erba", se per caso è velenosa, e predice la morte per chi la toccherà, certamente a colui che disprezzerà il divieto toccherà la morte; ma anche se nessuno lo avesse proibito e qualcuno avesse toccato l'erba, sarebbe tuttavia morto certamente. Quell'erba infatti sarebbe stata nociva alla sua salute e alla sua vita, avesse ricevuto o no il divieto di toccarla. Può darsi peraltro che uno vieti di toccare una cosa perché l'azione recherebbe danno non a chi fa l'azione, ma a chi la vieta, come sarebbe il caso di chi mettesse le mani sul denaro altrui contravvenendo al divieto del proprietario del denaro; quell'azione allora sarebbe peccato per chi ne ha ricevuto il divieto, poiché potrebbe risultare dannosa per chi l'ha vietata. Quando, al contrario, si tocca qualcosa senza che l'azione rechi danno né a chi la tocca - qualora non gli fosse proibito - né ad alcun altro in qualunque momento la si toccasse, perché mai è un'azione vietata, se non per mostrare qual male sia la disubbidienza in se stessa?

Il peccato è ribellione alla volontà di Dio.


13.30. Per conseguenza chi commette un peccato, non brama se non sottrarsi alla sovranità di Dio quando egli commette un'azione ch'è peccaminosa solo in quanto è proibita da Dio. Se a ciò solo si fosse prestata attenzione, a chi si sarebbe prestata attenzione se non alla volontà di Dio? Cos'altro si sarebbe amato, se non la volontà di Dio? Cos'altro si sarebbe preferito alla volontà umana, se non quella di Dio? Lo saprà certo il Signore perché ha dato l'ordine: al servitore tocca solo far ciò che Dio ha ordinato, e solo allora chi ha il merito (dell'ubbidienza) potrà vedere perché Dio ha dato quell'ordine. Tuttavia non dobbiamo indagare più a lungo il motivo di quell'ordine, dal momento che un gran vantaggio per l'uomo è proprio quello di servire Dio. Iddio con il comandare rende vantaggioso tutto ciò che vorrà comandare, poiché non dobbiamo temere che egli possa comandare qualcosa che non sia per il nostro bene.

Dal disprezzo del precetto di Dio l'esperienza del male.

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14.31. È impossibile che la volontà propria dell'uomo non si abbatta su di lui con il peso di una grande sventura, se nella sua superbia la preferisce alla volontà di Colui che gli è superiore. Ecco quel che ha sperimentato l'uomo nel disprezzare il precetto di Dio, e da questa esperienza ha imparato quale differenza c'è tra il bene e il male, ossia tra il bene dell'ubbidienza e il male della disubbidienza, vale a dire della superbia e della ribellione, della perversa imitazione di Dio e della dannosa libertà. Anche se l'albero poté essere l'occasione di questa esperienza, esso prese il nome dall'azione stessa (della disubbidienza), come ho già detto più sopra. Infatti noi non conosceremmo il male se non lo provassimo per esperienza, poiché non esisterebbe, se non lo avessimo commesso. Poiché il male non è una sostanza, ma ciò a cui diamo il nome di "male" è la perdita del bene. Il Bene immutabile è Dio, l'uomo invece relativamente alla sua natura in cui è stato creato da Dio, è sì un bene, ma non il bene immutabile come Dio. Ora un bene mutevole, che è inferiore al Bene immutabile, diventa migliore quando si tiene unito a Dio, il Bene immutabile, amandolo e servendolo con la propria volontà razionale e personale. Ecco perché questa natura è anch'essa un gran bene poiché ha ricevuto la facoltà di unirsi alla natura del sommo Bene. Se però l'uomo lo rifiuterà, priverà se stesso del bene e questo rifiuto è per lui un male, dal quale a causa della giustizia di Dio deriva anche il tormento. Che cosa infatti potrebbe essere più contrario alla giustizia che il benessere di chi ha abbandonato il Bene? È assolutamente impossibile che sia così. Talora però la perdita d'un bene superiore non è percepita come un male quando si possiede un bene inferiore che si ama. La giustizia divina vuole tuttavia che, se uno ha perduto volontariamente un bene che avrebbe dovuto amare, soffra la pena d'aver perduto il bene da lui amato, venendo così ad essere lodato in tutte le cose il Creatore delle nature. È comunque anche un bene che l'uomo senta dolore per il bene da lui perduto poiché, se non rimanesse un qualche bene nella natura, non sentirebbe il castigo che egli ha nel soffrire per il bene perduto.

Duplice maniera di conoscere il bene e il male.


14.32. Chi ama il bene senza aver fatto esperienza del male, chi cioè, prima di provare (dolore per) la perdita del bene, sceglie di mantenersi il bene per non perderlo, è degno d'essere lodato al di sopra di tutti gli altri uomini. Ma se questa dote non fosse d'un pregio singolare, non sarebbe attribuita al Bambino che, nato dalla stirpe d'Israele, divenuto Emmanuele, cioè "Dio con noi", ci riconciliò con Dio, come Uomo mediatore tra gli uomini e Dio, Verbo con Dio, carne con noi, Verbo incarnato tra Dio e noi. Di lui infatti il Profeta dice: Prima che il bambino conosca il bene e il male, rigetterà il male per scegliere il bene. Ma come fa (il Bimbo) a rigettare o a scegliere ciò che non conosce, se non perché queste due cose sono conosciute in due modi diversi: in un modo per via della sapienza con cui si sceglie il bene, in un altro per via dell'esperienza che si è avuta del male? Il male, anche se non se ne fa l'esperienza, è conosciuto mediante la sapienza di conservare il bene: uno si tiene stretto al bene per evitare di perderlo e sperimentare così il male. Così pure il bene si conosce mediante l'esperienza del male, perché comprende che cosa ha perduto colui che soffre il male per la perdita del bene. Ancor prima dunque che il Bambino conoscesse il bene, di cui fosse rimasto privo, o il male che avrebbe potuto provare per la perdita del bene, rigettò il male per scegliere il bene, non volle cioè perdere quel che aveva, per tema di provare (il dolore per) la perdita di ciò che non avrebbe dovuto perdere. Singolare esempio d'ubbidienza è questo poiché (il Signore) non venne per fare la volontà propria ma quella di Colui dal quale era stato inviato, a differenza di colui che preferì di far la propria volontà e non quella del suo Creatore. Giustamente perciò (la Scrittura) dice: Come, per causa della disubbidienza di un solo uomo, molti sono stati fatti peccatori, così anche per l'ubbidienza di un solo Uomo molti sono fatti giusti, poiché allo stesso modo che tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.

Perché l'albero della conoscenza del bene e del male fu chiamato così.

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15.33. Senza ragione alcuni scrittori si sono rotti la testa nell'indagare come mai quell'albero potesse chiamarsi "albero della conoscenza del bene e del male" prima che l'uomo trasgredisse il divieto mangiandone il frutto e conoscesse - per averlo sperimentato - la differenza tra il bene perduto e il male compiuto. Ora, l'albero ebbe quel nome affinché (il primo) uomo si astenesse dal toccarlo secondo il divieto ricevuto e così evitasse ciò che avrebbe provato toccandolo contro la proibizione che aveva ricevuta. Quell'albero non divenne l'albero della conoscenza del bene e del male per il fatto che i progenitori ne mangiarono il frutto contro il divieto ricevuto; anche se fossero rimasti ubbidienti e non avessero trasgredito il precetto astenendosi dal prendersi alcun frutto, sarebbe stato chiamato correttamente così a motivo di ciò che sarebbe loro accaduto qualora se ne fosse preso il frutto. Nell'ipotesi che un albero si chiamasse "l'albero della sazietà" per il fatto che gli uomini si sarebbero potuti saziare mangiandone i frutti, forse che, se nessuno vi si fosse accostato, quel nome non gli sarebbe stato appropriato, dal momento che accostandovisi e saziandosi con i suoi frutti avrebbero sperimentato quanto quell'albero meritasse quel nome?

L'uomo avrebbe potuto capire cos'è il male prima di sperimentarlo.


16.34. "E come mai - dicono essi - l'uomo avrebbe potuto comprendere ciò che gli veniva detto riguardo all'albero della conoscenza del bene e del male, dal momento che non sapeva assolutamente che cosa fosse il male? Coloro che pensano così, non riflettono abbastanza come noi comprendiamo un gran numero di cose a noi ignote per mezzo di quelle contrarie che non conosciamo; tanto è vero che non c'è alcuno che, ascoltando, non comprenda chiaramente anche il significato dei nomi di cose che non esistono, quando si pronunciano nella conversazione. Così, per esempio, si chiama nihil ("niente") ciò che non esiste assolutamente, e tra quelli che capiscono e parlano il latino, non c'è alcuno che non intenda queste due sillabe. Perché mai ciò se non perché l'intelligenza vede "ciò che è" e, mediante la negazione di "ciò che è", si forma anche l'idea di "ciò che non è"? Lo stesso accade quando parliamo di "vuoto": noi, vedendo la pienezza d'un oggetto materiale comprendiamo che cosa si chiama "vuoto", dalla negazione di "pienezza", che è, per così dire, il contrario di essa. Allo stesso modo che, mediante il senso dell'udito, noi giudichiamo solo le voci che sentiamo ma anche il silenzio, così mediante il senso della vita ch'era insito nell'uomo, questo avrebbe potuto evitare il suo contrario, cioè "la mancanza della vita" che si chiama "morte". Anche quanto alla causa per cui avrebbe perso ciò che amava, ossia qualunque sua azione per cui avrebbe potuto perdere la vita, poteva essere indicata con un termine non importa di quante sillabe - come quando in latino si dice peccatum ("peccato") o malum ("male") - che l'uomo avrebbe potuto intendere come segno della realtà che la mente discerneva. Come mai, infatti, noi comprendiamo che cosa sia la "risurrezione" quando sentiamo questa parola, pur non avendo mai sperimentato la risurrezione? Non è forse perché noi comprendiamo che cosa sia "vivere" e chiamiamo "morte" la perdita della vita, e perciò chiamiamo "risurrezione" il ritorno alla vita, di cui abbiamo esperienza? Inoltre qualunque altro termine possa essere usato per denotare la medesima cosa in qualsiasi altra lingua, la mente lo percepisce come segno nella voce di coloro che parlano e, mentre vien pronunciato, si può riconoscere ciò che si poteva pensare anche senza quel segno. È sorprendente infatti come la natura, ancor prima d'averne esperienza, evita la perdita delle cose ch'essa possiede. Chi mai infatti ha insegnato agli animali bruti ad evitare la morte se non il sentimento della vita? Chi mai ha insegnato ad un bimbetto ad aggrapparsi a chi lo porta in braccio se gli si fanno minacce di gettarlo per terra? Questa paura comincia ad un dato momento (della vita) ma tuttavia ancor prima che il bimbo abbia fatto esperienza di qualcosa di simile.


Agostino - Genesi 1107