Agostino - Commento Gv 54

54

OMELIA 54

(Jn 11,44-50)

Jn 11,44-50


Cristo rivelatore del Padre.

Ha suscitato in noi un forte desiderio di penetrare nella sua intimità. E' necessario crescere per capire, e per crescere bisogna camminare, e camminare vuol dire progredire finché si arriva.

1. In seguito alle parole che nostro Signore Gesù Cristo pronuncio e ai tanti segni prodigiosi che egli compi, alcuni tra i Giudei, che erano predestinati alla vita eterna e che egli chiamo sue pecore, credettero; altri invece non credettero, né potevano credere per il fatto che, secondo un occulto ma non ingiusto giudizio di Dio, erano stati accecati e induriti, essendo stati abbandonati da colui che resiste ai superbi mentre dà la sua grazia agli umili (cf. Jc 4,6). Di quelli poi che avevano creduto, alcuni lo confessavano al punto da andargli incontro con rami di palme, accogliendolo con lodi e canti di gioia; altri invece, anche tra i notabili, non osavano dichiararsi, per non essere scacciati dalla sinagoga; e sono questi che l'evangelista ha bollato dicendo che preferivano la gloria degli uomini alla gloria di Dio (Jn 12,43). Anche tra quelli che non avevano creduto ve n'erano alcuni che avrebbero creduto in seguito, e questi il Signore li aveva già presenti quando disse: Allorché avrete levato in alto il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che io sono (Jn 8,28); altri invece sarebbero rimasti nella loro incredulità, nella quale hanno imitatori i Giudei di oggi la cui nazione, dopo essere stata annientata a conferma delle profezie riguardanti il Cristo, è stata dispersa in quasi tutto il mondo.

(Non si può credere nel Padre senza credere nel Figlio.)

2. 2. In tale situazione, e nell'imminenza ormai della sua passione, Gesù grido e disse - così è cominciata la lettura di oggi -: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; e chi vede me, vede colui che mi ha mandato (Jn 12,44-45). Già in altra occasione aveva detto: La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato (Jn 7,16). Parole che noi abbiamo interpretato nel senso che per sua dottrina intendeva il Verbo del Padre, che è egli stesso, e che dicendo La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato, voleva far capire che egli non procedeva da se stesso, ma aveva origine da un altro: Dio da Dio, Figlio del Padre; il Padre invece non è Dio da Dio, ma Dio Padre del Figlio. E come dobbiamo intendere queste sue parole: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato, se non nel senso che egli appariva agli uomini come uomo, mentre rimaneva occulto come Dio? E affinché non credessero che egli era soltanto ciò che essi vedevano, e volendo esser creduto tale e quale il Padre, chi crede in me - dice -non crede in me, cioè in quello che vede, ma in colui che mi ha mandato, cioè nel Padre. Ma chi crede nel Padre dovrà necessariamente credere che egli è Padre; e chi crede che egli è Padre di conseguenza ammette che ha un Figlio; quindi chi crede nel Padre, necessariamente dovrà credere anche nel Figlio. Ma qualcuno potrebbe ritenere che il Figlio unigenito è chiamato Figlio di Dio alla maniera di quanti sono chiamati figli di Dio per grazia, non per natura, secondo che dice l'evangelista: ha dato loro il potere di diventare figli di Dio (Jn 1,12), e dei quali il Signore stesso, citando la testimonianza della legge, dice: Chi crede in me, non crede in me, affinché non si creda in Cristo solamente come uomo. Crede dunque in me - egli sembra affermare - chi non crede in me secondo ciò che vede di me, ma crede in colui che mi ha mandato; e cosi, credendo nel Padre, creda anche che egli ha un Figlio uguale a se stesso e perciò creda veramente in me. Infatti chi pensa che il Padre abbia soltanto figli secondo la grazia, figli che sono sue creature, che non sono il Verbo ma che per mezzo del Verbo furono create; chi pensa che il Padre non abbia un Figlio a lui uguale e con lui coeterno, nato da sempre, ugualmente immutabile, in nessuna cosa dissimile e inferiore; chi pensa così non crede nel Padre che lo ha mandato, perché ciò che pensa non corrisponde al Padre che lo ha inviato.

1. 3. perciò dopo aver detto: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato, affinché non si pensasse che voleva presentare il Padre come Padre dei molti figli rigenerati per grazia, e non del Verbo unico ed uguale a sé, aggiunge subito: E chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Dice forse: Chi vede me, non vede me ma colui che mi ha mandato, come prima aveva detto: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato? Si era espresso così per non essere creduto soltanto Figlio dell'uomo, come appariva; ora invece si esprime in quest'altro modo per essere creduto uguale al Padre. E così dice: Chi crede in me, non crede a ciò che vede di me, ma crede in colui che mi ha mandato. O meglio, quando crede nel Padre che mi ha generato uguale a sé, deve credere in me non secondo ciò che vede di me, ma come in colui che mi ha mandato; e a tal punto non c'è differenza tra me e lui, che chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Certamente Cristo Signore invio i suoi Apostoli, come lo indica il loro stesso nome: infatti, come in greco sono chiamati angeli coloro che in latino si chiamano messaggeri, la parola greca apostoli si traduce in latino con inviati. Tuttavia, mai nessun apostolo oserebbe dire: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha inviato; in nessun modo potrebbe dire: chi crede in me. Noi crediamo all'apostolo, ma non crediamo nell'apostolo; poiché l'apostolo non giustifica l'empio. E' a colui che crede in chi giustifica l'empio che la fede viene computata in giustizia (Rm 4,5). L'apostolo potrà dire: Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato; oppure: Chi ascolta me, ascolta colui che mi ha mandato; è questo infatti che il Signore disse agli Apostoli: Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato (Mt 10,40). Infatti il signore viene onorato nel servo e il padre nel figlio; ma il padre come presente nel figlio e il signore nel servo. Il Figlio unigenito invece ha potuto dire: Credete in Dio, e credete in me (Jn 14,1); e come dice ora: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato. Dicendo così non allontana da sé la fede dei credenti, ma vuole che il credente non si limiti alla sua forma di servo; infatti se uno crede nel Padre che lo ha mandato, senza dubbio crede anche nel Figlio, in quanto sa che il Padre non è senza il Figlio, e crede in lui come uguale al Padre, secondo quanto segue: E chi vede me, vede colui che mi ha mandato.

2. 4. Proseguiamo: Io sono venuto nel mondo per essere la luce, affinché chiunque crede in me, non resti nelle tenebre (Jn 12,46). In altra occasione egli disse ai suoi discepoli: Voi siete la luce del mondo. Una città non può star nascosta se è situata su di un monte; né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e risplende per tutti quelli che sono in casa. Similmente risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre che è nei cieli (Mt 5,14-16). Non disse ai discepoli: Voi come luce siete venuti nel mondo, affinché chiunque crede in voi non resti nelle tenebre. Posso garantire che questo non si trova in nessuna parte del Vangelo. Si, è vero, tutti i santi sono luci, ma in quanto vengono illuminati da lui mediante la fede: se si allontanassero da lui cadrebbero nelle tenebre. La luce, invece, da cui essi sono illuminati, non può allontanarsi da se medesima, perché essa è assolutamente indefettibile. Noi crediamo quindi alla luce illuminata, come è il profeta e come è l'apostolo. Crediamo a lui, cioè al profeta e all'apostolo, ma non in lui che viene illuminato. Con lui crediamo in quella luce che lo illumina, in modo da essere anche noi illuminati, non dal profeta o dall'apostolo, ma, insieme al profeta e all'apostolo, dalla luce che li illumina. Pero dicendo: affinché chiunque crede in me non resti nelle tenebre, il Signore esplicitamente dichiara che ha trovato tutti nelle tenebre; e per non rimanere nelle tenebre in cui sono stati trovati, essi debbono credere nella luce che è venuta nel mondo, poiché è per mezzo di essa che il mondo è stato creato.

(Misericordia e giustizia.)

1. 5. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo giudico (Jn 12,47). Penso che ricordiate quanto avete ascoltato nelle precedenti letture; e chi l'avesse dimenticato, lo richiami alla memoria; e se mai allora eravate assenti, ma ora siete presenti, ascoltate come si esprime il Figlio. Egli dice: Io non lo giudico. In un'altra occasione aveva detto: Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio (Jn 5,22), mentre qui dice: "ora non giudico". Perché non giudica ora? Attenzione a ciò che segue: Perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo (Jn 12,47), cioè per rendere salvo il mondo. Ora è infatti il tempo della misericordia, poi verrà quello del giudizio, poiché io cantero la tua misericordia e il tuo giudizio, o Signore (Ps 100,1).

6. Ma notate anche cosa dice del medesimo giudizio futuro: Chi rigetta me e non accetta le mie parole, ha chi lo giudica: la parola che ho annunciato, quella lo giudicherà nell'ultimo giorno (Jn 12,48). Non dice: Chi rigetta me e non accetta le mie parole, io non lo giudichero nell'ultimo giorno. Se avesse detto questo, evidentemente avrebbe contraddetto la sua precedente affermazione: Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio. Siccome pero ha detto: Chi rigetta me e non accetta le mie parole ha chi lo giudica, per chi aspettava di capire chi fosse questo giudice, ha aggiunto: La parola che ho annunciato, quella lo giudicherà nell'ultimo giorno, facendo capire abbastanza chiaramente che sarà egli stesso a giudicare nell'ultimo giorno. Quindi ha parlato di sé, si è annunciato, ha posto se stesso come porta per la quale egli stesso, come pastore, entra nell'ovile delle pecore. E così quelli che non lo hanno ascoltato saranno giudicati in un modo, e quelli che lo hanno ascoltato e hanno disprezzato la sua parola, in un altro. Quanti infatti hanno peccato senza la legge - dice l'Apostolo -, senza legge pure periranno; quanti invece hanno peccato avendo la legge, per mezzo della legge saranno giudicati (Rm 2,12).

(Il Verbo rivela la volontà del Padre.)

2. 7. Perché io - dice -non ho parlato da me (Jn 12,49). Dice che non ha parlato da se stesso, appunto perché egli non è da se stesso. Una cosa, questa, che vi abbiamo detto più volte, e consideriamo a voi troppo nota per doverla insegnare; ma vogliamo solo ricordarvela. Ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso, mi ha prescritto ciò che dovevo dire e annunciare (Jn 12,49). Non ci preoccuperemmo se sapessimo di parlare alle stesse persone che ci hanno ascoltato precedentemente, e ricordano ciò che hanno ascoltato; ci saranno pero alcuni che non ci hanno ascoltato, e nelle stesse condizioni si trovano quelli che hanno dimenticato; per amore di questi, quanti ricordano abbiano pazienza se ci soffermiamo alquanto. In che modo il Padre esprime la sua volontà al suo unico Figlio? Di quale parola si serve per parlare al Verbo se lo stesso Figlio è il Verbo unico de) Padre? Forse gli parla per mezzo di un angelo? Ma è per mezzo del Verbo che sono stati creati gli angeli. Forse per mezzo di una nube? Ma quando si rivolse così al Figlio, non fu per lui che si fece sentire quella voce - come egli stesso ebbe a dire - ma perché fosse udita dagli altri. Forse per mezzo di un suono articolato dalle labbra? Ma Dio non ha corpo e tra il Padre e il Figlio non vi è spazio occupato da aria che vibri e faccia giungere la voce all'orecchio. Non sia mai che immaginiamo simili cose di questa sostanza incorporea ed ineffabile. Il Figlio unico è il Verbo del Padre e la Sapienza del Padre, nella quale sono contenuti tutti gli ordini del Padre. Non ci fu mai un tempo in cui il Figlio ignorasse gli ordini del Padre, da dover avere in un determinato momento ciò che prima non aveva. Quanto ha lo ha ricevuto dal Padre con la nascita, in quanto il Padre glielo ha comunicato generandolo. Egli è la vita, e ha ricevuto la vita nascendo, non esistendo prima senza vita. Anche il Padre ha la vita, ed è ciò che ha: e tuttavia egli non l'ha ricevuta, in quanto non ha origine da nessuno. Il Figlio invece ha ricevuto la vita, avendogliela comunicata il Padre dal quale ha origine. Ed egli stesso è ciò che ha: ha la vita ed è la vita. Ascolta ciò che dice: Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato al Figlio d'aver la vita in se stesso (Jn 5,26). Forse ha dato la vita ad uno che già esisteva e non l'aveva? No, ma colui che ha generato la vita gliel'ha comunicata nell'atto di generarlo, sicché la vita ha generato la vita. E siccome ha generato una vita identica, non diversa, perciò il Figlio dice: Come il Padre ha in se stesso la vita, così ha dato al Figlio d'aver la vita in se stesso. Gli ha dato la vita, perché, generando la vita, che cosa gli ha dato se non di essere la vita stessa? E poiché la sua nascita è eterna, sempre è esistito il Figlio che è la vita e non è mai stato senza vita; e siccome la sua nascita è eterna, colui che è nato è la vita eterna. Allo stesso modo il Padre non ha dato un comandamento che il Figlio non avesse; ma, come ho detto, nella sapienza del Padre, cioè nel Verbo del Padre, sono contenuti tutti i comandamenti del Padre. Il Signore dice che questo comandamento gli è stato dato, perché colui al quale fu dato non è da sé: dare al Figlio una cosa senza della quale egli non è mai esistito, è lo stesso che generare il Figlio che sempre è esistito.

8. E continua: E io so che il suo comandamento è vita eterna (Jn 12,50). Se dunque il Figlio stesso è la vita eterna e il comandamento del Padre è vita eterna, che altro ha voluto dire se non che egli stesso, il Figlio, è il comandamento del Padre? Sicché quando aggiunge: Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me (Jn 12,50), non dobbiamo prendere l'espressione le ha dette a me nel senso che il Padre abbia detto delle parole all'unico suo Verbo, come se il Verbo di Dio avesse bisogno di parole di Dio. Il Padre dunque ha parlato al Figlio, così come ha dato la vita al Figlio; non gli ha detto qualcosa che non sapesse o che non avesse, ma gli ha detto e gli ha dato ciò che il Figlio stesso è. Che significa perciò la frase: io dico ciò che il Padre mi ha detto, se non questo: io dico ciò che è vero? Allo stesso modo che il Padre glielo ha detto in quanto è verace, così il Figlio a sua volta lo dice in quanto è verità. Colui che è verace ha generato la verità. E che aveva da dire ancora alla verità? Non era infatti una verità imperfetta da aver bisogno di altra verità. Il Padre, dunque, ha parlato alla verità nel senso che ha generato la verità. A sua volta la verità parla così come le è stato detto, e solo a chi è in grado di intendere rivela la sua origine. Perché gli uomini credessero ciò che ancora non riuscivano a comprendere sono risuonate le parole su una bocca di carne, disperdendosi: attraverso l'aria hanno fatto sentire il loro suono scandito nel tempo. Ma al contrario le cose di cui i suoni erano segno, sono passate nella memoria di quanti hanno udito, e, mediante la scrittura che è un segno visibile, sono pervenute fino a noi. Non è in questo modo che parla la verità: essa parla interiormente alla mente che intende, istruendola senza bisogno di suoni, inondandola di luce spirituale. Chi riesce a vedere in questa luce l'eterna sua nascita, può intendere quella parola che il Padre ha rivolto al Figlio, per dirgli ciò che voleva rivelare a noi. Egli ha acceso in noi un ardente desiderio della sua intima dolcezza: ma è crescendo che diventiamo capaci d'intendere, ed è camminando che cresciamo, ed è progredendo che camminiamo in modo da raggiungere la meta.

55

OMELIA 55

(Jn 13,1-5)

Jn 13,1-5 Li amo sino alla fine.

Cristo stesso è il fine: non in senso di arresto ma di compimento: fine in senso di meta, non in senso di morte. E così Cristo, che si è immolato, è la nostra Pasqua, perché in lui si compie il nostro "passaggio".

1. La cena del Signore narrata da Giovanni merita di essere col suo aiuto spiegata e commentata con particolare cura. Noi cercheremo di farlo secondo la capacità che il Signore stesso ci avrà concesso. Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amo sino alla fine (Jn 13,1). Pasqua, fratelli, non è, come alcuni ritengono, una parola greca, ma ebraica; ma è sorprendente la coincidenza di significato nelle due lingue. Patire, in greco, si dice per cui si è creduto che Pasqua volesse dire Passione, come se questa parola derivasse appunto da patire; mentre nella sua lingua, l'ebraico, Pasqua vuol dire "passaggio", per la ragione che il popolo di Dio celebro la Pasqua per la prima volta allorché, fuggendo dall'Egitto, passo il Mar Rosso (cf. Ex 14,29). Ora pero quella figura profetica ha trovato il suo reale compimento, quando il Cristo come pecora viene immolato (Is 3,7), e noi, segnate le nostre porte col suo sangue, segnate cioè le nostre fronti col segno della croce, veniamo liberati dalla perdizione di questo mondo come lo furono gli Ebrei dalla schiavitù e dall'eccidio in Egitto (cf. Ex 12,23); e celebriamo un passaggio sommamente salutare, quando passiamo dal diavolo a Cristo, dall'instabilità di questo mondo al solidissimo suo regno. E per non passare con questo mondo transitorio, passiamo a Dio che permane in eterno. Innalzando lodi a Dio per questa grazia che ci è stata concessa, l'Apostolo dice: Egli ci ha strappati al potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio dell'amor suo (Col 1,13). Sicché, interpretando la parola Pasqua, che, come si è detto, in latino si traduce "passaggio", il santo evangelista dice: Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre. Ecco la Pasqua, ecco il passaggio! Passaggio da che, e a che cosa? Da questo mondo al Padre. Nel Capo è stata data alle membra la speranza certa di poterlo seguire nel suo passaggio. Che sarà dunque degli infedeli e di tutti coloro che sono estranei a questo Capo e al suo corpo? Non passano forse anch'essi, dal momento che non rimangono qui? Passano, si, anch'essi; ma una cosa è passare dal mondo e un'altra è passare col mondo, una cosa passare al Padre e un'altra passare al nemico. Anche gli Egiziani infatti passarono il mare, ma non lo attraversarono per giungere al regno, bensi per trovare nel mare la morte.

(L'amore lo condusse alla morte.)

2. Dunque, sapendo Gesù che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amo sino alla fine. Si, li amo perché anch'essi, da questo mondo dove si trovavano, passassero, in virtù del suo amore, al loro Capo che da qui era passato. Che significa infatti sino alla fine se non fino a Cristo? Cristo - dice l'Apostolo -è il fine di tutta la legge, a giustizia di ognuno che crede (Rm 10,4). Cristo è il fine che perfeziona, non la fine che consuma; è il fine che dobbiamo raggiungere, non la fine che corrisponde alla morte. E' in questo senso che bisogna intendere l'affermazione dell'Apostolo: La nostra Pasqua è Cristo che è stato immolato (1Co 5,7). Egli è il nostro fine, e in lui si compie il nostro passaggio. Mi rendo conto che questa frase del Vangelo può anche essere interpretata in senso umano, nel senso cioè che Cristo amo i suoi fino alla morte, credendo che questo sia il significato dell'espressione: li amo sino alla fine. Questa è un'opinione umana, non divina: non si può dire infatti che ci amo solo fino a questo punto colui che ci ama sempre e senza fine. Lungi da noi pensare che con la morte abbia finito di amarci colui che non è finito con la morte. Se perfino quel ricco superbo ed empio anche dopo la morte continuo ad amare i suoi cinque fratelli (Lc 16,27-28), si potrà pensare che Cristo ci abbia amato soltanto fino alla morte? No, o carissimi, non sarebbe, col suo amore, arrivato fino alla morte, se poi con la morte fosse finito il suo amore per noi. Forse l'espressione li amo sino alla fine va intesa nel senso che li amo tanto da morire per loro, secondo la sua stessa dichiarazione: Non c'è amore più grande, che dare la vita per i propri amici (Jn 15,13). L'espressione dunque li amo sino alla fine, può avere questo senso: fu proprio l'amore a condurlo alla morte.

3. E fatta la cena, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, il proposito di tradirlo, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava, Gesù si leva da mensa, depone le vesti, prende un panno e se ne cinge. Poi, versa acqua nel catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto (Jn 13,2-5). Non dobbiamo intendere quel "fatta la cena" nel senso che la cena fosse già consumata e terminata; si cenava ancora, quando il Signore si alzo e lavo i piedi ai discepoli. Di fatti poi si rimise a tavola, e più tardi porse il boccone al suo traditore; sicché la cena non era ancora terminata, se in tavola c'era ancora del pane. Fatta la cena vuol dire che essa era pronta ed era in tavola per essere consumata dai commensali.

(Giuda venditore del Redentore.)

2. 4. Ma continuiamo: Quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, il proposito di tradirlo. Forse domandi che cosa era stato messo in cuore a Giuda; appunto questo: il proposito di tradirlo. Si tratta di una suggestione spirituale, che non avviene attraverso l'orecchio ma attraverso il pensiero, e quindi non materialmente ma spiritualmente. Infatti ciò che si dice spirituale, non sempre si deve intendere in senso positivo. L'Apostolo ci parla di spiriti del male che abitano nelle regioni celesti, contro i quali noi, dice, siamo in lotta (cf. Ep 6,12); e non vi sarebbero influssi spirituali malefici se non esistessero spiriti maligni. Il termine spirituale deriva infatti da spirito. Ma chi può dire come avviene questo fenomeno, che le suggestioni diaboliche possono penetrare in fondo al cuore umano e mescolarsi ai suoi pensieri, tanto che l'uomo è indotto a considerarle proprie? Non v'è dubbio che anche le buone suggestioni, derivanti dallo spirito buono, seguono una via altrettanto segreta e spirituale. L'importante è il consenso che la coscienza darà a quelle buone o a quelle cattive, alle prime se soccorsa dall'aiuto divino, alle seconde se privata per sua colpa del medesimo aiuto. Il diavolo aveva dunque già operato nel cuore di Giuda istigando il discepolo a tradire il Maestro, non avendo Giuda saputo riconoscere Dio in lui. Giuda era andato alla cena col proposito di spiare il Pastore, di insidiare il Salvatore, di vendere il Redentore. Con tale animo si era presentato alla cena: Gesù vedeva e tollerava, e Giuda credeva di poter nascondere le sue intenzioni, ingannandosi sul conto di colui che voleva ingannare. Frattanto Gesù, che ben leggeva nel cuore di Giuda, a sua insaputa si serviva di lui per i propri disegni.

3. 5. Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani. Quindi anche il traditore stesso. Se infatti non avesse avuto in mano anche lui, non avrebbe potuto servirsene come voleva. Il traditore quindi era già stato consegnato nelle mani di colui che egli intendeva tradire; così col tradimento si accingeva a compiere un male che, a sua insaputa, si sarebbe convertito in bene ad opera della stessa vittima del suo tradimento. Il Signore infatti sapeva molto bene che cosa doveva fare per gli amici, egli che pazientemente si serviva dei nemici; e il Padre gli aveva dato in mano tutte le cose, in modo che si servisse di quelle cattive per mandare ad effetto quelle buone. Inoltre sapeva che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava, e come non aveva lasciato Dio quando da Dio era venuto a noi, così non avrebbe lasciato noi, quando sarebbe tornato a Dio.

6. Sapendo dunque tutte queste cose, si alza da tavola, depone le vesti, prende un panno e se ne cinge. Poi, versa acqua nel catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto. Dobbiamo, o carissimi, considerare diligentemente l'intenzione dell'evangelista. Accingendosi a parlare della profonda umiltà del Signore, ha voluto prima richiamare la nostra attenzione alla sua grandezza. E' per questo che dice: Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava. Avendogli dunque il Padre dato tutto nelle mani, egli si mette a lavare, non le mani ma i piedi dei discepoli: pur sapendo di essere venuto da Dio e di tornare a Dio, compie l'ufficio non di Dio Signore ma di uomo servo. Era con l'intenzione di sottolineare l'umiltà di Cristo che l'evangelista ha voluto parlare prima del suo traditore, che era venuto avendo già quel proposito ben conosciuto dal Signore; e questo particolare mostra come il Signore sia giunto al massimo dell'umiltà, non disdegnando di lavare i piedi a colui le cui mani già vedeva impegnate in si grande delitto.

(La sua passione per la nostra purificazione.)

2. 7. Ma perché meravigliarsi che si sia alzato da tavola e abbia deposto le vesti colui che, essendo nella forma di Dio, anniento se stesso? E che meraviglia se prese un panno, e se ne cinse, colui che prendendo la forma di servo è stato trovato come un uomo qualsiasi nell'aspetto esterno (cf. Ph 2,6-7)? Che meraviglia se verso acqua nel catino per lavare i piedi dei discepoli colui che verso il suo sangue per lavare le sozzure dei peccati? Che meraviglia se col panno di cui si era cinto asciugo i piedi, dopo averli lavati, colui che con la carne di cui si era rivestito sostenne il cammino degli Evangelisti? Per cingersi di un panno depose le vesti che aveva; mentre, per prendere la forma di servo, quando anniento se stesso, non depose la forma che aveva ma soltanto prese quella che non aveva. Si sa, che per esser crocifisso fu spogliato delle sue vesti e, morto, fu avvolto in un lenzuolo; e tutta la sua passione è la nostra purificazione. Nell'imminenza quindi della passione e della morte, ha voluto rendere questo servizio, non solo a quelli per i quali stava per morire, ma anche a colui che lo avrebbe tradito per farlo morire. Tanto importante è per l'uomo l'umiltà, che la divina maestà ha voluto raccomandarla anche con il suo esempio. L'uomo superbo si sarebbe perduto per sempre, se Dio non fosse venuto a cercarlo umiliandosi. E' venuto infatti il Figlio dell'uomo a cercare e a salvare ciò che era perduto (Lc 19,10). L'uomo si era perduto per aver seguito la superbia del tentatore; segua dunque, ora che è stato ritrovato, l'umiltà del Redentore.

56

OMELIA 56(@+Jn 13,6-10@)

Jn 13,6-10


La lavanda dei piedi.

Sempre ci lava i piedi, colui che sempre intercede per noi; e ogni giorno abbiamo bisogno di lavarci i piedi, cioè di dirigere i nostri passi sulla via della salvezza.

1. Essendosi messo a lavare i piedi dei discepoli, il Signore venne a Simon Pietro, il quale gli dice: Signore, tu lavare i piedi a me? (Jn 13,6). Chi non si spaventerebbe nel vedersi lavare i piedi dal Figlio di Dio? Sebbene sia segno di temeraria audacia per il servo contraddire il Signore, per l'uomo opporsi a Dio, tuttavia Pietro preferi questo piuttosto che lasciarsi lavare i piedi dal suo Signore e Dio. Né dobbiamo credere che Pietro sia stato il solo a spaventarsi e a rifiutare il gesto del Signore, quasi che gli altri, prima di lui, avessero accettato volentieri e senza scomporsi quel servizio. Le parole del Vangelo, veramente, si lascerebbero più facilmente intendere nel senso che Gesù comincia a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto, e subito dopo viene a Simon Pietro, facendo supporre che il Signore avesse già lavato i piedi a qualcuno, e che, dopo, fosse arrivato al "primo" degli Apostoli. Chi non sa infatti che il beatissimo Pietro era il primo degli Apostoli? In realtà non è da pensare che sia arrivato a lui dopo aver lavato i piedi ad altri, ma che abbia cominciato da lui. Quando, dunque, comincio a lavare i piedi dei discepoli, si appresso a colui dal quale doveva cominciare, cioè a Pietro; e allora Pietro rimase senza fiato, come sarebbe rimasto senza fiato qualsiasi altro di loro, e disse: Signore, tu lavare i piedi a me? Tu? A me? E' meglio meditare che tentare di spiegare queste parole, nel timore che la lingua sia incapace di esprimere quanto l'anima è riuscita a concepire.

(La protesta di Pietro.)

2. 2. Ma Gesù risponde, e gli dice: ciò che io faccio, tu adesso non lo comprendi: lo comprenderai dopo. E tuttavia, sgomento per l'altezza di quel gesto del Signore, Pietro non lascia fare ciò di cui ancora non comprende il motivo: ancora non accetta, ancora non tollera che Cristo si umili ai suoi piedi. Non mi laverai - gli dice -i piedi in eterno. Che significa in eterno? Significa: mai accettero, mai sopportero, mai permettero una cosa simile. Si dice infatti che una cosa non accadrà in eterno se non accadrà mai. Allora il Salvatore vince la riluttanza del malato spaventandolo col pericolo che corre la sua salute. Gli risponde: Se non ti lavero, non avrai parte con me. Gli dice: Se non ti lavero, pur trattandosi soltanto dei piedi, così come si usa dire: "mi calpesti", quando soltanto i piedi vengono calpestati. Ma Pietro combattuto fra l'amore e il timore, spaventato più all'idea di perdere Cristo che di vederselo umiliato ai suoi piedi, Signore -dice -non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo! (Jn 13,7-9). Cioè, davanti a questa minaccia, io ti do da lavare tutte le mie membra; non solo non ti sottraggo più quelle inferiori, ma ti presento altresi quelle superiori. Purché tu non mi rifiuti di aver parte con te, non ti rifiuto nessuna parte del mio corpo che tu voglia lavare.

3. 3. Gli risponde Gesù: Chi si è lavato, non ha bisogno che di lavarsi i piedi; ed è tutto mondo (Jn 13,10). Puo darsi che qualcuno colpito, si domandi: Se è del tutto mondo, che bisogno ha di lavarsi i piedi? Il Signore pero sapeva quel che diceva, anche se la nostra debolezza non riesce a penetrare i suoi segreti. Tuttavia, nella misura che egli si degna istruirci ed educarci con la sua legge, per quel poco che mi è dato di capire e di esprimere, tentero con il suo aiuto, di dare una risposta a questo problema profondo. Anzitutto non mi è difficile dimostrare che nelle parole del Signore non vi sono contraddizioni. Non si può forse dire, parlando correttamente, che uno è del tutto mondo eccetto che nei piedi? Sarebbe più elegante dire: è del tutto mondo, ma non i piedi; il che è lo stesso. E' questo che il Signore dice: Non ha bisogno che di lavarsi i piedi, perché è del tutto mondo. Vale a dire: è interamente pulito, eccetto i piedi, oppure: ha bisogno di lavarsi soltanto i piedi.

4. Ma perché questa frase? che vuol dire? e perché è necessario ricercarne il significato? E' il Signore che così si esprime, è la verità che parla: anche chi è pulito ha bisogno di lavarsi i piedi. A che cosa vi fa pensare, fratelli miei? A che cosa se non a questo, che l'uomo nel santo battesimo è lavato tutto intero compresi i piedi, tutto completamente; ma siccome poi deve vivere nella condizione umana, non può fare a meno di calcare con i piedi la terra? Gli stessi affetti umani, di cui non si può fare a meno in questa vita mortale, sono come i piedi con cui ci mescoliamo alle cose terrene; talmente che, se ci dicessimo immuni dal peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi (cf. 1Jn 1,8). Ogni giorno ci lava i piedi colui che intercede per noi (Rm 8,34); e ogni giorno noi abbiamo bisogno di lavarci i piedi, cioè di raddrizzare i nostri passi sulla via dello spirito, come confessiamo quando nell'orazione del Signore diciamo: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12). Se infatti - come sta scritto -confessiamo i nostri peccati, colui che lavo i piedi ai suoi discepoli senza dubbio è fedele e giusto da rimetterceli e purificarci da ogni iniquità (1Jn 1,9), cioè da purificarci anche i piedi con cui camminiamo sulla terra.

(Cristo purifica la sua Chiesa.)

2. 5. La Chiesa dunque, che Cristo purifica con il lavacro dell'acqua mediante la parola, è senza macchia e senza rughe (cf. Ep 5,26-27) in coloro che subito dopo il lavacro di rigenerazione vengono sottratti al contagio di questa vita, cosicché, non calpestando la terra, non hanno bisogno di lavarsi i piedi; non solo: lo è pure in coloro ai quali la misericordia del Signore ha concesso di emigrare da questo mondo anche con i piedi lavati. Ma anche ammesso che la Chiesa sia pura in coloro che dimorando in terra vivono degnamente, questi tuttavia hanno bisogno di lavarsi i piedi, non essendo del tutto senza peccato. perciò il Cantico dei Cantici dice: Mi son lavati i piedi; dovro ancora sporcarmeli? (Ct 5,3). La Sposa dice così in quanto, per raggiungere Cristo, deve camminare sulla terra. Si presenta qui un'altra difficoltà. Cristo non è forse lassù in alto? Non è forse asceso in cielo, dove siede alla destra del Padre? Non esclama l'Apostolo: Se siete risuscitati con Cristo, cercate le cose che stanno in alto, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; abbiate la mente alle cose dell'alto, non a quelle della terra (Col 3,12)? Come mai allora, per raggiungere Cristo, siamo costretti a camminare coi piedi in terra, dal momento che occorre piuttosto avere il cuore in alto verso il Signore, per poter essere sempre con lui? Vedete bene, o fratelli, che oggi non abbiamo il tempo per affrontare con calma una tale questione. Anche se voi non ve ne rendete conto, io vedo che occorre un serio approfondimento. perciò vi chiedo di rimandarla piuttosto che trattare la questione con fretta e superficialmente, non defraudando ma rinviando la vostra attesa. Il Signore, che oggi ci fa vostri debitori, ci concederà di pagare il debito.


Agostino - Commento Gv 54