Sant'Agostino - La Trinità 1400

LIBRO QUATTORDICESIMO

La sapienza è il culto di Dio

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Ora dobbiamo trattare della sapienza, non di quella di Dio che senza alcun dubbio è Dio, perché sapienza di Dio è chiamato il suo Figlio unigenito 1, ma parleremo della sapienza dell'uomo, però della vera, che è secondo Dio, e che è il vero e principale culto reso a lui, che i Greci chiamano con una sola parola . Questo termine i Latini, come ho ricordato, volendo tradurlo anch'essi con una sola parola, l'hanno tradotto con pietas, benché la pietas sia chiamata più ordinariamente dai Greci , ma , poiché non si può rendere nel suo pieno significato con una sola parola, è meglio tradurla con due parole e dire di preferenza "culto di Dio". Che questa sia la sapienza dell'uomo, come ho stabilito già nel libro XII di quest'opera 2, ce lo dimostra l'autorità della Sacra Scrittura, nel libro del servo di Dio Giobbe, dove si legge che la sapienza di Dio ha detto all'uomo: Ecco: la pietà è sapienza; astenersi invece dal male è scienza 3; o ancora, secondo la traduzione che alcuni fanno del greco , è disciplina, termine che deriva certamente da discere (imparare), e per questo si può anche chiamare "scienza", perché qualsiasi cosa si apprenda, lo si fa per saperla 4. Tuttavia il termine disciplina è usato di solito in un'altra accezione: designa i mali che ciascuno, a motivo dei suoi peccati, sopporta per emendarsi. Per questo si legge nell'Epistola agli Ebrei: Qual è il figlio al quale il padre non applichi la disciplina? E più chiaramente nella stessa Epistola: Ma ogni disciplina sembra dapprima causa di dolore e non di gioia; tuttavia in seguito produrrà, in coloro che per mezzo di essa hanno combattuto, frutti di pace e di giustizia 5. È dunque Dio stesso la sapienza suprema, invece il culto di Dio è la sapienza dell'uomo, sapienza di cui ora parliamo. Infatti: La sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio 6. Di questa sapienza, che è culto di Dio 7, parla la Scrittura quando dice: La moltitudine dei sapienti è la salvezza del mondo 8.

Il filosofo amico della sapienza

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Ma se è privilegio dei sapienti discutere della sapienza 9, che faremo noi? Oseremo far professione di sapienza per non arrossire nel discutere su di essa? Non saremo trattenuti dall'esempio di Pitagora? Questi, non avendo osato dirsi saggio, preferì dirsi filosofo, cioè amico della sapienza; la parola "filosofo", che trae origine da lui, ebbe in seguito presso coloro che vennero dopo di lui tanto successo, che nessuno, per quanto eminente apparisse ai suoi occhi o agli occhi degli altri per l'ampiezza delle sue conoscenze riguardanti la sapienza, non ricevette altro nome che quello di filosofo 10. Se dunque nessuno di questi uomini osava dirsi sapiente, è perché forse pensavano che il sapiente è senza peccato? Ma non dicono questo le nostre Scritture, che affermano: Riprendi il sapiente e ti amerà 11. Certamente giudicano peccatore colui che ritengono che si debba riprendere. Tuttavia nemmeno in questo senso io oso dichiararmi sapiente; mi basta sapere - e questo nemmeno gli antichi lo possono contestare - che è compito anche del filosofo, cioè di colui che ama la sapienza, discutere circa la sapienza. Non hanno fatto a meno di far questo essi, che si sono proclamati amici della sapienza, piuttosto che sapienti.

Scienza e sapienza

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Discutendo intorno alla sapienza, la definirono così: La sapienza è la scienza delle cose umane e divine 12. Per questo anch'io, nel libro precedente, non ho mancato di dire che si poteva chiamare sapienza e scienza la conoscenza delle une e delle altre cose, cioè delle cose divine ed umane 13. Ma la distinzione che fa l'Apostolo, quando dice: Ad uno è dato il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza 14, ci invita a dividere questa definizione, così da chiamare propriamente sapienza la scienza delle cose divine e riservare propriamente il nome di scienza alla conoscenza delle cose umane. Di questa ho trattato nel libro XIII, non attribuendo certamente alla scienza tutto ciò che l'uomo può sapere circa le cose umane, in cui si trova tanta vanità superflua e pericolosa curiosità, ma solo la conoscenza che genera, nutre, difende e fortifica la fede supremamente salutare, che conduce l'uomo alla vera beatitudine, scienza che non possiedono in modo vigoroso molti fedeli, sebbene sia assai vigorosa la loro fede. Infatti altro è sapere appena quello che un uomo deve credere per conseguire la vita beata, la quale non può essere se non eterna, altro è saperlo in tal modo da metterlo a profitto dei buoni e da difenderlo contro i cattivi 15; questa sembra che sia in senso proprio la scienza di cui parla l'Apostolo 16. Pertanto, prima di essa, mi sono preoccupato di raccomandare particolarmente la fede, distinguendo anzitutto in poche parole le cose temporali dalle eterne, e ho trattato allora delle cose temporali, riservandomi di parlare delle eterne in questo libro 17. Ho mostrato che la fede concernente le stesse cose eterne appartiene al tempo ed abita temporalmente nei cuori dei credenti, ma che è necessaria tuttavia, per attingere le cose eterne stesse 18. Ma ho spiegato anche l'utilità, per il conseguimento delle cose eterne, della fede circa le cose temporali che per noi ha compiuto l'Eterno ed ha patito nella sua umanità, umanità che ha creato nel tempo e che ha promosso all'eternità; ed ho spiegato che le virtù stesse che ci fanno vivere con prudenza, fortezza, temperanza e giustizia, durante questa vita temporale e mortale, non sono vere virtù se non sono rapportate a questa medesima fede, che, sebbene temporale, conduce alle cose eterne.

La trinità della fede non è immagine di Dio

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Perciò, poiché è scritto: Mentre siamo nel corpo peregriniamo lontani dal Signore, perché camminiamo per fede, non per visione 19, fino a quando il giusto vive di fede 20, sebbene viva secondo l'uomo interiore 21 e per mezzo di questa medesima fede temporale si sforzi di attingere alla verità e tendere alla Verità eterna, tuttavia nel possesso, nella contemplazione, nell'amore di questa stessa fede temporale non si trova ancora una trinità che si debba chiamare immagine di Dio; non bisogna ritenere che sia posta nelle cose temporali un'immagine che deve essere posta nelle cose eterne. Infatti lo spirito umano, quando vede la sua fede, con la quale crede ciò che non vede, non vede qualcosa di eterno. Non è infatti eterno ciò che cesserà di esistere quando, al termine di questa peregrinazione in cui viaggiamo lontani dal Signore - per cui è necessario che camminiamo nella fede -, succederà la visione, con cui contempleremo a faccia a faccia 22; ed è così che, sebbene ora non vediamo, tuttavia, poiché crediamo, meriteremo di vedere e godremo di essere stati condotti per mezzo della fede alla visione 23. Infatti non ci sarà più allora la fede con la quale crediamo ciò che non vediamo, ma la visione con cui si vede ciò che si credeva. Allora dunque, anche se ci ricorderemo di questa vita mortale che sarà passata e ci ricorderemo di un tempo in cui credevamo ciò che non vedevamo, tuttavia questa fede sarà annoverata tra le cose passate e finite, non tra le cose presenti e che restano sempre. Per questo anche questa trinità che ora consiste nella memoria, nella visione e nell'amore della fede, che è presente e perdura, ci accorgeremo allora che è finita e passata, che non dura sempre. Se dunque questa trinità è già immagine di Dio, si deve concludere che anche questa immagine si trova non nelle cose eterne, ma nelle cose che passano.

Soluzione di una difficoltà

Ma


si tratta di un'ipotesi inammissibile, perché se l'anima, per natura, è immortale né cessa di esistere dal momento in cui è stata creata, è impossibile che ciò che vi è di migliore in essa non duri quanto essa, che è immortale. Ora che c'è di migliore in essa del fatto di essere stata creata ad immagine del suo Creatore 24? Non è dunque nel possesso, nella contemplazione, nell'amore della fede, che non esisterà sempre, ma in ciò che esisterà sempre che dobbiamo trovare ciò che si deve chiamare immagine di Dio.

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Dobbiamo scrutare ancora più diligentemente e profondamente se in realtà è così? Si può infatti obiettare che non perisce questa trinità, anche quando la fede sarà scomparsa, perché, come ora la conserviamo nella memoria, la vediamo con il pensiero, l'amiamo con la volontà, così anche allora, quando la conserveremo nella memoria come una cosa passata, e ce ne ricorderemo e uniremo queste due operazioni con quel terzo termine che è la volontà, rimarrà questa stessa trinità. Perché se il suo passaggio non ha lasciato in noi nulla che ne sia come un vestigio, è certo che nella nostra memoria non resterà nulla cui ricorrere, quando vorremo ricordare questa fede passata e unire con l'attenzione, che costituisce il terzo, questi due termini, ossia ciò che esisteva nella memoria, quando noi non vi pensavamo, e la rappresentazione che se ne forma il pensiero. Ma chi afferma questo non distingue la trinità che esiste ora, quando possediamo, vediamo, amiamo la fede presente in noi, da quella che esisterà allorquando non ci sarà più la fede, ma come il suo vestigio, esistente sotto forma di immagine nel segreto della memoria, che contempleremo con l'atto del ricordo e uniremo con la volontà, che costituisce il terzo, questi due termini, cioè quanto esisteva nella memoria di colui che conserva tale vestigio e ciò che si imprime nello sguardo di colui che ricorda tale realtà. Per comprendere ciò prendiamo un esempio dalle realtà corporee, delle quali abbiamo sufficientemente trattato nel libro XI 25. Ascendendo dalle cose inferiori alle superiori, o entrando dalle cose esteriori a quelle interiori, abbiamo trovato una prima trinità formata dal corpo percepito, dallo sguardo del soggetto, che quando percepisce è informato dal corpo, dall'attenzione della volontà che unisce l'uno all'altro. Costituiamo una trinità simile a questa, a partire dalla fede presente attualmente in noi; come il corpo è situato in un luogo determinato, così la fede è nella nostra memoria; essa informa il pensiero di colui che se ne ricorda, come il corpo informa lo sguardo di colui che vede; a questi due elementi, affinché si completi la trinità, se ne aggiunge un terzo, la volontà, che connette e congiunge la fede presente nella memoria e una sua immagine impressa nello sguardo del ricordo, allo stesso modo che, nella trinità della visione corporea, l'attenzione della volontà unisce la forma del corpo veduto e l'immagine che se ne produce nello sguardo di chi guarda. Supponiamo dunque che il corpo che si vedeva sia scomparso, sia svanito, che non ne resti in nessuna parte alcuna traccia a cui possa ricorrere la vista per vederlo: forse perché permane nella memoria l'immagine dell'oggetto scomparso e passato dalla quale è informato lo sguardo di chi pensa, e la volontà, come terzo termine, congiunge l'uno all'altra, si deve dire che questa trinità è la stessa che c'era quando si contemplava la configurazione del corpo posto in un luogo determinato? Certamente no, è una trinità totalmente diversa, perché, a parte il fatto che la prima era esteriore e la seconda interiore, la prima aveva certamente come punto di partenza la configurazione del corpo presente, questa l'immagine del corpo scomparso. Così pure nel caso di cui ora ci occupiamo e per il quale abbiamo ritenuto utile ricorrere a quell'esempio: la fede attualmente presente nella nostra anima, come l'oggetto in un luogo, fintantoché è conservata, veduta, amata, costituisce una certa trinità; ma tale trinità cesserà quando questa fede non sarà più nell'anima, come cessa quando l'oggetto non è più nel luogo in cui si trovava. La trinità che si avrà, quando ci ricorderemo che la fede fu in noi ma non c'è più, sarà certamente diversa. Quella che esiste ora infatti procede da una realtà presente e fissata nell'anima del credente; quella che esisterà allora, procederà dall'immagine di una realtà passata, lasciata nella memoria di colui che ne evoca il ricordo.

L'immagine di Dio va trovata nell'anima immortale dell'uomo, in cui è immortalmente impressa

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Non dunque quella trinità, che ora non esiste, sarà immagine di Dio; nemmeno questa, che un giorno non esisterà più, ma è nell'anima umana, razionale ed intelligente, che bisogna trovare l'immagine del Creatore, immortalmente incisa nella sua immortalità. Infatti, come è in un certo senso che si parla di immortalità dell'anima, perché anche l'anima può morire, quando è priva della vita beata, che si deve chiamare veramente vita dell'anima, ma si dice immortale perché, qualunque sia la sua vita, fosse pure la più miserabile, non cessa mai di vivere, così benché la ragione o l'intelligenza sia talvolta in essa assopita, talvolta appaia grande, talvolta piccola, tuttavia giammai l'anima umana cessa di essere razionale e intelligente. Perciò se essa è stata fatta ad immagine di Dio 26, nel senso che può far uso della ragione e dell'intelligenza per comprendere e vedere Dio, è evidente che, dal momento in cui ha incominciato ad esistere una così grande e meravigliosa natura, sia che questa immagine sia talmente logorata da non esistere quasi più, sia che sia ottenebrata e sfigurata, sia che sia chiara e bella, non cessa di essere. Finalmente è compassionando la deformazione della sua dignità che la Scrittura dice: Benché l'uomo cammini nell'immagine, tuttavia si agita invano; egli accumula senza sapere per chi raccoglie 27. La Scrittura non attribuirebbe così la vanità all'immagine di Dio, se non vedesse che ha perduto la sua forma. Questa deformazione tuttavia non giunge al punto da far scomparire l'immagine, come lo mostra sufficientemente la Scrittura dicendo: Benché l'uomo cammini nell'immagine 28. Per questo si può, senza falsarne il senso, enunciare questa frase invertendo le proposizioni; invece di dire: Sebbene l'uomo cammini nell'immagine, tuttavia si agita invano, si può dire: "Benché l'uomo si inquieti invano, tuttavia cammina nell'immagine". Infatti, sebbene la sua natura sia grande, tuttavia ha potuto essere viziata, perché non è la natura suprema e, benché abbia potuto essere viziata, in quanto non è la natura suprema, tuttavia in quanto è capace e può essere partecipe della natura suprema, è una natura grande. Cerchiamo dunque in questa immagine di Dio una specie di trinità nel suo genere con l'aiuto di Colui che ci ha fatti a sua immagine 29. Perché non possiamo in un modo diverso proseguire questa ricerca in maniera salutare, né scoprire qualche verità in conformità alla sapienza che deriva da lui. Ma se il lettore conserva nella sua memoria e ricorda ciò che abbiamo detto dell'anima umana e dello spirito nei libri precedenti, soprattutto nel libro X, o se rileggerà con diligenza i passi in cui queste riflessioni sono state espresse, non desidererà qui un discorso troppo prolisso su un argomento tanto importante.

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Abbiamo dunque detto, tra le altre cose, nel libro X, che lo spirito dell'uomo conosce se stesso 30. Infatti non c'è nulla che lo spirito conosca altrettanto bene come ciò che gli è presente e nulla è più presente allo spirito che lo spirito a se stesso. Abbiamo portato altri argomenti, per quanto ci sembrava necessario, per stabilire questa verità con la più grande certezza.

Lo spirito del fanciullo ha coscienza di sé?

Che


si deve dunque dire dello spirito del bambino, ancora così piccolo e ancora immerso in una così grande ignoranza delle cose, che lo spirito dell'uomo, che possiede qualche conoscenza, freme di fronte alle tenebre di questo spirito? Bisogna credere che anch'esso conosce se stesso ma che, troppo attento agli oggetti delle sensazioni corporee che incomincia a sentire con un piacere tanto più grande, quanto è più nuovo, se non può ignorare se stesso, non può tuttavia pensare se stesso? Con quanta avidità esso si porti verso gli oggetti sensibili che sono all'esterno, si può congetturare anche da questo solo fatto: esso desidera così vivamente di captare la luce che, se qualcuno per poca cautela, o ignorando ciò che a causa di questo possa accadere, ponga di notte una luce sulla culla ove giace un bambino, in un posto verso cui il bambino, dalla sua culla, possa volgere gli occhi senza poter piegare il collo, il bambino non ne staccherà lo sguardo, e ne abbiamo conosciuti alcuni che in questo modo sono diventati strabici, conservando i loro occhi quella conformazione che l'abitudine ha in qualche modo fissato in essi, quand'erano teneri e delicati. La stessa cosa vale per gli altri sensi corporei; le anime dei piccoli, per quanto lo permette quell'età, concentrano per così dire la loro attenzione sui sensi in tal maniera che solo ciò che li incomoda o diletta nella loro carne provoca una violenta repulsione e un violento desiderio; ma non pensano alle realtà interiori che sono in essi e non si può consigliarli che lo facciano, perché non conoscono ancora i segni di chi li consiglia, fra i quali le parole occupano il primo posto; ma i piccoli le ignorano totalmente come tutti gli altri segni. Ora che sia una cosa non conoscersi e un'altra non pensarsi, l'abbiamo mostrato nello stesso libro 31.

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Ma lasciamo da parte questa età che non si può interrogare su ciò che in essa accade e che noi stessi abbiamo totalmente dimenticato. Ci basterà sapere con certezza che, quando l'uomo potrà riflettere sulla natura della sua anima e trovare la verità, non la troverà altrove, ma in se stesso. Ora troverà non ciò che ignorava, ma ciò a cui non pensava. Che sappiamo infatti se non sappiamo ciò che è nel nostro spirito, dato che, tutto ciò che sappiamo, non lo possiamo sapere che con lo spirito?

La trinità della coscienza di sé

Tuttavia


così grande è la forza del pensiero, che lo spirito stesso, in qualche modo, non si pone sotto il proprio sguardo che quando pensa se stesso. Così, dunque, nulla cade sotto lo sguardo dello spirito se non ciò a cui esso pensa, cosicché lo spirito stesso, con cui si pensa tutto ciò che è pensato, non può cadere sotto il suo sguardo se non pensando se stesso. Come possa accadere che, quando non pensa se stesso, lo spirito non cada sotto il suo sguardo - dato che non può mai essere separato da se stesso, come se esso e lo sguardo che ha di sé fossero cose differenti - è cosa che non posso comprendere. Si può affermare questo, senza cadere nell'assurdo, dell'occhio del corpo, perché l'occhio occupa un posto fisso nel corpo, ma il suo sguardo tende verso le cose che sono al di fuori e si estende fino agli astri. Ma l'occhio non cade sotto il suo sguardo, perché non vede se stesso, se non in uno specchio, come ho già detto 32. Ma non è affatto il caso dello spirito, quando si pone sotto il suo sguardo con il pensiero. Dunque vede esso una parte di sé con un'altra parte di sé, quando si vede pensandosi, allo stesso modo che con quegli organi corporei che sono i nostri occhi guardiamo altre nostre membra, che possono cadere sotto il nostro sguardo? Che si può pensare od affermare di più assurdo? Da che cosa si ritrae lo spirito, se non da se stesso? Dove è posto sotto il suo sguardo, se non di fronte a sé? Esso non sarà più dunque dove era, quando non stava in presenza di se stesso, perché, se è stato posto qui, è stato tolto di là. Ma se per essere visto si è spostato, dove resterà per vedersi? O può forse godere di una bilocazione così da essere qui e là; qui per vedere, là per essere visto; in sé, soggetto contemplante, davanti a sé, oggetto contemplato? La verità, se la si interroga, non ci risponde nulla di simile, perché quando pensiamo in questo modo, pensiamo soltanto false immagini materiali, e che lo spirito non è nulla di questo è cosa assolutamente certa per pochi spiriti, presso i quali si può cercare la verità su questo argomento. Perciò non resta che affermare che è un qualcosa che appartiene alla natura dello spirito il vedere se stesso e, quando pensa se stesso, il ritornare su di sé, non mediante un movimento spaziale, ma con una conversione immateriale 33. Ma quando non pensa se stesso, certamente non vede se stesso e non informa di sé il suo sguardo, ma ciononostante si conosce come se fosse a se stesso la memoria di sé. È come ciò che accade ad un uomo che possiede molte conoscenze: le cose che conosce le ha nella sua memoria, ma soltanto quelle che sono oggetto del suo pensiero attuale sono sotto lo sguardo dello spirito, le altre sono nascoste in una specie di sapere misterioso, che si chiama memoria. Di qui la trinità che presentavamo nel modo seguente: ciò che, presente nella memoria, informa lo sguardo di chi pensa; la forma che lo riproduce, come l'immagine impressa a partire dalla memoria; ciò che unisce invece l'uno all'altra: l'amore o la volontà. Quando perciò lo spirito si vede con il pensiero, si comprende e si riconosce; esso genera dunque questa intelligenza e questa conoscenza di sé. Una realtà immateriale infatti è vista se è compresa, e viene conosciuta comprendendola. Ma lo spirito, quando, pensandosi, si vede per mezzo dell'intelligenza, non genera certo in tal modo la conoscenza implicita di sé, come se prima fosse sconosciuto a se stesso; mentre era noto a se stesso, alla stessa maniera che sono note le cose che sono contenute nella memoria, sebbene non siano pensate; diciamo infatti che un uomo conosce le lettere anche quando non pensa alle lettere, ma ad altre cose. Queste due conoscenze, quella che genera e quella che è generata, sono unite da un terzo termine, la dilezione, che non è altro che la volontà la quale appetisce e possiede qualcosa per fruirne. È dunque ancora per mezzo di queste tre parole, riteniamo, che si deve dare un'idea della trinità dello spirito: memoria, intelligenza, volontà 34.

Diversità tra il conoscersi ed il pensare sé: lo spirito si ricorda sempre di sé, sempre si conosce e si ama

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Ma poiché abbiamo detto verso la fine del libro X che lo spirito si ricorda sempre di sé, che esso sempre si comprende e si ama, sebbene non si pensi sempre come distinto dalle cose che non sono ciò che esso è 35, bisogna indagare in che senso l'intelligenza appartenga al pensiero e d'altra parte in che senso si dica che la conoscenza (notitia) di tutto ciò che è nello spirito, anche quando esso non vi pensa, appartenga alla memoria. Se infatti è così, lo spirito non possedeva queste tre cose: la memoria, l'intelligenza, e l'amore di sé; aveva soltanto la memoria di sé, ed è in un secondo momento, quando incomincia a pensarsi, che ha intelligenza e amore di sé.

Consideriamo


dunque con maggiore attenzione l'esempio addotto, con l'aiuto del quale abbiamo mostrato che una cosa è il non conoscere una realtà, altra cosa il non pensarla; e che può accadere che un uomo conosca qualcosa a cui non pensa, quando il suo pensiero è fisso su un altro argomento, non su quello. Perciò un uomo, versato in due o più scienze, quando pensa ad una, conosce tuttavia l'altra, o le altre, anche se non vi pensa. Ma possiamo forse essere nel giusto, se affermiamo: "Questo musicista conosce certamente la musica, ma ora non la comprende, perché non pensa ad essa; comprende invece ora la geometria, perché vi pensa"? Questa frase è assurda, per quel che mi pare. Che dire ora di questa frase: "Questo musicista conosce certamente la musica, ma ora non la ama, fin quando non vi pensa; ama ora invece la geometria, perché pensa ad essa"? Tale frase non è forse ugualmente assurda? Invece è perfettamente giusto affermare: "Quest'uomo che vedi discutere di geometria, è anche un perfetto musicista; infatti, e ricorda quella scienza e la comprende e l'ama; ma, sebbene la conosca e l'ami, ora non vi pensa, perché pensa alla geometria della quale discute". Questo esempio ci rivela che abbiamo, nel segreto dello spirito, delle conoscenze di alcune cose, che in qualche modo vengono in piena luce e si situano con maggior chiarezza sotto lo sguardo dello spirito, quando vi pensiamo; è allora infatti che lo spirito si accorge che ricordava, comprendeva e amava anche ciò cui non pensava, quando pensava ad altro. Ma quanto alle cose a cui non abbiamo pensato per lungo tempo e alle quali non siamo capaci di pensare senza esservi incitati, non so per qual mistero dello stesso genere accade che, se posso dirlo, non sappiamo che le sappiamo. Finalmente quando un uomo invita un altro a ricordarsi di qualche cosa ha ragione di dirgli: "Tu sai questo, ma non sai di saperlo; te lo ricorderò e scoprirai che sapevi ciò che credevi di non sapere" 36. La stessa funzione la possono svolgere i libri, quando trattano di cose di cui il lettore, sotto la guida della ragione, scopre la verità; non quelle che egli ritiene vere basandosi sulla testimonianza dello scrittore, come accade per la storia, ma quelle che scopre vere lui stesso, sia guardando in se stesso, sia guardando in quella verità che è la guida dello spirito. Colui che, anche quando si attira su di esse la sua attenzione, è incapace di comprendere queste cose, per un grande accecamento del cuore è immerso più profondamente nelle tenebre dell'ignoranza ed ha bisogno di un aiuto divino più straordinario per giungere alla vera sapienza.

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Ecco perché ho voluto dare alcuni esempi circa il pensiero, al fine di poter mostrare come il contenuto della memoria informi lo sguardo di chi ricorda, e come si generi, quando l'uomo pensa, un qualcosa del tutto simile a ciò che si trovava, prima che pensasse, nella sua memoria; perché è più facile distinguere i due momenti, quando la conoscenza si produce nel tempo, e quando ciò che genera precede di un certo periodo di tempo ciò che è generato. Se infatti ci riferiamo alla memoria interiore con cui lo spirito si ricorda di sé, all'intelligenza interiore con cui comprende se stesso, alla volontà interiore con cui ama se stesso, in questo centro in cui queste tre sono sempre insieme, sono sempre state insieme dal momento in cui hanno incominciato ad esistere, sia che fossero pensate, sia che non lo fossero, apparirà senza dubbio che l'immagine della trinità appartiene pure alla sola memoria; ma, poiché nello spirito non vi può essere verbo senza pensiero (perché tutto ciò che diciamo, sia pure con quel verbo interiore che non appartiene ad alcuna lingua, è frutto del pensiero), riconosciamo che questa immagine si trova piuttosto in quelle tre facoltà: la memoria, l'intelligenza, la volontà. Quella che ora chiamo intelligenza, è quella con cui comprendiamo quando pensiamo, cioè quando il nostro pensiero è informato da ciò che scopriamo presente nella memoria, ma non era pensato; e quella che chiamo volontà, amore o dilezione, è il principio che unisce il termine generato a quello che genera, ed è in qualche modo comune all'uno e all'altro. Così ho potuto, ricorrendo pure agli oggetti esteriori e sensibili che i nostri occhi di carne percepiscono, servire da guida ai lettori di rude ingegno, nel libro XI 37; e poi ho potuto addentrarmi con essi in quella potenza dell'uomo interiore con la quale si ragiona circa le cose temporali, rimandando a più tardi lo studio di quella potenza che ha il dominio supremo e contempla le cose eterne; ho consacrato a questo argomento due libri: il dodicesimo, in cui ho distinto queste due potenze, di cui l'una è superiore, l'altra è inferiore e deve essere sottomessa alla prima; il tredicesimo, in cui ho trattato della funzione di questa potenza inferiore, che comprende la scienza salutare delle cose umane, per consentirci, in questa vita temporale, di compiere ciò che ci conduce a quella eterna; l'ho fatto con la maggiore verità e concisione possibili, perché ho concentrato negli stretti limiti di un solo libro una materia così complessa ed abbondante, molte volte trattata in discussioni numerose e celebri da uomini non meno numerosi e celebri, mostrando anche in questa potenza inferiore l'esistenza di una trinità, ma che non è ancora quella che bisogna chiamare immagine di Dio.

L'immagine di Dio si deve cercare nella parte superiore dello spirito umano

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Eccoci giunti ora nella nostra ricerca alla fase in cui abbiamo intrapreso a considerare, per scoprirvi l'immagine di Dio 38, la parte più nobile dello spirito umano, parte con la quale esso conosce o può conoscere Dio. Sebbene infatti lo spirito umano non sia della stessa natura di Dio, tuttavia l'immagine di quella natura che è superiore ad ogni altra deve essere cercata e trovata presso di noi, in ciò che la nostra natura ha di migliore. Ma si deve considerare lo spirito in sé, prima che esso sia partecipe di Dio, e scoprirvi l'immagine di lui. Anche quando lo spirito, abbiamo detto 39, è degradato e deforme per la perdita della partecipazione a Dio, resta tuttavia immagine di Dio; perché esso è immagine di Dio in quanto è capace di Dio e può essere partecipe di lui. Un bene così grande non è possibile se non in quanto lo spirito è immagine di Dio. Ecco dunque che lo spirito si ricorda di sé, si comprende, si ama: se contempliamo ciò, vediamo una trinità, che non è certo ancora Dio, ma già è immagine di Dio. Non è dal di fuori che la memoria ha ricevuto ciò che deve conservare, né è dal di fuori che l'intelletto ha trovato ciò che deve contemplare, come fa l'occhio del corpo; né questi due elementi la volontà li ha uniti all'esterno, come unisce la forma del corpo alla forma che la riproduce nello sguardo di chi vede, né, quando il pensiero si è volto verso la memoria, vi ha trovato l'immagine di una cosa vista al di fuori, trasportata in qualche modo nel segreto della memoria per informare lo sguardo di colui che ricorda, mentre la volontà, come terzo elemento, unisce l'uno all'altro. Ciò accade, come abbiamo mostrato, nelle trinità che scoprivamo nelle realtà corporee, o che dai corpi si introducono in qualche modo all'interno per mezzo dei sensi corporei. Di tutto ciò abbiamo trattato nel libro XI 40. Qui non accade nemmeno ciò che accadeva o ci appariva quando trattavamo della scienza, che già è situata tra le potenze dell'uomo interiore e che abbiamo dovuto distinguere dalla sapienza. Ciò che si apprende con la scienza è nell'anima come un qualcosa di avventizio: sia che si tratti dell'apporto delle conoscenze storiche, come i fatti e i detti che accadono nel tempo e passano o rimangono con una certa consistenza nella natura, nei loro luoghi o regioni, sia che si tratti dell'origine nell'uomo stesso di qualcosa che non esisteva, origine dovuta all'insegnamento altrui o alla riflessione personale, come la fede, che abbiamo raccomandato con tanta insistenza nel libro XIII 41, come le virtù, che, se sono autentiche, ci permettono di vivere bene in questa vita mortale per vivere felici nella vita immortale che ci è promessa da Dio. Queste realtà, ed altre simili, si ordinano nel tempo, ed era per noi più facile discernervi la trinità della memoria, della visione e dell'amore. Infatti alcune di esse precedono la conoscenza che se ne acquisisce. Sono infatti conoscibili anche prima che vengano conosciute e generino in coloro che le apprendono la conoscenza che essi acquisiscono. Sono cose che s'incontrano in luoghi determinati o che sono passate nel tempo, sebbene in quest'ultimo caso non si tratti delle cose stesse, ma dei loro segni che, visti ed ascoltati, fanno conoscere che queste cose esistettero e sono passate. Questi segni si trovano in luoghi determinati, come le tombe ed altri monumenti simili, o negli scritti degni di fede, come ogni storia composta da autori seri e autorevoli, o nelle anime di coloro che li conoscono già; conosciuti da questi, sono per il fatto stesso conoscibili da altri, al sapere dei quali questi segni preesistono e possono venire da essi conosciuti per l'insegnamento di coloro ai quali sono noti. Tutte queste cose, quando si apprendono, costituiscono una specie di trinità, formata dalla loro configurazione esteriore conoscibile prima di venir conosciuta, a cui viene ad aggiungersi la conoscenza di colui che le apprende (conoscenza che comincia ad esistere nel momento in cui le si apprende) e, come terzo elemento, la volontà che unisce quei primi due. Una volta che questi oggetti sono stati conosciuti, si produce nell'anima stessa, quando se ne evoca il ricordo, una seconda trinità, già più interiore: trinità formata dalle immagini impresse nella memoria, al momento in cui furono appresi, dall'informazione del pensiero quando ad essi si volge lo sguardo di chi ricorda, e dalla volontà, che, terzo elemento, unisce quei due. Quanto alle conoscenze che hanno origine nell'anima in cui non esistevano, come la fede o altre realtà simili, sebbene sembrino avventizie, perché vengono introdotte nell'anima con l'insegnamento, non sono tuttavia realtà situate al di fuori o che si svolgono all'esterno, come le cose che sono oggetto di fede; ma iniziano ad esistere esclusivamente all'interno dell'anima. La fede infatti non è ciò che è creduto, ma ciò con cui si crede: l'oggetto della fede è creduto, la fede è vista. Tuttavia, in quanto incomincia ad esistere nell'anima, che era già un'anima prima che la fede incominciasse ad esistere in essa, sembra un qualcosa di avventizio e sarà annoverata tra le cose del passato, quando, sostituendosi ad essa la visione, cesserà di esistere. Ma ora la sua presenza nell'anima forma una trinità, perché è conservata, contemplata, amata; allora per mezzo del vestigio che lascerà di sé nella memoria scomparendo, formerà un'altra trinità, come è già stato detto prima 42.

Scompariranno le virtù nella vita futura?

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Poiché le virtù che in questa vita mortale ci permettono di vivere bene hanno incominciato ad esistere nell'anima, che, pur essendo prima priva di esse, era tuttavia un'anima, ci si può chiedere se cesseranno di esistere una volta che ci avranno condotto alla vita eterna. Certuni hanno pensato che cesseranno di esistere e, almeno per tre di esse: la prudenza, la fortezza e la temperanza, la loro opinione non è senza fondamento. Ma la giustizia è immortale e, invece di scomparire, sarà allora che raggiungerà in noi la sua perfezione 43. Il grande maestro dell'eloquenza, Tullio 44, le considera tuttavia tutte e quattro, quando ne discute nel suo dialogo "Ortensio": Se, egli dice, quando avremo emigrato da questa vita, ci fosse concesso di condurre una vita immortale nelle isole dei beati, come raccontano le favole, a che ci servirebbe l'eloquenza, dato che non ci sarebbero dei giudizi, o le stesse virtù? Non avremmo bisogno della fortezza perché non ci sarebbero più difficoltà e rischi; né della giustizia, perché non ci sarebbe più alcun bene altrui che susciti la nostra cupidigia; né della temperanza, per dominare le passioni inesistenti; non avremmo nemmeno bisogno della prudenza, perché non avremmo da compiere nessuna scelta tra il bene ed il male. La sola conoscenza della natura e la scienza ci renderebbero beati, esse che costituiscono l'unico bene della vita stessa degli dèi. Da ciò si può comprendere che il resto appartiene alla necessità, questo solo alla volontà 45. Così quel grande oratore, celebrando i meriti della filosofia, raccogliendo gli insegnamenti della tradizione filosofica, che espone con stile delizioso e sublime, ha affermato che tutte queste quattro virtù ci sono necessarie solo in questa vita, che vediamo piena di pene e di errori; nessuna di esse lo sarà più quando lasceremo questa vita, se ci è concesso di vivere là dove si vive felici; per essere beate basteranno alle anime buone la conoscenza e la scienza, cioè la contemplazione della natura in cui nulla vi è di più eccellente e di più degno di essere amato di quella natura che ha creato ed ordinato tutte le altre nature. Ora, se è proprio della giustizia sottomettersi al governo di questa natura, la giustizia è certamente immortale, né cesserà di esistere in quella beatitudine, ma raggiungerà tale perfezione e grandezza da non poter essere più perfetta e più grande. Forse anche altre tre virtù sussisteranno in quella vita beata, la prudenza senza più alcun rischio di errore, la fortezza senza la prova di mali da sopportare, la temperanza senza resistenza proveniente dalle passioni. Così la prudenza consisterà nel non preferire né uguagliare alcun bene a Dio, la fortezza nel restargli assai fermamente uniti, la temperanza nel non abbandonarsi ad alcun compiacimento colpevole. Ma il compito che svolge ora la giustizia nel venire in soccorso agli infelici, la prudenza nel guardarsi dalle insidie, la fortezza nel sopportare le difficoltà, la temperanza nel frenare i compiacimenti illeciti, non esisterà più là dove non ci sarà più assolutamente alcun male. Per questo gli atti di queste virtù che sono necessari alla vita presente, come la fede alla quale vanno riferiti, saranno annoverati tra le cose passate. Ora formano una trinità, quando li teniamo presenti nella memoria, li contempliamo e li amiamo; essi ne formeranno un'altra quando i vestigi che lasceranno, passando, nella memoria, ci ricorderanno che essi non esistono, ma sono esistiti; perché ci sarà ancora una trinità, quando quel vestigio, per quanto tenue, sarà ritenuto allo stato di ricordo, riconosciuto come vero, e la volontà, come terzo elemento, unirà questi altri due.

La trinità dello spirito non gli è avventizia

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Nella scienza di tutte queste cose temporali, di cui abbiamo parlato, alcune cose conoscibili precedono la conoscenza di un certo periodo di tempo, come quelle cose sensibili che esistevano già nella realtà, prima che fossero conosciute, così pure tutto ciò che la storia ci fa conoscere. Alcune cose invece incominciano ad esistere nel momento in cui sono conosciute: così se un oggetto visibile, che non esisteva assolutamente, sorge sotto i nostri occhi, è chiaro che non precede la nostra conoscenza; o se un suono si fa sentire, là dove si trova qualcuno che lo ode, certamente è insieme, che incominciano, insieme che cessano il suono e l'audizione. Tuttavia sia che la precedano nel tempo, sia che incomincino ad esistere con essa, sono le cose conoscibili che generano la conoscenza, e non sono generate da essa. Ma una volta acquisita la conoscenza, quando le cose che abbiamo conosciuto, essendo depositate nella memoria, sono riconsiderate con il ricordo, chi non vede che l'immagine conservata nella memoria è anteriore nel tempo alla visione che risulta dal ricordo ed all'unione dell'una e dell'altra operate dalla volontà, come terzo elemento? Ma nello spirito non è così; infatti lo spirito non è per se stesso un qualcosa di avventizio, come se allo spirito che esisteva già si presentasse, venendo dal di fuori, questo stesso spirito che non esisteva ancora, o come se non venisse dal di fuori, ma nello stesso spirito che già esisteva, nascesse lo stesso spirito che non esisteva ancora, allo stesso modo che nello spirito, che già esisteva, nasce la fede che non esisteva ancora; né, dopo essersi conosciuto, ricordandosi, si vede in qualche modo situato nella sua memoria, come se non vi fosse stato prima di conoscersi; non è così, poiché non c'è dubbio che dall'inizio della sua esistenza non ha mai cessato di ricordarsi, di comprendersi, di amarsi, come abbiamo già mostrato. Per questo quando lo spirito con il pensiero si ripiega su di sé, si produce una trinità, in cui si può già comprendere che cos'è il verbo; esso riceve la sua forma dall'atto stesso del pensiero, mentre la volontà congiunge l'uno all'altro. È là, dunque, che dobbiamo riconoscere di preferenza l'immagine che cerchiamo.

C'è una memoria delle cose presenti?

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Ma qualcuno dirà: "Non esiste questa memoria che permetta allo spirito di ricordarsi di sé, esso che è sempre presente a se stesso. Infatti la memoria ha come oggetto le cose passate, non quelle presenti". Alcuni infatti, tra cui anche Tullio 46, trattando della virtù, hanno distinto nella prudenza questi tre aspetti: la memoria, l'intelligenza, la preveggenza; hanno attribuito la memoria al passato, l'intelligenza al presente, la preveggenza al futuro. Quest'ultima è infallibile solo in coloro che hanno in anticipo la conoscenza del futuro, cosa che non è privilegio degli uomini, a meno che non la ricevano dall'alto, come i Profeti. Per questo il libro della Sapienza, trattando degli uomini, dice: Timidi sono i pensieri dei mortali, ed incerte le nostre previsioni 47. Ma la memoria è certa delle cose passate e l'intelligenza delle cose presenti, ma, si intenda bene, delle realtà spirituali presenti, perché i corpi materiali sono presenti agli occhi corporei che li vedono. Ma chi afferma che non c'è memoria delle cose presenti, ascolti ciò che si dice nella stessa letteratura profana più attenta alla precisione dei termini, che alla verità delle cose:

Ché l'empio delitto Ulisse non tollerò,

né di se stesso fu immemore l'Itaco in quel rischio sì grande 48.

Quando Virgilio dice che Ulisse non si dimenticò di sé, che altro volle far intendere, se non che egli si ricordò di sé? Dunque, poiché egli era presente a sé, non si sarebbe in alcun modo ricordato di sé, se la memoria non avesse come oggetto le cose presenti. Pertanto, come a proposito degli avvenimenti passati, si chiama memoria la facoltà con cui si ritengono e si ricordano, così a proposito della realtà presente, quale è lo spirito a sé, si deve, senza cadere nell'assurdo, chiamare memoria la facoltà che permette allo spirito di essere presente a sé al punto da poter comprendersi con il suo pensiero e unire con l'amore, che porta a se stesso, la memoria all'intelligenza.

La trinità dello spirito è immagine di Dio quando lo ricorda, comprende ed ama; sapienza ed immagine

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Dunque questa trinità dello spirito non è immagine di Dio, perché lo spirito ricorda se stesso, si comprende e si ama, ma perché può anche ricordare, comprendere ed amare Colui dal quale è stato creato. Quando fa questo, diviene sapiente. Se non lo fa, anche quando si ricorda di sé, si comprende e si ama, è insensato. Si ricordi dunque del suo Dio, ad immagine del quale è stato creato 49, lo comprenda e lo ami. Per dirlo in breve, esso onori il Dio increato che l'ha creato capace di lui e di cui può essere partecipe; per questo è scritto: Ecco: il culto di Dio, questa è sapienza 50. E non per la sua luce, ma per la partecipazione a quella luce suprema sarà sempre sapiente e regnerà beato là dove sarà eterno. In questo senso la sapienza dell'uomo è anche sapienza di Dio. Allora infatti è vera sapienza; perché se è umana, è vana. Ma non si tratta della sapienza di Dio, per cui Dio è sapiente. Infatti Dio non è sapiente perché partecipe a sé, come lo spirito lo è per la partecipazione a Dio. Ma come si parla anche di giustizia di Dio, non solo per designare la giustizia per la quale Dio è giusto, ma per designare quella che egli dà all'uomo quando giustifica il peccatore 51, e che ci raccomanda l'Apostolo quando dice di alcuni uomini: Ignorando la giustizia di Dio e volendo stabilire la loro propria giustizia, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio 52; così infatti si può dire pure di alcuni: "Ignorando la sapienza di Dio e volendo costituire la loro sapienza, non si sono sottomessi alla sapienza di Dio".

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Dunque la natura increata, che ha creato tutte le altre nature, grandi e piccole, è senza dubbio più eccelsa di quelle che ha creato, e di conseguenza anche di questa, di cui parliamo, quella natura razionale e intelligente, che è lo spirito umano, creato ad immagine del suo Creatore. Quella natura superiore a tutte le altre è Dio. E certamente non è lontano da ciascuno di noi 53, come dice l'Apostolo, che aggiunge: In lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo 54. Se dicesse queste parole riguardo al corpo, si potrebbero pure intendere di questo mondo corporeo, perché anche in esso, in quanto corpi, viviamo e ci muoviamo e siamo. Dunque bisogna applicare queste parole allo spirito, che è stato creato ad immagine di Dio, in un senso ben superiore, non più sensibile, ma spirituale. Che c'è infatti, che non sia in Colui di cui il testo ispirato dice: Poiché da lui e per mezzo di lui e in lui sono tutte le cose 55? Perciò, se in lui sono tutte le cose, in chi possono vivere gli esseri che vivono, e muoversi gli esseri che si muovono, se non in Colui in cui sono 56? Non tutti però sono con lui al modo di Colui al quale è stato detto: Io sono sempre con te 57. E lui stesso non è con tutti nella maniera in cui diciamo: "il Signore sia con voi" 58. Pertanto è gran miseria per l'uomo non essere con Colui, nel quale è, e tuttavia, se non si ricorda di lui e non lo comprende, né lo ama, non è con lui. Ora ciò che qualcuno ha completamente dimenticato non si può certamente farglielo ricordare.

Dimenticanza e ricordo di Dio

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Per la nostra dimostrazione prendiamo un esempio dalle cose visibili. Qualcuno che tu non riconosci ti dice: "Tu mi conosci", e perché te ne risovvenga ti dice dove, quando, come tu lo hai conosciuto. Se tuttavia, quando egli ha fatto uso di tutti i segni capaci di farti rievocare il ricordo di sé, non lo riconosci, la dimenticanza è tale, ormai, che ogni conoscenza di lui si è cancellata dalla tua anima e non ti resta altro che, o prestar fede a colui che ti dice che una volta lo conoscevi, o non ti resta nemmeno questo, se colui che ti parla non ti sembra degno di fede. Ma se tu lo ricordi, certamente ricerchi nella tua memoria e in essa trovi ciò che non era stato totalmente cancellato a causa della dimenticanza. Ritorniamo all'argomento a motivo del quale abbiamo fatto ricorso a questo esempio tolto dai rapporti umani. Il Salmo 9 dice tra le altre cose: Si volgano i peccatori verso l'inferno, tutte le genti che si scordano di Dio 59. È scritto ancora nel Salmo 21: Se ne ricorderanno e si convertiranno al Signore tutti i confini della terra 60. Queste nazioni non avevano dunque dimenticato il Signore al punto di non ricordarsi di lui, almeno se lo si ricorda loro. Dimenticandosi di Dio, come se si fossero dimenticate della loro vita, si erano volte verso la morte, cioè verso l'inferno. Ma quando lo si fa loro ricordare, si convertono al Signore, come rivivificate ricordando la loro vita, di cui erano cadute in dimenticanza. Si legge ancora nel Salmo 93: Comprendete ora, voi che siete stupidi fra il popolo; voi insensati, rinsavite. Colui che ha piantato l'orecchio non udrà? 61. Queste parole sono rivolte a coloro che, non comprendendo Dio, hanno avuto su di lui opinioni menzognere.

Lo spirito non può amare rettamente se stesso, non amando Dio

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Circa la dilezione di Dio, si trovano nelle divine Scritture molte testimonianze. In queste testimonianze sono di conseguenza comprese anche le altre due facoltà, perché nessuno ama ciò che non ricorda e ciò che ignora totalmente. Ecco perché il più conosciuto e il più importante dei Comandamenti è questo: Amerai il Signore Dio tuo 62. Lo spirito umano è così costituito che mai cessa di ricordarsi di sé, mai di comprendersi, mai di amarsi. Ma, poiché colui che odia qualcuno si dà da fare per nuocergli, si ha ragione di dire che anche lo spirito umano, quando nuoce a se stesso, si odia. Esso non ha coscienza di volere il suo male, quando non ritiene che ciò che vuole gli nuoce; ma tuttavia esso vuole il suo male, quando vuole ciò che gli nuoce. Perciò è scritto: Colui che ama l'iniquità, odia la sua anima 63. Perciò colui che sa amarsi 64, ama Dio; invece colui che non ama Dio, anche se ama se stesso, cosa che gli è connaturale, si può dire a ragione che si odia, perché fa ciò che gli è contrario e persegue se stesso come suo nemico. Errore certamente mostruoso: mentre tutti vogliono il loro bene, molti non fanno che ciò che è loro dannoso in grado supremo. Il poeta descrive un male simile negli animali privi di parola:

Gli dèi diano una migliore sorte a quelli che li onorano,

e questo errore ai loro nemici!

Essi sbranavano a denti nudi le membra disfatte 65.

Dato che si trattava di un male fisico, perché lo chiama errore, se non in quanto quel male consisteva nel fatto che gli animali sbranavano ciò che aspiravano a salvare, le loro membra, mentre ogni animale tende, in conformità alla sua natura, a conservarsi come meglio può 66? Ma quando lo spirito ama Dio, e di conseguenza, come ho detto, si ricorda di lui e lo comprende, è giusto che gli si comandi di amare il suo prossimo come ama se stesso. Infatti esso non si ama più con amore colpevole, ma con rettitudine, quando ama Dio, per partecipazione del quale non solo esso è immagine, ma anche sorge rinnovato dalla vecchiaia, bello dalla sua deformità, beato dall'infelicità. Sebbene infatti si ami a tal punto da preferire, nell'alternativa, di perdere tutti i beni che, inferiori ad esso, suscitano il suo amore, piuttosto che perire, tuttavia abbandonando Colui che gli è superiore, e verso il quale solo deve volgersi per conservare la sua fortezza e godere di lui come della sua luce - Colui a cui si indirizza il canto di questo Salmo: Volgendomi verso di te conserverò la mia forza 67; e quello di quest'altro: Avvicinatevi a lui e sarete illuminati 68 -, esso è divenuto così debole e tenebroso che, allontanandosi anche da sé è trascinato miseramente verso le realtà, che non sono ciò che esso è ed alle quali esso è superiore, da amori che esso non ha la forza di vincere, da sviamenti da cui non sa come risalire. Perciò già pentendosi, per la misericordia di Dio, esso grida nei Salmi: La mia forza mi ha abbandonato, e la luce dei miei occhi non è più con me 69.

Sebbene deformata l'immagine sussiste

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Tuttavia, nonostante questi così grandi mali dovuti alla sua debolezza ed ai suoi sviamenti, lo spirito non ha potuto perdere la memoria, l'intelligenza e l'amore di sé, che gli sono connaturali. Per questo, come sopra ho ricordato 70, il Salmista ha potuto dire: Benché l'uomo cammini nell'immagine, si agita invano. Ammassa e non sa per chi raccolga 71. Perché infatti ammassa, se non in quanto la sua forza lo ha abbandonato 72, quella forza grazie alla quale, possedendo Dio, non mancava di nulla? E perché ignora per chi raccolga, se non perché non è più con lui la luce dei suoi occhi? E perciò non vede ciò che la verità dice: Insensato! Questa notte stessa ti verrà richiesta la vita; e quello che hai preparato per chi sarà? 73. Tuttavia, poiché anche tale uomo cammina nell'immagine e il suo spirito possiede la memoria, l'intelligenza e l'amore di sé, se gli si mostrasse che non può possedere tutti e due i beni e gli si concedesse di sceglierne uno, perdendo come contropartita l'altro - o la ricchezza che ha ammassato, o lo spirito -, chi sarebbe così pazzo da preferire di conservare le ricchezze, invece dello spirito? Infatti le ricchezze possono, molto spesso, rovinare lo spirito; e lo spirito non pervertito dalle ricchezze può vivere, senza ricchezze, con più felicità e libertà. Chi d'altra parte potrà possedere delle ricchezze, se non per mezzo dello spirito? Se infatti un fanciullo appena nato, sebbene molto ricco per nascita, essendo padrone di tutto ciò che gli appartiene di diritto, non possiede nulla fino a quando il suo spirito non si sveglia, come può qualcuno, che non possiede più lo spirito, possedere ancora qualcosa? Ma perché parlare dei tesori e dire che qualsiasi uomo, se gli si concede la scelta, preferisce esserne privato piuttosto che essere privato dello spirito, dato che nessuno li antepone, nessuno neppure li equipara agli occhi del corpo, che danno non ad alcuni uomini privilegiati il possesso dell'oro, ma a tutti gli uomini il possesso del cielo? Con gli occhi del corpo infatti ciascuno possiede ciò che contempla con piacere. Chi dunque, se non può conservare l'uno e l'altro bene insieme, e sia costretto a perderne uno, non preferirà gli occhi alle ricchezze? E tuttavia se, con una nuova alternativa, gli si domanda se preferisca perdere gli occhi piuttosto che lo spirito, qual è l'uomo che non veda con il suo spirito che egli preferisce perdere gli occhi piuttosto che lo spirito? Infatti lo spirito senza gli occhi di carne è uno spirito umano, ma gli occhi di carne senza lo spirito sono occhi di bestia. Ora chi non preferirebbe essere uomo, anche se cieco nella carne, piuttosto che una bestia dotata di vista?

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Questi ragionamenti malgrado la loro brevità mirano a mostrare anche a quelli di ingegno più tardo, sotto gli occhi e alle orecchie dei quali questi scritti giungeranno, quanto lo spirito ami se stesso perfino nella sua debolezza e nel suo errore, quando ama colpevolmente e cerca i beni che gli sono inferiori. Ora esso non potrebbe amare se stesso, se si ignorasse totalmente; cioè, se non si ricordasse di sé, né si comprendesse. Ché questa immagine di Dio presente in esso ha un così gran potere che è capace di unirsi a Colui di cui è immagine. Il suo posto nella gerarchia delle nature, non in quella dei luoghi, è tale che al di sopra di esso non c'è che Dio. Finalmente, quando sarà perfettamente unito a lui, esso non sarà che un solo spirito con lui; lo attesta l'Apostolo dicendo: Colui che si unisce al Signore è un solo spirito con lui 74; lo spirito si eleva fino alla partecipazione della natura, della verità, della beatitudine di Dio, senza che tuttavia Dio si accresca nella sua natura, verità e beatitudine. In quella divina natura, quando le sarà unito per la sua beatitudine, lo spirito vivrà come qualcosa d'immutabile, e tutto ciò che vedrà, lo vedrà stabilito nell'immutabilità. Allora, come gli promette la divina Scrittura, il suo desiderio sarà ricolmo di beni 75, di beni immutabili, la Trinità stessa, il suo Dio di cui esso è l'immagine. E perché questa immagine non possa giammai essere contaminata, essa sarà nel segreto del volto di Dio 76, ricolmata da lui di tanta abbondanza, che il peccato non avrà per essa più alcun fascino. Ma in questa vita, quando lo spirito vede se stesso, non vede qualcosa di immutabile.

Anche il peccatore è illuminato dalla luce della giustizia

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Cosa che esso non pone certamente in dubbio, perché è miserabile e desidera essere beato; e non ha speranza di poterlo divenire, se non perché è mutevole. Se esso non fosse mutevole infatti, come, beato, non potrebbe diventare misero, così, misero, non potrebbe diventare beato. E che cosa, sotto un Signore onnipotente e buono, avrebbe potuto renderlo misero, se non il suo peccato e la giustizia del suo Signore? E che cosa lo renderà beato, se non il suo merito ed il premio del suo Signore? Ma anche il suo merito è una grazia di Colui il cui premio costituisce la sua beatitudine 77. Perché esso non può darsi la giustizia, che non ha perché l'ha perduta. Questa giustizia l'uomo l'ha ricevuta, all'atto della creazione, ma per il peccato l'ha perduta totalmente. Riceve dunque la giustizia, grazie alla quale poter meritare di ricevere la beatitudine. Per questo si sente rivolgere, con piena ragione, dall'Apostolo, queste parole, quando incomincia ad inorgoglirsi di questo bene come se gli fosse proprio: Che hai tu infatti che non abbia ricevuto, che te ne glorii come se non l'avessi ricevuto? 78. Quando conserva vivo il ricordo del suo Signore, dopo aver ricevuto lo spirito di lui, si rende perfettamente conto, perché ne è istruito interiormente, che non si può risollevare se non per un'azione gratuita di Dio, che non è potuto cadere se non per un proprio difetto volontario. Non si ricorda assolutamente più della sua beatitudine: essa esisteva e non esiste più, e lo spirito se ne è totalmente dimenticato, perciò non si può più fargliela ricordare. Ma esso crede in essa, perché le Scritture del suo Dio, degne di fede e scritte dai suoi Profeti, gli narrano della felicità del Paradiso e gli espongono, secondo la tradizione storica, e il primo bene dell'uomo e il suo primo peccato. Ma si ricorda del Signore Dio suo 79. Egli esiste sempre: non esistette una volta ed ora non esiste, né ora esiste, ma prima non esistette; ma, come mai cesserà di esistere, così non ci fu momento in cui non esisteva. Ed è dovunque tutto intero 80. È per questo che in lui lo spirito vive, si muove ed esiste 81, e perciò si può ricordare di lui. Non che se ne ricordi, perché lo avrebbe conosciuto in Adamo, o in un luogo qualunque, prima della vita in questo corpo, o quando fu creato per essere unito a questo corpo; esso non ricorda nulla di questo, tutto ciò è stato cancellato dalla dimenticanza. Ma si può far ricordare allo spirito il Signore, perché si volga a lui 82, come verso quella luce che lo toccava in qualche modo, anche quando si allontanava da lui. Da questo deriva infatti che perfino gli iniqui pensano all'eternità e riprendono giustamente, lodano giustamente molte cose, nella condotta degli uomini 83. A quali regole si riferiscono essi per pronunciare questi giudizi, se non a quelle in cui vedono come ognuno debba vivere, sebbene essi non vivano così? Dove le vedono? Non nella loro natura, perché certamente è con lo spirito che si vedono queste cose e perché è evidente che i loro spiriti sono mutevoli, mentre queste regole appaiono immutabili a chiunque abbia potuto vedere in esse una norma di vita; nemmeno in un modo di essere del loro spirito, perché queste sono regole di giustizia, mentre è evidente che i loro spiriti non sono giusti. Dove sono dunque iscritte queste regole, in cui riconosce ciò che è giusto anche lo spirito che non è giusto, in cui vede che bisogna avere ciò che esso non ha? Dove sono dunque iscritte, se non nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui dunque è dettata ogni legge giusta e si trasferisce nel cuore dell'uomo che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l'immagine passa dall'anello nella cera, ma senza abbandonare l'anello 84. Invece quello che non opera, e che tuttavia vede che cosa si debba operare, è lui che si allontana da quella luce, ma tuttavia ne è toccato. Quanto a colui che non vede nemmeno come si debba vivere, è più scusabile nel suo peccato, perché non trasgredisce una legge sconosciuta; ma il fulgore della verità ovunque presente tocca talvolta anche lui, quando, avvertito di essa, confessa il suo peccato 85.

Il rinnovamento dell'immagine nell'uomo

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Coloro che, invitati a ricordarsene, si convertono al Signore, sono da lui riformati da quella difformità per cui le passioni mondane li conformavano a questo mondo, udendo la parola dell'Apostolo che dice: Non conformatevi a questo mondo, ma riformatevi rinnovando il vostro spirito 86, cosicché quella immagine incomincia ad essere riformata da Colui che l'ha formata. Infatti non può riformarsi essa stessa, come ha potuto deformarsi: dice infatti l'Apostolo in un altro passo: Rinnovatevi nello spirito della vostra anima e rivestitevi dell'uomo nuovo, che è stato creato ad immagine di Dio, nella vera giustizia e santità 87. Ciò che qui dice creato secondo Dio, è ciò che un altro passo delle Scritture dice creato ad immagine di Dio 88. Ma peccando ha perso la vera giustizia e santità; perciò questa immagine è divenuta deforme e sbiadita; la recupera (nella sua integrità) quando è rinnovato e riformato. Quanto all'espressione: Lo spirito della vostra anima intellettiva 89, l'Apostolo non ha voluto con essa significare due realtà differenti, come se l'anima intellettiva sia una cosa, e lo spirito dell'anima intellettiva un'altra, ma egli parla così perché ogni anima intellettiva (mens) è spirito (spiritus), ma ogni spirito non è anima intellettiva 90. Anche Dio è spirito 91 (spiritus) che non può rinnovarsi perché non può nemmeno invecchiare. Si parla anche di spirito (spiritus) nell'uomo per designare non più l'anima intellettiva (mens), ma quella parte dell'anima a cui appartengono le immagini dei corpi. È di questo spirito che si tratta, quando l'Apostolo dice nella Lettera ai Corinti: Se infatti io prego con la lingua, il mio spirito prega, ma la mia anima intellettiva non ne ricava alcun frutto 92. Egli allude al caso in cui non si comprende ciò che si dice, perché non si può nemmeno dir nulla, se l'immagine delle parole materiali, nella rappresentazione dello spirito (spiritus), non precedesse il suono della voce. Si chiama spirito (spiritus) anche il principio vitale (anima) dell'uomo; per questo si legge nel Vangelo: E chinato il capo, rese lo spirito 93. In questo passo si allude alla morte del corpo, quando la vita (anima) lascia il corpo. Si parla anche di spirito (spiritus) delle bestie come lo mostra assai chiaramente l'Ecclesiaste di Salomone, dove è scritto: Chi sa se lo spirito degli uomini sale in alto e quello delle bestie scende sotto terra? 94. Anche il Genesi ne parla, quando dice che il diluvio fece perire ogni carne che aveva in sé lo spirito della vita 95. Infine si chiama spirito (spiritus) anche il vento, cosa evidentemente corporea; per questo si legge nei Salmi: Fuoco, grandine, neve, ghiaccio, spirito delle tempeste 96. Dunque, poiché la parola spiritus è usata in tanti sensi, l'Apostolo ha voluto chiamare spirito dell'anima intellettiva (mens) quello spirito che è anima intellettiva (mens). Lo stesso Apostolo dice alla medesima maniera: Con la spogliazione del corpo di carne 97. Ma non vuole certamente designare due realtà, come se una cosa fosse la carne, altra cosa il corpo di carne, ma poiché la parola "corpo" si applica a molte cose, nessuna delle quali è carne (molti sono infatti i corpi celesti e terrestri che non sono carne), l'Apostolo chiama corpo di carne il corpo che è carne. Allo stesso modo chiama spirito dell'anima intellettiva lo spirito che è anima intellettiva. In un altro passo, più esplicitamente ancora, parla dell'immagine, facendo la stessa raccomandazione con altre parole: Spogliandovi dell'uomo vecchio e delle sue azioni, rivestitevi dell'uomo nuovo che si rinnova nella conoscenza di Dio, secondo l'immagine di Colui che l'ha creato 98. Nel testo precedente si legge: Rivestitevi dell'uomo nuovo che fu creato secondo Dio 99, ed in questo: Rivestitevi dell'uomo nuovo che si rinnova secondo l'immagine di Colui che l'ha creato 100. Là è detto: Secondo Dio, qui: secondo l'immagine di Colui che l'ha creato. E mentre prima scriveva: nella vera giustizia e santità, ora scrive: nella conoscenza di Dio. Dunque questo rinnovamento e questa riformazione dello spirito si verificano secondo Dio, o secondo l'immagine di Dio. Ma è detto: secondo Dio perché non si ritenga che si verifichi secondo un'altra creatura, ed è detto: secondo l'immagine di Dio per far comprendere che questo rinnovamento si attua là dove si trova l'immagine di Dio, cioè nello spirito. Allo stesso modo che diciamo morto secondo il corpo, non secondo lo spirito (spiritus), l'uomo che è fedele e giusto quando abbandona il corpo. Che vogliamo significare infatti quando diciamo che è morto secondo il corpo, se non che è morto con il corpo o nel corpo, non con l'anima o nell'anima? O ancora diciamo: "È bello secondo il corpo", o: "È forte secondo il corpo e non secondo l'anima (anima)"; queste espressioni hanno altro senso che questo: "È bello e forte nel corpo, non nell'anima"? Innumerevoli sono le espressioni di questo genere. Non intendiamo dunque l'espressione: secondo l'immagine di Colui che l'ha creato 101 come se l'immagine secondo la quale si attua questo rinnovamento fosse diversa da quella con la quale si rinnova.

L'immagine si rinnova avvicinandosi progressivamente a Dio

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Certo, il rinnovamento di cui ora si parla, non si compie istantaneamente con la conversione stessa, come il rinnovamento del Battesimo si compie istantaneamente con la remissione di tutti i peccati 102, senza che rimanga da rimettere la più piccola colpa. Ma come una cosa è non avere più la febbre, altra cosa ristabilirsi dalla debolezza causata dalla febbre; ancora, come una cosa è estrarre il dardo conficcato nel corpo, altra cosa poi guarire con un'altra cura la ferita procurata dal dardo; così la prima cura consiste nel rimuovere la causa della malattia, ciò che avviene con il perdono di tutti i peccati, la seconda nel curare la malattia stessa, ciò che avviene a poco a poco progredendo nel rinnovamento di questa immagine. Questi due momenti sono indicati nel Salmo in cui si legge: Egli perdona tutte le tue iniquità, ciò che si attua nel Battesimo; poi il Salmo continua: Egli guarisce tutte le tue malattie 103, ciò che si attua con i progressi quotidiani, quando si rinnova questa immagine. Di questo rinnovamento parla assai chiaramente l'Apostolo quando dice: Quantunque il nostro uomo esteriore vada deperendo, quello interiore però si rinnova di giorno in giorno 104. Ora si rinnova nella conoscenza di Dio 105, cioè nella vera giustizia e santità 106, secondo i termini usati dall'Apostolo nelle testimonianze che ho riportato un po' più sopra. Dunque colui che di giorno in giorno si rinnova progredendo nella conoscenza di Dio e nella vera giustizia e santità trasporta il suo amore dalle cose temporali alle cose eterne, dalle cose sensibili alle intelligibili, dalle carnali alle spirituali; e si dedica con cura a separarsi dalle cose temporali, frenando ed indebolendo la passione, e ad unirsi con la carità a quelle eterne. Non gli è possibile però questo che nella misura in cui riceve l'aiuto di Dio. È Dio che l'ha detto: Senza di me non potete far nulla 107. Chiunque l'ultimo giorno di questa vita sorprenda in tale progresso e accrescimento, e nella fede nel Mediatore, questi sarà accolto dai santi Angeli per essere condotto a Dio che ha onorato e per ricevere da lui la sua perfezione; alla fine dei tempi gli sarà dato un corpo incorruttibile per non essere destinato alla sofferenza, ma alla gloria. In questa immagine sarà perfetta la somiglianza di Dio 108, quando sarà perfetta la visione di Dio. Di questa visione l'apostolo Paolo dice: Ora vediamo per mezzo di uno specchio in enigma, ma allora a faccia a faccia 109. Egli dice pure: Noi che, a faccia velata, rispecchiamo la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, salendo di gloria in gloria, in conformità all'operazione del Signore che è spirito 110. È questo che si realizza in coloro che progrediscono di giorno in giorno nel bene.

La piena somiglianza dell'immagine si avrà nella visione; il nostro corpo divenuto immortale ci renderà simili al Figlio

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L'apostolo Giovanni, da parte sua, dice: O miei diletti, ora noi siamo figli di Dio, e ancora non è stato mostrato quello che saremo. Sappiamo che quando ciò sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è 111. Da questo testo appare che in questa immagine di Dio si realizzerà la piena rassomiglianza di lui, quando essa possederà la piena visione di lui. Quantunque questa affermazione dell'apostolo Giovanni si possa intendere anche dell'immortalità del corpo 112. Anche in essa noi saremo simili a Dio, ma soltanto al Figlio, perché egli è l'unico nella Trinità che ha assunto un corpo che, morto, ha risuscitato ed ha condotto al Cielo. Perché si dice pure che questa è immagine del Figlio di Dio, immagine secondo la quale come lui avremo un corpo immortale, resi conformi sotto questo aspetto non alla immagine del Padre o dello Spirito Santo, ma soltanto del Figlio, perché di lui solo leggiamo e ce lo conferma una fede pienamente ortodossa: Il Verbo si è fatto carne 113. Ecco perché l'Apostolo dice: Coloro infatti che preconobbe li ha pure predestinati conformi all'immagine del suo Figlio, affinché egli sia il primogenito fra molti fratelli 114. Primogenito, certamente, tra i morti 115, secondo lo stesso Apostolo, per quella morte per cui è stata sotterrata la sua carne come un seme nell'ignominia, ed è risuscitata nella gloria. Secondo questa immagine del Figlio, al quale per l'immortalità noi ci conformeremo nel corpo, compiamo anche ciò che similmente dice lo stesso Apostolo: Come abbiamo portato l'immagine dell'uomo terrestre, così rivestiremo pure l'immagine di quello celeste 116; parole scritte perché teniamo con una fede sincera ed una speranza ferma e sicura che, noi, dopo essere stati mortali secondo Adamo, saremo immortali secondo Cristo. Così infatti noi possiamo portare ora questa immagine, non ancora nella visione, ma nella fede; non ancora nella realtà, ma nella speranza. È della risurrezione del corpo che parlava l'Apostolo, quando diceva queste parole 117.

L'immagine, che si rinnova interiormente per mezzo della conoscenza di Dio, raggiungerà la perfezione nella visione

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Ma per quanto riguarda l'immagine della quale è stato detto: Facciamo l'uomo ad immagine e somiglianza nostra 118, dato che il testo non dice: "a mia immagine", né "a tua immagine", crediamo che l'uomo è stato fatto ad immagine della Trinità e, per quanto ci è stato possibile, abbiamo cercato di comprendere ciò attraverso la nostra indagine. Di conseguenza è piuttosto in questo senso che bisogna ugualmente comprendere l'espressione dell'Apostolo: Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è 119. Perché queste parole concernono colui del quale egli aveva detto: Siamo figli di Dio 120. L'immortalità della carne troverà anch'essa la sua perfezione nell'istante della risurrezione di cui l'apostolo Paolo dice: In un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba, anche i morti risorgeranno incorruttibili, e noi saremo trasformati 121. Perché in questo istante, in un batter d'occhio, prima del giudizio, risorgerà nella forza, nell'incorruttibilità, nella gloria 122 come corpo spirituale il corpo animale che ora è seminato nell'infermità, nella corruzione, nell'ignominia. Invece l'immagine che, non esteriormente, ma interiormente, nello spirito dell'anima intellettiva, con la conoscenza di Dio 123, si rinnova di giorno in giorno 124, essa troverà la sua perfezione nella visione, che allora, dopo il giudizio, sarà a faccia a faccia 125, mentre ora progredisce per mezzo di uno specchio ed in enigma 126. È a riguardo di questa perfezione che bisogna intendere questa affermazione: Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è 127. Questo dono ci sarà dato, quando ci sarà detto: Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del Regno che è stato preparato per voi 128. Allora sarà cacciato l'empio perché non veda la sublimità del Signore, quando quelli che sono a sinistra andranno nel supplizio eterno, mentre quelli che stanno a destra andranno nella vita eterna 129. Ora, come dice la verità, la vita eterna è questa: che conoscano te, solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo 130.

La sapienza sarà perfetta nella beatitudine

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È questa sapienza contemplativa che, a mio parere, le Scritture chiamano propriamente sapienza, distinguendola dalla scienza; sapienza dell'uomo certamente, ma che egli non possiede, a meno che non la riceva da Colui che, per partecipazione, può rendere veramente sapiente lo spirito razionale e intelligente. È di essa che Cicerone fa l'elogio alla fine del dialogo "Ortensio": Noi che giorno e notte meditiamo queste cose ed aguzziamo la nostra intelligenza, che è la punta viva dello spirito e che stiamo attenti a non lasciarla ottundersi, cioè noi che viviamo da filosofi, abbiamo una grande speranza: o ciò che pensiamo e gustiamo spiritualmente è mortale e caduco, ed allora, compiuti i doveri umani, la morte ci sarà dolce e ci estingueremo senza rimpianto, e sarà come il riposo della vita; o se, come hanno pensato gli antichi filosofi e fra essi i più grandi e di gran lunga più illustri, abbiamo un'anima eterna e divina, allora dobbiamo ritenere che quanto più un uomo avrà agito senza distogliersi dalla sua via, cioè in conformità alla ragione ed al desiderio di sapere e quanto meno si sarà mescolato e avrà preso parte ai vizi e agli errori degli uomini, tanto più l'ascesa e il ritorno al cielo gli saranno facili 131. Poi riprendendo e completando il suo ragionamento aggiunge: Per questo, per por fine a questa discussione, se vogliamo estinguerci tranquillamente, dopo esserci dedicati durante la nostra vita a queste discipline, o se vogliamo passare senza alcun intervallo di tempo da questa dimora in un'altra infinitamente migliore, dobbiamo dedicare a questi studi tutti i nostri sforzi e tutta la nostra attenzione 132. Mi meraviglio che un uomo di tanto ingegno a degli uomini dediti alla filosofia, che li rende beati con la contemplazione della verità, prometta, una volta compiuti i loro doveri umani, una morte dolce, se ciò che pensiamo e gustiamo spiritualmente è mortale e caduco, come se morisse e si estinguesse qualcosa che non amiamo, anzi ciò che odiavamo di tutto cuore al punto di vederlo scomparire con gioia. In verità ciò non lo aveva appreso dai filosofi, che esalta con grandi elogi, ma è un'opinione in cui si avverte l'ispirazione della Nuova Accademia, da cui apprese a dubitare anche delle cose più evidenti. Dai filosofi invece, che egli stesso riconosce come i più grandi e di gran lunga più illustri, aveva appreso che le anime sono immortali 133. Certo non è male che con questi incoraggiamenti le anime immortali vengano esortate a farsi trovare nella loro via, quando verrà il termine di questa vita, cioè a vivere in conformità alla ragione e al desiderio di ricerca, e a mescolarsi e invischiarsi il meno possibile ai vizi e agli errori degli uomini, affinché sia loro più facile il ritorno a Dio. Ma questa via che consiste nell'amore e nella ricerca della verità non basta agli infelici, cioè a tutti i mortali che hanno solo la ragione, senza la fede del Mediatore. È ciò che nei libri precedenti di quest'opera, soprattutto nel quarto e nel tredicesimo, mi sono sforzato di mostrare, per quanto ho potuto.





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Sant'Agostino - La Trinità 1400