Agostino Salmi 67

SUL SALMO 67

67 Ps 67

ESPOSIZIONE

Attività dello spirito e opere esteriori.

1. [v 1.] Non mi sembra che il titolo di questo salmo necessiti d'indagini laboriose: tanto appare semplice e facile. Suona così: Sino alla fine, per David stesso, salmo del cantico. In molti altri salmi abbiamo già spiegato che cosa significhino le parole: Sino alla fine, perché fine della legge è Cristo, a giustificazione di ogni credente (Rm 10,4). Un fine dunque che perfeziona, non che consuma o rovina. Si potrebbe certo indagare più a fondo il significato dell'espressione: Salmo del cantico, e perché non sia stato chiamato solamente salmo oppure cantico ma vi siano stati posti ambedue i termini. Altra materia di approfondimento potrebbe essere la differenza tra “ salmo del cantico ” e “ cantico del salino ”, dato che anche questa seconda iscrizione la si trova al principio di alcuni salmi. Sono problemi ai quali forse si potrebbe dare una qualche spiegazione, ma noi preferiamo lasciare queste ricerche ad interpreti più acuti e più liberi da occupazioni. Alcuni prima di noi hanno distinto tra cantico e salmo; e, argomentando dal fatto che il cantico si proferisce con la bocca mentre il salmo si canta con l'accompagnamento di uno strumento meccanico, cioè del salterio, hanno concluso che il cantico potrebbe significare l'acume della mente, mentre il salmo le opere materiali. Così in questo stesso salmo sessantasettesimo, che ora abbiamo intrapreso a spiegare, le parole: Cantate a Dio, salmodiate al suo nome (Cf. Ps 67,5), tali interpreti le hanno distinte nel senso che Cantate a Dio si riferirebbe alle attività proprie della mente: attività note a Dio e invisibili agli uomini. Le opere buone, al contrario, debbono essere esposte allo sguardo degli uomini, affinché essi glorifichino il Padre nostro che sta nei cieli (Cf. Mt 5,16). Per questo giustamente è detto di loro: Salmodiate al suo nome, cioè, contribuite ad accrescere la sua gloria, affinché il suo nome sia pronunziato con lode. Per quanto ricordo, in un'opera ho seguito anch'io questa distinzione. Mi ricordo d'aver letto che, ove si incontrino le parole: Salmodiate a Dio (Ps 46,7), queste vanno intese nel senso che quanto compiamo esternamente debba piacere non soltanto agli uomini ma anche a Dio, benché non tutte le cose che piacciono a Dio possono piacere anche agli uomini, in quanto essi non sono in grado di vederle tutte. Una tale esegesi, comunque, diverrebbe strana se, come si trovano le due espressioni: Cantate a Dio e Salmodiate a Dio, così si avesse a leggere in qualche passo: Cantate al suo nome. Anzi, siccome questa espressione effettivamente ricorre nelle sante Scritture, la distinzione proposta da quegli antichi risulta infondata. Mi insospettisce anche il fatto che queste composizioni rechino ordinariamente il nome generico di salmi anziché quello di cantici, come anche il Signore dice: Le cose che di me sono scritte nella legge, nei profeti e nei salmi (Lc 24,44). Anzi, l'intera raccolta è intitolata “ libro dei salmi ” e non “ dei cantici ”; difatti ebbe a dire il Signore: Così sta scritto nel libro dei salmi (Ac 1,20). Stando invece all'interpretazione di cui sopra, si sarebbe dovuto dire, penso, piuttosto “ libro dei cantici ”, poiché ci possono essere cantici che non siano salmi, mentre non ci possono essere salmi che non siano cantici. Infatti lo spirito può avere delle idee che non si manifestino in opere corporali, mentre non vi può essere opera buona che non sia stata pensata dalla mente. Avremmo, in questi due casi, realizzata sempre la nozione di cantico, non sempre invece quella di salmo; eppure, come ho detto, generalmente si parla di salmi e non di cantici. E il libro intero lo si dice “ libro dei salmi ”, non “ libro dei cantici ”. Che se poi si va a indagare e discutere il senso delle parole e come qualche volta il titolo sia unicamente salmo, altrove invece unicamente cantico; e come l'iscrizione possa talora recare salmo del cantico (come, ad esempio, in questo che stiamo spiegando), mentre altre volte cantico del salmo, allora non so proprio in qual modo si possa sostenere la distinzione proposta. Per questa ragione continuiamo come abbiamo già cominciato, lasciando tutte queste cose a coloro che sono in grado e hanno tempo di approfondirle e di stabilire con motivati argomenti le varie differenze. Noi, per quanto possiamo con l'aiuto del Signore, consideriamo e spieghiamo il testo di questo salmo.

La dispersione dei giudei.

2. [v 2.] Sorga Dio e siano dispersi i suoi nemici! È già accaduto. Cristo, che è sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli (Cf. Rm 9,5), è risorto. I suoi nemici, i giudei, sono dispersi fra tutte le genti. Dal luogo dove avevano sfogato le loro ire e la loro ostilità sono stati sloggiati dalla guerra e sono stati dispersi ovunque. Ora odiano ma temono; e nel loro timore fanno quanto segue: E fuggano, coloro che lo odiano, dal suo volto. Fuga dell'anima è infatti la paura. Poiché, quanto alla fuga del corpo, dove potrebbero fuggire per sottrarsi allo sguardo di colui che dappertutto offre tracce della sua presenza? Dice un altro salmo: Dove andrò, lontano dal tuo spirito, e dove fuggirò dal tuo volto? (Ps 138,7) Dunque fuggono con lo spirito, non con il corpo. Fuggono perché hanno timore, non perché riescano a nascondersi; e fuggono non dal volto di chi non vedono ma da quel volto che sono costretti a vedere. È infatti chiamata volto di Dio la sua presenza quale si manifesta attraverso la sua Chiesa. Per questo a quanti gli erano ostili Gesù ebbe a dire: Da ora vedrete il Figlio dell'uomo che viene sulle nubi (Mt 26,64). Così infatti è venuto nella sua Chiesa, diffondendola in tutto il mondo, dove erano stati dispersi i suoi nemici. Ed è venuto proprio su delle nubi, quelle di cui dice: Comanderò alle mie nubi affinché non piovano sopra di lei (Is 5,6). Fuggano dunque, coloro che lo odiano, dal suo volto. Abbiano timore della presenza dei suoi santi e dei suoi fedeli, dei quali dice: Ciò che avete fatto a uno di questi miei piccoli, lo avete fatto a me (Mt 25,40).

La vana superbia dei nemici di Dio.

3. [v 3.] Vengano meno come fumo che svanisce. Dal fuoco del loro odio essi si levarono in alto in un eccesso di superbia: posero in cielo la loro bocca (Ps 72,9) e gridarono: Crocifiggilo, crocifiggilo (Jn 19,6)! Si presero gioco di lui dopo che l'ebbero catturato; lo schernirono quando era inchiodato alla croce; ma, proprio per questo successo di cui si erano inorgogliti, essi furono ben presto sconfitti e annientati. Come la cera si liquefà di fronte al fuoco, così periscano i peccatori di fronte a Dio. Sebbene in queste parole si alluda forse a coloro la cui ostinazione si scioglie nelle lacrime della penitenza, tuttavia con tali parole si può intendere anche la minaccia del futuro giudizio. Dopo essersi vanificati in questo mondo, innalzandosi come fumo, cioè nella superbia, alla fine verrà per costoro l'estrema dannazione, quando essi periranno in eterno, lungi dal volto di Dio, quando egli apparirà nella sua gloria, come fuoco, a condanna degli empi e a illuminazione dei giusti.

4. [v 4.] Continua infatti: E i giusti si rallegrino e gioiscano al cospetto di Dio, e si allietino nell'esultanza. Allora infatti udranno: Venite, benedetti del Padre mio, e ricevete il regno (Mt 25 Mt 34). Si rallegrino dunque coloro che hanno faticato, e gioiscano al cospetto di Dio. Non vi sarà, in tale esultanza, alcuna inutile vanteria, come quando si è al cospetto degli uomini: essa si manifesterà al cospetto di colui che senza errore vede ciò che ha donato. Si allietino nell'esultanza: non più esultando con tremore (Cf. Ps 2,11), come in questo mondo ove la vita umana è tentazione (Cf. Jb 7,1).

230 L’esultanza di chi vive per il Signore.

5. [vv 5.6.] Si volge poi a coloro ai quali ha donato tanta speranza. Essi vivono ancora quaggiù, ed egli per esortarli dice: Cantate a Dio, salmodiate al suo nome. Su queste parole abbiamo già espresso il nostro parere quando spiegavamo il titolo. Canta a Dio colui che vive per Dio; salmeggia al suo nome colui che opera a gloria di lui. Così cantando e salmodiando, cioè così vivendo e operando, fate strada a colui che sale oltre il tramonto. Fate strada a Cristo, in modo che, attraverso l'opera di coloro che con piedi graziosi annunziano il Vangelo (Cf.
Is 52,7), i cuori dei credenti si aprano a lui. Egli è colui che sale oltre il tramonto: intendendo con questo che chi si converte a lui può rivestirsi di lui con una nuova vita solo se avrà rinunciato a questo mondo e così avrà dato morte alla sua vita anteriore; ovvero “ oltre il tramonto ” lo si dovrà riferire a colui che risorgendo vinse la morte del suo corpo. Infatti, Signore è il suo nome. Se essi avessero conosciuto questo nome, mai avrebbero crocifisso il Signore della gloria (Cf. 1Co 2,8).

Dio consolatore dei derelitti.

6. Esultate al suo cospetto! O voi ai quali è detto: Cantate a Dio, salmodiate al suo nome e fate strada a lui che sale oltre il tramonto, esultate anche al suo cospetto. Anche se apparite tristi, siate però sempre nella gioia (Cf. 2Co 6,10). Mentre infatti gli fate strada, mentre preparate la via per la quale egli avanza alla conquista delle genti, avrete da sopportare molte pene in mezzo agli uomini. In tali casi, voi non soltanto non dovete venir meno, ma dovete gioire: gioire non dinanzi agli uomini ma dinanzi a Dio. Lieti nella speranza, pazienti nella tribolazione (Cf. Rm 12,12). Esultate al suo cospetto! Coloro che vi turbano al cospetto degli uomini, proveranno loro stessi turbamento quando vedranno colui che è padre degli orfani e giudice delle vedove. Si ritiene talvolta che conducano una vita desolata coloro che vengono separati, come suole accadere, dalla spada della parola di Dio: genitori separati dai figli, mariti dalle Mogli (Cf. Mt 10,34 Mt 35). Ma tutti costoro, abbandonati e divenuti vedovi, hanno una consolazione da parte di chi è padre degli orfani e giudice delle vedove. Hanno la sua consolazione se, ricorrendo a lui, gli dicono: Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato; ma il Signore mi ha assunto (Ps 26,10). Coloro che hanno sperato nel Signore, insistendo nella preghiera di notte e di giorno (Cf. 1Tm 5,5), avranno la consolazione di Dio, alla presenza del quale i nemici saranno turbati vedendo di non aver guadagnato niente, mentre tutto il mondo va dietro di lui (Cf. Jn 12,19).

Il luogo santo ove abita Iddio.

7. [v 7.] Infatti con questi orfani e con queste vedove (cioè con coloro che sono privi di appoggi e di speranze terrene) il Signore costruisce per sé il tempio; e di questo tempio, nelle parole che seguono, dice: Il Signore nel suo luogo santo. Spiega poi che cosa sia questo suo luogo dicendo: Dio fa abitare nella casa quelli che hanno un solo modo di pensare, cioè quelli che sono unanimi, che sono animati da un unico sentimento. Ecco il luogo santo del Signore. Difatti, dopo aver detto: Il Signore nel suo santo luogo, come se noi gli avessimo chiesto quale fosse questo luogo (dato che egli è tutto intero ovunque e nessun luogo corporale può contenerlo), subito ne aggiunge la spiegazione: affinché non lo cerchiamo al di fuori di noi, ma piuttosto, abitando in un solo modo nella casa, ci meritiamo che lui a sua volta si degni di abitare in noi. Questo è il luogo santo del Signore, che tanti cercano per avere una sede da cui vengano ascoltate le loro preghiere. Siano essi stessi ciò che cercano; e le cose che dicono nei loro cuori, cioè in questi intimi ricettacoli, li rendano contriti (Cf. Ps 4,5). Dimorino nella casa in un solo modo, così che essi stessi divengano dimore del Signore di quella grande casa e vengano esauditi entro di loro. Infatti grande è la casa e in essa non vi sono soltanto vasi d'oro e d'argento ma anche di legno e di argilla: vasi ad uso nobile e vasi ad uso vile. Però solamente coloro che avranno sgombrato se stessi dai vasi d'uso vile (Cf. 2Tm 2,20) saranno in un solo modo nella casa ed essi stessi saranno il luogo santo del Signore. Infatti come in un grande palazzo il padrone non si riposa in una stanza qualsiasi ma nel luogo più appartato e adorno, così Dio non abita in tutti coloro che sono nella sua casa (non abita certo nei vasi vili!). Suo tempio santo sono coloro che egli fa abitare nella casa con un solo modo oppure con un identico costume. Quello che in greco si dice , in latino si può tradurre con modi (modi) e con mores (costumi); inoltre il testo greco non reca: che fa abitare, ma soltanto: fa abitare. Orbene: Il Signore nel suo santo luogo. Qual è questo luogo? Quello che lo stesso Dio si forma. Infatti Dio fa abitare nella casa quelli che hanno un identico costume. Questo è il suo luogo santo.

Dio sa liberare i peccatori anche se induriti.

8. Il tempio di Dio viene costruito dalla sua grazia, non per i precedenti meriti di coloro con i quali egli lo costruisce. Per convincertene osserva quanto segue: Con la sua fortezza egli libera i prigionieri. Scioglie loro le pesanti catene dei peccati, che impedivano loro di camminare sulla via dei comandamenti; e li scarcera mediante la fortezza, che essi non possedevano prima d'essere raggiunti dalla grazia di lui. Parimenti libera quelli che lo irritano e che abitano nei sepolcri: cioè coloro che erano completamente morti e che si dedicavano ad opere morte. Lo irritano coloro che si ribellano alla giustizia, mentre gli altri, i prigionieri, forse vorrebbero camminare ma non possono. Pregano Dio per poterlo fare e gli dicono: Liberami dalle mie angustie (Ps 24,17). E quando vengono esauditi, ringraziano dicendo: Hai spezzato le mie catene (Ps 115,17). Quelli invece che lo irritano e che abitano nei sepolcri appartengono a quella categoria di persone alla quale allude altrove la Scrittura dicendo: Da un morto, che è come uno che non esiste, è assente ogni confessione (Si 17,26). E ancora: Il peccatore, quando sarà sprofondato nell'abisso del male, disprezza (Pr 18,3). Una cosa è infatti invocare la giustizia, un'altra resistere ad essa; una cosa è voler essere liberati dal male e un'altra difendere le proprie colpe invece di confessarle. Comunque, appartenga l'uomo alla prima o alla seconda categoria, la grazia di Cristo lo libera con la fortezza. Con quale fortezza, se non quella che consente di combattere contro il peccato fino all'ultimo sangue? Dall'una e dall'altra categoria si assumono persone con le quali si edifica degnamente il tempio santo di Dio: solo che, mentre le prime vengono solo liberate, le altre invece hanno bisogno di essere risuscitate. Infatti con un suo comando il Signore sciolse i vincoli della donna che il diavolo aveva tenuta incatenata per diciotto anni (Cf. Lc 13,16), e con un grido vinse la morte di Lazzaro (Cf. Jn 11,43 Jn 44). Colui che ha fatto queste cose nei corpi può farne ancora più mirabili nei costumi, e può far abitare quelli di un solo pensiero nella casa, traendo in salvo i prigionieri con la fortezza, come pure quelli che lo irritano e che abitano nei sepolcri.

I fatti dell’Esodo nella storia e nella tipologia.

9. [vv 8-10.] Dio, quando uscivi al cospetto del tuo popolo. Per uscita di Dio si intende ogni sua manifestazione attraverso le sue opere. Non appare, peraltro, a tutti gli uomini ma soltanto a coloro che sanno riconoscere le sue opere. E non mi riferisco alle opere che sono visibili a ogni occhio: il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi, ma alle opere con le quali nella sua fortezza trae in salvo i prigionieri e coloro che lo irritano e che abitano nei sepolcri e che, accomunati in un sol costume, fa abitare nella casa (Ps 67,7). È in questa maniera che egli esce al cospetto del suo popolo, cioè al cospetto di coloro che intendono questa sua grazia. Continua infatti: Quando andavi nel deserto, la terra ha tremato. Deserto erano le genti, che non conoscevano Dio: deserto era ogni plaga ove non era stata promulgata la legge di Dio, dove nessun profeta aveva abitato né aveva annunziato l'avvento del Signore. Orbene, quando andavi nel deserto, quando venivi annunziato alle genti, la terra ha tremato: gli uomini che erano terreni sono stati svegliati e indirizzati alla fede. Ma in qual modo ha tremato? Poiché i cieli hanno piovuto al cospetto di Dio. A qualcuno piacerà forse riconoscere in questa descrizione il tempo del deserto, quando Dio precedeva il suo popolo, i figli d'Israele, apparendo ad essi di giorno in una colonna di nube e di notte nel fulgore del fuoco (Cf. Ex 13,21). E vorrà riferire l'affermazione: I cieli hanno piovuto al cospetto di Dio all'episodio della manna piovuta sullo stesso popolo (Cf. Ex 16,13). In tal caso le parole successive: Il monte Sinai al cospetto del Dio di Israele, distillando volontaria pioggia, o Dio, per la tua eredità, dovrebbero riferirsi al tempo dell'esodo. Infatti sul monte Sinai Dio parlò a Mosè quando gli diede la legge (Cf. Ex 19,18-25). La manna sarebbe quella pioggia volontaria che Dio tenne in serbo per la sua eredità, cioè per il suo popolo: con essa infatti nutrì solo gli ebrei, non le altre genti. Ne conseguirebbe che, quando dice: E si è indebolita, si debba intendere che si è indebolita questa sua eredità; come effettivamente accadde quando i giudei uscirono in sommosse e, nauseati della manna, la rifiutarono bramosi di nutrirsi con la carne e gli altri cibi con i quali erano soliti alimentarsi in Egitto (Cf- Nb 11,5 Nb 6). Ma, se in queste parole si deve badare soltanto al significato letterale (e non piuttosto indagare anche quello spirituale), sarà necessario precisare quando e come siano stati liberati con la forza coloro che prima erano materialmente prigionieri e che materialmente abitavano nei sepolcri. Inoltre, se l'eredità di Dio, cioè il popolo eletto, si fosse indebolita fisicamente quando per la nausea respinse la manna, non dovrebbero seguire le parole: Tu invece la perfezionasti, ma queste altre: Tu invece la punisti severamente. Infatti, avendo offeso Dio con quelle mormorazioni e con quell'atteggiamento intollerante, essi furono colpiti da un severissimo castigo (Cf. Nb 11,33). Furono tutti abbattuti nel deserto e nessuno di costoro, all'infuori di due, meritò di entrare nella terra promessa (Cf. Nb 14,29 Nb 30). Sebbene dunque si possa dire che la loro eredità si perfezionò nei loro figli, noi dobbiamo piuttosto attenerci al senso spirituale. Ogni cosa infatti accadeva loro in figura (Cf- 1Co 10,11), finché non fosse comparso il giorno e non fossero rimosse le ombre (Cf. Ct 2,17).

Dio salva servendosi di intermediari.

231 10. Apra dunque il Signore a noi che bussiamo, sicché ci sia dato esporvi la profondità dei divini misteri nella misura in cui il Signore stesso si sarà degnato rivelarceli. Infatti, affinché la terra si svegliasse alla fede quando il Vangelo attraversava il deserto delle genti, i cieli stillarono pioggia dal cospetto di Dio. Sono questi i cieli dei quali in un altro salmo si canta: I cieli narrano la gloria di Dio. In tale salmo di essi poco dopo è detto: Non vi sono messaggi o discorsi dei quali non si odano le [loro] voci. In tutta la terra è giunta la loro fama e fino ai confini della terra le loro parole (Ps 18,2 Ps 3). Tuttavia a questi “cieli” non si deve tributare una gloria così grande, quasi che derivasse dall'uomo la grazia che è venuta nel deserto delle genti per muovere la terra verso la fede. I cieli infatti non hanno piovuto da se medesimi ma dal cospetto di Dio: il quale abitava certamente in loro e li faceva abitare nella casa in vita comune. Costoro sono anche i monti dei quali è detto: Ho levato i miei occhi ai monti, donde mi verrà l'aiuto (Ps 120,1). E perché non si abbia l'impressione che egli ha riposto la speranza negli uomini, subito soggiunge: Il mio aiuto è dal Signore, che ha fatto il cielo e la terra (Ps 120,2). E al Signore altrove è detto: Tu illumini mirabilmente dai monti eterni (Ps 75,5). Anche se la luce viene dai monti eterni, tuttavia sei tu che illumini. Così anche qui: I cieli hanno piovuto; ma: dal cospetto di Dio. Infatti loro stessi sono stati salvati per mezzo della fede, e questo non per opera loro ma per dono di Dio. Né deriva dalle opere, per cui nessuno può inorgoglirsene. Noi infatti siamo un'opera (Cf. Ep 2,8-10) uscita dalle mani di colui che fa abitare nella casa gli uomini d'un identico sentire (Ps 67,7).

L’uomo sotto la legge e l’uomo con la grazia.

11. Ma che senso ha quanto segue: Monte Sinai, dal volto del Dio di Israele? Si deve forse sottintendere che il monte Sinai ha inviato la pioggia, per cui ciò che prima ha chiamato cieli, vuol ora intenderlo anche col nome di monte Sinai? Non altrimenti da come si esprimeva in un altro passo ove erano chiamati monti coloro che chiamava anche cieli. Secondo questa interpretazione, non dobbiamo preoccuparci del fatto che dice monte, e non monti, mentre là sono chiamati cieli, e non cielo. In un altro salmo infatti, dopo aver detto: I cieli narrano la gloria di Dio, secondo il costume della Scrittura, che è solita ripetere successivamente lo stesso concetto con altre parole, è detto: E le opere delle sue mani annunzia il firmamento (Ps 18,2). Prima ha detto: cieli e non cielo; eppure, dopo non dice firmamenti ma firmamento. Sta infatti scritto nel Genesi: Dio chiamò il firmamento cielo (Gn 1,8). Così cieli e cielo, monti e monte non significano cose diverse ma la stessa cosa; nello stesso modo come le molteplici chiese e la Chiesa unica non sono realtà diverse ma la stessa. Perché però menzionare proprio il monte Sinai che genera nella servitù (Ga 4,24), come dice l'Apostolo? O forse dobbiamo intendere nel monte Sinai la legge stessa, che i cieli hanno piovuto dal volto di Dio per scuotere la terra? E si deve forse identificare il movimento della terra col turbamento dell'uomo quando constata di non poter adempiere la legge? Se così fosse, la stessa legge sarebbe anche la pioggia volontaria della quale successivamente parla: Distillando pioggia volontaria, Dio, per la tua eredità. Un tale privilegio infatti egli non fece alle altre genti, e i suoi giudizi non manifestò ad esse (Ps 147,20). Alla sua eredità invece Dio riservò questa pioggia volontaria, cioè diede la legge. E si è indebolita. O la stessa legge o l'eredità. Si può intendere che sia stata la legge a indebolirsi in quanto non venne osservata; non quindi perché fosse debole in se stessa ma perché ha reso deboli gli uomini minacciando la pena senza aiutarli con la grazia. Anche l'Apostolo, del resto, usa lo stesso termine quando dice: Questo infatti era impossibile alla legge, perché era debole a causa della carne (Rm 8,3), volendo indicare che la legge si adempie solo per mezzo dello spirito; e, se dice che essa stessa si era indebolita, è per indicare che non poteva essere osservata dagli uomini che erano deboli. Peraltro, ad evitare ogni ambiguità, si può intendere che si è indebolita l'eredità, cioè il popolo al quale era stata data la legge. Difatti la legge sopraggiunse in un secondo momento affinché abbondasse il delitto (Rm 5,20). Quanto poi all'espressione seguente: Tu invece l'hai perfezionata, si può certo riferire alla legge, poiché essa è stata perfezionata, cioè completata, nel senso precisato dal Signore nel Vangelo: Non sono venuto per abrogare la legge ma per completarla (Mt 5,17). E l'Apostolo stesso (il quale aveva detto che la legge era divenuta debole a causa della carne, perché cioè la carne non poteva adempiere ciò che si adempie per mezzo dello spirito o della grazia spirituale) successivamente aggiunge: Affinché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo spirito (Rm 8,4). Orbene, tu invece l'hai perfezionata, perché la pienezza della legge è la carità (Rm 13,10); e la carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori non per opera nostra, ma per lo Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5). Questa è l'interpretazione che proponiamo, se le parole: Tu invece l'hai perfezionata si intendono riferite alla legge. Se invece le si riferisce all'eredità, il senso è più facile. Se si dice che l'eredità di Dio (cioè il suo popolo) si è indebolita perché le fu data la legge (in quanto la legge sopraggiunse perché abbondasse il delitto), allora le parole che seguono: Tu invece l'hai perfezionata ricevono il loro significato da ciò che aggiunge l'Apostolo: Ma dove abbondò il delitto, sovrabbondò la grazia (Rm 5,20). Infatti, abbondando la colpa, si sono moltiplicate le loro debolezze, ma poi si sono messi rapidamente in moto (Cf. Ps 15,4). Gli uomini, cioè, hanno lanciato gemiti, hanno invocato Dio, affinché con il suo aiuto si realizzasse ciò che essi non erano in grado d'attuare con il suo solo precetto.

La gratuità della grazia.

12. C'è però in queste parole anche un altro significato che mi sembra più probabile. Infatti in quella pioggia volontaria mi pare molto più logico scorgere la stessa grazia, nel senso che essa è data gratuitamente senza essere stata preceduta da alcun merito acquistato con le opere. Perché, se è grazia, non deriva dalle opere: altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6). Io non sono degno di essere chiamato apostolo - dice ancora - perché ho perseguitato la Chiesa di Dio: ma sono ciò che sono per la grazia di Dio (1Co 15,9 1Co 10). Ecco la pioggia volontaria. Volontariamente ci ha generati con la parola della verità (Jc 1,18). Ecco la pioggia volontaria. Come altrove è detto: Con lo scudo della tua buona volontà ci hai incoronati (Ps 5,13). Questa pioggia, mentre Dio passava nel deserto, cioè era annunziato alle genti, i cieli hanno piovuto: e non da se stessi ma dal volto di Dio, perché anche essi sono ciò che sono per grazia di Dio. E si menziona espressamente il monte Sinai, perché anche colui che più di tutti gli altri ha faticato (non lui da solo, ma la grazia di Dio con lui (Cf. 1Co 15,10)) affinché più abbondantemente piovesse sulle genti, cioè nel deserto ove Cristo non era stato annunziato (e quindi non edificava sopra un fondamento posto da altri (Cf. Rm 15,20)), egli stesso, ripeto, era un israelita della discendenza di Israele, della tribù di Beniamino (Cf. Ph 3,5). Anche lui dunque era stato generato nella servitù, proveniva da quella Gerusalemme terrena che era asservita insieme con i suoi figli, e per questo aveva perseguitato la Chiesa. Infatti egli stesso dice: Come allora il figlio generato secondo la carne perseguitava quello che era stato generato secondo lo spirito, così anche ora (Ga 4,25 Ga 29). Ottenne però misericordia, perché aveva fatto tutto questo per ignoranza nell'incredulità (Cf. 1Tm 1,13). Ci meravigliamo dunque che i cieli abbiano piovuto dal volto di Dio? Meravigliamoci piuttosto per il [dono accordato al] monte Sinai, cioè all'antico persecutore, ebreo tra gli ebrei e, secondo la legge, fariseo (Cf. Ph 3,5). Ma poi, perché meravigliarci? Tutto ciò non l'ha fatto lui stesso ma, come sta scritto poi, è provenuto dal volto del Dio di Israele, quell'Israele del quale egli stesso dice: E sull'Israele di Dio (Ga 6,16) e di cui il Signore afferma: Ecco un vero israelita, in cui non c'è inganno (Jn 1 Jn 47). Ebbene, questa pioggia volontaria, che non è stata cioè preceduta da alcun merito di buone opere, Dio l'ha riservata alla sua eredità. E si è indebolita. Ha riconosciuto di non essere niente per se stessa; e che tutto ciò che è, deve essere attribuito alla grazia di Dio, non alle proprie forze. Ha riconosciuto ciò che è stato detto: Io mi glorierò delle mie deficienze (2Co 12,9). Ha riconosciuto la verità delle parole: Non inorgoglirti, ma temi (Rm 11,20). E di quelle altre: Agli umili dona la grazia (Jc 4,6). E si è indebolita; tu invece l'hai perfezionata, perché la virtù si perfeziona nella debolezza (2Co 12,9). Alcuni codici, sia latini che greci, non leggono Monte Sinai ma soltanto: Dal volto del Dio del Sinai, dal volto del Dio di Israele. Cioè: I cieli hanno piovuto dal volto di Dio; e, come se si chiedesse dal volto di quale dio, aggiunge: Dal volto del Dio del Sinai, dal volto del Dio di Israele. Cioè dal volto di quel Dio che diede la legge al popolo di Israele. Perché dunque i cieli hanno piovuto dal volto di Dio, di questo Dio, se non perché così si è adempiuto ciò che era stato predetto: Darà la benedizione colui che ha dato la legge (Ps 83,8). La legge fu data per intimorire coloro che si fidavano delle forze umane e la benedizione per liberare coloro che sperano in Dio. Tu, o Dio, hai perfezionato la tua eredità. Si era indebolita in sé, ma per essere perfezionata da te.

Il timore della pena e la soavità della giustizia.

13. [v 11.] I tuoi greggi abiteranno in essa. I tuoi, non i propri; soggetti a te, non liberi al seguito dei propri impulsi; bisognosi di te, non autosufficienti. Aggiunge infatti: Nella tua dolcezza, o Dio, hai provveduto a chi ha bisogno. Nella tua dolcezza, non nelle risorse proprie dell'uomo. Costui infatti è nell'indigenza: tant'è vero che si è riconosciuto debole per essere irrobustito, si è riconosciuto povero per essere ricolmato. Questa è quella dolcezza della quale altrove è detto: Il Signore darà la sua dolcezza, e la nostra terra darà il suo frutto (Ps 84,13). L'uomo opererà il bene per amore, non per timore; non per paura della pena, ma per il diletto della giustizia. Questa è la vera e retta libertà. Ma il Signore preparò ciò per il povero, non per il ricco che disprezza questa povertà, del quale altrove è detto: Vergogna per coloro che sono nell'abbondanza e spregio per i superbi (Ps 122,4). Chiama superbi coloro di cui ha deplorato l'abbondanza.

14. [v 12.] Il Signore darà la parola: darà il cibo ai suoi greggi che abiteranno in essa. Ma che cosa faranno questi greggi, ai quali darà la parola? Che cosa faranno, se non quanto segue? A coloro che annunziano con grande virtù la buona novella. E qual è questa virtù, se non quella forza con la quale Dio libera dal carcere i prigionieri? Forse si riferisce anche a quella virtù con la quale i predicatori operavano i miracoli.

Il Padre è re, e re è anche il Figlio. L’uso del pronome nella Sacra Scrittura.

15. [v 13.] Ma chi darà la parola a coloro che annunziano la buona novella con grande virtù? Il Re delle grandiose potenze del Diletto, aggiunge. È dunque il Padre, il re da cui promana ogni potenza del Figlio. Per “diletto”, quando espressamente non si indica chi sia questo diletto, si intende per antonomasia il Figlio unico. Ma non sarà forse il medesimo Figlio il re delle sue potenze, cioè degli eserciti che lo servono? Infatti, siccome il re delle potenze darà la parola a coloro che annunziano la buona novella con grande virtù, si dice di lui: Il Signore delle potenze è il re della gloria (Ps 23,10). L'espressione: Re delle potenze del Diletto, usata al posto di “re delle sue potenze”, è frequentissima nelle Scritture, se uno ci fa caso. Ciò appare soprattutto quando vi è indicato insieme anche il nome proprio, di modo che nessuno assolutamente può dubitare che si tratti della stessa persona. Così quando nel Pentateuco si legge (e gli esempi sono assai numerosi): E Mosè fece questo o quello, come il Signore aveva ordinato a Mosè (Nb 17,11). Non dice, come siamo soliti dire noi, nel nostro linguaggio: Mosè fece come gli aveva ordinato il Signore; ma: Mosè fece come il Signore aveva ordinato a Mosè. Come se uno fosse il Mosè cui era stato ordinato, un altro il Mosè che eseguiva l'opera, mentre si tratta della stessa persona. Espressioni di questo genere molto raramente si incontrano nel Nuovo Testamento. Tuttavia risente di quest'uso linguistico l'espressione dell'Apostolo: A riguardo del Figlio suo, che è stato fatto per lui dalla discendenza di David secondo la carne e che è stato predestinato Figlio di Dio nella potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti di Gesù Cristo nostro Signore (Rm 1,3 Rm 4). Sembrerebbe quasi che un altro fosse il Figlio di Dio che ebbe origine dalla discendenza di David secondo la carne, e un altro fosse Gesù Cristo nostro Signore; mentre sono una sola e identica persona. Nei libri dell'Antico Testamento questo modo di dire è frequentissimo e perciò, quando si presenta in forma oscura, dobbiamo cercare di capirlo riferendoci agli esempi più evidenti in cui ritorna la locuzione. E appunto uno di questi casi piuttosto oscuri è il testo del salmo che stiamo trattando. Se dicesse infatti: “ Gesù Cristo, re delle potenze di Gesù Cristo ”, l'espressione sarebbe chiara, come quella: Mosè fece come il Signore aveva ordinato a Mosè. Ma, poiché sta scritto: Re delle potenze del Diletto, non è facile discernere se il re delle potenze e il diletto siano la stessa persona. Ebbene, la frase re delle potenze del Diletto può essere intesa come se si dicesse: “ re delle sue proprie potenze ”; nel senso cioè che Cristo è il re delle potenze e lo stesso identico Cristo è ancora il Diletto. Tuttavia questa interpretazione non è talmente obbligante da non potersi accettare anche l'altra. Infatti “ re delle potenze del Figlio suo diletto ” può riferirsi anche al Padre, al quale questo “ Diletto ” diceva: Tutte le cose mie sono tue e le tue sono mie (Jn 17,10). Qualora poi si volesse porre la questione se a Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, convenga il nome di re, non so chi oserebbe togliergli questo titolo, dopo che l'Apostolo dice: Al re immortale dei secoli, all'invisibile, al solo Dio (1Tm 1,17). Per quanto queste parole siano riferite alla Trinità, nella Trinità è compreso evidentemente anche Dio Padre. Inoltre, se non intendiamo in modo carnale le parole: O Dio, da' al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re (Ps 71,2), non so in quale altro modo si potranno intenderle se non in questo: “ Da' il regno al Figlio tuo ”. Dunque anche il Padre è re. Ne consegue che il versetto di questo salmo: Re delle potenze del Diletto, può essere interpretato in ambedue i modi. In conclusione, avendo detto: Il Signore darà la parola a coloro che annunziano la buona novella con grande virtù, siccome tale virtù è retta da Dio e per lui milita colui al quale essa è data, per questo dice il salmo che è il Signore a dare, lui personalmente, la parola a coloro che annunziano la buona novella con grande virtù, ed è lui anche il re delle potenze del Diletto.

La bellezza della casa di Dio.

232 16. Poi continua: Del Diletto, e dividere le spoglie per la bellezza della casa. La ripetizione giova ad inculcare l'idea: anche se non tutti i codici recano questa ripetizione, e i codici più accurati segnalano tale ripetizione con una stelletta, cioè con uno di quei segni chiamati asterisco. Con tal segno si vuol precisare che questa parola non si trova nella traduzione dei Settanta ma solo nel codice ebraico, che appunto reca tali note. Comunque, sia che preferiamo la ripetizione della parola Diletto sia che la supponiamo scritta una sola volta, credo che il testo debba ricostruirsi come segue. L'espressione: E dividere le spoglie per la bellezza della casa equivale a: Del Diletto [è] anche dividere le spoglie per la bellezza della casa. Cioè: È del Diletto anche il dividere le spoglie. Infatti Cristo ha reso bella la casa, cioè la Chiesa, distribuendo in lei le spoglie, come è bello il corpo per la distribuzione delle sue membra. Sono chiamate spoglie le sostanze strappate ai nemici vinti; e che cosa questo significhi ce lo spiega il Vangelo là dove leggiamo: Nessuno entra nella casa del forte per rubargli i vasi, senza aver prima legato il forte (Mt 12,29). Cristo ha legato il diavolo con vincoli spirituali, vincendo la morte e risalendo dall'inferno al di sopra dei cieli. Lo ha legato con il sacramento della sua incarnazione, poiché ha permesso che il diavolo lo uccidesse, pur non avendo trovato in lui niente che fosse degno di morte. Così, dopo averlo incatenato, gli ha rubato i vasi come fossero spoglie (Cf. Ep 2,2). Il diavolo esercitava un dominio sugli increduli, sfruttando a suo arbitrio la loro incredulità. Il Signore purificò questi vasi con la remissione dei peccati e santificò queste spoglie strappate al nemico prostrato e incatenato. Così santificate, egli le divise perché contribuissero alla bellezza della sua casa, e alcuni costituì apostoli, altri profeti, altri ancora pastori e dottori, nell'opera del ministero, nell'edificazione del corpo di Cristo (Cf. Ep 4,11 Ep 12). Perché, come uno è il corpo, eppure ha molte membra e, pur essendo molte le membra, uno solo è il corpo, così è anche Cristo. Sono forse tutti apostoli? Sono forse tutti profeti? Compiono forse tutti dei miracoli? Hanno forse tutti il dono delle guarigioni? Parlano tutti le lingue? Forse tutti interpretano? Ma tutte queste cose compie il solo e identico Spirito, che distribuisce a ciascuno secondo che vuole (1Co 12,12 1Co 29 1Co 30 1Co 11). Questa è la bellezza della casa, per [ottenere] la quale sono divise le spoglie. Chi ama questa casa, entusiasmato della sua bellezza, griderà: Signore, ho amato la bellezza della tua casa (Ps 25,8).

Tempio di Dio sono i rigenerati alla grazia. L’armonia dei due Testamenti.

17. [vv 14.15.] Nelle parole che seguono si rivolge alle membra con le quali è costituita la bellezza della casa, e dice loro: Se voi dormite in mezzo alle sorti, ali di colomba argentata, e in mezzo alle sue scapole nello splendore dell'oro. Prima di tutto dobbiamo ricercare l'ordine delle parole, per vedere come si concluda la frase; la quale non si sa a chi si riferisca, là dove dice: Se voi dormite; e, quanto alle altre parole: Ali di colomba argentata, non si capisce bene se pennae sia singolare (= di questa ala) oppure plurale (= queste ali). Il testo greco esclude il singolare, dato che tali parole si leggono senza alcun dubbio al plurale. Ma è ancora incerto se voglia dire “ queste ali ” oppure “ voi, o ali ”, come rivolgendosi alle ali stesse. Dobbiamo poi vedere se questa frase si collega con le parole che precedono, in modo che l'ordine sia questo: Il Signore darà la parola a coloro che annunziano la buona novella con grande virtù, se dormite in mezzo alle sorti, o voi, ali di colomba argentata; oppure se non si colleghi piuttosto alle parole che seguono, e la successione delle idee sia questa: Se voi dormite in mezzo alle sorti, le ali di colomba argentata come neve saranno imbiancate sul Selmon. Cioè: queste ali saranno imbiancate, se voi dormite in mezzo alle sorti. Le quali parole sarebbero, in tal caso, rivolte a coloro che, come spoglie, sono divisi per la bellezza della casa. E questo sarebbe il senso: se dormite in mezzo alle sorti, voi che siete variamente distribuiti per la bellezza della casa (la distribuzione avviene attraverso le varie manifestazioni dello Spirito per l'utilità comune, in modo che alcuni ricevano dallo Spirito la parola della sapienza, altri dallo stesso Spirito la parola della scienza, altri ancora la fede, altri la capacità di guarire nel medesimo Spirito, e così via (Cf. 1Co 12,7-9)), ebbene, se voi dormite in mezzo alle sorti, allora le ali della colomba argentata saranno imbiancate come neve sul Selmon. Si potrebbe però intendere anche così: Se voi, o ali di colomba argentata, dormite in mezzo alle sorti, saranno imbiancati come neve nel Selmon, dove si ha da sottintendere che saranno imbiancati gli uomini che per mezzo della grazia ricevono la remissione dei peccati. Proprio come, della stessa Chiesa, è detto nel Cantico dei cantici: Chi è costei che sale imbiancata? (Ct 3,6) Si avvererebbe così la promessa di Dio, ché per bocca del profeta diceva: Se i vostri peccati saranno come scarlatto, come neve li imbiancherò (Is 1,18). La frase potrebbe interpretarsi anche in un altro senso, cioè che alle parole ali di colomba argentata, si sottintenda “ sarete ”. Per cui il significato sarebbe questo: O voi, che siete distribuiti come spoglie per formare la bellezza della casa, se dormite in mezzo alle sorti voi sarete ali di colomba argentata. Cioè: vi eleverete in alto, restando tuttavia uniti alla compagine della Chiesa. Non credo infatti che nella colomba argentata si possa vedere altro se non colei della quale è detto: Una è la mia colomba (Ct 6,8). Ed è argentata perché è erudita nelle parole divine; le quali parole del Signore altrove sono dette argento raffinato nel crogiuolo, purificato sette volte (Ps 11,7). È dunque un gran bel privilegio dormire in mezzo alle sorti, che, come alcuni sostengono, sono i due Testamenti. Per cui dormire in mezzo alle sorti significa “ riposare sull'autorità di tali Testamenti ”, cioè assentire alla testimonianza di ambedue i Testamenti, in modo che, quando la verità è da essi stabilita e provata, ogni controversia abbia a comporsi in pacifica serenità. Che se questa è davvero la spiegazione, che altro si dice a coloro che annunziano la buona novella con grande virtù, se non che il Signore darà ad essi la parola affinché possano predicare, solo a patto che essi dormano in mezzo alle sorti? Ad essi infatti è data la parola della verità a patto che non abbandonino l'autorità dei due Testamenti e siano, loro stessi, le ali della colomba argentata, grazie alla cui predicazione la gloria della Chiesa si spinge fino al cielo.

Sapienza e carità.

18. In mezzo alle scapole. È ovvio il riferimento a una parte del corpo: una parte situata presso la regione del cuore, ma dietro, cioè sul dorso. Orbene, di queste scapole, per quanto riguarda quella colomba argentata, ci si dice che sono nello splendore dell'oro, cioè nel vigore della sapienza. Non credo che in questo vigore si possa scorgere qualcos'altro meglio della carità. Ma perché sul dorso e non sul petto? Mi appare, sinceramente, strano il modo in cui questa parola si trova in un altro salmo, là dove è detto: In mezzo alle sue scapole ti proteggerà, e sotto le ali di lui spererai (Ps 90,4), mentre può essere riparato sotto le ali solo ciò che sta avanti al petto. Certamente in latino “ in mezzo alle scapole ” si potrebbe, in qualche modo, intendere dell'una e dell'altra parte, davanti e dietro, prendendo la parola “ scapole ” nel senso di parti del corpo in mezzo alle quali si trova la testa. Il testo ebraico è, a quanto sembra, ambiguo ma non esclude tale interpretazione. Quanto al greco invece, la parola  significa esclusivamente “ di spalle ” ed equivale proprio a in mezzo alle scapole. Lo splendore dell'oro, cioè la sapienza e la carità, non sarà stato quindi posto lì perché lì sono, in qualche modo, le radici delle ali, oppure perché sulle spalle si porta quel giogo lieve? Che cosa sono infatti le ali se non i due precetti della carità, nei quali si riassumono tutta la legge e i profeti? (Cf. Mt 22,40) E che cosa è quel giogo lieve, se non la stessa carità, che in questi due precetti si adempie? Ciò che il precetto contiene di difficile diviene leggero per chi ama. Né alcun significato ragionevole avrebbero le parole del Signore: Il mio peso è leggero (Mt 11,30), se non fossero riferite a lui che ci dona lo Spirito Santo, per il quale si diffonde nei nostri cuori la carità (Cf. Rm 5,5). Amando, infatti, noi operiamo con libertà, mentre colui che teme compie le stesse cose ma con spirito servile. Non è costui amante della rettitudine, dal momento che preferisce, se ciò fosse possibile, che non fosse ordinato ciò che è retto.

Il cristiano segno vivente della concordia fra i due Testamenti.

19. Ci si può anche chiedere perché nel salmo non si dica: “ Se dormite tra le sorti ”, ma: In mezzo alle sorti, e che significhino le parole: In mezzo alle sorti. Se traducessimo queste parole più letteralmente, cioè proprio come sono in greco, si dovrebbe dire: “ presso la metà delle sorti ”; ma, a parte che questa forma non si trova in nessun traduttore, penso che essa sia identica all'altra: In mezzo alle sorti. Dirò dunque la mia modesta opinione a questo proposito. Spesso siamo soliti usare questa parola - “ metà ” o “ mezzo ” - per collegarne altre e per conciliarle in modo che non si contraddicano a vicenda. Così, ad esempio, la Scrittura la usa nel racconto di Dio che vuol stringere un patto tra se stesso e il popolo. Infatti, al posto dell'espressione latina inter me et vos (= tra me e voi) il greco ha: Nella metà fra me e voi. Così, quando Dio parla ad Abramo del segno della circoncisione, dice: Vi sarà un'alleanza tra me e te e tutta la tua discendenza (Gn 17,2 Gn 7); dove il greco reca: Nel mezzo tra me e te, e nel mezzo di tutta la tua discendenza. Del pari, parlando a Noè dell'arcobaleno che doveva essergli di segno (Cf. Gn 9,12), è usata spessissimo questa espressione. Mentre i codici latini riportano: Tra me e voi, oppure: Tra me e ogni anima vivente, o altra frase simile, il greco dice:  che, completando la frase, darebbe questo costrutto: Fra mezzo a me e fra mezzo a voi. David e Gionata stabiliscono tra loro un segno, in modo da evitare ogni contrasto di opinioni e di comportamenti (Cf. 1S 20,20-23). Ciò che in latino si dice: Tra i due o in mezzo ad ambedue, in greco lo si esprime con la solita frase . Orbene, in questo passo del nostro salmo, molto saggiamente i traduttori hanno evitato la lezione “ tra le sorti ”, come ordinariamente si dice in latino, e hanno tradotto In mezzo alle sorti, come si legge in greco e come si è soliti dire quando si tratta, come ho già rilevato, di cose che debbono essere conciliate tra loro. La Scrittura ordina pertanto che dormano in mezzo alle sorti coloro che sono le ali della colomba argentata o che si dispongono ad esserlo. In tal caso, se queste sorti rappresentano i due Testamenti, che cos'altro ci si invita a fare se non a escludere ogni resistenza ai due Testamenti, che tra loro sono d'accordo, e a riposarci nella loro comprensione, in modo da essere noi stessi un segno e un documento della loro concordia? Sì, noi dobbiamo essere convinti che il Vecchio Testamento non contiene nulla che contrasti col Nuovo, e dobbiamo anche dimostrare questa nostra convinzione con un'ammirazione così piena di pace da poter essere paragonata all'estasi. Il motivo per cui nelle sorti si scorgono i Testamenti (dato che il nome  è certamente greco, ma con esso non si indica il Testamento) è da ricercarsi nel fatto che per mezzo del testamento si dà l'eredità, che appunto in greco si dice  come “ erede ” si dice .  dunque in greco significa “ sorte ”, e sorti, secondo la promessa di Dio, sono chiamate le parti dell'eredità che vengono distribuite al popolo. Per questo alla tribù di Levi fu ordinato di non ricevere niente in sorte tra i suoi fratelli, perché essa era sostenuta con le loro decime (Cf. Nb 18,20). Ritengo inoltre che le parole “ clero ” e “ chierici ” siano state scelte a designare coloro che sono ordinati nei gradi del ministero ecclesiastico, perché a sorte fu scelto Mattia, cioè colui che per primo leggiamo essere stato ordinato dagli Apostoli (Cf. Ac 1,26). Dato dunque che l'eredità è una risultanza del testamento, col nome di “ sorti ” si intendono i Testamenti stessi, designando la causa col nome dell'effetto.

Il cristiano ha da domare l’attrattiva dei beni terreni per godere nella speranza della eredità indefettibile.

20. Mi viene qui in mente un altro significato che, se non sbaglio, dev'essere preferito ai precedenti: ritengo cioè assai probabile che col nome di “ sorti ” si indichino le stesse eredità. E quindi, se l'eredità del Vecchio Testamento è la felicità terrena (figura di quella futura) e l'eredità del Nuovo Testamento è l'immortalità eterna, “ dormire in mezzo alle sorti ” significa non cercare ardentemente la felicità terrena ed aspettare pazientemente quella eterna. Quanti servono Dio (o, meglio, si rifiutano di servirlo) perché se ne attendono una felicità in questa vita e in questa terra, costoro han perso il sonno e non dormono. Agitati da brucianti cupidigie, sono spinti alla frode e al delitto e non riposano mai: o perché desiderano ottenere o perché temono di perdere. Dice la Sapienza: Chi mi ascolta abiterà nella speranza e riposerà senza timore di alcun male (Pr 1,33). Ecco, a quanto mi sembra, cos'è dormire in mezzo alle sorti o in mezzo tra le due eredità: è risiedere nella eredità celeste, non ancora nella realtà ma nella speranza, ed essere ormai liberati dai desideri di felicità terrena. Quando sarà giunto ciò che speriamo, non riposeremo più in mezzo a queste due eredità ma regneremo nell'eredità nuova e vera, di cui la antecedente era soltanto l'immagine. In tale contesto le parole: Se dormite in mezzo alle sorti si sarebbero potute interpretare anche così: “ Se morirete in mezzo alle sorti ”, ritenendo cioè che la Scrittura, secondo il suo costume, chiami sonno la nostra morte. E sarebbe veramente ottima una tale morte, con la quale l'uomo chiude l'ultimo giorno di questa vita dopo aver domato la bramosia di eredità terrene sostituendola con la speranza dell'eredità celeste in cui ha perseverato sino alla fine. Coloro che si addormentano così in mezzo alle sorti saranno le ali della colomba argentata, o perché al momento della resurrezione saranno rapiti nelle nubi incontro a Cristo e rimarranno sempre con il Signore (Cf. 1Th 4,16), oppure perché la Chiesa, attraverso coloro che muoiono così, riceve un lustro e una reputazione inattaccabile e sublime: sì che essa viene portata come su delle ali di una gloria eccelsa. Non senza ragione è detto: Prima della morte non loderai nessun uomo (Si 11,30). Orbene tutti i santi di Dio, dall'inizio del genere umano fino al tempo degli Apostoli (poiché anch'essi erano in grado di dire: Tu sai che io non ho desiderato il giorno dell'uomo (Jr 17,16); e: Una sola cosa ho chiesto al Signore, e questa richiederò (Ps 26,4)) e dal tempo degli Apostoli (quando più chiaramente è stata rivelata la differenza tra i due Testamenti) fino ai nostri giorni, gli stessi Apostoli, i beati martiri e tutti gli altri giusti, come arieti e come figli di arieti, hanno dormito in mezzo alle sorti. Hanno cioè disprezzato la felicità del regno terreno e sperato l'eternità del regno dei cieli, che ancora non possedevano. E, poiché essi han dormito così bene, grazie a loro (quasi ali) ora vola ed è glorificata la Chiesa, cioè la colomba argentata. I posteri, incitati dalla loro fama ad imitarli, dormiranno anch'essi così, e quindi si aggiungeranno altre ali con le quali, sino alla fine dei secoli, la Chiesa si leverà in alto e si renderà ovunque manifesta.

I doni dello Spirito abbelliscono la Chiesa. L’annunziazione  della Vergine Madre.

21. [v 15.] Mentre colui che supera il cielo distingue i re su di essa, come neve saranno imbiancati sul Selmon. L'uomo superiore al cielo è colui che salì al di sopra di tutti i cieli per adempiere ogni cosa; ed egli distingue i re su di essa, ossia su quella stessa colomba argentata. Continua infatti l'Apostolo: Egli stesso le diede alcuni come apostoli, altri come profeti, altri in qualità di evangelisti, altri come pastori e dottori. Che altro è infatti “ distinguere i re sopra di essa ”, se non distribuire tra varie persone l'adempimento del ministero per la edificazione del corpo di Cristo (Ep 4,10-12)? La Chiesa infatti è il corpo di Cristo. E questi prescelti sono detti re in quanto reggono. E dove si esplica prevalentemente il loro dominio se non sui desideri della carne, in modo che non regni il peccato nel loro corpo mortale né si obbedisca ai desideri di lui, e le loro membra non vengano abbandonate al peccato come armi d'ingiustizia ma si offrano a Dio (Cf. Rm 6,12 Rm 13) Difatti, da morti che eravamo, noi siamo tornati a vivere e le nostre membra debbono offrirsi a Dio come armi a servizio della giustizia. In tal modo questi re saranno dapprima distinti dai re stranieri, in quanto essi non portano il giogo insieme con gli infedeli: poi, per quanto distinti fra loro, vivranno in piena concordia, esplicando ciascuno il suo compito. Perché non tutti sono apostoli né tutti sono profeti né tutti dottori né tutti hanno il dono delle guarigioni né tutti parlano lingue oppure le interpretano. Ma tutte queste cose compie l'unico e medesimo Spirito, distribuendo a ciascuno come vuole (1Co 12,29 1Co 30 1Co 11). Effettivamente, è proprio dando questo Spirito che il Re del cielo distingue i re al di sopra della colomba argentata. Un angelo venne un giorno inviato alla Madre di Gesù, la Vergine piena di grazia, e parlò anche di questo Spirito Santo. Lei infatti chiedeva in qual modo avrebbe partorito ciò che le si annunziava (dato che non conosceva uomo) e l'angelo le rispose: Lo Spirito Santo verrà su di te e la virtù dell'Altissimo ti adombrerà (Lc 1,35). Che significano le parole: Ti adombrerà, se non “ farà ombra ”? Per cui anche questi re, mentre sono distinti al di sopra della colomba argentata per la grazia dello Spirito di Cristo Signore, saranno imbiancati come neve sul Selmon: ove Selmon significa ombra. Non sono infatti distinti per i loro meriti o per le loro virtù. Dice l'Apostolo: Cos'è che ti distingue? che cosa hai che tu non abbia ricevuto? (1Co 4,7) Per essere dunque distinti dagli empi ricevono la remissione dei peccati da colui che dice: Se i vostri peccati saranno come lo scarlatto, li imbiancherò come neve (Is 1,18). Ecco come saranno imbiancati qual neve sul Selmon: mediante la grazia dello Spirito di Cristo. Quello Spirito per il quale gli uomini hanno ciascuno il suo dono particolare e al quale si riferiscono le parole che dianzi ho ricordate: Lo Spirito Santo verrà su di te e la virtù dell'Altissimo ti adombrerà, cioè farà ombra su di te, e per questo il santo che da te nascerà si chiamerà Figlio di Dio (Lc 1,35). Senza dubbio questa ombra è da intendersi come una difesa contro l'ardore dei desideri carnali, tant'è vero che la Vergine concepì Cristo non soddisfacendo alla concupiscenza ma con un concepimento spirituale, attraverso la fede. È noto infatti che per avere l'ombra occorrono una fonte luminosa e un corpo che la ripari. Per questo il Verbo, che al principio già esisteva ed era la vera luce, per divenire per noi ombra meridiana si fece carne ed abitò fra noi (Cf. Jn 1,1-14). E nella persona di Cristo l'umanità si avvicinò a Dio, come il corpo alla luce, coprendo così con un'ombra protettrice coloro che credono in lui. Qui infatti non si tratta di quell'ombra della quale è detto: Tutte quelle cose sono passate come ombre (Sg 5,9); e neppure di quell'ombra di cui dice l'Apostolo: Nessuno vi giudichi a riguardo del cibo o della bevanda o di giorni festivi o di noviluni o di sabati: cose tutte che sono ombra del futuro (Col 2,16 Col 17). Si tratta invece di quell'ombra della quale sta scritto: Sotto l'ombra delle tue ali proteggimi (Ps 16,8). Orbene, mentre il Re del cielo effettua il discernimento dei re al di sopra della colomba argentata, essi non si insuperbiscano per i loro meriti, non confidino nelle proprie forze. Essi infatti saranno imbiancati come neve sul Selmon, cioè, saranno resi candidi dalla grazia in quanto protetti dal corpo di Cristo.

233 La grazia divina magnificamente simboleggiata nel latte.

22. [v 16.] Successivamente chiama questo monte monte di Dio, monte fertile, monte pieno di formaggio, o monte pingue. Che cos'altro qualifica qui come pingue, se non ciò che chiama anche fertile? C'è infatti un monte chiamato con questo nome, cioè il Selmon. E quale monte dobbiamo intendere come monte di Dio, monte fecondo, monte di formaggio, se non Cristo Signore, del quale un altro profeta dice: Negli ultimi tempi si renderà manifesto il monte del Signore, innalzato sulla vetta dei monti (
Is 2,2)? Lui è il monte pieno di formaggio, perché nutre i piccoli con la grazia, come con latte; ed è un monte ferace, tale cioè da poter irrobustire e arricchire con l'eccellenza dei suoi doni. Quanto al latte con il quale si fa il formaggio, esso raffigura in modo mirabile la grazia: scaturisce infatti dall'abbondanza delle viscere materne e con tenera affettuosa condiscendenza viene dato gratuitamente ai piccoli. Notiamo di sfuggita che in greco il caso è ambiguo. Non si sa cioè se sia nominativo o accusativo, perché in tale lingua “ monte ” è di genere neutro, non maschile; e per questo alcuni latini non hanno tradotto Montem Dei, ma Mons Dei. Quanto a me, io credo sia meglio leggere in Selmon montem Dei, cioè, nel monte di Dio chiamato Selmon, secondo l'interpretazione che più avanti abbiamo proposta come ci era consentito.

Cristo monte eccelso tra gli altri monti.

23. [v 17.] Dice bene: Monte di Dio, monte pieno di formaggio, monte fertile, perché nessuno osi paragonare il Signore Gesù Cristo agli altri santi che, anch'essi, sono detti monti di, Dio. Si legge infatti: La tua giustizia come i monti di Dio (Ps 35,7), e l'Apostolo: Affinché noi siamo giustizia di Dio in Cristo (2Co 5,21). Di questi monti in un altro passo è anche detto: Tu, illuminando mirabilmente dai monti eterni (Ps 75,5). Ove si vuol dire che ad essi è stata, sì, donata la vita eterna, anzi, per loro mezzo è stata costituita quella norma suprema di autorità che sono le sante Scritture; ma la loro luce viene da Dio, come indicano le parole: Sei tu che illumini. Ho levato, dice altrove, i miei occhi verso i monti, donde mi verrà l'aiuto; ma tale aiuto non mi deriva, propriamente, da quei monti: il mio aiuto è dal Signore, che ha fatto il cielo e la terra (Ps 120,1 Ps 2). Uno di questi monti, uno che svetta di molto sugli altri, dopo aver detto che aveva lavorato più di tutti i suoi coapostoli, precisa: Non io, però, ma la grazia di Dio con me (1Co 15,10). Affinché dunque nessuno osi paragonare quel monte che è il più bello tra tutti i figli degli uomini (Cf. Ps 44,3) ai monti che sono gli stessi figli degli uomini (poiché non sono mancati coloro che lo identificavano con Giovanni Battista, con Elia oppure Geremia o uno degli altri profeti (Cf. Mt 16,14)), si volge il salmista a costoro e dice: Perché confondete con i monti di formaggio il monte in cui a Dio è piaciuto abitare? Perché li confondete? Anch'essi, certo, sono luce, come è stato loro detto: Voi siete la luce del mondo (Mt 5,14); ma Cristo è la luce vera che illumina ogni uomo (Jn 1,9). Analogamente anche loro sono dei monti, ma di tutt'altra grandezza è il monte che Dio prepara sulla vetta dei monti. Questi monti sono gloriosi in quanto sono portatori di quel monte. E uno di costoro non esita ad affermare: Lungi da me il gloriarmi se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, ad opera del quale il mondo è per me crocifisso ed io sono crocifisso per il mondo (Ga 6,14). Di modo che chi si gloria, si glori non in se stesso ma nel Signore (1Co 1,31). Perché dunque confondete con i monti di formaggio il monte nel quale a Dio è piaciuto abitare? Non perché egli non abiti anche negli altri, ma perché abita in essi per mezzo di lui. Quanto a lui invece, in lui abita tutta la pienezza della divinità (Col 2,9), non mediante dei simboli come nel tempio costruito dal re Salomone ma corporalmente, cioè realmente e veramente. Perché Dio era in Cristo, al fine di riconciliare il mondo con sé (2Co 5,19). Queste parole (Dio era in Cristo) possono intendersi riferite al Padre, come ebbe a dire Gesù: Il Padre che dimora in me, è lui che fa le opere; e io sono nel Padre e il Padre è in me (Jn 14,10). Oppure le si possono intendere di Cristo, nel senso che il Verbo era nell'uomo. Difatti il Verbo era nella carne in modo tale che il Verbo, anche dopo fatto carne, costituiva un solo individuo, cioè l'uomo era unito al Verbo nell'unica persona di Cristo. Ebbene, perché confondete con i monti di formaggio quel monte in cui a Dio è piaciuto abitare? Dio abita in questo monte ben diversamente da come abita in quei monti, uno dei quali voi sospettate che sia lui. In realtà questi sono, sì, figli di Dio ma per la grazia dell'adozione; nessuno quindi è l'Unigenito cui è detto: Siedi alla mia destra, finché non abbia posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi (Ps 109,1). Il Signore vi abiterà sino alla fine; cioè, su quei monti (che non sono da paragonarsi a questo monte) abiterà il Signore, che è il monte che si eleva sulla vetta degli altri. Vi abiterà per condurli al loro fine, cioè alla contemplazione di lui stesso in quanto Dio. Fine della legge è infatti Cristo, a giustificazione di ogni credente (Rm 10,4). A Dio Padre dunque è piaciuto abitare in questo monte, che si innalza sulla vetta dei monti; e, rivolto ad esso, dice: Tu sei il Figlio mio diletto, nel quale mi sono compiaciuto (Mt 3,17). In effetti, “ monte ” è lo stesso Signore Gesù, che abiterà sino alla fine negli altri monti sulla cui vetta egli si innalza. Perché uno solo è Dio e uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini: l'uomo Cristo Gesù (1Tm 2,5). Monte dei monti, così come è il santo dei santi. Per questo diceva: Io in loro e tu in me (Jn 17,23). Ebbene: Perché confondete con i monti di formaggio il monte in cui a Dio è piaciuto abitare? Infatti il Signore, monte di formaggio, abiterà sino alla fine in quei monti di formaggio, affinché diventino qualcosa coloro ai quali dice: Senza di me non potete fare nulla (lo 15, 5).

Felicità di chi, sorretto dalla carità, riesce ad osservare la legge.

24. [v 18.] Si compie così anche quanto segue: Il cocchio di Dio, circondato da molte decine di migliaia (altri leggono: denum milium multiplex o decies milies multiplex, cioè: a milioni o a miliardi). I vari traduttori latini hanno tradotto come hanno potuto l'unica parola greca . Non è stato possibile tradurla esattamente in latino perché “ mille ” presso i greci si dice , e  significa “ parecchie decine di migliaia ”, dato che una  corrisponde a diecimila. Con questa parola si è voluto insomma significare una moltitudine sterminata di santi e di fedeli, i quali, portando Dio, son divenuti in qualche modo il cocchio di Dio. Incorporandosi in questa, moltitudine e governandola, Cristo la conduce al fine, come un suo cocchio diretto a qualche meta. Difatti primo fra tutti, Cristo; poi coloro che sono di Cristo alla sua venuta; quindi la fine (1Co 15,23 1Co 24). Questa è la santa Chiesa, costituita da coloro di cui successivamente è detto: Migliaia di persone in festa. Sono infatti lieti nella speranza, finché non siano condotti a quella meta che ora aspettano con pazienza (Cf. Rm 8,25). In maniera quanto mai felice, dopo aver parlato delle migliaia di festanti, subito aggiunge: Il Signore è in loro.Non è strano che siano in festa: Il Signore è in loro. Infatti a noi conviene entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni (Ac 14,21); ma: Il Signore è in loro. Per questo, anche se sono tristi, tuttavia sono sempre lieti (2Co 6,10). Non sono nella patria che non hanno ancora raggiunta (Cf. ,, Ph 3,12), ma sono lieti nella speranza e pazienti nella tribolazione (Rm 12,12), perché il Signore è in loro, nel Sinai, nel santo. Nelle interpretazioni di nomi ebraici troviamo che Sinai significa “ precetto ”; (lo si potrebbe interpretare anche in altre maniere, ma credo che tale significato sia il più adeguato in questo testo). Spiegando dunque perché si allietino quelle migliaia di cui consta il cocchio di Dio, dice: Il Signore è in loro, nel Sinai, nel santo. Cioè, il Signore è in loro, nel precetto, e questo precetto è santo, come dice l'Apostolo: La legge è santa, e santo è il precetto, e giusto e buono (Rm 7,12). Ma a che cosa gioverebbe il precetto, se in esso non fosse il Signore, del quale è detto: È Dio che opera in voi il volere e l'operare, secondo la buona volontà (Ph 2,13)? Il precetto, senza il soccorso del Signore, è lettera che uccide (Cf. 2Co 3,6): La legge infatti fu aggiunta perché il delitto abbondasse (Rm 5,20). Ma, siccome la carità è la pienezza della legge (Rm 13,10), la legge potrà essere osservata per mezzo della carità (non per mezzo del timore); e la carità di Dio è diffusa nei nostri cuori per dono dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5). Ecco perché si allietano quelle migliaia. Essi adempiono la giustizia della legge nella misura in cui sono aiutati dallo Spirito della grazia, perché il Signore è in loro, nel Sinai, nel santo.

Cristo dà e riceve i doni degli uomini.

25. [v 19.] Poi volgendo il discorso al Signore dice: Sei salito in alto, hai fatto prigioniera la prigionia, hai ricevuto doni tra gli uomini. L'Apostolo ricorda questo passo e lo applica al Cristo Signore: A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo; per questo dice: È salito in alto, ha fatto prigioniera la prigionia, ha dato doni agli uomini. L'essere poi salito, che cosa sta ad indicare se non che egli era anche disceso nelle parti inferiori della terra? Colui che è disceso è lo stesso che è salito al di sopra di tutti i cieli, per compiere ogni cosa (Ep 4,7-10). È indubitato pertanto che è di Cristo che qui si dice: Sei salito in alto, hai fatto prigioniera la prigionia, hai ricevuto doni tra gli uomini. Non ci sorprenda il fatto che l'Apostolo, riferendo la stessa testimonianza, non dice: Hai ricevuto doni tra gli uomini, ma: Egli ha dato doni agli uomini. Certamente egli, nella sua autorità apostolica, s'è voluto riferire al fatto che il Figlio è Dio insieme con il Padre. E precisamente il Signore Gesù ha dato doni agli uomini in quanto ha mandato loro lo Spirito Santo che è lo Spirito del Padre e del Figlio. Ma, se la frase si intende riferita al Cristo nel senso che egli è presente nel suo corpo che è la Chiesa (in quanto sono sue membra i suoi santi e i suoi fedeli, tanto che ad essi è detto: Voi siete il corpo e le membra di Cristo (1Co 12,27)), in questo caso anche Cristo ha, senza dubbio, ricevuto doni tra gli uomini. Cristo infatti è, sì, salito in alto e siede alla destra del Padre (Cf. , 19); ma, se non fosse anche qui in terra, come farebbe a gridare: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? (Ac 9,4) E, quando lui stesso ci dice: Ciò che avete fatto a uno di questi miei piccoli, lo avete fatto a me (Mt 25,40), come possiamo dubitare che non sia lui stesso a ricevere, per mano delle sue membra, quei doni che ricevono le sue membra?

La felice prigionia degli amici di Cristo.

26. Ma che cosa significano le parole: Hai fatto prigioniera la prigionia? Forse che il Signore ha vinto la morte, che teneva prigionieri coloro sui quali regnava? Oppure chiama “prigionia” gli stessi uomini, in quanto erano tenuti prigionieri sotto il potere del diavolo? Allude a questo mistero anche il titolo di quel salmo che dice: Quando si costruiva la casa dopo la prigionia (Ps 95,1), cioè quando veniva sorgendo la Chiesa dopo la supremazia delle genti. Chiama “prigionia” gli stessi uomini che erano tenuti prigionieri, così come, dicendo “ milizia ”, s'intende coloro che militano; e di tale prigionia dice che è stata fatta prigioniera da Cristo. Perché infatti non dovrebbe esserci una prigionia felice? e perché non potrebbero gli uomini essere catturati per il loro bene? Anzi proprio per questo fu detto a Pietro: Ormai tu prenderai gli uomini (Lc 5,10). Si è dunque fatti prigionieri in quanto si viene catturati; e si viene catturati in quanto ci si pone sotto il giogo: il giogo soave di Cristo (Cf. Mt 11,30). Liberati dal peccato di cui erano schiavi, gli uomini vengono asserviti alla giustizia cui prima erano estranei (Cf. Rm 6,18). In questo modo è in loro il Cristo, colui che ha dato doni agli uomini, e in loro egli riceve doni tra gli uomini. Ecco perché in questa prigionia, in questa servitù, in questo cocchio, sotto questo giogo, non ci sono migliaia di piangenti ma migliaia di persone in festa. Perché in loro è il Signore, nel Sinai, nel santo. A questo significato si adatta anche l'altra interpretazione, secondo la quale Sinai significherebbe “ misura ”. L'Apostolo infatti, riferendosi a questi doni della gioia spirituale e parlando di ciò di cui sopra abbiamo fatto menzione, aggiunge: A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. E continua con le parole del nostro salmo: Per questo dice: È salito in alto, ha fatto prigioniera la prigionia, ha dato doni agli uomini, parole che qui invece leggiamo: Hai ricevuto doni tra gli uomini. Cosa c'è di più concorde che non queste due verità? Che cosa più evidente?

da prigionieri di Satana a prigionieri del Signore.

234 27. Ma cosa aggiunge poi il salmista? Difatti coloro che non credono di abitare; oppure (come recano alcuni codici): Difatti i non credenti d'abitare. Chi sono i non credenti se non coloro che non credono? Non è facile capire a chi si riferiscano queste parole. Sembrerebbe che esse siano state aggiunte per spiegare le parole precedenti: Hai fatto prigioniera la prigionia, hai ricevuto doni tra gli uomini, intendendo le persone che non credono e che perciò non possono abitare. Che significa questo? E a proposito di chi lo si dice? O vuole forse il salmista mostrare perché quella prigionia fosse malvagia, prima di diventare buona? Non credendo infatti, gli uomini erano posseduti dal nemico che agisce nei figli della malafede, tra i quali - dice l'Apostolo - foste un tempo anche voi, quando vivevate tra loro (Ep 2,2 Ep 3). Ebbene, con i doni della sua grazia, colui che ha ricevuto doni tra gli uomini ha fatto prigioniera questa prigionia. Essi non erano credenti in modo da poter abitare; ma la fede li ha liberati, in modo che, divenuti ormai credenti, abitino nella casa di Dio, fatti essi stessi casa di Dio e cocchio di Dio costituito da miriadi di beati.

28. [vv 20.21.] Il cantore di tante meraviglie, prevedendole in spirito, si sente anch'egli ricolmo di gioia e, prorompendo in un inno, dice: Il Signore Dio è benedetto. Sia benedetto il Signore Dio di giorno in giorno! Alcuni codici recano: Oggi e ogni giorno. I testi greci recano infatti: , il che più precisamente si tradurrebbe con die quotidie, cioè nel giorno e ogni giorno.Credo però che questa espressione significhi proprio quanto abbiamo detto: Di giorno in giorno. Infatti ogni giorno e sino alla fine Dio fa prigioniera la prigionia e riceve doni tra gli uomini.

La morte è da affrontarsi con pazienza.

29. E siccome conduce sino alla fine quel carro, continua il nostro salmo: Farà a noi lieto il cammino il Dio della nostra salute, il nostro Dio, il Dio che ci salva. È, questa, una frase che sottolinea fortemente l'influsso della grazia. Chi infatti sarebbe salvo, se egli non lo risanasse? Ma affinché non stiamo a chiederci perché dobbiamo morire dopo essere stati salvati dalla grazia, subito aggiunge: E del Signore è la fine, cioè, la morte. Come se dicesse: Perché ti indigni, tu che sei nato uomo, se la tua vita ha fine nella morte? Anche la fine del tuo Signore non fu altra se non la morte. Dovresti quindi consolarti piuttosto che indignarti: poiché anche del Signore fu fine la morte. È infatti nella speranza che siamo salvati; e, se speriamo ciò che non vediamo, lo aspettiamo con pazienza (Cf. Rm 8,24). Sopportiamo dunque pazientemente anche la morte, sull'esempio di colui che, pur non essendo debitore verso la morte per nessun peccato e pur essendo il Signore al quale nessuno toglie la vita perché è lui a darla spontaneamente, nonostante ciò, anche lui volle concludere con la morte la sua vita terrena.

Cristo, morto fra gli scherni tornerà a giudicare i superbi.

30. [v 22.] Dio schiaccerà la testa dei suoi nemici: la testa chiomata di coloro che camminano nei loro delitti, cioè di coloro che si inorgogliscono e vanno superbi delle loro colpe, mentre dovrebbero umiliarsene e dire: Signore, sii benigno con me che sono peccatore. Ma il Signore schiaccerà loro la testa, perché chi si esalta sarà umiliato (Lc 18,13 Lc 14). Veramente il Signore, sebbene anche lui abbia chiuso la vita con la morte, tuttavia, siccome egli è Dio (se infatti è morto secondo la carne, è morto perché l'ha voluto e non per necessità), per questa loro superbia schiaccerà la testa dei suoi nemici. Né soltanto di coloro che, prendendosi gioco del crocifisso e scuotendo il capo, dicevano: Se è Figlio di Dio, scenda dalla croce (Mt 27,40), ma anche di tutti coloro che si levano contro la sua dottrina e si prendono gioco della sua morte come se si trattasse della morte di un uomo. Quello stesso del quale si diceva un giorno: Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso! (Mt 27,42) è il Dio della nostra salvezza, il Dio che ci salva. Fu solo per offrirci un esempio di umiltà e di pazienza e per cancellare con il suo sangue il decreto di condanna dei nostri peccati, che volle anche lui morire; fu perché noi non avessimo più timore della morte corporale ma piuttosto di quell'altra morte da cui, morendo, egli ci ha liberati. Quanto a sé poi, egli, schernito e morto, schiaccerà la testa dei suoi nemici, a proposito dei quali dice: Risuscitami, e io renderò loro (Ps 40,11); sottintendendo “il bene al posto del male ” (la qual cosa ottiene quando piega a sé la testa del credente) ovvero “la pena in compenso della colpa” (la qual cosa si verifica quando col castigo colpisce la testa dei superbi). Sono questi i due modi con cui egli schiaccia e spezza le teste dei nemici e li fa precipitare dalla loro superbia: o quando mediante l'umiltà li fa ravvedere o quando li spedisce nel più profondo dell'inferno.

Condiscendenza divina e nostra conversione.

31. [vv 23.24.] Ha detto il Signore: Da Basan mi volgerò, oppure, come recano alcuni codici: Da Basan li convertirò. Si volge verso di noi, affinché siamo salvi, colui del quale sopra era detto: Il Dio della nostra salute, il Dio che ci salva (Ps 1 Ps 67,20 Ps 21). A lui altrove si dice: O Dio degli eserciti, volgiti verso di noi! Mostraci il tuo volto, e saremo salvi (Ps 79,20). Del pari, in un altro passo, si dice: Volgiti verso di noi, o Dio della nostra salute (Ps 84,5). Qui invece è detto: Da Basan li farò volgere. Basan significa “ confusione ”. Che significa, dunque, “ li farò volgere dalla confusione ”, se non che colui che scongiura la misericordia di Dio per ottenere il perdono, deve provare vergogna dei propri peccati? Come faceva quel pubblicano che non osava neppure levare gli occhi al cielo. Egli, guardandosi nell'intimo, si sentiva confuso ma se ne uscì giustificato, poiché son valide le parole del Signore: Da Basan li farò volgere. Basan significa anche “ siccità ”, e, in tal senso, il testo lo si applica molto opportunamente al fatto che il Signore converte coloro che sono nella siccità, cioè nella miseria. Infatti coloro che credono di essere nell'abbondanza, mentre sono affamati, o credono di essere colmi, mentre sono oltremodo vuoti, non si convertono. Beati infatti coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6). Di fra mezzo a questa siccità il Signore ci fa tornare indietro: dalla siccità dell'anima che faceva dire a un tale: Ho teso le mie mani verso di te; la mia anima è come terra senz'acqua davanti a te (Ps 142,6). Non sembra assurda nemmeno la lezione che recano gli altri codici: Da Basan mi volgerò. Si volge verso di noi colui che dice: Volgetevi a me, ed io mi volgerò a Voi (Za 1,3). E si volge a noi solo se siamo nella confusione, quando il nostro peccato è sempre dinanzi a noi (Cf. Ps 50,5), e nella siccità, per cui desideriamo la pioggia da colui che fa stillare per la sua eredità la pioggia volontaria. La sua eredità, nella siccità, si è indebolita; ma volgendosi a lei l'ha perfezionata colui al quale è detto: E volgendoti mi hai vivificato (Ps 70,20). Orbene, ha detto il Signore: Da Basan li farò volgere; li volgerò verso il profondo del mare. Se li farò volgere, perché verso il profondo del mare? Verso se stesso volge il Signore tutti coloro che fa volgere a salvezza; ma egli non è certamente il profondo del mare. O non ci ingannerà forse l'espressione latina in profundum, che qui starebbe al posto di profunde (= profondamente)? Difatti non è lui che si volge, ma volge a sé coloro che, per il peso dei peccati, giacciono sommersi nell'abisso di questo mondo. Quell'abisso di cui diceva quel tale che ne era stato liberato: Dalle profondità ho gridato a te, Signore (Ps 129,1). Se poi non fosse: Io farò volgere, ma: Io mi volgerò verso il profondo del mare, la frase si dovrebbe intendere del fatto che nostro Signore, nella sua misericordia, si volge anche al profondo del mare: vuole cioè liberare anche coloro che sono peccatori irrimediabilmente perduti. Tuttavia in un certo codice greco ho trovato non: Verso il profondo, ma Nelle profondità, cioè : il che confermerebbe la prima delle due interpretazioni, cioè che Dio, anche laggiù, chiama a sé coloro che da quelle profondità gridano a lui. Né sarebbe sballata l'interpretazione secondo la quale è lui a volgersi a tale profondità per liberare quelli che vi si trovano. Comunque, o che li faccia volgere a sé o che lui si volga verso di loro per liberarli, fatto sta che il suo piede sarà bagnato nel sangue. Dice infatti al Signore il profeta: Affinché il tuo piede sia bagnato nel sangue. E vuol dire: coloro che si convertono a te oppure coloro ai quali, anche se schiacciati dal peso dell'ingiustizia nell'abisso del mare, tu ti volgi per liberarli, potranno arricchirsi a dismisura della tua grazia, poiché dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia (Rm 5,20). Essi, annoverati fra le tue membra, saranno, per così dire, i tuoi piedi e annunzieranno il tuo Vangelo e combatteranno fino all'ultimo sangue, subendo un lungo martirio per il tuo nome. Infatti penso che questo sia il significato più esatto dell'espressione: Il suo piede intinto nel sangue.

Cani di Dio evangelizzatori.

32. Continua il salmo: La lingua dei tuoi cani, da nemici, per opera sua. Chiama cani quelli stessi che avrebbero combattuto fino all'ultimo sangue per la fede del Vangelo, quasi che latrassero in difesa del loro Signore. Non si tratta di quei cani di cui l'Apostolo dice: Guardatevi dai cani (Ph 3,2), ma piuttosto di quegli altri che mangiano le briciole che cadono dalla mensa dei loro padroni. Confessando questo, la cananea si meritò di udire: O donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come vuoi (Mt 15,28). Cani degni di lode, non di esecrazione. Cani che conservano la fedeltà al loro Signore e che latrano contro i nemici per difendere la sua casa. Non dice infatti soltanto dei cani ma dei tuoi cani; e non sono elogiati i loro denti ma la loro lingua. Così, non fu senza ragione né senza che vi si celasse un grande mistero, che Dio ordinò a Gedeone di scegliersi soltanto quei soldati che avevano lambito l'acqua del fiume con la lingua, come fanno i cani; e di questi tali, pur fra tanta folla, non ne furono trovati se non trecento (Cf. Jg 7,5 Jg 6). In questo numero è simboleggiato il segno della croce, perché il numero trecento in greco si indica con la lettera t. Di tali cani in un altro salmo si dice: Si convertiranno a sera e soffriranno la fame come cani (Ps 58,15). Ci sono, è vero, dei cani contro i quali inveisce il profeta Isaia, ma il suo rimprovero non è determinato dal fatto che sono cani ma perché sono incapaci di latrare e preferiscono sonnecchiare (Cf. Is 56,10). Da ciò si ricaverebbe che, se fossero stati svegli e avessero latrato in difesa del loro padrone, essi sarebbero stati cani degni di lode, come questi di cui si occupa il salmo e di cui è detto: La lingua dei tuoi cani. Il salmista inoltre prevede che questi cani sarebbero venuti di fra mezzo ai nemici attraverso quella conversione della quale prima ha parlato. Per questo si dice nell'altro salmo, già citato: Si convertiranno a sera, e soffriranno la fame come cani. Poi, come se gli chiedessimo donde deriva loro un bene così grande, che cioè siano diventati cani di colui del quale un tempo erano nemici, ci risponde: Ad opera di lui. Così infatti si legge: La lingua dei tuoi cani, da nemici, per opera di lui. Cioè: per il suo amore, per la sua misericordia, per la sua grazia. Come infatti avrebbero potuto conseguire un tal risultato da se stessi? Noi eravamo nemici e, se siamo stati riconciliati con Dio, lo è stato attraverso la morte del Figlio suo (Cf. Rm 5,10). Per questo anche al Signore occorse quella fine che fu la sua morte.

Il vecchio Testamento e l’annunzio apostolico.

235 33. [v 25.] Sono stati visti i tuoi passi, o Dio. Sono i passi con i quali il Signore ha raggiunto tutto il mondo muovendosi col cocchio profetico e spingendosi sino alle estremità della terra: passi che sono costituiti dai suoi santi e dai suoi fedeli, i quali nel Vangelo sono chiamati anche nubi, come ad esempio là dove si dice: Da adesso voi vedrete il Figlio dell'uomo che viene sulle nubi (Mt 26,64 Mc 13,26). Non si tratta qui di quell'avvento nel quale egli sarà giudice dei vivi e dei morti (Cf. 2Tm 4, l); dice infatti: Da adesso voi vedrete il Figlio dell'uomo venire sulle nubi. Questi tuoi passi sono stati visti (sono cioè comparsi pubblicamente) quando la grazia del Nuovo Testamento è stata rivelata. Per questo è detto: Quanto sono belli i piedi di coloro che annunziano la pace, che annunziano il bene! (Rm 10,15) Questa grazia e questi passi erano nascosti nel Vecchio Testamento; ma, quando è venuta la pienezza dei tempi ed è piaciuto a Dio rivelare il suo Figlio affinché fosse annunziato tra le genti (Cf. Ga 4,4), allora sono stati visti i tuoi passi, o Dio: i passi del mio Dio, del re che è nel santuario. In quale santuario se non nel tuo santo tempio? E l'Apostolo dice: Tempio santo di Dio siete voi (1Co 3,17).

34. [v 26.] Affinché poi questi passi fossero visibili, vennero come capifila i principi, con salmodianti, in mezzo alle donzelle che battevano i timpani. I principi sono gli Apostoli: essi vennero, primi fra tutti, affinché i popoli li seguissero. Vennero prima, annunziando il Nuovo Testamento. Insieme con i salmodianti, coloro cioè che con le opere buone visibili, come strumenti di lode, fecero sì che Dio fosse glorificato. Gli stessi principi sono poi in mezzo alle donzelle che battono timpani, che cioè esercitano un onorevole ministero. Così infatti stanno nel mezzo i ministri chiamati al governo delle nuove chiese, le quali sono rappresentate nelle donzelle. Esse lodano Dio dopo aver domato la carne, e a ciò allude la precisazione del battere i timpani. Questi timpani infatti si fanno col cuoio essiccato e disteso.

35. [v 27.] Effettivamente nessuno dovrà intendere queste parole in senso materiale, né pensare a danze lascive. A scanso di equivoci il seguito del salmo reca: Nelle chiese benedite il Signore. È come se dicesse: Perché, sentendo parlare di donzelle che battono i timpani, pensate a divertimenti sensuali? Nelle chiese benedite il Signore. Con questa raffigurazione mistica si descrivono infatti le chiese. Le chiese sono donzelle, in quanto adorne di nuova grazia; le chiese sono suonatrici di timpani: risonanti cioè nello spirito, dopo che hanno mortificato la carne. Ebbene: Nelle chiese benedite il Signore Dio dalle fonti di Israele. Da questo popolo infatti egli s'è scelto coloro che per primi avrebbe trasformato in fonti. Da Israele furono scelti gli Apostoli, ed essi per primi ascoltarono le parole: Chi avrà bevuto l'acqua che io darò non avrà sete in eterno, ma diverrà in lui fonte di acqua che sale fino alla vita eterna (Jn 4,13-14).

I martiri sono i veri principi della Chiesa.

36. [v 28.] Ivi Beniamino, il più giovane, nell'estasi. In lui si ha da vedere Paolo, l'ultimo degli Apostoli, il quale dice: Io sono un israelita della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino (Ph 3,5). Ma questo, proprio in un'estasi, poiché tutti rimasero sbigottiti di fronte al grande miracolo della sua vocazione. Estasi infatti significa “ alienazione mentale ”, la quale capita, ad esempio, quando si è colti da paura o anche, talvolta, quando si hanno delle rivelazioni. In tal caso la mente si svincola dai sensi del corpo e viene comunicato direttamente allo spirito ciò che forma l'oggetto della rivelazione. Le parole nell'estasi possono dunque essere interpretate in questa maniera. E una cosa del genere dovette capitare a Paolo quando, ancora persecutore, udì dal cielo le parole: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Egli, perduta la luce degli occhi carnali, rispondeva al Signore che vedeva in spirito; ma coloro che erano in sua compagnia udivano, sì, le sue risposte ma non vedevano con chi parlasse (Cf. Ac 9,4-7). Ci si potrebbe anche riferire a quell'estasi di cui egli stesso parla dicendo: Io so di un uomo che è stato rapito fino al terzo cielo (non so se nel corpo o al di fuori del corpo); so con certezza però che egli è stato rapito in paradiso e ha udito parole ineffabili, che all'uomo non è concesso dire (Cf. 2Co 12,2-4). Principi di Giuda, loro duci; principi di Zabulon, principi di Neftali. Col termine “principi” indica gli Apostoli; e veramente, siccome uno di questi principi è Beniamino, il più giovane, nell'estasi (e nessuno dubita che con queste parole voglia intendere Paolo), ne seguirebbe che col nome di principi siano indicati tutti coloro che nelle chiese sono costituiti in dignità e sono più degni di imitazione. Ma allora, che cosa vogliono dire questi nomi delle tribù di Israele? Se avesse fatto menzione soltanto di Giuda, dato che da questa tribù trassero origine i re e da essa è venuto Cristo Signore secondo la carne (Cf. Rm 9,5), potremmo ritenere che in tale tribù fossero raffigurati anche i principi del Nuovo Testamento. Ma, siccome si aggiunge: I principi di Zabulon, i principi di Neftali, qualcuno forse vorrà supporre che gli Apostoli appartenevano a queste tribù e non alle altre. Non vedo come si possa provare una simile tesi; tuttavia, poiché non ho di che confutarla e in questi passi vedo lodati i principi delle chiese e i corifei di quanti nelle chiese benedicono il Signore, ritengo come esatta anche questa interpretazione. Quanto a me però, preferisco quella che risulta dall'etimologia di questi nomi. Si tratta di nomi ebraici; e Giuda significa “ confessione ”, Zabulon “ ricettacolo della fortezza ”, Neftali “ larghezza mia ”. Questi significati ci stimolano a ricercare chi, nella Chiesa, siano davvero i principi di rango, degni di guidarci, degni di essere imitati, degni di onore. Costoro sono i martiri, che nella Chiesa tengono il primo posto ed eccellono per la gloria della santità e della dignità. Nel martirio però la prima cosa che si incontra è la confessione della fede, a cui segue la fortezza di cui ci deve armare per sopportare tutte le prove che seguiranno la confessione. Alla fine, dopo che si è sopportato tutto, terminate le angustie, si ottiene abbondante il premio. Tuttavia, siccome l'Apostolo raccomanda queste tre virtù: la fede, la speranza, la carità (Cf. 1Co 13,13), si potrà anche ritenere che la confessione debba essere nella fede, la fortezza nella speranza e la larghezza nella carità. Infatti nel suo contenuto specifico la fede consiste nel credere con il cuore per conseguire la giustizia, mentre con la bocca si fa la confessione che giova alla salvezza (Cf. Rm 10,10). Inoltre, finché ci sono da soffrire tribolazioni, la vita è triste, ma forte è la speranza. Se infatti speriamo in ciò che non vediamo, aspettiamolo con pazienza (Rm 8,25). Il diffondersi della carità nel nostro cuore ci dona la larghezza. Infatti la carità perfetta mette fuori il timore (1Jn 4,18): il quale timore, appunto, ci reca tormento e ci restringe l'anima. Ebbene, sono principi di Giuda i corifei di coloro che nelle chiese benedicono il Signore; e sono anche principi di Zabulon, principi di Neftali: principi della confessione, della fortezza, della larghezza; principi della fede, della speranza, della carità.

37. [v 29.] Manda, o Dio, la tua potenza. Uno è il Signore nostro Gesù Cristo, per opera del quale furono fatte tutte le cose, e anche noi siamo in lui (1Co 8,6); e proprio del Cristo leggiamo che è la potenza e la sapienza di Dio (Cf. 1Co 1,24). Ma in qual modo Dio manda il suo Cristo, se non rivelandocelo? Dio dà prova del suo amore verso di noi proprio in questo che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5,8). Come non ci avrà donato tutto, insieme con lui (Rm 8,32)! Manda, o Dio, la tua potenza! Conferma, o Dio, ciò che hai operato in noi. Manda istruendoci; conferma aiutando.

Le Scritture non vanno alterate.

38. [vv 30.31.] Dal tuo tempio in Gerusalemme ti offriranno doni i re. Dal tuo tempio in Gerusalemme, la città libera che è nostra madre (Cf. Ga 4,26), come è anche il tuo santo tempio. Da questo tempio dunque i re ti offriranno doni. A qualsiasi re ci si riferisca, sia ai re della terra, sia ai re che quel re del cielo distingue sopra la colomba argentata, i re ti offriranno doni. E quali saranno questi doni tanto graditi, se non i sacrifici di lode? Ma con questa lode sono in stridente contrasto quei tali che, pur avendo il nome di cristiani, nutrono sentimenti di discordia. Accada dunque quanto segue: Rimprovera le belve della penna. Sono infatti belve, perché fanno del male rifiutandosi di capire; e sono belve della penna, perché pervertono secondo il loro errore il senso delle Scritture. Molto opportunamente con “ penna ” si intendono le Scritture, come col vocabolo “ lingua ” si intende il modo di parlare e quindi si dice “ lingua ebraica ”, “ greca ” o “ latina ” o qualsiasi altra: usando cioè la causa per indicare l'effetto. In latino, ad esempio, usa molto chiamare la scrittura “ stilo ”, poiché è con lo stilo c e si scrive. In maniera analoga la si potrà chiamare “penna” qualora si scriva con la penna. L'apostolo Pietro dice che gli ignoranti e i volubili travisano il senso delle Scritture e in tal modo si procurano la rovina (Cf. 2P 3,16). Questi tali sono le belve della penna, di cui qui è detto: Rimprovera le belve della penna.

Gli eretici seducono le anime deboli. Le eresie hanno favorito la comprensione delle Scritture.

39. A costoro si riferiscono anche le parole che aggiunge: Mandria di tori in mezzo alle vacche dei popoli, affinché siano separati coloro che sono messi alla prova come l'argento. Li chiama “ tori ” per la superbia della loro testa dura e indomita (Cf. Ac 7,51), e si riferisce agli eretici. Nelle vacche dei popoli credo si debbano scorgere le anime che si lasciano sedurre, in quanto seguono con facilità quei tori. Non seducono infatti tutti gli uomini, dei quali un bel numero sono seri e fermi (di essi sta scritto: Nel popolo serio ti loderò (Ps 34,18)), ma seducono quei tali che nel popolo riscontrano simili a vacche. Dice l'Apostolo: Tra costoro ve ne sono alcuni che penetrano nelle case e accalappiano donnicciole cariche di peccati e trascinate da varie passioni: sempre allo studio e mai giunte alla conoscenza della verità (2Tm 3,6 2Tm 7). E quanto poté dire lo stesso Apostolo: È necessario che vi siano le eresie, affinché si possa conoscere quali di voi siano di provata virtù (1Co 11,19), lo stesso concetto è espresso anche qui con la frase: Affinché siano separati coloro che sono messi alla prova come argento, cioè coloro che furono messi alla prova dalla parola del Signore. Le parole del Signore infatti sono parole caste, come argento provato dal fuoco della terra (Ps 11,7). Il verbo Siano separati (cioè: vengano alla luce, emergano) equivale poi a quello dell'Apostolo: Si possa conoscere. Difatti nell'arte dell'oreficeria sono chiamati “ separatori ” coloro che dalla massa confusa sanno tirar fuori il vaso nella sua forma. In realtà molti significati delle sante Scritture rimangono occulti e solo pochi spiriti più acuti riescono ad afferrarli. Né vengono compresi o proposti in maniera agevole e comprensibile se non quando vi si è spinti dalla necessità di rispondere agli eretici. Allora infatti anche coloro che trascurano gli studi della dottrina, scosso il sonno, sono spinti ad ascoltare con diligenza per poter ribattere gli avversari. Quanti significati delle sante Scritture concernenti il Cristo-Dio sono stati messi in rilievo nel confutare Fotino! Quanti sul Cristo-uomo nella polemica contro Manicheo! Quanti ancora, a proposito della Trinità, nel polemizzare con Sabellio! E quanti, sull'unità della Trinità, confutando gli ariani, gli eunomiani e i macedoniani! Quante verità (concernenti la Chiesa cattolica diffusa in tutto il mondo, e la mescolanza dei buoni e dei cattivi nella Chiesa sino alla fine del mondo, e come non danneggi i buoni l'uso che degli stessi sacramenti fanno anche i cattivi) sono venute alla luce nella polemica contro i donatisti e i luciferiani e tutti gli altri (se ve ne sono!) che, con errori più o meno somiglianti, dissentono dalla verità! E quante altre interpretazioni ancora sono state pensate sotto la spinta della polemica con tanti altri eretici, che ora sarebbe troppo lungo elencare e menzionare o certo non rientrerebbe nei limiti di quest’opera! Anche agli assertori più qualificati molti di questi significati o sarebbero rimasti nascosti oppure non si sarebbero presentati così perspicui se non ci fossero state le contraddizioni dei superbi, di quei tori cioè che l'Apostolo presenta come non sottoposti al pacifico e leggero giogo della disciplina, là dove dice che il candidato all'episcopato deve essere capace di esortare alla sana dottrina e di rimproverare i contraddittori (Tt 1,9). Molti in realtà sono coloro che non si sottomettono; e costoro sono i tori che, nella superbia della loro cervice, non sopportano l'aratro e le cinghie. Sputano sentenze senza costrutto e seducono gli spiriti: quegli spiriti che il nostro salmo designa col nome di “ vacche ”. Orbene, a questo scopo la Provvidenza divina permette che i tori si riuniscano in mezzo alle vacche dei popoli, affinché siano separati (cioè emergano) coloro che sono messi alla prova come l'argento. A questo scopo, insomma, si consente l'esistenza delle eresie, affinché gli approvati siano manifesti. Tuttavia si potrebbe intendere anche così: Mandria di tori in mezzo alle vacche dei popoli, affinché da queste vacche siano separati coloro che sono stati provati come l'argento. Questa è infatti l'intenzione dei dottori eretici: dalle orecchie delle anime che intendono sedurre, essi vogliono allontanare (cioè staccare) coloro che, messi alla prova come l'argento, l'hanno superata: cioè coloro che sono in grado di insegnare le parole del Signore. Ad ogni modo, qualunque sia il vero significato di tale espressione, o il primo o il secondo, così continua: Disperdi le genti che vogliono le guerre. Costoro infatti non mirano a ravvedersi ma a litigare. Questo dunque profetizza il salmista: che quanti non vogliono correggersi e tentano di disperdere il gregge di Cristo, siano essi stessi dispersi. E li ha chiamati “ genti ” non per l'origine delle varie famiglie ma per la parentela tra le sette, nelle quali il succedersi delle generazioni conferma l'errore.

Il ministero della riconciliazione.

236 40. [vv 32-34.] Verranno ambasciatori dall'Egitto; l'Etiopia preverrà le sue mani. Col nome di Egitto o di Etiopia raffigura tutte le genti che accoglieranno la fede. Indica cioè il tutto con la parte, e col nome di “ ambasciatori ” designa i predicatori della riconciliazione. Dice l'Apostolo: Noi siamo ambasciatori da parte di Cristo, sicché Dio stesso vi esorta per mezzo nostro. Vi supplichiamo, in nome di Cristo, di riconciliarvi con Dio (2Co 5 2Co 20). Così fu misticamente profetizzato che non soltanto dagli israeliti, ove furono scelti gli Apostoli, ma anche dalle altre genti sarebbero sorti i predicatori della pace cristiana. Dicendo: Preverrà le sue mani, intende che preverrà la sua vendetta mediante la conversione a lui: quella conversione nella quale i peccati vengono perdonati e si evita così la punizione, che attende invece chi rimane in peccato. Lo stesso concetto è ribadito in un altro salmo: Preveniamo il suo volto nella confessione (Ps 94,2). Come nel primo testo con mani si indica la vendetta, così nell'altro con volto si indica la manifestazione e la presenza del Signore quale si avrà nel giudizio. E poiché con Egitto e con Etiopia ha voluto intendere le genti di tutto il mondo, subito aggiunge: A Dio i regni della terra. Non a Sabellio, non ad Ario, non a Donato, non a tutti gli altri “ tori ” che tengono alta la loro cervice; ma: A Dio i regni della terra.

La fede precede ogni opera meritoria. Annotazioni di filologia biblica.

41. Molti codici latini, per non dir nulla dei greci, dividono questo verso in modo che le parole: A Dio i regni della terra non appartengano a un solo versetto, ma a Dio sia la conclusione del versetto precedente. Si dovrebbe quindi leggere così: L'Etiopia preverrà le sue mani a Dio, e poi continuare col verso successivo: Regni della terra, cantate a Dio, salmodiate al Signore. Questa divisione, senza dubbio preferibile (dato che la maggior parte dei codici più autorevoli è in suo favore) mi sembra che contenga un richiamo ai valori della fede, in quanto essa precede le opere. Infatti l'empio viene giustificato dalla fede senza meriti di opere buone, come dice l'Apostolo: A chi crede in colui che giustifica l'empio, la sua fede è computata a giustizia (Rm 4,5). In un secondo momento, poi, la fede comincia ad operare attraverso l'amore. Se infatti è vero che opere buone possono dirsi solo quelle che si compiono per amore di Dio, sarà per forza necessario che la fede le preceda e che le opere traggano origine da questa, e non che la fede dipenda dalle opere. Nessuno infatti potrà agire per amore di Dio se prima non crede in Dio. Questa è la fede della quale è detto: In Cristo Gesù niente vale la circoncisione e niente l'incirconcisione; ma la fede che opera per mezzo dell'amore (Ga 5,6). Questa è la fede, a proposito della quale alla chiesa stessa nel Cantico dei cantici è detto: Verrai e passerai dall'inizio della fede (Ct 4,8 sec LXX). Viene come cocchio di Dio recante migliaia di persone festanti e, percorrendo il suo lieto cammino, passa da questo mondo al Padre (Cf. Jn 13,1). Realizza in se stessa ciò che le diceva lo sposo alla vigilia di passare da questo mondo al Padre: Voglio che dove sono io, siano anche costoro con me (Jn 17,24). Di tutto questo però l'inizio è la fede. Orbene, se è vero che le opere buone in tanto vengono in quanto la fede le precede e sono buone soltanto quelle opere che seguono la fede (la quale le precede), mi sembra che le parole: L'Etiopia preverrà le sue mani a Dio non vogliano dire altro se non che l'Etiopia crederà a Dio. Credendo infatti preverrà le sue mani, cioè le sue opere. E di chi saranno queste mani, se non della stessa Etiopia? È confermato dal greco, dove non c'è ambiguità poiché sue in greco è di genere femminile. Pertanto nel nostro versicolo (l'Etiopia preverrà le sue mani a Dio) non si dice altro se non che il credere in Dio precederà le opere del credente. Dice l'Apostolo: Io sono convinto che l'uomo è giustificato dalla fede senza le opere della legge. Poiché Dio è forse Dio soltanto dei giudei? Non lo è forse anche delle genti? (Rm 3,28 Rm 29) Pertanto l'Etiopia, che sembra essere la più remota fra le genti, è giustificata dalla fede, senza le opere della legge. Non ha infatti opere della legge di cui gloriarsi sì da poter essere giustificata. E neppure antepone alla fede i propri meriti, ma con la fede previene le sue opere. Molti codici non recano mani, ma mano; tuttavia il significato è identico, in quanto “ mano ” sta a posto di opere. Avrei preferito peraltro che gli interpreti latini avessero tradotto: L'Etiopia preverrà le sue proprie mani (manus suas), oppure: La sua propria mano (manum suam) a Dio. In questo modo infatti il senso sarebbe risultato più chiaro che non dicendo sue (eius). Una tale traduzione la si sarebbe potuta fare benissimo senza scapito della verità, poiché in greco il pronome  può significare non soltanto eius (sue) ma anche suam (sua propria) oppure suas (sue proprie); e, precisamente, “ sua propria ” se si riferisce a mano, “ sue proprie ” se si riferisce a mani. E la frase greca , che molti codici recano, può tradursi con manum eius (sua mano) e con manum suam (sua propria mano); come pure l'altra, che più raramente incontriamo nei codici greci, cioè , in latino si può rendere sia manus eius (sue mani) che manus suas (sue proprie mani).

Cristo giudice e rimuneratore.

42. A questo punto, percorsi profeticamente tutti gli eventi che noi vediamo già realizzati, ci esorta a lodare Cristo e quindi ne preannunzia la seconda venuta. Regni della terra, cantate a Dio, salmodiate al Signore. Salmodiate a Dio che sale ad oriente sopra il cielo dei cieli; oppure (come recano alcuni codici) che sale ad oriente sopra il cielo del cielo. In queste parole non scorge Cristo solo colui che non crede alla sua resurrezione e alla sua ascensione. Ma l'avervi aggiunto ad oriente, a cosa serve se non a precisare perfino il luogo ove egli risorse e ascese al cielo (il quale luogo si trova proprio nelle regioni dell'oriente)? sì certamente, egli siede sopra il cielo dei cieli alla destra del Padre. Questo è quanto dice l'Apostolo: Egli è colui che ascese sopra tutti i cieli (Ep 4,10). E quale altro cielo resterà dopo il cielo del cielo? Comunque sia, noi potremmo sempre chiamarli anche cieli dei cieli. Difatti, come troviamo che Dio chiamò “ cielo ” il firmamento, così troviamo che questo cielo è chiamato anche “ cieli ”, ad esempio là dove è scritto: E le acque che sono sopra i cieli lodino il nome del Signore (Ps 148 Ps 4). E poiché è di là che egli dovrà venire per giudicare i vivi ed i morti, osserva quanto segue: Ecco, darà la sua voce, voce della potenza. Colui che come agnello è stato senza voce dinanzi al tosatore (Is 53,7), ecco, darà la sua voce: non la voce della debolezza, come di colui che deve essere giudicato, ma la voce della potenza, come di chi giudicherà. Verrà infatti non come un Dio nascosto, come aveva fatto nella sua prima venuta, né se ne starà a bocca chiusa dinanzi al giudizio degli uomini; ma verrà come un Dio svelato. Il Dio nostro verrà e non tacerà (Ps 49,3). Perché dite che ogni speranza è vana, o infedeli? Perché ci schernite? Perché il servo malvagio seguita a brontolare tra sé: Il mio Signore tarda a venire (Lc 12,45)? Ecco, emetterà la sua voce, una voce di potenza.

Escatologia cristiana.

43. [v 35.] Date gloria a Dio! Sopra Israele è la sua grandezza (Ga 6,16). Ne parla l'Apostolo: Sopra l'Israele di Dio.Infatti non tutti coloro che traggono origine da Israele sono israeliti (Rm 9,6), essendoci anche un Israele secondo la carne, di cui è detto: Osservate Israele secondo la carne (1Co 10,18). Non tutti coloro che sono figli della carne sono però figli di Dio; ma solo i figli della promessa sono considerati discendenza (Rm 9,8). Orbene, quando il popolo di Dio non sarà più mescolato con i malvagi, quando sarà come la massa del grano vagliata dal ventilabro (Cf. Mt 3,12) o come un Israele esente da inganno (Cf. Jn 1,47), allora sarà più che mai palese la grandezza del Signore sopra Israele e la sua potenza nelle nubi. Egli infatti non verrà da solo al giudizio, ma verrà con gli anziani del suo popolo (Is 3,14). Coloro, cioè, ai quali ha promesso che sederanno sopra i troni per giudicare (Cf. Mt 19,28), e che giudicheranno anche gli angeli (Cf. 1Co 6,3). Queste sono le nubi.

44. [v 36.] Infine, affinché nelle nubi non si intenda qualcos'altro, aggiunge: Mirabile è Dio nei suoi santi, il Dio di Israele. Allora infatti si realizzerà completamente e veracemente quel nome di Israele che significa “ Colui che vede Dio ”: difatti noi lo vedremo come è (1Jn 3,2). Egli stesso, Dio benedetto, darà potenza e forza al suo popolo, al suo popolo che ora è fragile e debole. Abbiamo infatti questo tesoro in vasi di argilla (2Co 4,8). Allora invece, quando si sarà compiuta anche la gloriosa trasformazione dei nostri corpi, egli darà potenza e forza al suo popolo. Difatti, questo corpo, che è seminato nella debolezza, risorgerà nella potenza (1Co 15 1Co 43). Egli stesso dunque darà a noi quella virtù che ha già dato alla sua carne e che l'Apostolo chiama: La potenza della sua resurrezione (Ph 3,10) e la fortezza con la quale verrà distrutta quella nemica che è la morte (1Co 15,26). Così abbiamo finalmente terminato con l'aiuto di Dio questo salmo assai lungo e difficile a comprendersi. Benedetto Iddio! Amen.


Agostino Salmi 67