Sant'Agostino - La Trinità 1500

LIBRO QUINDICESIMO

Agostino vuole esercitare il lettore attraverso le cose create, affinché intenda, se può, in qualche modo la Trinità

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Volendo esercitare il lettore nella contemplazione delle cose create per condurlo alla conoscenza di Colui che le ha create, eccoci già giunti ora fino alla sua immagine: l'uomo, più esattamente ciò per cui esso supera gli altri animali, cioè la ragione, l'intelligenza, ed ogni altra caratteristica dell'anima razionale ed intellettiva, che appartenga a quella realtà che chiamiamo spirito (spiritus), o animo (animus) 1. Con questa parola alcuni scrittori di lingua latina, secondo il modo di parlare che hanno adottato, distinguono ciò che vi è di più nobile nell'uomo e non si trova nelle bestie, dall'anima (anima), che si trova anche nelle bestie 2. Dunque, al di sopra di questa natura, se cerchiamo qualcosa, e cerchiamo la verità, incontriamo Dio, cioè la natura non creata, ma creatrice. Che Dio sia Trinità, è ciò che dobbiamo ora dimostrare allo sguardo della fede con l'autorità delle Scritture, ma anche, se lo possiamo, allo sguardo dell'intelligenza con una riflessione razionale. Perché io abbia detto: "se lo possiamo", l'oggetto stesso lo mostrerà meglio, quando ne avremo iniziata la discussione.

Sebbene Dio sia incomprensibile non ci si deve stancare di cercarlo: si cerca per trovarlo con maggior dolcezza e si trova per cercarlo con maggior ardore

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Dio stesso, che cerchiamo, ci aiuterà, spero, perché il nostro sforzo non sia infruttuoso e perché comprendiamo come lo scrittore santo abbia potuto dire nel Salmo: Si rallegri il cuore di coloro che cercano Dio: cercate Dio e siate forti; cercate sempre il suo volto 3. Sembra, infatti, che ciò che si cerca sempre, non si trovi mai e come allora si rallegrerà e non si rattristerà invece il cuore di coloro che cercano, se non avranno potuto trovare ciò che cercano? Perché il Salmista non dice: "Si rallegri il cuore di coloro che trovano", ma: di coloro che cercano il Signore 4? E che tuttavia Dio Signore si possa trovare, quando lo si cerca, lo testimonia il profeta Isaia, quando afferma: Cercate il Signore e appena lo troverete, invocatelo; e quando si sarà avvicinato a voi, l'empio abbandoni le sue vie e l'iniquo i suoi pensieri 5. Se dunque, cercandolo, si può trovare Dio, perché è scritto: Cercate sempre il suo volto 6? Sarà forse che, anche una volta che lo si è trovato, bisogna cercarlo ancora? È così infatti che bisogna cercare le cose incomprensibili perché non ritenga di aver trovato nulla colui che abbia potuto trovare quanto è incomprensibile ciò che cercava. Perché allora cerca, se comprende che è incomprensibile ciò che cerca, se non perché non deve desistere, fino a quando progredisce nella ricerca dell'incomprensibile e diventa sempre migliore cercando un bene così grande, che si cerca per trovarlo e lo si trova per cercarlo? Perché lo si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore. È in questo senso che si può intendere l'affermazione che l'Ecclesiastico pone in bocca della Sapienza: Coloro che mi mangiano avranno ancora fame e coloro che mi bevono avranno ancora sete 7. Mangiano infatti e bevono, perché trovano, e, poiché hanno fame e sete, cercano ancora. La fede cerca, l'intelligenza trova; per questo il Profeta dice: Se non crederete, non comprenderete 8. E d'altra parte l'intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato; perché Dio guarda sui figli dell'uomo, come si canta nel Salmo ispirato, per vedere se c'è chi ha intelligenza, chi cerca Dio 9. Dunque per questo l'uomo deve essere intelligente, per cercare Dio.

Non inutilmente si cercano le vestigia della Trinità nella creatura

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Ci siamo dunque sufficientemente soffermati sulle cose che Dio ha creato per conoscere, per mezzo di esse, lui, che le ha create 10: Infatti le sue perfezioni invisibili, dopo la creazione del mondo, sono rese visibili all'intelligenza per mezzo delle cose che sono state fatte 11. Per questo nel libro della Sapienza vengono rimproverati coloro che dai beni visibili non seppero conoscere Colui che è, né, considerando le opere, seppero conoscere il loro artefice, ma il fuoco o il vento, o l'aria veloce, la volta stellata, le acque violente o i luminari del cielo, credettero dèi, governatori del mondo. Se quelle cose credettero dèi, perché dilettati dalla loro bellezza, sappiano quanto è migliore il padrone di esse, perché l'autore della bellezza le ha create. Se poi ciò che li ha colpiti è la loro forza e la loro energia, comprendano da queste cose quanto è più potente Colui che le ha formate, poiché dalla bellezza e dalla grandezza delle creature, argomentando, si poteva conoscere il loro Creatore 12. Ho citato queste parole del libro della Sapienza per impedire che qualche fedele giudichi vano ed inutile il mio tentativo con cui, partendo dalle cose, che nel loro ordine sono degli abbozzi di trinità, per elevarmi, come per gradi, fino allo spirito dell'uomo, ho cercato nelle creature le tracce di quella suprema Trinità, che cerchiamo quando cerchiamo Dio 13.

Riassunto dei libri precedenti

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Ma, poiché le esigenze della discussione e del ragionamento mi hanno costretto, nel corso di quattordici libri, a dire una quantità di cose, che non possiamo tutte abbracciare con un solo sguardo per riferirci con un rapido movimento di pensiero alle verità che vogliamo attingere, lasciando da parte ogni discussione, tenterò, per quanto lo potrò, con l'aiuto del Signore, di riassumere in breve ciò che, in ciascun libro, ho cercato di far comprendere, discutendolo ampiamente, e porrò, come sotto lo sguardo dello spirito, non gli argomenti con cui ho provato le mie asserzioni, ma le verità provate, facendo in modo che le conclusioni non siano talmente lontane dalle premesse, che l'esame delle conclusioni faccia dimenticare le premesse, o che, almeno, se ciò accadrà, si possa rapidamente, con una nuova lettura, ricordare ciò che si sarà dimenticato.

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Nel libro primo, basandomi sulle sacre Scritture, ho mostrato l'unità e l'uguaglianza di quella suprema Trinità 14. Nel secondo, terzo e quarto ho trattato lo stesso argomento; ma la trattazione diligente ed esauriente delle questioni delle missioni del Figlio e dello Spirito Santo costituisce l'argomento dei tre libri, ed ho dimostrato che Colui che è stato mandato non è minore di Colui che manda, per il fatto che questo manda e quello è mandato, perché la Trinità, che è uguale in tutto, è ugualmente indivisibile nel suo operare, essendo, per sua natura, immutabile, invisibile e ovunque presente 15. Nel quinto libro, a causa di coloro che ritengono che il Padre e il Figlio non sono di una stessa sostanza (perché pensano che tutto ciò che si dice di Dio si riferisca alla sostanza e, poiché generare ed essere generato, o essere generato ed essere ingenerato sono termini distinti, pretendono che si tratti di sostanze diverse) 16, ho dimostrato che non tutto ciò che si dice di Dio lo si dice sotto l'aspetto della sostanza come quando lo si afferma buono e grande e gli si danno altri simili attributi. Si dice anche sotto l'aspetto della relazione, ossia non rispetto a quello che è in se stesso, bensì rispetto a qualcosa che non è l'assoluto in Dio 17; per esempio quando si dice Padre in relazione al Figlio o si dice Signore in relazione alle creature che lo servono 18. Se queste attribuzioni relative hanno anche un riferimento al tempo come nell'invocazione del Salmista: Signore, tu sei divenuto per noi un rifugio 19, allora non è che a Dio accada qualcosa che lo faccia cambiare, ma egli rimane assolutamente immutabile nella sua natura o essenza 20. Nel libro sesto mi sono chiesto in che senso Cristo sia stato chiamato dall'Apostolo forza di Dio e sapienza di Dio 21, differendo a più tardi, per studiarla con più diligenza, la seguente questione: si deve dire che Colui che ha generato Cristo non è egli stesso sapienza, ma soltanto Padre della sapienza, o, al contrario, che egli è sapienza che ha generato la sapienza 22? Ma qualunque sia la risposta a questa alternativa, anche in questo libro appariva l'uguaglianza della Trinità, e come Dio non è triplice, ma Trinità, ed apparve che il Padre e il Figlio non sono qualcosa di duplice in rapporto allo Spirito Santo, realtà semplice, là dove i Tre non sono un qualcosa di più che uno solo di loro 23. Si è anche discusso come si possa intendere l'espressione del vescovo Ilario: L'eternità nel Padre, la bellezza nell'Immagine, la fruizione nel Dono 24. Nel settimo libro si spiega la questione che era stata differita e si giunge alla conclusione che Dio, in quanto ha generato il Figlio, non solo è il Padre della sua forza e della sua sapienza, ma è anche lui stesso forza e sapienza, come pure lo Spirito Santo, ma tuttavia non ci sono tre forze o tre sapienze, ma una sola forza ed una sola sapienza, come vi è un solo Dio ed una sola essenza 25. Poi mi sono chiesto in che senso si parli di una sola essenza e di tre Persone, o, come dicono alcuni scrittori greci, di una essenza e di tre sostanze 26, e ho risposto che sono le esigenze del linguaggio che vogliono che noi facciamo ricorso ad una sola parola per rispondere alla domanda: "Che cosa sono questi Tre?", perché noi confessiamo con piena verità che sono tre: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo 27. Nel libro ottavo ho fatto ricorso anche alla riflessione per mostrare chiaramente all'intelligenza che nella verità sostanziale non solo il Padre non è più grande del Figlio, ma che nemmeno tutti e due insieme sono un qualcosa di più grande del solo Spirito Santo; che due Persone qualsiasi nella medesima Trinità non sono un qualcosa di più grande di una sola; che tutte e tre prese insieme non sono un qualcosa di più grande che ciascuna considerata singolarmente 28. Poi, argomentando dalla verità immediatamente attinta dall'intelligenza, dal Bene supremo dal quale deriva ogni bene, dalla giustizia a motivo della quale l'anima giusta è amata anche dall'anima che non è ancora giusta, mi sono sforzato di far comprendere, per quanto è possibile, quella natura, non solo immateriale, ma anche immutabile, che è Dio 29; infine, riflettendo sulla carità, che è chiamata Dio nelle Sacre Scritture, ho incominciato a fare intravedere all'intelligenza, per quanto poco, la Trinità stessa, per analogia dell'amante, dell'amato, dell'amore 30. Nel libro nono la mia analisi giunge all'immagine di Dio: l'uomo, considerato nel suo spirito. Nello spirito umano ho trovato una specie di trinità, ossia lo spirito, la conoscenza con cui si conosce, l'amore con cui ama se stesso e la conoscenza che ha di sé; ho mostrato che queste tre cose sono uguali tra loro ed appartengono ad una medesima essenza 31. Nel libro decimo, ho ripreso lo stesso argomento con più attenzione e precisione e sono stato condotto a trovare nello spirito una trinità più manifesta: quella della memoria, dell'intelligenza, della volontà 32. Ma, poiché ho scoperto pure che lo spirito non può mai esistere senza ricordarsi di sé, senza comprendersi, senza amarsi, sebbene esso non pensi sempre a se stesso e, quando pensa a sé, non sempre riesca in questo stesso atto di pensiero a distinguersi dagli oggetti sensibili, ho rimandato a più tardi lo studio circa la Trinità, di cui lo spirito è immagine, per cercare una trinità nella stessa percezione degli oggetti visibili e permettere all'attenzione del lettore di esercitarsi su realtà che essa percepisce più chiaramente 33. Per questo, nel libro undicesimo mi sono soffermato sullo studio del senso della vista sapendo che ciò che vi avrei scoperto si sarebbe potuto applicare anche agli altri quattro sensi, senza bisogno di ripeterlo. E così è apparsa la trinità dell'uomo esteriore: trinità costituita dal corpo percepito, dalla forma da esso impressa nello sguardo del soggetto percipiente, e dall'attenzione della volontà che unisce l'uno all'altra 34. Ma apparve manifesto che questi tre elementi non sono uguali tra loro e non appartengono alla medesima sostanza. Poi, nell'anima stessa, a partire da ciò che, sentito all'esterno, è come introdotto in noi, ho scoperto un'altra trinità in cui i tre elementi sembrano appartenere alla medesima sostanza: l'immagine del corpo presente nella memoria, la forma che la riproduce quando lo sguardo del soggetto che pensa si volge ad essa, e l'attenzione della volontà che unisce l'una all'altra. Ma si è visto che questa trinità appartiene ancora all'uomo esteriore, perché ha la sua origine nei corpi che percepiamo dall'esterno. Nel libro dodicesimo ci è parso di dover distinguere la sapienza dalla scienza 35, e di dover cercare prima in quella che si chiama propriamente scienza, perché è inferiore alla sapienza, una specie di trinità nel suo genere; sebbene essa appartenga già all'uomo interiore, tuttavia non bisogna né dire né pensare che sia immagine di Dio 36. È questo l'argomento trattato nel libro tredicesimo, mostrando il valore della fede cristiana 37. Nel libro quattordicesimo invece è proprio la vera sapienza dell'uomo, cioè quella che gli è data per dono di Dio nella sua partecipazione a Dio stesso e che è distinta dalla scienza 38, che costituisce l'oggetto della mia indagine. Tale indagine è giunta a scoprire una trinità nell'immagine di Dio, che è l'uomo considerato nel suo spirito, che si rinnova nella conoscenza di Dio secondo l'immagine di Colui che ha creato l'uomo 39 a sua immagine 40, e così si percepisce che la sapienza si trova là dove c'è contemplazione delle realtà eterne.

Tutta la natura ci spinge a risalire a Dio

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Cerchiamo dunque ormai quella Trinità che è Dio in quelle realtà eterne, incorporee ed immutabili, nella cui piena contemplazione ci è promessa la vita beata, che è tale solo perché eterna 41. Infatti, non è soltanto l'autorità delle divine Scritture che ci insegna che Dio esiste, ma tutta intera la natura stessa che ci circonda, e di cui noi stessi facciamo parte, proclama l'esistenza di un supremo Creatore 42, che ha dotato la nostra natura di uno spirito e di una ragione, con cui vediamo di dover preferire gli esseri viventi ai non viventi, quelli dotati di senso ai non senzienti, quelli intelligenti ai non intelligenti, quelli immortali ai mortali, quelli potenti ai privi di potenza, quelli giusti agli ingiusti, quelli belli ai deformi, quelli buoni ai cattivi, quelli incorruttibili ai corruttibili, quelli immutabili ai mutevoli, quelli invisibili ai visibili, quelli incorporei ai corporei, quelli felici agli infelici. Per questo stesso motivo, perché noi poniamo senza esitazione il Creatore al di sopra delle creature, dobbiamo confessare che egli possiede la pienezza della vita, che sente e comprende tutto; che egli non può morire, corrompersi, mutare; che egli non è corpo ma lo spirito di tutti più potente, più giusto, più bello, più buono e più beato.

Le numerose perfezioni vengono ricondotte a poche fondamentali

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Ma queste affermazioni e tutte le altre che, espresse in modo simile con linguaggio umano, sembrano degne di Dio, convengono sia alla Trinità tutta intera, che è un Dio solo, sia, in questa stessa Trinità, a ciascuna Persona. Chi infatti oserà dire che o questo Dio unico, che è la stessa Trinità 43, o il Padre, o il Figlio, o lo Spirito Santo, non vive, o non sente nulla o non intende nulla, oppure che in quella natura, che fonda la loro mutua uguaglianza 44, qualcuna delle Persone è mortale, corruttibile, mutevole, corporea; ovvero infine ci sarà qualcuno che negherà che nella Trinità qualcuna delle Persone sia in sommo grado potente, giusta, bella, buona, beata 45? Se dunque tutte queste perfezioni e tutte le altre dello stesso ordine possono essere attribuite alla Trinità e, in essa, a ciascuna delle Persone, dove e come potremo scoprire la Trinità? Riduciamo dunque anzitutto queste numerosissime perfezioni ad alcune soltanto. La vita che si afferma esistere in Dio è la sua stessa esistenza e la sua natura. Per questo Dio vive di una vita che non è altro che ciò che egli stesso è per se stesso. Questa vita non è della stessa sorte di quella dell'albero, che è privo di intelligenza e di sensibilità, né della stessa sorte di quella degli animali; infatti la vita dell'animale è dotata di sensibilità che si diversifica in cinque sensi, ma è del tutto priva di intelligenza. Invece quella vita che è Dio sente e comprende tutto, ma Dio sente spiritualmente, non corporeamente, perché Dio è spirito 46. Infatti Dio non sente per mezzo del corpo, come gli animali che hanno un corpo, perché non è composto di anima e di corpo, e per questo 47, essendo semplice, quella natura sente come comprende, comprende come sente; in essa senso ed intelletto sono identici. Né la sua natura è tale che possa ad un dato momento cessare di esistere o incominciare ad esistere: è infatti immortale. Non invano di lui è detto che è il solo a possedere l'immortalità 48, perché è veramente immortalità l'immortalità di Colui la cui natura è priva di qualsiasi mutazione. Vera è pure l'eternità per la quale Dio è immutabile, senza inizio e senza fine e per ciò stesso incorruttibile. Si esprime dunque una sola e medesima cosa, sia che si dica che Dio è eterno, sia che si dica che è immortale, che è incorruttibile, che è immutabile; similmente quando si dice che è vivente, e intelligente o, che è lo stesso, sapiente, si dice la medesima cosa. Dio infatti non ha ricevuto una sapienza che lo abbia reso sapiente, ma egli stesso è la sapienza. E questa vita è la stessa cosa che la forza o la potenza, la stessa cosa che la bellezza, per cui è detto potente e bello. Che c'è infatti di più potente e di più bello della sapienza che si estende con potenza da una estremità all'altra del mondo e tutto amministra con dolcezza 49? La bontà e la giustizia differiscono forse tra loro nella natura di Dio, allo stesso modo che nelle sue opere, come se vi fossero due qualità distinte in Dio: una, la bontà, l'altra, la giustizia? Certamente no: la sua giustizia è la sua stessa bontà, e la sua bontà è la sua beatitudine stessa. E Dio è detto incorporeo, immateriale perché si creda e si comprenda 50 che egli è spirito, non corpo.

Tutto ciò che sembra affermato di Dio secondo la qualità deve essere compreso come detto dell'essenza

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Se dunque diciamo: "Eterno, immortale, incorruttibile, immutabile, vivente, sapiente, potente, bello, giusto, buono, beato, spirito", potrebbe sembrare che, fra tutti questi termini, solo l'ultimo designi la sostanza, mentre gli altri sembrerebbero designare solo le qualità di questa sostanza, ma non è così in quella natura ineffabile e semplice. Tutto ciò che ivi sembra venir affermato come concernente le qualità, deve essere compreso come riguardante la sostanza o l'essenza. Sia lungi da noi il pensare che, quando si dice che Dio è spirito, questa affermazione riguardi la sostanza, e quando si dice che è buono, tale affermazione concerna la qualità: l'una e l'altra affermazione riguardano la sostanza. Lo stesso si dica di tutte le altre perfezioni che abbiamo ricordato e di cui abbiamo già lungamente parlato nei libri precedenti. Fra le quattro prime perfezioni che abbiamo enumerato e distinto, cioè: eterno, immortale, incorruttibile, immutabile, scegliamone dunque una, perché, come ho già detto, queste quattro designano una sola realtà; affinché la nostra attenzione non si disperda nella considerazione di molte cose, scegliamo quella che abbiamo nominato al primo posto, cioè l'eternità. Facciamo la stessa cosa per le quattro del secondo gruppo: vivente, sapiente, potente, bello. E poiché anche gli animali hanno la vita, per quanto imperfetta, mentre non hanno la sapienza; poiché d'altra parte quando paragona la sapienza alla potenza, che sono tutte e due perfezioni dell'uomo, la Sacra Scrittura dice: Il sapiente è superiore al forte 51; poiché infine si chiamano correttamente belli anche i corpi, tra queste quattro perfezioni fra le quali abbiamo da scegliere; scegliamo la sapienza, sebbene occorra dire che queste quattro perfezioni in Dio non sono ineguali: ci sono infatti quattro parole, ma una sola realtà. Veniamo alle quattro del terzo ed ultimo gruppo. Benché in Dio essere giusto sia la stessa cosa che essere buono e beato, essere spirito la stessa cosa che essere giusto, buono e beato; tuttavia poiché negli uomini lo spirito può non essere beato, può essere giusto e buono, ma non ancora beato; poiché invece colui che è beato è inevitabilmente giusto, buono e spirito; scegliamo di preferenza la perfezione che nemmeno negli uomini può esistere senza le altre tre, cioè la beatitudine.

Come possiamo non solo credere, ma capire che Dio assolutamente semplice è Trinità?

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Quando dunque diciamo: "Eterno, sapiente, beato", queste tre perfezioni costituiscono forse quella Trinità che si chiama Dio? Abbiamo ridotto quelle dodici perfezioni al piccolo numero di tre; forse allo stesso modo noi possiamo ridurre queste tre ad una sola. Perché se nella natura divina sapienza e potenza, o vita e sapienza, possono essere una sola e medesima realtà, perché non potrebbero essere una sola e medesima cosa nella natura divina eternità e sapienza, o beatitudine e sapienza? Allora, allo stesso modo che era indifferente parlare di dodici o di tre perfezioni, quando abbiamo ridotto quelle molteplici perfezioni ad alcune, così è indifferente parlare di tre perfezioni o di un'unica perfezione alla quale si possono ridurre le altre due come abbiamo mostrato. Ma allora quale metodo di discussione, quale forza e quale potenza di intelligenza, quale vivacità di ragione, quale penetrazione di pensiero ci mostreranno, per tacere delle altre, come questa sola perfezione, questa sapienza che è chiamata Dio, è Trinità? Infatti Dio non percepisce una sapienza che gli proviene da qualcuno, come noi percepiamo una sapienza che ci proviene da lui, ma è egli stesso la sua sapienza, perché non sono due cose diverse la sapienza e l'essenza per Colui per il quale è una stessa cosa essere ed essere sapiente. Certo le Sacre Scritture affermano che Cristo è la forza di Dio e la sapienza di Dio 52, ma si è discusso nel libro settimo come si debba intendere questa espressione 53, perché non sembri che sia il Figlio a far sì che il Padre sia sapiente, ed il nostro ragionamento ci ha condotto a concludere che il Figlio è sapienza da sapienza, come è luce da luce, Dio da Dio. Riguardo allo Spirito Santo le nostre conclusioni non hanno potuto essere differenti: anch'egli è sapienza e tutte e tre le Persone insieme sono una sola sapienza, come sono un solo Dio, una sola essenza 54. Ma allora come comprendere che questa sapienza, che è Dio, è Trinità? Non ho detto "come credere", perché per i fedeli è questa una verità che non deve essere messa in questione, ma se possiamo in una certa maniera vedere per mezzo dell'intelligenza ciò che crediamo, quale sarà questa maniera?

Le analogie trinitarie nell'uomo

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Se infatti cerchiamo di ricordarci in quale momento, nel corso di questi libri, la nostra intelligenza ha cominciato ad intravedere la Trinità, troviamo che fu nel libro ottavo. In questo libro infatti, per quanto lo abbiamo potuto, abbiamo tentato con le nostre analisi di innalzare l'attenzione dello spirito fino all'intelligenza di quella suprema e immutabile natura che il nostro spirito non è. Tuttavia noi la contemplavamo non lontana da noi e al di sopra di noi, non spazialmente, ma per la sua adorabile e meravigliosa trascendenza, in modo che sembrava stare presso di noi per la pienezza della sua luce. In essa tuttavia non ci appariva ancora la Trinità, perché non tenevamo fermo lo sguardo dello spirito su quello splendore per cercarla; tutt'al più perché ciò che appariva non era una massa materiale, che ci obbligasse a vedere che la grandezza di due o tre era maggiore di quella di uno, cominciavamo ad intravedere quel mistero. Ma quando si giunse alla carità, che è stata chiamata Dio nelle Sacre Scritture 55, il mistero si chiarì un poco con la trinità dell'amante, dell'amato e dell'amore 56. Ma, poiché quella luce ineffabile abbagliava il nostro sguardo e poiché avvertivamo che la debolezza del nostro spirito non poteva ancora raggiungerla, inserendo una digressione tra ciò che avevamo iniziato a dire e ciò che avevamo deciso di dire, ci siamo rivolti al nostro spirito, secondo il quale l'uomo è stato fatto ad immagine di Dio 57, trovandovi un oggetto di studio più a noi familiare, per riposare la nostra attenzione affaticata, e così ci siamo soffermati dal libro IX al libro XII sulla creatura che siamo noi per poter, attraverso le cose create, vedere con l'intelligenza le perfezioni invisibili di Dio 58. Ed ecco che ora, dopo aver esercitato la nostra intelligenza nelle cose inferiori, quanto era necessario o forse più di quanto fosse necessario, vogliamo elevarci alla contemplazione di quella suprema Trinità che è Dio e non ne siamo capaci. Forse come vediamo delle trinità assai certe, quelle che hanno origine, venendo dal di fuori, dalle cose corporee, quelle che hanno origine quando vengono pensati gli oggetti percepiti esteriormente; o quando quelle cose che hanno origine nell'anima e non appartengono ai sensi del corpo, come la fede, come le virtù, che regolano la vita, sono conosciute dalla ragione con chiarezza e costituiscono oggetto della scienza; o quando lo spirito con cui conosciamo tutto ciò che a questo titolo diciamo di conoscere, conosce se stesso o si pensa; o quando discerne qualcosa di eterno e immutabile che non è esso stesso; forse che dunque come in tutti questi casi vediamo delle trinità assai certe, perché si producono in noi o sono in noi quando ricordiamo, vediamo, vogliamo tali cose, allo stesso modo vediamo anche il Dio Trinità, perché anche là vediamo con l'intelligenza uno che "dice" e il suo verbo, cioè il Padre e il Figlio, e, procedente dall'uno e dall'altro, la carità che è loro comune, cioè lo Spirito Santo? O non si deve invece dire che queste trinità che appartengono ai nostri sensi o alla nostra anima le vediamo più che crederle, mentre invece crediamo più che vedere che Dio è Trinità? Se è così, certamente o non vediamo, in quanto non la comprendiamo, alcuna delle perfezioni invisibili di Dio per mezzo delle cose create 59, o, se ne vediamo alcune, non vediamo in esse la Trinità, ed è là ciò che dobbiamo vedere, è ciò che, anche se non vediamo, dobbiamo credere. Ma che noi vediamo il bene immutabile, sebbene noi non siamo questo bene, lo mostra il libro ottavo 60, e l'abbiamo ricordato nel libro quattordicesimo, parlando della sapienza che l'uomo riceve da Dio 61. Perché dunque non vi riconosciamo la Trinità? Forse che questa sapienza, che è chiamata Dio, non comprende se stessa, non ama se stessa? Chi oserà dirlo? Chi non vede che là dove non c'è nessuna scienza non potrebbe in alcun modo esservi sapienza? O si dovrà ritenere forse che la sapienza, che è Dio, conosce le altre cose e non conosce se stessa o ama le altre cose e non ama se stessa? Sia affermare sia credere tali cose è stolto ed empio. Ecco allora che c'è qui la Trinità, cioè la sapienza, la conoscenza che essa ha di sé, l'amore che essa ha di sé. Allo stesso modo infatti anche nell'uomo abbiamo trovato una trinità, costituita dallo spirito, dalla conoscenza con cui esso si conosce, dall'amore con cui si ama 62.

L'analogia tra le trinità create e Dio è molto imperfetta

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Ma questi tre elementi sono nell'uomo, non sono l'uomo. L'uomo è infatti, secondo la definizione degli antichi, un animale ragionevole, mortale 63. Quelle realtà sono dunque ciò che c'è di migliore nell'uomo 64, ma esse non sono l'uomo. Ed una persona da sola, cioè ciascun uomo considerato singolarmente, ha quei tre elementi nello spirito o lo spirito. Se diamo dell'uomo quest'altra definizione: "l'uomo è una sostanza razionale che consta di anima e di corpo" 65 è fuori dubbio che l'uomo possiede un'anima che non è il corpo, possiede un corpo che non è l'anima. Di conseguenza quei tre elementi non sono l'uomo, appartengono all'uomo o sono nell'uomo. Supponendo anche che noi facciamo astrazione dal corpo e consideriamo solo l'anima, lo spirito è una parte di essa, ne è come il capo, l'occhio, il viso. Ma queste cose non si devono pensare come se fossero corporee. Non dunque l'anima, ma la parte migliore dell'anima è chiamata spirito 66. Ma possiamo forse dire che la Trinità si trova in Dio in modo da essere un qualcosa di Dio senza essere essa stessa Dio? Perciò ogni singolo uomo, chiamato immagine di Dio non secondo tutta l'ampiezza della sua natura, ma soltanto in quanto è spirito, è una sola persona, e l'immagine della Trinità è nello spirito. Invece quella Trinità di cui è immagine non è, tutta intera, nient'altro che Dio; tutta intera, nient'altro che Trinità. E nulla appartiene alla natura divina che non appartenga a quella Trinità: le tre Persone sono una sola essenza 67, non come ogni singolo uomo che è una sola persona.

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Ma vi è un'altra differenza importante: se nell'uomo consideriamo lo spirito e la conoscenza e l'amore che ha di sé o la memoria, l'intelligenza, la volontà 68, non c'è alcuna parte dello spirito di cui ci ricordiamo se non per mezzo della memoria, nessuna parte che comprendiamo se non per mezzo dell'intelligenza, nessuna parte che amiamo se non per mezzo della volontà 69. Ma in quella Trinità chi oserà dire che il Padre non comprende se stesso, il Figlio e lo Spirito Santo se non per mezzo del Figlio, che non li ama se non per mezzo dello Spirito Santo e da sé ricorda soltanto se stesso o il Figlio o lo Spirito Santo; che il Figlio a sua volta non ricorda se stesso e il Padre se non per mezzo del Padre e non li ama se non per mezzo dello Spirito Santo; che parimenti anche lo Spirito Santo per mezzo del Padre ricorda il Padre, il Figlio e se stesso, e per mezzo del Figlio comprende il Padre e il Figlio e se stesso, mentre, da sé, soltanto ama se stesso, il Padre e il Figlio; come se il Padre fosse la memoria sua, del Figlio e dello Spirito Santo, il Figlio, l'intelligenza sua, del Padre e dello Spirito Santo, lo Spirito Santo l'amore suo, del Padre e del Figlio? Chi avrebbe l'audacia di opinare e affermare tali cose circa la Trinità? Se ivi infatti è il Figlio solo a comprendere, per se stesso, per il Padre e per lo Spirito Santo, si ricade in quell'opinione assurda che la sapienza del Padre non gli proviene da lui stesso ma dal Figlio e che la sapienza non ha generato la sapienza, ma il Padre è detto essere sapiente per la sapienza che ha generato. Dove infatti non c'è intelligenza, non vi può nemmeno essere sapienza; di conseguenza se il Padre non comprende egli stesso per se stesso, ma è il Figlio che comprende per il Padre, non vi è dubbio che è il Figlio che fa sapiente il Padre. E se in Dio essere è la stessa cosa che essere sapiente, e se in lui l'essenza è identica alla sapienza, non è più il Figlio che riceve dal Padre l'essenza - come è vero - ma il Padre invece la riceve dal Figlio, ciò che è il colmo dell'assurdità e dell'errore. Tale assurdità abbiamo discusso, condannato, respinto nella maniera più formale nel libro settimo 70. Il Padre è dunque sapiente per la sua propria sapienza, che egli stesso è, e il Figlio è la sapienza del Padre che procede dalla sapienza che è il Padre, dal quale il Figlio è stato generato. Di conseguenza il Padre anche comprende per la sua propria intelligenza che egli stesso è; chi infatti non avesse l'intelligenza non potrebbe avere la sapienza; il Figlio invece è l'intelligenza del Padre, generato dall'intelligenza che è il Padre. Lo stesso si può affermare senza inconveniente della memoria. Come può essere infatti sapiente colui che nulla ricorda o non si ricorda di sé? Dunque in quanto è sapienza il Padre, sapienza il Figlio 71, allo stesso modo che si ricorda per sé il Padre, così si ricorda per sé il Figlio; e come il Padre si ricorda di sé e del Figlio non con la memoria del Figlio, ma con la sua, così il Figlio si ricorda di sé e del Padre non con la memoria del Padre, ma con la propria. Infine chi potrebbe dire che vi è sapienza dove non vi è in alcun modo dilezione? Da ciò si conclude che il Padre è il suo proprio amore, come è la sua intelligenza e la sua memoria. Ecco dunque che quelle tre perfezioni: la memoria, l'intelligenza, la dilezione o volontà, in quella suprema ed immutabile essenza che è Dio, non sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma il Padre solo. E poiché anche il Figlio è sapienza generata 72 dalla sapienza, come non è il Padre che comprende per lui, non è nemmeno lo Spirito Santo che comprende per lui, ma egli stesso per se stesso; così pure non è il Padre che ricorda per lui, né lo Spirito Santo che ama per lui, ma lui per se stesso; egli infatti è la sua propria memoria, la sua intelligenza, il suo amore, ma che egli sia tale gli proviene dal Padre, da cui è nato. Anche lo Spirito Santo, poiché è sapienza che procede dalla sapienza 73, non ha il Padre come memoria, il Figlio come intelligenza e se stesso come amore; infatti non sarebbe nemmeno sapienza, se qualche altro ricordasse per lui e un altro comprendesse per lui ed egli stesso soltanto amasse per se stesso, ma anch'egli ha queste tre perfezioni e le possiede in tal modo, che è egli stesso tali perfezioni. Tuttavia che egli sia tale gli proviene dalla fonte da cui procede.

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Quale uomo dunque può comprendere questa sapienza con la quale Dio conosce tutte le cose in modo che quelle che si dicono passate in lui non passino, né quelle che si dicono future si attende che si realizzino come se fossero ancora assenti, ma quelle passate e quelle future siano tutte presenti con le presenti; ed in modo che non siano pensate ad una ad una, cosicché il suo pensiero passi dalle une alle altre, ma le abbracci tutte insieme con un solo sguardo; quale uomo, dico, comprende questa sapienza che è insieme preveggenza, che è scienza, quando noi non comprendiamo nemmeno la nostra sapienza? Se le cose presenti ai nostri sensi o alla nostra intelligenza le possiamo vedere in qualche modo, invece quelle che sono assenti e tuttavia furono una volta presenti, le conosciamo per mezzo della memoria, quelle almeno di cui non ci siamo dimenticati. Né congetturiamo le cose passate in base alle cose future, ma quelle future in base alle passate ed anche queste con conoscenza incerta. Quando infatti prevediamo alcuni nostri pensieri futuri con maggior chiarezza e certezza come i più vicini a realizzarsi, lo dobbiamo all'azione della memoria (quando siamo capaci di farlo per quanto è in nostro potere), memoria che sembra riguardare le cose passate, non quelle future. Ci è facile fare una tale esperienza in quei discorsi o cantici, dei quali possiamo recitare a memoria il susseguirsi delle frasi. Se infatti non vedessimo in anticipo con il pensiero ciò che segue, certamente non diremmo nulla; e tuttavia a far sì che vediamo in anticipo non è la preveggenza, ma la memoria. Perché, fino a quando non abbiamo finito di parlare o di cantare, non proferiamo nulla che non sia stato previsto e considerato in anticipo. E tuttavia, quando facciamo questo, non si dice che noi cantiamo o recitiamo con l'aiuto della preveggenza, ma della memoria; e coloro che hanno una capacità fuori del comune nel recitare a questo modo delle lunghe composizioni, vengono esaltati di solito non per la loro preveggenza, ma per la loro memoria. Che questo accada nella nostra anima lo sappiamo e ne siamo assolutamente certi, ma quanto maggiore è l'attenzione che poniamo nel voler comprendere come questo accada, tanto più il nostro linguaggio viene sopraffatto e la stessa attenzione non rimane ferma fino al punto di permettere alla nostra intelligenza, in mancanza della nostra parola, di giungere ad un qualcosa di chiaro. Pensiamo noi allora di poter comprendere, data la così grande debolezza del nostro spirito, come la preveggenza è identica alla memoria e all'intelligenza, in Dio che non vede le cose pensandole ad una ad una, ma abbraccia in una visione eterna, immutabile ed ineffabile tutto ciò che conosce? In mezzo a queste difficoltà e complicazioni è grato gridare al Dio vivente: Troppo mirabile è la tua scienza; troppo sublime, e non posso comprenderla 74. A partire dalla mia esperienza, comprendo quanto sia mirabile ed incomprensibile la tua scienza 75 con la quale mi hai creato; e tuttavia nelle mie meditazioni mi infiamma un fuoco 76 che mi spinge a cercare sempre la tua faccia 77.

La conoscenza di Dio "attraverso uno specchio in enigma"

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So che la sapienza è una sostanza immateriale, che essa è una luce in cui si vede ciò che non si vede con gli occhi della carne; e tuttavia quell'uomo così eminente e così spirituale dice: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma, allora a faccia a faccia 78. Se ci chiediamo quale sia e che cosa sia questo specchio, il primo pensiero che ci viene in mente è certamente quello che nello specchio non si vede che un'immagine. Ci siamo dunque sforzati, a partire da questa immagine che siamo noi, di vedere in qualche modo, come in uno specchio, Colui che ci ha fatti. È questo il senso di quest'altra espressione dello stesso Apostolo: Noi che a faccia svelata comprendiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, salendo di gloria in gloria, come ad opera dello spirito del Signore 79. Chiama speculantes coloro che contemplano in uno specchio (speculum), non coloro che guardano da un posto di osservazione (de specula). Il testo greco, dal quale sono state tradotte le Lettere dell'Apostolo, non presenta alcuna ambiguità al riguardo. In greco infatti la parola che significa specchio, in cui appaiono le immagini delle cose, è totalmente diversa, anche per il suono, dalla parola che significa "specola" dall'alto della quale lo sguardo si estende più lontano ed appare sufficientemente chiaro che l'Apostolo ha derivato da specchio e non da specola la parola speculantes, quando dice che contempliamo come in uno specchio (speculantes) la gloria di Dio. Quanto a queste parole: siamo trasformati nella stessa immagine 80, è certo che con esse l'Apostolo vuol fare riferimento all'immagine di Dio, che egli chiama la stessa immagine, cioè quella stessa che noi contempliamo, perché questa stessa immagine è anche la gloria di Dio, come dice in un altro passo: L'uomo non deve velare il suo capo, dato che egli è l'immagine di Dio 81. Il senso di queste parole è stato precisato nel libro dodicesimo 82. Siamo trasformati egli dice dunque, siamo cioè mutati da una forma ad un'altra e passiamo da una forma oscura ad una forma luminosa perché la stessa forma oscura è immagine di Dio e, se è immagine, è certamente anche gloria, nella quale siamo stati creati uomini, superiori agli altri animali 83. È della stessa natura umana che è detto: L'uomo non deve velare il suo capo, dato che è immagine e gloria di Dio 84. Questa natura, la più nobile tra le cose create, quando viene giustificata, ad opera del suo Creatore, dall'empietà, lascia la sua forma deforme (deformis forma), per acquisire una forma bella (forma formosa). Perché anche nella stessa empietà, quanto più è degna di biasimo la corruzione, tanto più certamente è degna di lode la natura. È per questo che l'Apostolo aggiunge: di gloria in gloria 85; dalla gloria della creazione alla gloria della giustificazione. Tuttavia si può intendere in altra maniera l'espressione: di gloria in gloria; dalla gloria della fede alla gloria della visione, dalla gloria che fa di noi dei figli di Dio alla gloria che ci renderà simili a lui, perché lo vedremo come egli è 86. E le parole che aggiunge: come ad opera dello Spirito del Signore 87, mostrano che è per la grazia di Dio che ci viene conferito il beneficio di una trasformazione così desiderabile.

L'enigma è una allegoria oscura

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Tutto questo è stato detto per commentare le parole dell'Apostolo che afferma che noi vediamo ora come in uno specchio 88. Le parole seguenti: in enigma, sono incomprensibili a tutti gli illetterati che ignorano le figure della retorica, che i Greci chiamano tropi, parola passata dalla loro lingua nella lingua latina. Come infatti parliamo più correntemente di "schemi" che di "figure", così parliamo più correntemente di "tropi" che di "figure retoriche". Quanto a tradurre in latino i nomi di ogni tropo o figura, in modo che ad ogni parola greca ne corrisponda una latina, è impresa fin troppo difficile e inusitata. Così alcuni dei nostri interpreti, volendo evitare la parola greca, traducono il passo in cui l'Apostolo dice: Queste cose sono dette in senso allegorico 89, con questa circonlocuzione: "Queste cose significano una cosa per un'altra" 90. Ora questo genere di tropo, cioè l'allegoria, si suddivide in molte specie, tra le quali si trova anche quella che si chiama "enigma". Ma è necessario che la definizione di un termine generico abbracci tutte le specie. Per questo, come ogni cavallo è animale, ma non ogni animale è cavallo, così ogni enigma è allegoria, ma non ogni allegoria è enigma. Che è dunque un'allegoria se non un tropo in cui si fa intendere una cosa con un'altra, come in quel passo della Lettera ai Tessalonicesi: Dunque non dormiamo come gli altri uomini, ma vigiliamo e siamo sobri. Infatti quelli che dormono, dormono di notte e quelli che si inebriano, si inebriano di notte; ma noi che siamo figli del giorno, siamo sobri 91? Ma questa allegoria non è un enigma. Infatti, eccetto per coloro che sono molto tardi di ingegno, il senso di questa espressione è pienamente evidente. L'enigma invece è, per spiegarlo in breve, un'allegoria oscura 92, come il passo: La sanguisuga ha tre figlie 93, ed altri di questo genere. Tuttavia, quando l'Apostolo parla di allegoria, non la individua nelle parole, ma in un fatto, nel fatto in cui mostra che i due figli di Abramo, uno della schiava, l'altro della donna libera 94 (non si trattava di parole, ma anche di un fatto) devono significare i due Testamenti; questo fatto prima della spiegazione restava oscuro. Perciò una tale allegoria, termine generico, potrebbe essere chiamata enigma, se si usa un termine specifico.

L'Apostolo col termine "specchio" indica l'immagine, con quello di "enigma" una rassomiglianza, ma oscura

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Ma, poiché non soltanto coloro che ignorano le lettere, in cui si studiano i tropi, si chiedono che cosa abbia voluto dire l'Apostolo quando afferma che ora noi vediamo in enigma 95, ma anche coloro che le conoscono desiderano tuttavia sapere che cosa sia quell'enigma in cui ora vediamo, dobbiamo formare una sola espressione costituita da queste due affermazioni, quella che dice: Vediamo ora attraverso uno specchio, e quella che ha aggiunto: in enigma. È infatti una sola espressione perché l'Apostolo dice in una sola frase così: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma 96. Perciò, a quanto mi sembra, se con la parola "specchio" volle significare l'immagine, con la parola "enigma", sebbene abbia voluto significare una "somiglianza", ha voluto tuttavia significare una somiglianza oscura e difficile da attingere. Se dunque si può intendere che con le parole "specchio" ed "enigma" l'Apostolo ha voluto significare qualunque somiglianza adatta a farci comprendere Dio, nella misura in cui è possibile, tuttavia niente è più adatto di ciò che, non senza fondamento, è chiamato immagine di Dio. Nessuno si meravigli dunque - dato il modo di vedere che ci è concesso durante questa vita, cioè attraverso uno specchio e in enigma - dello sforzo che dobbiamo fare per vedere in qualche modo. Perché se fosse facile vedere, non si incontrerebbe in questo passo la parola "enigma". E l'enigma è ancora più grande per questo: che non vediamo ciò che non possiamo non vedere. Infatti chi non vede il suo pensiero? E chi vede il suo pensiero, non dico con gli occhi della carne, ma con lo sguardo interiore? Chi non lo vede e chi lo vede? Perché il pensiero è una specie di visione dell'anima, sia che siano presenti gli oggetti che anche gli occhi del corpo possono vedere o gli altri sensi possono percepire, sia che tali oggetti siano assenti e con il pensiero si vedano le loro immagini; sia che non venga pensato nulla di questo, ma si pensino cose che non sono corporee, né sono immagini di cose corporee, così si pensano le virtù e i vizi e lo stesso pensiero pensa se stesso; sia che si pensino le conoscenze trasmesse dalle scienze e dalle arti liberali; sia che si pensino le cause superiori di tutte queste cose o le loro ragioni nella natura immutabile; sia che si pensino cose cattive, futili e false, sia che non vi consenta il senso, sia che erri il consenso.

Il verbo dello spirito specchio ed enigma del Verbo divino

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Ma parliamo ora di queste cose già conosciute alle quali pensiamo e che restano nella nostra conoscenza anche quando non le pensiamo, sia che si tratti di cose che appartengono alla scienza contemplativa, che si deve chiamare propriamente sapienza, sia che appartengano alla scienza attiva, che si deve chiamare propriamente scienza, come ho spiegato. L'una e l'altra insieme appartengono infatti allo stesso spirito e costituiscono una sola immagine di Dio. Se si tratta in modo più speciale ed esclusivamente di quella che è inferiore, non bisogna allora dire che è immagine di Dio, sebbene anche allora vi si possa trovare qualche somiglianza della Trinità, come ho mostrato nel libro tredicesimo 97. Ora dunque noi parliamo della scienza dell'uomo considerata in tutta la sua estensione, scienza nella quale conosciamo tutte le cose che conosciamo; cose vere di certo, altrimenti non le conosceremmo. Infatti nessuno conosce le cose false, se non quando sa che sono false e, se conosce ciò, conosce il vero, perché è vero che quelle cose sono false. Ora discutiamo dunque delle cose conosciute alle quali pensiamo e che conosciamo, anche se non le pensiamo. Ma non c'è dubbio che, se vogliamo esprimerle, non lo possiamo fare che se le pensiamo. Infatti, sebbene non vi sia il suono delle parole, sempre parla nel suo cuore colui che pensa. Per questo vi è la seguente espressione nel libro della Sapienza: Dissero nel loro interno pensando male 98. Il senso delle parole: Dissero nel loro interno è spiegato dalla parola pensando. Vi è nel Vangelo un testo analogo; vi si narra che alcuni Scribi udendo il Signore dire al paralitico: Confida, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati; dissero dentro di sé: Costui bestemmia 99. Che significa infatti: Dissero dentro di sé, se non "dissero pensando"? Infine il testo continua: Ma Gesù, conosciuti i loro pensieri, disse: Perché pensate il male nei vostri cuori? 100. Così Matteo. Ma Luca racconta lo stesso avvenimento in questi termini: Gli Scribi e i Farisei incominciarono a pensare, dicendo: Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati se non Iddio solo? Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, rispose loro dicendo: Che pensate nei vostri cuori? 101. Come nel Libro della Sapienza c'è: Dissero pensando, qui c'è: Pensarono dicendo. L'uno e l'altro testo mostrano che parlare dentro di sé e nel proprio cuore equivale a parlare pensando. I Farisei hanno parlato dentro di sé, e il Signore ha detto loro: Che pensate? Allo stesso modo, a proposito di quel ricco, i cui campi avevano prodotto frutti copiosi, il Signore dice: E pensava dentro di sé, dicendo 102.

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I pensieri dunque sono una specie di linguaggio del cuore, nel quale il Signore ci mostra che esiste una bocca, quando dice: Non ciò che entra nella bocca contamina l'uomo, ma ciò che esce dalla bocca, questo contamina l'uomo 103. In una sola frase il Signore parla in qualche modo di due bocche dell'uomo: una del corpo, una del cuore. Perché è evidente che secondo l'opinione dei Giudei, ciò che contamina l'uomo entra per la bocca del corpo, mentre, secondo l'affermazione del Signore, ciò che contamina l'uomo esce dalla bocca del cuore 104. Così infatti egli stesso ha spiegato le sue parole. Perché poco dopo su questo argomento dice ai suoi discepoli: Siete ancora, anche voi, senza intelligenza? Non capite che quanto entra per la bocca, passa nel ventre e finisce in una fogna? 105.In questo passo si parla, in maniera assai evidente, della bocca del corpo. Ma nel passo che segue allude alla bocca del cuore, quando dice: Ma quel che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è questo che contamina l'uomo, perché dal cuore vengono i cattivi pensieri 106. Che cosa si può pretendere di più chiaro di questa spiegazione? Tuttavia quando diciamo che i pensieri sono le parole del cuore, non neghiamo per questo che siano anche visioni scaturite dalla visione della conoscenza implicita (notitia), almeno quando sono vere. Infatti, quando queste cose si producono al di fuori per mezzo del corpo, una cosa è la parola, altra la visione, ma all'interno quando pensiamo sono tutte e due una cosa sola. Proprio come l'atto di vedere e di udire sono due cose distinte nei sensi del corpo, mentre nell'anima udire e vedere non sono cose diverse; e per questo, mentre la parola esteriore non si vede, ma invece si sente, al contrario le parole interiori, cioè i pensieri, sono state viste, non udite dal Signore, come ci dice il santo Vangelo. Il testo afferma: Dissero dentro di sé: Costui bestemmia, e poi aggiunge: E Gesù, vedendo i loro pensieri 107. Dunque egli vide ciò che essi dissero. Infatti vide con il suo pensiero i loro pensieri che ritenevano di essere i soli a vedere.

Il verbo che diciamo nel cuore quando pensiamo il vero non appartiene a nessuna lingua

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Chiunque perciò può comprendere che cosa sia il verbo, non soltanto prima che risuoni al di fuori, ma anche prima che il pensiero si occupi delle immagini dei suoni (questo verbo infatti non appartiene ad alcuna lingua, a nessuna di quelle che chiamano "lingue delle genti", tra le quali c'è anche la nostra lingua latina); chiunque, dico, può comprendere che cosa sia il verbo, può già vedere, per mezzo di questo specchio ed in questo enigma 108 una certa somiglianza di quel Verbo di cui è detto: In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio 109. Infatti quando diciamo il vero, cioè ciò che sappiamo, è necessario che nasca dalla scienza che conserviamo nella nostra memoria un verbo che sia pienamente della stessa specie della scienza da cui è nato. Il pensiero che si è formato a partire da ciò che già sappiamo è il verbo che pronunciamo nel cuore: verbo che non è né greco, né latino, che non appartiene ad alcun'altra lingua; ma quando c'è bisogno di portarlo a conoscenza di coloro ai quali parliamo, si fa ricorso a qualche segno che lo esprima. Tale segno è nella maggior parte dei casi un suono, talvolta è un gesto; il primo si dirige agli orecchi, il secondo agli occhi, affinché per mezzo dei segni corporei venga fatto conoscere anche ai sensi corporei il verbo che portiamo nello spirito. Perché anche il fare un gesto, che altro è se non parlare, in qualche modo, visibilmente? Nelle Sacre Scritture si trova una prova di questa affermazione; infatti nel Vangelo secondo Giovanni si legge: In verità, in verità vi dico, uno di voi mi tradirà. I discepoli allora si guardarono l'un l'altro, non sapendo a chi volesse alludere. Ma uno dei suoi discepoli, quello da Gesù prediletto, stava appoggiato presso il petto di lui. A questo fece cenno Simon Pietro e gli disse: chi è quello di cui parla? 110. Ecco, Pietro esprime con un gesto ciò che non osa dire con le parole. Ma questi segni corporei ed altri di questo genere sono diretti agli orecchi o agli occhi dei presenti con i quali parliamo. La Scrittura invece è stata inventata anche per permetterci di comunicare con gli assenti, ma le lettere scritte sono segni delle parole, mentre le parole nella nostra conversazione sono segni delle cose che pensiamo 111.

Somiglianza del Verbo divino al nostro verbo interiore, in cui però esiste sempre una dissomiglianza profonda col Verbo di Dio

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Perciò il verbo che risuona al di fuori è segno del verbo che risplende all'interno e che, più di ogni altro, merita tale nome di verbo. Perché ciò che pronunciamo materialmente con la bocca è voce del verbo e si chiama anch'esso verbo in quanto serve al verbo interiore per apparire all'esterno. Il nostro verbo infatti si fa in qualche modo voce del corpo servendosene per manifestarsi ai sensi umani, alla stessa maniera che il Verbo di Dio si è fatto carne 112, assumendola per manifestarsi sensibilmente agli uomini 113. E come il nostro verbo si fa voce, senza cambiarsi in cose, così il Verbo di Dio si è fatto carne, ma non si pensi assolutamente che si è mutato in carne. Infatti il nostro verbo si fa voce, e il Verbo di Dio si è fatto carne per assunzione rispettivamente della voce e della carne, non per consunzione di sé nella voce e nella carne. Ecco perché chi desidera trovare una qualche rassomiglianza del Verbo di Dio, somiglianza d'altra parte con molte dissomiglianze, non deve considerare il nostro verbo che risuona agli orecchi, né quando lo proferiamo con la voce, né quando lo pensiamo in silenzio. Perché, anche silenziosamente, si possono pensare i suoni delle parole di tutti gli idiomi, e si possono recitare interiormente dei poemi, senza che si muovano le labbra; non soltanto i ritmi delle sillabe, ma anche le melodie dei canti, benché siano cose corporee ed appartengano a quel senso corporeo che si chiama udito, per mezzo di immagini corporee che li rappresentano sono presenti al pensiero di coloro che in silenzio fanno scorrere tutti questi ricordi. Ma bisogna superare tutto ciò per giungere a quel verbo umano che è una specie di somiglianza in cui possiamo vedere un po', come in enigma 114, il Verbo di Dio, non quel verbo che è stato indirizzato a questo o a quel Profeta di cui si è detto: Il Verbo di Dio si diffondeva e si moltiplicava 115, e del quale è detto ancora: Dunque la fede dipende dall'ascolto, e l'ascolto dalla parola di Dio 116; o infine: Perché accogliendo da noi il verbo che Dio vi ha fatto udire, voi lo riceveste non come verbo di uomini, ma, com'è in realtà, verbo di Dio 117. E nella Scrittura vi sono innumerevoli testimonianze che parlano di quel verbo di Dio che, per mezzo dei suoni appartenenti a molte e varie lingue, si diffonde nei cuori e sulle labbra degli uomini. Si parla in questo caso di verbo di Dio, perché ci presenta un insegnamento divino e non umano. Ma il Verbo di Dio che noi cerchiamo di vedere ora in qualche modo attraverso questa somiglianza è quello di cui è detto: Il Verbo era Dio 118; del quale è detto: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui 119; di cui è detto: E il Verbo si è fatto carne 120; di cui è detto: La fonte della sapienza è il Verbo di Dio nei luoghi eccelsi 121. Dobbiamo giungere dunque a quel verbo dell'uomo 122, a quel verbo di un essere dotato di anima razionale 123, a quel verbo dell'immagine di Dio - immagine non nata da Dio, ma creata da Dio 124 -, verbo che non è nemmeno proferito in un suono né pensato alla maniera di un suono - ché allora dovrebbe appartenere a qualche lingua -, ma che è anteriore a tutti i segni in cui viene espresso ed è generato dalla scienza immanente all'anima, quando questa stessa scienza si esprime in una parola interiore tale quale è. Infatti la visione del pensiero è in tutto simile alla visione della scienza. Perché questa scienza, quando viene espressa attraverso un suono o qualche segno corporeo, non viene espressa com'è, ma come può essere vista o udita dal corpo. Ma quando ciò che è nel verbo riproduce esattamente ciò che è nella conoscenza implicita (notitia), è allora che c'è un verbo vero e c'è la verità quale l'uomo la desidera; che cioè quanto c'è nella conoscenza ci sia anche nel verbo, che ciò che non è nella conoscenza non sia nemmeno nel verbo. Si riconosce qui quel Sì, sì; no, no 125. Così la somiglianza dell'immagine creata si approssima, per quanto è possibile, alla somiglianza dell'immagine generata, quella per la quale si afferma che Dio Figlio è simile sostanzialmente in tutto al Padre. Bisogna rilevare in questo enigma anche un'altra somiglianza con il Verbo di Dio. Come è detto di quel Verbo: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui 126, testo in cui è affermato che Dio ha fatto tutto per mezzo del Verbo suo unigenito, così l'uomo non fa nulla che prima non dica nel suo cuore; per questo è scritto: Il verbo è l'inizio di ogni opera 127. Ma anche qui, quando il verbo è vero, allora è l'inizio di un'opera buona. Ora il verbo è vero, quando è generato dalla scienza del bene operare, cosicché anche là sia rispettato il: Sì, sì; no, no 128. Se la scienza che regola la vita pronuncia sì, questo sì sia anche nel verbo che regola l'azione; e vi sia no, se è no. Altrimenti questo verbo sarà menzogna, non verità, e ciò che ne procederà sarà peccato, non azione retta. Vi è ancora tra il Verbo di Dio e il nostro questa somiglianza. Il nostro verbo può esistere, senza che si traduca in azione, ma non vi può essere azione, se non la preceda il verbo, come il Verbo di Dio ha potuto esistere senza che esistesse alcuna creatura 129, ma nessuna creatura potrebbe esistere se non per opera del Verbo per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose 130. Di conseguenza non Dio Padre, non lo Spirito Santo, non la Trinità stessa, ma il Figlio solo, che è il Verbo di Dio, si è fatto carne 131 (sebbene l'incarnazione sia opera della Trinità), affinché, seguendo ed imitando il nostro verbo il suo esempio, vivessimo nella giustizia, cioè non avessimo sia nella contemplazione sia nell'azione del nostro verbo alcuna menzogna. Senza dubbio verrà un giorno in cui questa immagine attingerà la sua perfezione. È per condurci a questa perfezione che il buon Maestro ci istruisce con la fede cristiana e gli insegnamenti della religione affinché a faccia svelata 132, liberati dal velo della Legge che è come l'adombramento delle cose future 133, contempliamo la gloria di Dio, cioè vedendolo attraverso uno specchio, siamo trasformati nella medesima immagine di gloria in gloria, come per opera dello Spirito di Dio 134, secondo la spiegazione che di queste parole abbiamo già data 135.

1521

Quando dunque, con questa trasformazione, questa immagine sarà rinnovata fino a raggiungere la sua perfezione 136, saremo simili a Dio, perché lo vedremo non per mezzo di uno specchio, ma come egli è 137, o come dice l'apostolo Paolo: a faccia a faccia 138. Ma chi può spiegare quanta dissomiglianza c'è ora in questo specchio, in questo enigma 139, in questa imperfetta somiglianza? Mi sforzerò tuttavia con alcuni tratti di rendere avvertibili queste differenze nella misura in cui mi sarà possibile.

Confutazione degli Accademici

In


primo luogo questa stessa scienza, che informa secondo verità il nostro pensiero, quando diciamo ciò che sappiamo, di che genere è ed in qual misura un uomo, per quanto competente e dotto egli sia, può possederla? Prescindiamo da ciò che nell'anima è apporto dei sensi; in questo campo la realtà è così spesso diversa dall'apparenza che l'insensato, avendo l'anima troppo ingombra di queste false apparenze, si ritiene pieno di buon senso; per questo la filosofia dell'Accademia ha preso vigore fino al punto che, dubitando di tutto, è caduta in una follia più miserevole 140. Prescindendo dunque da ciò che si trova nell'anima come apporto dei sensi, c'è, fra quelle che ci restano, una conoscenza ugualmente certa di quella che abbiamo di vivere? In questo caso non abbiamo timore alcuno che ci accada di essere ingannati da qualche falsa apparenza 141, perché è certo che anche colui che si inganna, vive. Qui non accade come nel caso della vista degli oggetti esterni, in cui l'occhio si può ingannare, come si inganna quando un remo appare spezzato nell'acqua 142, quando una torre sembra muoversi a coloro che navigano 143, e mille altri casi 144 in cui la realtà è differente da ciò che appare, perché questo non si vede con l'occhio della carne. È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere, cosicché un filosofo dell'Accademia non può neppure obiettare: "Forse tu dormi senza saperlo, e quello che tu vedi lo vedi in sogno". Chi non sa infatti che le cose viste in sogno sono assai simili alle cose viste in stato di veglia 145? Ma colui che, con scienza certa, sa di vivere, non dice: "So di essere sveglio", ma: "So di vivere", dunque che dorma o che sia sveglio, vive. Si tratta di un sapere che il sonno non può rendere illusorio, perché sia dormire che vedere in sogno sono proprietà di uno che vive. Né contro questa scienza l'Accademico può obiettare: "Forse sei pazzo senza saperlo", perché, è vero che anche le visioni dei folli sono estremamente simili alle visioni dei sani di mente, ma colui che è folle, vive 146. E contro gli Accademici non afferma: "So di non essere pazzo", ma: "So di vivere". Non si può dunque sbagliare, né può mentire colui che dice che sa di vivere. Si possono dunque opporre innumerevoli esempi di errori dei sensi a colui che afferma: "So di vivere", non ne temerà alcuno, perché colui stesso che si inganna, vive. Ma se la scienza umana si limita a queste conoscenze, sarebbero ben poche, a meno che non si moltiplichino in ogni direzione, in modo tale che non soltanto divengano più numerose, ma si estendano all'infinito. Infatti colui che afferma: "So di vivere", afferma di sapere una cosa 147; ma se dice: "So che so di vivere" sa già due cose; il fatto poi che egli sa queste due cose, significa che ne conosce una terza; procedendo così ne può aggiungere una quarta, una quinta, e innumerevoli, se ne è capace. Ma, poiché non può con un'addizione sempre rinnovata di singole unità, né comprendere un numero innumerevole né esprimerlo con una ripetizione indefinita, comprende almeno e dice con assoluta certezza che questa affermazione è vera e che può ripeterla un numero così grande di volte che veramente il numero infinito di essa non si può comprendere, né esprimere. Altrettanto si può affermare quando si tratta delle certezze proprie della volontà. Non sarebbe prenderlo in giro rispondere: "Ti inganni" a qualcuno che dicesse: "Voglio essere felice"? E se egli dice: "So che voglio questo e so di saper questo", può aggiungere una terza certezza alle due prime, cioè che egli sa queste due verità e poi una quarta: che sa di sapere queste due verità e così continuare all'infinito. Così se qualcuno dice: "Non voglio sbagliare", non sarà forse vero che, sia che sbagli, sia che non sbagli, in ogni caso è vero che non vuole sbagliare? Chi avrà l'impudenza di dirgli: "Forse ti inganni"? perché è fuori dubbio che, sebbene si inganni su tutte le altre cose, non si inganna su questa: che non vuole ingannarsi. E se dice che sa questa verità, aumenta il numero delle sue conoscenze, quanto vuole, sino ad ottenere un numero infinito. Infatti colui che dice: "Non voglio ingannarmi e so che non lo voglio e so di sapere questo" può già, sebbene sia difficile esprimerlo, mostrare che vi è là la fonte di un numero infinito. Esistono altri esempi che hanno grande forza contro gli Accademici, che pretendono che l'uomo non possa sapere nulla. Ma bisogna usare moderazione, tanto più che questo non costituisce l'oggetto dell'indagine del presente lavoro. Abbiamo scritto tre libri su questo argomento subito dopo la nostra conversazione. Chi potrà e vorrà leggerli e, avendoli letti, li avrà compresi, non si lascerà scuotere certamente da alcuno dei numerosi argomenti che essi hanno escogitato contro la possibilità di attingere la verità. Ci sono infatti due specie di conoscenze: quelle che l'anima percepisce per mezzo dei sensi del corpo e quelle che essa percepisce da sé: quei filosofi hanno detto molte chiacchiere contro il valore della conoscenza dei sensi, ma alcune conoscenze di cose vere che l'anima percepisce da sé con la più grande certezza (come è quella per cui afferma: "So di vivere" e di cui ho parlato) non hanno potuto in alcun modo revocarle in dubbio. Ma sia lungi da noi il dubitare della verità delle cose che si attingono per mezzo dei sensi del corpo; è per mezzo di essi che abbiamo conosciuto il cielo e la terra e quelle cose che essi contengono e che ci sono note nella misura in cui il nostro ed il loro Creatore ha voluto farcele conoscere. Sia pure lungi da noi il negare la scienza che abbiamo appreso per testimonianza degli altri, altrimenti noi non sappiamo che c'è un Oceano, non sappiamo che ci sono dei territori e delle città che la loro rinomanza ha reso molto celebri, non sappiamo che sono esistiti degli uomini e le loro opere che la lettura degli storici ci fa conoscere; non sappiamo le notizie che ogni giorno ci pervengono da tutte le parti e sono confermate da prove concordanti e costanti; infine non sappiamo dove e da chi siamo nati, perché noi accettiamo tutte queste conoscenze basandoci sulle testimonianze degli altri. Se è dunque il colmo dell'assurdità affermare questo, dobbiamo confessare che non solo i nostri sensi corporei, ma anche quelli degli altri hanno arricchito il nostro sapere di numerose conoscenze.

Differenze tra la nostra scienza e quella divina, tra il nostro verbo e il Verbo divino

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Dunque tutte queste conoscenze che l'anima umana acquisisce da sé, e per mezzo dei sensi del corpo e per testimonianza degli altri, le tiene riposte nel tesoro della sua memoria; sono esse che generano un verbo vero, quando diciamo ciò che sappiamo, verbo che precede ogni parola che risuona e ogni pensiero della parola che risuona. Allora infatti il verbo è perfettamente simile alla cosa conosciuta da cui nasce e di cui è immagine, perché dalla visione della scienza procede la visione del pensiero, che è un verbo non appartenente a nessuna lingua, verbo vero da una cosa vera, che non possiede niente di proprio ma riceve tutto da quella scienza da cui ha origine. Poco importa il momento in cui colui che dice ciò che sa lo ha appreso; a volte, appena lo apprende, lo dice; l'importante è che il verbo sia vero, cioè che abbia tratto la sua origine da cose conosciute.

Ma


sarà forse che Dio Padre, dal quale è nato il Verbo, Dio da Dio; forse che dunque Dio Padre, in quella sapienza che è lui stesso per se stesso, ha acquisito alcune conoscenze per mezzo dei sensi del suo corpo, altre da sé? Chi potrebbe dir questo, se pensa Dio non come un animale ragionevole, ma come superiore all'anima razionale 148, per quanto almeno Dio può essere pensato dagli uomini che lo pongono al di sopra di tutti gli animali e di tutte le anime, benché lo vedano solo attraverso uno specchio e in enigma 149, per congettura, non ancora a faccia a faccia, come egli è 150? Forse che Dio Padre queste stesse verità che conosce non per mezzo del corpo, che egli non ha, ma per mezzo di sé, le ha apprese da altri o ha avuto bisogno di messaggeri o di testimoni per conoscerle? No certamente, per sapere tutto ciò che sa, quella perfezione basta a se stessa. Dio ha, è vero, i suoi messaggeri: gli Angeli, ma non tuttavia per annunciargli ciò che non sa, perché non c'è nulla che egli non sappia, ma è per il loro bene che essi prendono consiglio dalla verità di lui nel loro agire; quando si dice che annunciano a Dio certe cose, non è che egli le apprenda da loro, ma sono loro che le apprendono da lui per mezzo del suo Verbo, senza suono corporeo. Annunciano infatti ciò che Dio vuole, inviati da lui a coloro a cui egli vuole, tutto udendo da lui per mezzo del suo Verbo, cioè trovando nella verità di lui ciò che debbono fare; che cosa, a chi, quando debbono annunciare. Infatti anche noi lo preghiamo e tuttavia non gli insegniamo quali siano le nostre necessità. Il Padre vostro, ci dice il suo Verbo, sa che cosa vi sia necessario, prima che voi glielo abbiate chiesto 151. E queste cose non le sa per averle apprese in questo o in quel momento, ma tutti gli avvenimenti futuri e, fra questi avvenimenti, l'oggetto e il momento delle nostre preghiere, l'opportunità di esaudire o no questa o quell'altra preghiera di questo o di quest'altro uomo li ha previsti in anticipo, dall'eternità. Tutte le sue creature, spirituali e corporee, non le conosce perché esistono, ma esistono perché le conosce. Infatti non poteva non conoscere le cose che un giorno avrebbe creato. Dunque è perché le ha conosciute che le ha create, e non è perché le ha create che le ha conosciute. E dopo averle create non le ha conosciute diversamente da come le conosceva prima di crearle: questi esseri nulla infatti hanno aggiunto alla sua sapienza, ma sono venuti all'esistenza come e quando era opportuno, restando immutata la sua sapienza. Così è scritto nell'Ecclesiastico: Prima che fossero create, tutte le cose erano da lui conosciute; lo sono ancora allo stesso modo dopo il loro compimento 152. Alla stessa maniera è detto, non diversamente, sia prima che fossero create, sia dopo il loro compimento, Dio conosce le cose. Assai differente è perciò dalla scienza divina la nostra scienza. In Dio la scienza è identica alla sapienza e la sapienza è identica all'essenza o sostanza. Perché nella mirabile semplicità di quella natura non sono cose diverse essere sapiente ed essere; ma è la stessa cosa essere sapiente ed essere, come lo abbiamo spesso ripetuto nei libri precedenti 153. Invece la nostra scienza in molti campi può essere perduta, ed essere recuperata perché in noi non è la stessa cosa essere, sapere o essere sapiente (sapere), perché noi possiamo essere anche se non sappiamo né gustiamo (sapiamus) ciò che abbiamo appreso da altra fonte. Per questo come la nostra scienza è differente dalla scienza di Dio, così il nostro verbo che nasce dalla nostra scienza è differente da quel Verbo divino che è nato dall'essenza del Padre, che è come se dicessi: "dalla scienza del Padre, dalla sapienza del Padre"; o, in maniera più precisa, "dal Padre che è scienza, dal Padre che è sapienza".

Il Verbo di Dio è in tutto uguale al Padre

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Il Verbo di Dio Padre è dunque il suo Figlio unigenito, in tutto simile e uguale al Padre, Dio da Dio, luce da luce, sapienza da sapienza, essenza da essenza; egli è assolutamente ciò che è il Padre, ma non è il Padre, perché questo è Figlio, quello Padre. Per questo conosce tutto ciò che conosce il Padre, ma per lui il conoscere viene dal Padre, come l'essere. Infatti in Dio conoscere ed essere sono una sola cosa. E dunque come il conoscere non viene al Padre dal Figlio, così nemmeno gli proviene l'essere. Pertanto è come "dicendo" se stesso che il Padre ha generato il Verbo, in tutto uguale a sé. Egli infatti non "avrebbe detto" interamente e perfettamente se stesso, se ci fosse nel suo Verbo qualcosa di meno o di più di ciò che c'è in lui. È qui che si verifica in modo supremo il sì, sì; no, no 154. E dunque questo Verbo è veramente la verità, perché tutto ciò che c'è in quella scienza dalla quale è stato generato, c'è anche in lui e ciò che non c'è in essa non c'è nemmeno in lui. Ed in questo Verbo non vi può mai essere nulla di falso, perché è immutabilmente ciò che è colui che lo genera. Infatti: Il Figlio non può far nulla da sé, se non ciò che ha veduto fare dal Padre 155. È segno di potenza, il non poter far questo; né è infermità ma fermezza questa, perché la verità non può essere falsa. Dunque il Padre conosce tutto in se stesso, tutto nel Figlio; in se stesso come se stesso, nel suo Figlio come il suo Verbo, che procede da tutto ciò che è lui. Anche il Figlio conosce tutto alla stessa maniera, in se stesso, come ciò che è nato da quanto il Padre conosce in se stesso; nel Padre invece come ciò da cui è nato quello che il Figlio stesso conosce in sé. Il Padre e il Figlio hanno dunque una conoscenza reciproca, ma il primo generando, il secondo nascendo. E tutto ciò che è nella loro scienza, sapienza ed essenza, ciascuno di loro lo vede simultaneamente, non separatamente o isolatamente, come se con il suo sguardo passasse alternativamente da un oggetto all'altro ritornando dal secondo al primo, e poi di nuovo lasciasse questo o quell'altro per fissarsi su questo o su quello, come se non potesse vedere una cosa che cessando di vederne un'altra; ma, come ho detto, vede insieme tutte le cose e non ce n'è alcuna che non sia sempre vista da ciascuno di essi.

Differenze tra il nostro verbo e il Verbo divino. Il nostro verbo non è sempre vero né permanente

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Per quanto concerne il nostro verbo, quel verbo che non comporta suono né pensiero di un suono, ma è espressione di quella realtà che, vedendola, diciamo interiormente e perciò non appartiene ad alcuna lingua e di conseguenza in questo enigma ha una certa somiglianza con quel Verbo di Dio, Dio egli pure, perché anch'esso nasce dalla nostra scienza, come quello divino è nato dalla scienza del Padre. Per quanto concerne questo nostro verbo, dunque, se vi abbiamo riscontrato una qualche somiglianza con quello divino, non esitiamo affatto a considerare anche fino a che punto ne è dissimile, nella misura in cui ci sarà possibile dirlo.

Il


nostro verbo nasce forse dalla nostra scienza sola? Non diciamo anche molte cose che non sappiamo? E quando diciamo tali cose non dubitiamo a loro riguardo, ma le diciamo ritenendo che siano vere. Supponiamo che per caso esse siano vere, esse sono vere nelle cose stesse di cui parliamo, ma non lo sono nel nostro verbo, poiché è vero solo quel verbo che è generato da ciò che si sa. Il nostro verbo è perciò falso, in questo caso, non perché vi sia menzogna, ma perché vi è errore. Quando invece dubitiamo, non vi è ancora un verbo concernente la realtà di cui dubitiamo, ma c'è un verbo concernente il dubbio stesso. Infatti, sebbene non sappiamo se sia vero ciò di cui dubitiamo, tuttavia noi sappiamo di dubitare e dunque quando diciamo di dubitare, c'è un verbo vero, perché diciamo ciò che conosciamo. Ora, che pensare del fatto che possiamo anche mentire? Quando mentiamo, è volontariamente e scientemente che abbiamo un verbo falso: in questo caso c'è un verbo vero e concerne il fatto che noi mentiamo perché sappiamo di mentire. E quando confessiamo di aver mentito, diciamo il vero; diciamo infatti ciò che sappiamo 156, perché sappiamo di aver mentito. Ora il Verbo che è Dio, ed è più potente di noi, non può mentire. Perché egli non può fare nulla, se non ciò che ha visto fare dal Padre 157. Egli non parla da se stesso, ma tutto ciò che dice gli viene dal Padre, perché il Padre dice unicamente il suo Verbo 158, ed è un grande potere di questo Verbo il non poter mentire; perché in lui non vi può essere sì e no, ma soltanto sì, sì; no, no 159. Certo non si dovrebbe nemmeno dire verbo, quello che non è vero. Che debba essere così ne convengo volentieri. Ma quando il nostro verbo è vero e merita dunque il nome di verbo, si può dire forse, come si può dire che è visione da visione, scienza da scienza, che è essenza da essenza, come lo si dice per eccellenza e come lo si deve dire per eccellenza del Verbo di Dio 160? No, senza dubbio. Perché questo? Perché per noi essere non è la stessa cosa che conoscere. Infatti conosciamo molte cose che vivono, per dir così, per opera della memoria, muoiono per così dire, a causa dell'oblio; anche quando esse non esistono più nella nostra conoscenza, noi tuttavia continuiamo ad esistere; e quando la nostra scienza abbia abbandonato la nostra anima fino a scomparire completamente da noi, tuttavia noi continuiamo a vivere.

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Anche le cose che si conoscono in tal modo, che non è possibile dimenticarle, perché ci sono sempre presenti e sono inseparabili dalla natura dell'anima stessa, per esempio il fatto di sapere che viviamo (è questa una conoscenza che resta fino a quando resta l'anima, e, poiché l'anima resta sempre, anch'essa sempre resta); questa conoscenza dunque ed altre simili, se se ne trovano, nelle quali principalmente si ha da riconoscere l'immagine di Dio, sebbene siano sempre conosciute, tuttavia, poiché non sono anche sempre pensate, è difficile vedere come si dica a loro riguardo un verbo eterno, dato che il nostro verbo è detto dal nostro pensiero. Infatti, per l'anima, vivere è una cosa che dura sempre, ed è una cosa che dura sempre il sapere che vive; ma il pensare la sua vita, o il pensare alla conoscenza della sua vita non sono cose che durano sempre, perché dal momento in cui comincerà a pensare a questa o a quest'altra cosa, smetterà di pensare che vive, sebbene non cessi di saperlo. Da ciò consegue che, se l'anima può avere in sé una scienza che dura sempre, e non può durare sempre il pensiero di questa scienza, e d'altra parte il nostro verbo interiore vero non può essere detto che dal nostro pensiero, si deve concludere che Dio solo ha un Verbo che dura sempre e gli è coeterno. A meno che non si debba dire che la possibilità stessa di pensare (perché ciò che si sa, anche quando non viene pensato, è tuttavia suscettibile di venir esplicato in un pensiero che lo riproduce fedelmente) è un verbo che dura sempre come sempre dura la scienza. Ma come può essere verbo, quello che non ha ancora preso forma nella visione del pensiero? Come sarà simile alla scienza dalla quale nasce, se non ne riproduce la forma e se merita già questo nome di verbo solo perché lo si può riprodurre? È come se si dicesse che bisogna già chiamarlo verbo, perché può essere verbo. Ma che cos'è questa cosa che può essere verbo e per questo già merita il nome di verbo? Che è, dico, questo qualcosa di formabile e di non ancora formato, se non un qualcosa del nostro spirito che con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là, quando pensiamo ora questo ora quello a seconda che lo scopriamo o ci si presenta spontaneamente? C'è un verbo vero, quando ciò che, come ho già detto, con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là si fissa su ciò che sappiamo, ne trae la sua forma, prendendone la piena rassomiglianza; cosicché quale una cosa si conosce tale anche si pensi, cioè tale sia detta nel cuore, senza pronunciare parola, senza che si pensi a una parola che senza dubbio appartiene a qualche lingua. Di conseguenza, anche se concludiamo - per non dare l'impressione di fare una questione di parola - che si debba già chiamare verbo quel qualcosa del nostro spirito che può ricevere forma dalla nostra scienza, e ciò, anche prima che abbia preso forma, perché è già, per dir così, formabile, chi non vedrà quanto grande è qui la dissomiglianza con quel Verbo di Dio, che è nella forma di Dio 161, in tal maniera che non è stato prima formabile e poi formato, né può mai essere informe, ma è forma pura e veramente uguale a Colui dal quale ha origine ed al quale essa è mirabilmente coeterna?.

Perciò


così quello si dice Verbo di Dio, senza che si possa dire pensiero di Dio, affinché non si creda alla presenza in Dio di qualcosa che cambi, e che ora si dia una forma per essere verbo, ora la riceva, la possa perdere e possa in qualche modo passare da una forma all'altra. Aveva infatti buona conoscenza delle parole ed intuito della forza del pensiero quell'egregio scrittore che dice nel suo poema:

rivolge nel suo spirito le varie vicende della guerra 162,

ossia "pensa". Il Figlio di Dio non si chiama dunque pensiero di Dio, ma Verbo di Dio. Poiché il nostro pensiero costituisce il nostro verbo vero, quando termina a ciò che noi conosciamo e da esso prende forma. Perciò il Verbo di Dio deve intendersi senza che vi sia pensiero da parte di Dio, così da essere una forma semplice in se stessa, né informe, né formabile. È vero che anche nelle Scritture sante si parla di pensieri di Dio 163, ma nello stesso senso assolutamente improprio in cui in esse si parla pure di dimenticanza di Dio.

Nemmeno nella visione la differenza tra il nostro verbo e quello di Dio cesserà

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Se dunque la disuguaglianza da Dio e dal Verbo di Dio è tanta adesso in questo enigma, nel quale tuttavia abbiamo riscontrato qualche somiglianza, dobbiamo dichiarare che anche quando saremo somiglianti a lui e lo vedremo come è 164 (colui che lo ha scritto ha senza dubbio avvertito la disuguaglianza attuale) nemmeno allora saremo uguali a lui per natura. Infatti la natura creata è sempre inferiore alla natura creatrice 165. È vero che allora il nostro verbo non sarà falso, perché non mentiremo né ci inganneremo, forse anche i nostri pensieri non saranno più caratterizzati da quel movimento che li fa andare e ritornare da una cosa all'altra 166, ma attingeremo tutta la nostra scienza con un solo sguardo, contemporaneamente. Tuttavia, anche allorquando sarà, e se pure sarà così, sarà formata la creatura prima formabile, così da possedere la pienezza della forma che doveva raggiungere; essa tuttavia non si dovrà mettere alla pari di quella semplicità divina, dove esiste la forma pura senza nulla di formabile che viene formato o riformato; dove esiste una sostanza per se stessa eterna ed immutabile, né informe né formata.

La carità comune alle tre Persone

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Abbiamo parlato sufficientemente del Padre e del Figlio, nella misura in cui abbiamo potuto vederli attraverso questo specchio e in questo enigma 167. Ora è tempo di trattare dello Spirito Santo, nella misura in cui Dio ci concederà di vederlo. Questo Spirito Santo, secondo la Sacra Scrittura, non è lo Spirito soltanto del Padre, né soltanto del Figlio, ma di ambedue 168, e perciò fa pensare alla carità comune con la quale si amano vicendevolmente il Padre e il Figlio. Ma la parola di Dio per esercitarci non ci fornisce delle verità esplicite, ma nascoste, che noi dobbiamo tirare fuori dal loro nascondiglio con un più grande studio. La Sacra Scrittura infatti non dice: "lo Spirito Santo è carità"; se lo avesse detto, la questione ne sarebbe stata molto chiarita. Ma essa dice: Dio è carità 169, cosicché non è chiaro - e dunque bisogna indagare - se è Dio Padre che è carità, o Dio Figlio, o Dio Spirito Santo, o Dio Trinità. Non diremo infatti che, se Dio è detto carità, non è perché la carità stessa sia una sostanza che meriti il nome di Dio, ma perché è un dono di Dio, nel senso, per esempio, che il Salmista dice a Dio: Perché tu sei la mia pazienza 170. Queste parole infatti non significano assolutamente che la nostra pazienza è sostanza Dio, ma che la pazienza ci viene da Dio, come lo mostra questo altro testo: Perché la mia pazienza mi viene da lui 171. Che non si tratti della sostanza divina, lo mostra chiaramente il modo di esprimersi delle Scritture. L'espressione: Tu sei la mia pazienza ha la stessa forma dell'espressione: Signore, mia speranza 172, e: Mio Dio, mia misericordia 173, e così molti altri passi simili. Ma non è detto: "Signore, mia carità", o: "Tu sei la mia carità", o: "Dio, mia carità", ma è detto: Dio è carità 174, come è detto: Dio è spirito 175. Chi non comprende questa distinzione, domandi a Dio l'intelligenza, non a noi la spiegazione, perché non possiamo dire nulla di più chiaro.

1528

Dio è dunque carità 176. Ma se sia il Padre ad essere carità, se sia il Figlio, se sia lo Spirito Santo, se sia la Trinità stessa - perché la Trinità, anch'essa, non è tre dèi, ma un Dio solo -, ecco ciò che costituisce il problema. Ma già in precedenza in questo libro 177 ho chiarito che la Trinità che è Dio non va concepita alla luce dei tre elementi che abbiamo mostrato nella trinità del nostro spirito, come se nella Trinità il Padre fosse la memoria di tutte e tre le Persone, il Figlio l'intelligenza di tutte e tre, e lo Spirito Santo la carità di tutte e tre, quasi che il Padre non abbia per suo conto né intelligenza né amore, ma il Figlio gli sia intelligenza e lo Spirito Santo gli sia amore, ed egli sia, e per sé e per gli altri, memoria soltanto; quasi che il Figlio non sia per sé né memoria né amore, ma abbia per memoria il Padre e per amore lo Spirito Santo, ed egli sia per sé e per gli altri intelligenza soltanto; ugualmente quasi che lo Spirito Santo non abbia in se stesso né memoria né intelligenza, ma la memoria nel Padre, l'intelligenza nel Figlio, ed egli sia, per sé e per loro, amore soltanto. Al contrario tutte e tre le cose sono possesso naturale di tutte e tre le Persone e di ciascuna Persona. Né queste perfezioni sono diverse nelle Persone divine, come in noi si differenziano tra loro la memoria, l'intelligenza, la dilezione o carità. Sono invece una cosa sola che le vale tutte, come la stessa sapienza. E ciascuna Persona ne è talmente in possesso naturale da essere ciò che possiede, come sostanza immutabile e semplice. Se dunque si sono comprese queste cose e se, per quanto misteri così grandi ci permettono di vedere o di congetturare, si sono manifestate come vere, non so perché non si possa chiamare carità sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo, e tutti e tre insieme un'unica carità; così come si chiama sapienza sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo, e tutti e tre insieme non tre, ma una sola sapienza. Allo stesso modo infatti il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio, e tutti insieme un solo Dio.

Tuttavia è lo Spirito Santo che riceve in proprio il nome di Carità, come col nome di Sapienza chiamiamo il Verbo

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E tuttavia non è senza motivo che in questa Trinità si chiama Verbo di Dio solo il Figlio, Dono di Dio lo Spirito Santo solo 178, e Dio Padre quello solo da cui è generato il Verbo e da cui procede primariamente lo Spirito Santo 179. Ho aggiunto "primariamente" perché si legge che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio 180. Ma anche questo glielo ha dato il Padre, non dopo che già esisteva senza esserne in possesso, perché quanto ha dato al Verbo unigenito glielo ha dato generandolo. Egli lo ha dunque generato, in modo che il loro Dono comune procedesse anche dal Figlio e che lo Spirito Santo fosse lo spirito di ambedue. Non basta dunque rilevare di passaggio, ma occorre considerare con attenzione questa distinzione nella inseparabile Trinità. È in virtù di essa infatti che il Verbo di Dio è chiamato anche propriamente Sapienza di Dio 181, sebbene siano sapienza anche il Padre e lo Spirito Santo. Se dunque si deve chiamare propriamente Carità una delle tre Persone, a quale questo nome si adatterà meglio che allo Spirito Santo? Però sempre a condizione che in quella semplice e suprema natura non siano due cose distinte la sostanza e la carità, ma la sostanza stessa si identifichi con la carità e la carità stessa con la sostanza sia del Padre, sia del Figlio, sia dello Spirito Santo, e tuttavia sia lo Spirito ad essere chiamato propriamente Carità.

1530

Per fare un esempio, con il nome di Legge si designano talvolta tutti i libri dell'Antico Testamento. Infatti è alla testimonianza del profeta Isaia che l'Apostolo si richiama quando dice: Con altre lingue e con labbra d'altri io parlerò a questo popolo 182, e tuttavia introduce questa citazione con le parole: Sta scritto nella Legge 183. E lo stesso Signore ha detto: Sta scritto nella loro Legge: mi odieranno senza ragione 184, e questo testo si trova nei Salmi 185. Talvolta invece è chiamata Legge in senso proprio quella che è stata data a Mosè 186, nel senso in cui è detto: La Legge ed i Profeti fino a Giovanni 187, o ancora: Da questi due precetti dipendono tutta la Legge ed i Profeti 188. In questi passi si tratta della Legge presa in senso proprio, della Legge data sul monte Sinai. D'altra parte con il nome di Profeti sono designati anche i Salmi; e tuttavia in un altro passo lo stesso Signore dice: Bisognava che si adempisse tutto ciò che sta scritto nella Legge, nei Profeti e nei Salmi a mio riguardo 189. Qui, quando parla di Profeti, il Signore esclude i Salmi. Il nome di Legge, presa in senso generico, include i Profeti e i Salmi, ma si usa anche in senso proprio e designa allora la Legge che è stata data per mezzo di Mosè 190. Così il nome di "Profeti", nel senso largo del termine, include i Salmi, in senso proprio li esclude. Si potrebbe provare con molti altri esempi che molte parole si usano talvolta in senso generico, talvolta si applicano in senso proprio a realtà determinate, ma la cosa è troppo chiara perché ci sia bisogno di un lungo discorso. Se ho dato questa spiegazione è perché non vi sia qualcuno che pensi che ho torto di chiamare Carità lo Spirito Santo, per il fatto che anche Dio Padre e Dio Figlio si possono chiamare carità.

Per opera sua è diffusa nei nostri cuori la carità di Dio

1531

Come dunque il Verbo unico di Dio riceve in proprio il nome di Sapienza 191, benché, quando il termine è preso in senso generico, anche lo Spirito Santo e il Padre siano sapienza, così lo Spirito Santo riceve in proprio il nome di Carità, benché quando il termine è preso in senso generico, anche il Padre e il Figlio siano carità. Ma il Verbo di Dio, cioè il Figlio unigenito di Dio, è chiamato esplicitamente sapienza di Dio per bocca dell'Apostolo, quando dice: Cristo forza di Dio e sapienza di Dio 192, mentre per trovare un passo in cui lo Spirito Santo sia chiamato Carità, bisogna scrutare attentamente gli scritti di Giovanni. Questi, dopo queste parole: Carissimi, amiamoci a vicenda, perché l'amore procede da Dio, aggiunge subito: e ognuno che ama è nato da Dio; colui che non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore 193. È chiaro che qui chiama Dio l'amore che prima afferma procedere da Dio. L'amore è dunque Dio da Dio. Ma poiché il Figlio è nato da Dio Padre e lo Spirito Santo procede da Dio Padre 194 è legittimo chiedersi a quale fra i due bisogna, di preferenza, applicare queste parole: "Dio è amore". Solo il Padre infatti è Dio senza essere Dio da Dio, di conseguenza l'amore che in tanto è Dio in quanto procede da Dio è o il Figlio o lo Spirito Santo. Ma nel seguito del testo Giovanni, dopo aver parlato dell'amore di Dio, non dell'amore con cui noi amiamo Dio, ma di quello con cui egli stesso ci ha amato ed ha inviato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati 195 ed averne approfittato per esortarci ad amarci l'un l'altro affinché Dio abiti in noi, poiché aveva definito Dio come amore, volendo spiegare più chiaramente questo punto aggiunge subito: Da questo conosciamo che noi siamo in lui ed egli è in noi, perché ci ha dato del suo Spirito 196. È dunque lo Spirito Santo, del quale egli ci ha dato, che fa sì che noi restiamo in Dio e lui in noi: ora questo è opera dell'amore. È dunque lo Spirito Santo il Dio amore. Infine poco dopo, avendo ripetuto che Dio è amore, aggiunge subito: E colui che è nell'amore è in Dio, e Dio in lui 197, presenza mutua di cui prima aveva detto: Sappiamo che noi siamo in lui e lui in noi, perché ci ha dato del suo Spirito 198. È dunque lo Spirito che è designato in questa affermazione: Dio è amore 199. Ecco perché lo Spirito Santo, Dio che procede da Dio, una volta dato all'uomo, l'accende d'amore per Dio e per il suo prossimo, essendo lui stesso amore 200. L'uomo infatti non riceve se non da Dio l'amore per amare Dio. Per questo poco dopo afferma: Noi dobbiamo amarlo, perché egli per primo ci ha amati 201. Anche l'apostolo Paolo dice: La carità di Dio è stata diffusa nel nostri cuori, mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato 202.

Lo Spirito Santo è dono di Dio

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Non c'è dunque dono di Dio più eccellente della carità 203; è il solo che distingue i figli del regno eterno dai figli della perdizione eterna 204. Ci sono dati altri doni mediante lo Spirito Santo 205, ma senza la carità non servono a nulla 206. Perciò chiunque non abbia ricevuto lo Spirito Santo in tal misura da renderlo innamorato di Dio e del prossimo, non passa dalla parte sinistra alla destra 207. E lo Spirito non è chiamato propriamente dono che a motivo dell'amore; chi non lo possiederà, anche se parlerà le lingue degli uomini e degli Angeli non è che un bronzo sonoro, un cembalo squillante; avesse pure la profezia, conoscesse i misteri tutti e tutta la scienza e possedesse la pienezza della fede al punto di trasportare le montagne, non è nulla; distribuisse pure tutti i suoi beni e desse il suo corpo a bruciare, a nulla gli giova. Che grande bene è dunque quello senza il quale dei beni così grandi non possono condurre nessuno alla vita eterna? Ma, se colui che non parla le lingue, non conosce tutti i misteri, e tutta la scienza, non distribuisce tutti i suoi beni ai poveri - sia che non ne abbia da distribuire, sia che il bisogno gli impedisca di farlo -, non dà il suo corpo alle fiamme, perché gli manca l'occasione di soffrire tale martirio, possiede la dilezione o carità (infatti i due nomi designano una sola cosa), essa lo conduce al regno, dato che solo la carità può fare in modo che la fede stessa sia utile. Senza dubbio, senza la carità la fede può esistere, ma non essere utile. Per questo anche l'apostolo Paolo dice: Perché in Cristo Gesù non ha valore né la circoncisione né l'incirconcisione, ma solo la fede operante per la carità 208, distinguendo così questa fede da quella con la quale credono e tremano i demoni 209. L'amore che è da Dio e che è Dio è dunque propriamente lo Spirito Santo, mediante il quale viene diffusa nei nostri cuori la carità di Dio, facendo sì che la Trinità intera abiti in noi 210. Per questo motivo lo Spirito Santo, essendo Dio, è chiamato nello stesso tempo molto giustamente anche Dono di Dio 211. Tale Dono che cosa deve designare propriamente se non la carità, che conduce a Dio e senza la quale qualsiasi altro dono di Dio non conduce a Dio?

Si dimostra dalla Scrittura che lo Spirito Santo è il Dono di Dio

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Dobbiamo provare anche che lo Spirito Santo è chiamato Dono di Dio nelle Sacre Scritture? Se si desidera tale prova, la troviamo nel Vangelo di Giovanni che riferisce queste parole del Signore Gesù: Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Dall'intimo di chi crede in me, come dice la Scrittura, scaturiranno fiumi d'acqua viva 212. L'Evangelista aggiunge poi subito: Disse questo dello Spirito che avrebbero ricevuto quelli che avessero creduto in lui 213. Per questo anche l'apostolo Paolo dice: Tutti siamo stati dissetati con un solo Spirito 214. Ma qui è chiamata dono di Dio quest'acqua, che è lo Spirito Santo? Ecco ciò che è in questione. Ma come troviamo che in questo passo quest'acqua è chiamata Spirito Santo, così in un altro passo dello stesso Vangelo troviamo che quest'acqua è chiamata dono di Dio 215. Infatti nella conversazione che ebbe presso il pozzo con la Samaritana lo stesso Signore le aveva detto Dammi da bere 216; avendogli essa risposto che i Giudei non andavano d'accordo con i Samaritani, Gesù le rispose: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere, forse tu stessa ne avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato dell'acqua viva. La donna gli rispose: Signore, non hai un recipiente per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest'acqua viva? 217, ecc. Gesù le rispose: Chi berrà di questa acqua tornerà ad avere sete; chi invece berrà l'acqua che gli darò io non avrà più sete in eterno, ma l'acqua che gli darò io diventerà in lui sorgente d'acqua zampillante, fino alla vita eterna 218. Poiché quest'acqua viva, come spiega l'Evangelista 219, è lo Spirito Santo, non c'è dubbio che lo Spirito Santo è il Dono di Dio 220, di cui il Signore dice qui: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, forse tu stessa ne avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato dell'acqua viva 221. Perché ciò che dice: Dal suo intimo scaturiranno fiumi di acqua viva 222; equivale a queste parole: Diventerà in lui sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna 223.

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Anche l'apostolo Paolo dice: A ciascuno di noi è data la grazia secondo la misura del dono di Cristo 224, e per far vedere che questo dono di Cristo è lo Spirito Santo, aggiunge subito: Perciò dice: Ascendendo in alto ha condotta schiava la schiavitù, dette doni agli uomini 225. Ora tutti sanno assai bene che il Signore Gesù, una volta asceso al cielo, dopo la risurrezione dai morti, ha dato lo Spirito Santo, e che, riempiti di questo Spirito, i credenti si misero a parlare nelle lingue di tutti i popoli. Né deve far difficoltà il fatto che abbia detto doni 226 e non dono, perché ciò facendo si richiama alla testimonianza del Salmo in cui si legge: Tu sei salito in alto, hai condotto con te i prigionieri, hai ricevuti doni negli uomini 227. Tale è infatti la lezione di molti codici, in particolare di quelli greci, ed è proprio la traduzione dall'ebraico. "Doni" dice dunque l'Apostolo, con il Profeta, non "dono". Ma mentre il Profeta dice: hai ricevuto doni negli uomini 228, l'Apostolo ha preferito dire: Egli ha dato doni agli uomini 229; affinché questi due testi, l'uno profetico, l'altro apostolico, ma fondati ambedue sull'autorità della parola divina, rendano il senso in tutta la sua pienezza. Tutte e due le cose infatti sono vere, perché ha dato agli uomini e perché ha ricevuto negli uomini. Egli ha dato agli uomini come il capo ai suoi membri, ma egli ha anche ricevuto negli uomini, cioè nei suoi membri, membri per i quali ha gridato dal cielo: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 230 e dei quali dice: Ogni volta che l'avete fatto al più piccolo dei miei, è a me che l'avete fatto 231. Lo stesso Cristo ha dunque nello stesso tempo dato dal cielo e ricevuto in terra. Ora tutti e due, il Profeta e l'Apostolo, hanno parlato di doni al plurale, perché ad opera di questo dono, che è lo Spirito Santo, dato in comune a tutti i membri di Cristo, è distribuita una moltitudine di doni propri a ciascuno. Infatti ciascuno non possiede tutti i doni, ma gli uni questi, gli altri quelli, benché quello stesso dono dal quale sono distribuiti a ciascuno i propri, lo abbiamo tutti, cioè lo Spirito Santo 232. Infine in un altro passo l'apostolo Paolo, dopo aver enumerato una moltitudine di doni, aggiunge: Ora tutte queste cose le compie un solo e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno in particolare come vuole 233. Espressione che si trova anche nella Epistola agli Ebrei, dove è scritto: Mentre Dio confermava la loro testimonianza con segni e prodigi e ogni sorta di miracoli e con le distribuzioni dello Spirito Santo 234. Lo stesso Apostolo dopo aver detto qui: Ascendendo in alto condusse schiava la schiavitù, dette doni agli uomini, aggiunse: ma "ascese" che cosa vuol dire se non che egli è anche disceso nelle regioni inferiori della terra? Colui che è disceso è quel medesimo che è asceso sopra tutti i cieli per riempire tutto. Ed egli diede ad alcuni di essere Apostoli, ad altri Profeti, ad altri Evangelisti, ad altri pastori e docenti 235. Ecco perché ha parlato di doni al plurale, perché come dice in un altro passo: Forse che tutti sono Apostoli? Forse che tutti sono Profeti? 236. Ma qui aggiunge: Per il perfezionamento dei santi, nell'opera del ministero per l'edificazione del corpo di Cristo 237. È questa la casa che, come canta il Salmo, è costruita dopo la cattività 238, perché è unendo insieme quanti vengono strappati al diavolo che li teneva schiavi, che si edifica il corpo di Cristo, che è la casa chiamata Chiesa 239. Ora questa schiavitù l'ha condotta schiava 240 Colui che ha vinto il demonio. È per impedire che il demonio trascinasse con sé all'eterno supplizio coloro che dovevano diventare le membra di questo santo capo, che Cristo ha incatenato il demonio prima con le catene della giustizia, poi con le catene della potenza. Ecco perché il demonio è chiamato schiavitù, schiavitù che ha condotto schiavo colui che è asceso in alto e ha dato doni agli uomini 241, o ha ricevuto doni negli uomini.

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L'apostolo Pietro, come si legge in quel libro canonico in cui sono narrati gli Atti degli Apostoli, mentre parlava di Cristo, avendogli detto i Giudei, profondamente commossi nel loro cuore: Fratelli, che cosa dobbiamo fare? Spiegatecelo; rispose loro: Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo in remissione dei peccati e riceverete il dono dello Spirito Santo 242. Nello stesso libro si legge anche che Simon Mago volle dare del denaro agli Apostoli per ricevere da loro il potere di dare lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani 243. Ma lo stesso Pietro gli disse: Va' in perdizione tu e il tuo denaro, perché hai creduto che il dono di Dio si potesse acquistare col denaro 244. Ed in un altro passo dello stesso libro, in cui è narrato che Pietro annunciava e predicava Cristo a Cornelio e a coloro che erano con lui, la Scrittura dice: Non aveva ancora Pietro finito di pronunciare queste parole che lo Spirito Santo discese sopra tutti quelli che ascoltavano la parola. Tutti i fedeli circoncisi, venuti con Pietro, rimasero meravigliati nel vedere come il dono dello Spirito Santo fosse pure diffuso sopra i gentili. Li sentivano infatti parlare le lingue e glorificare Dio 245. Giustificandosi poi del fatto che aveva battezzato degli incirconcisi - perché lo Spirito Santo, per sciogliere il nodo della questione, era disceso su costoro prima che venissero battezzati - presso i fratelli di Gerusalemme che la notizia aveva sconcertato, terminò con queste parole: Quando ebbi cominciato a parlare loro, lo Spirito Santo discese su di loro, come all'inizio era disceso su di noi. Mi sono ricordato allora di questa parola del Signore: "Giovanni ha battezzato nell'acqua, ma voi sarete battezzati nello Spirito Santo". Se dunque Dio ha concesso loro il medesimo dono che a noi, che abbiamo creduto nel Signore Gesù Cristo, io chi ero da poter impedire a Dio di dar loro lo Spirito Santo? 246. E ci sono molti altri passi della Scrittura che concordano nel testimoniare che lo Spirito Santo è il Dono di Dio 247, in quanto è dato a coloro che per mezzo di lui amano Dio. Ma sarebbe troppo lungo enumerarli tutti. E d'altra parte quale potrebbe bastare a coloro ai quali non bastano quelli che abbiamo citato?

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D'altra parte, poiché essi vedono almeno che lo Spirito Santo è stato chiamato Dono di Dio bisogna far loro rilevare che le parole: Dono dello Spirito Santo 248 è un'espressione dello stesso genere di quella: Con la spogliazione del corpo di carne 249. Infatti come il corpo di carne non è altro che la carne, così il Dono dello Spirito Santo non è altro che lo Spirito Santo. Egli è dunque Dono di Dio, in quanto è dato a coloro ai quali è dato. Ma in se stesso egli è Dio, anche nel caso che non sia dato ad alcuno, perché era Dio coeterno al Padre e al Figlio prima di essere dato a chiunque. E sebbene essi lo diano ed egli sia dato, non è per questo a loro inferiore. Infatti egli è dato come Dono di Dio in modo tale che è anche lui, in quanto Dio, a darsi. Perché non si può dire che non sia padrone di se stesso Colui di cui è detto: Lo Spirito soffia dove vuole 250, o ancora nel passo dell'Apostolo già citato 251: Ma è un solo e medesimo Spirito che produce tutti questi doni, distribuendoli a ciascuno come gli piace 252. Non esiste qui dipendenza per colui che è dato, superiorità per coloro che danno, ma intesa perfetta tra colui che è dato e coloro che danno.

Lo Spirito Santo ineffabile comunione del Padre e del Figlio

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Perciò, se la Sacra Scrittura proclama: Dio è carità 253, e se, d'altra parte, la carità viene da Dio e la sua azione all'interno di noi fa sì che noi siamo in Dio e Dio in noi, e infine questa presenza testimonia che Dio ci ha dato del suo Spirito, ne consegue che lo stesso Spirito è il Dio carità 254. Inoltre, se fra i doni di Dio nessuno è più grande della carità e d'altra parte non c'è dono di Dio più grande dello Spirito Santo, che c'è di più conseguente che concludere che è lui stesso la Carità che è chiamata Dio ed è detta procedere da Dio? E, se la carità con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il Padre ci rivela l'ineffabile comunione dell'uno con l'altro, che c'è di più conseguente che concludere che conviene in proprio il nome di Carità a Colui che è lo Spirito comune all'uno e all'altro? Infatti è più giusto credere e comprendere che non solo lo Spirito è carità nella Trinità, ma anche che non è senza fondamento che gli si attribuisce in proprio il nome di Carità, per i motivi che abbiamo spiegato. Allo stesso modo che non è il solo in quella Trinità ad essere Spirito, ad essere santo, perché anche il Padre è Spirito, anche il Figlio è spirito, anche il Padre è santo, anche il Figlio è santo, cosa di cui non dubita la nostra pietà 255; e tuttavia non è senza fondamento che la terza Persona riceva in proprio il nome di Spirito Santo. In quanto infatti è comune ad ambedue, lo si denomina per quello che ambedue sono ugualmente. Altrimenti se in quella Trinità solo lo Spirito Santo è carità, il Figlio non è soltanto Figlio del Padre, ma anche dello Spirito Santo. Infatti in numerosissimi passi si dice e si legge che il Figlio è il Figlio unigenito del Padre, ma tale affermazione si deve conciliare con l'affermazione dell'Apostolo che dice che Dio Padre ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del Figlio della sua carità 256. L'Apostolo non ha detto "del Figlio suo"; avrebbe potuto dire ciò in tutta verità, e di fatto l'ha detto in tutta verità in molti altri passi; ma ha detto: del Figlio della sua carità. Dunque, se solo lo Spirito Santo è la carità di Dio in quella Trinità, il Figlio è anche Figlio dello Spirito Santo. Ora se questa è un'affermazione completamente assurda, non resta che concludere che non solo lo Spirito Santo nella Trinità è carità, ma per i motivi che ho sufficientemente esposti, egli riceve in proprio il nome di Carità. Per quanto concerne l'espressione: del Figlio della sua carità, essa non significa altra cosa che "del suo Figlio diletto", in conclusione "del Figlio della sua sostanza". Perché la carità del Padre, che esiste nella sua natura ineffabilmente semplice, non è altro che la sua stessa natura e sostanza, come spesso ho detto e come non cesserò di ripetere. Di conseguenza il Figlio della sua carità non è altro che quello che è stato generato dalla sua sostanza.

Confutazione dell'opinione di Eunomio

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Pertanto sono ridicoli i sofismi di Eunomio, dal quale ha avuto origine la setta eretica degli Eunomiani. Costui, non potendo comprendere e non volendo credere 257 che il Verbo unigenito di Dio, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose è per natura Figlio di Dio, cioè generato dalla sostanza del Padre, affermò che non è il Figlio della natura, della sostanza di lui, o dell'essenza, ma il Figlio della volontà di Dio, intendendo con questo una volontà accidentale esistente in Dio, volontà che sarebbe il principio della generazione del Figlio 258. Senza dubbio questa opinione gli è stata suggerita dalla nostra esperienza, in quanto ci accade di volere ciò che prima non volevamo, come se questo non fosse un segno della mutevolezza della nostra natura, mutevolezza che dobbiamo guardarci bene dal pensare che esista in Dio. Se la Scrittura dice: Molti sono i pensieri del cuore dell'uomo, ma il consiglio di Dio dura in eterno 259, proprio per farci comprendere o credere 260 che, come Dio è eterno, così il suo consiglio è eterno e dunque immutabile, come è lui stesso. Ora ciò che diciamo dei suoi pensieri possiamo ugualmente dire in tutta verità dei suoi voleri. Numerosi sono i voleri nel cuore dell'uomo, ma la volontà di Dio dura in eterno. Alcuni, per non dire che il Verbo unigenito è Figlio del consiglio e della volontà di Dio, hanno affermato che questo Verbo è lo stesso consiglio, la stessa volontà del Padre. Ma è meglio dire, ritengo, che il Verbo è consiglio da consiglio, volontà da volontà, come è sostanza da sostanza, sapienza da sapienza, per evitare così quella opinione assurda, che abbiamo già confutato, secondo la quale il Figlio renderebbe il Padre sapiente e volente, se il Padre non possiede sostanzialmente il consiglio e la volontà. Acuta senza dubbio fu la risposta di un tale ad un eretico che gli domandava assai capziosamente se Dio ha generato il Figlio volendo o non volendo; rispondere che lo fece senza volere significava porre in Dio un limite inconcepibile in lui; rispondere che lo generò volendo, sarebbe stato fare il gioco dell'eretico, che ne avrebbe concluso immediatamente, come con un ragionamento invincibile, che il Verbo è Figlio non della natura, ma della volontà del Padre. Ma quello, con grande presenza di spirito, domandò a sua volta al suo interlocutore se Dio Padre è Dio volendo o non volendo; rispondere che è Dio non volendo, significava porre in Dio una imperfezione che non si può ammettere senza grande follia; rispondere che lo è volendo significava mettere l'altro in condizione di replicare così: "Dunque anche lui è Dio per sua volontà, non per natura" 261. Che restava dunque all'eretico se non tacere e vedersi, con la sua stessa domanda, imprigionato in un legame insolubile? Ma la volontà di Dio, se bisogna attribuirla in proprio a qualche persona della Trinità, è allo Spirito Santo che conviene di più, come la carità. Infatti che altro è la carità se non la volontà?

Riassunto di quanto detto sopra: l'uomo, immagine della Trinità, deve orientare tutto se stesso a ricordare, contemplare, amare la Trinità

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Vedo che ciò che ho detto in questo libro 262 basandomi sulle Sacre Scritture circa lo Spirito Santo dà ai fedeli una sufficiente istruzione. Essi già sapevano che lo Spirito Santo è Dio 263, che è della stessa sostanza del Padre, che non è inferiore al Padre e al Figlio, verità che ho provato nei libri precedenti basandomi su queste stesse Scritture 264. Inoltre, partendo dalla creatura, opera di Dio, ho cercato, per quanto ho potuto, di condurre coloro che chiedono ragione di tali cose a contemplare con l'intelligenza, per quanto era loro possibile, i segreti di Dio per mezzo delle cose create e ho fatto particolarmente ricorso alla creatura ragionevole e intelligente, che è stata creata ad immagine di Dio 265, per far loro vedere, come in uno specchio, per quanto lo possono e, se lo possono, il Dio Trinità, nella nostra memoria, intelligenza e volontà 266. Chiunque, con una intuizione viva, vede che queste tre potenze, in virtù di una intenzione divina, costituiscono la struttura naturale del suo spirito; percepisce quale cosa grande sia per lo spirito il poter ricordare, vedere, desiderare la natura eterna ed immutabile; la ricorda con la memoria, la contempla con l'intelligenza, l'abbraccia con l'amore, certamente vi scopre l'immagine di quella suprema Trinità. Per ricordare, vedere, amare quella suprema Trinità deve ad essa riferire tutto ciò che vive perché tale Trinità divenga oggetto del suo ricordo, della sua contemplazione e della sua compiacenza. Tuttavia ho mostrato, per quanto mi sembrava necessario, che questa immagine che è opera della stessa Trinità, che è stata deteriorata dalla sua propria colpa, si deve evitare di compararla alla Trinità come se le fosse in tutto simile, ma si deve vedere anche una grande dissomiglianza in questa tenue somiglianza.

L'immagine del Padre e del Figlio nella nostra memoria e intelligenza

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Ecco Dio Padre e Dio Figlio, il Dio generante che, in qualche modo, "ha detto" nel suo Verbo, che gli è coeterno, tutto ciò che possiede sostanzialmente, e lo stesso Dio Verbo del Padre, che, anch'egli, possiede sostanzialmente né più né meno ciò che è Colui che ha generato non con menzogna ma veracemente il Verbo. Mi sono sforzato di significare questa relazione come ho potuto, non come se vedessimo già queste realtà a faccia a faccia 267, ma per congettura attraverso questa rassomiglianza in enigma, per quanto debole essa sia, che si trova nell'intimo dello spirito nella relazione della memoria e della intelligenza: attribuendo alla memoria tutto ciò che sappiamo, sebbene da questa conoscenza non nasca alcun pensiero, all'intelligenza invece una informazione del pensiero secondo il modo che le è proprio. Infatti quando pensiamo una cosa di cui avremo scoperto la verità, diciamo che ne abbiamo una perfetta intelligenza, poi la lasciamo di nuovo nella memoria. Ma c'è una profondità più segreta della memoria, in cui l'atto del pensiero giunge a farci scoprire ciò che ne è l'elemento primitivo, e in cui è generato il verbo intimo, che non appartiene a nessuna lingua, come un sapere che proviene da un sapere, una visione che proviene da una visione, una intelligenza che si manifesta nel pensiero, intelligenza che proviene da un'intelligenza già presente nella memoria, ma ancora nascosta; ancorché se anche il pensiero stesso non avesse una sua specie di memoria, non ritornerebbe sulla conoscenza che aveva lasciato nella memoria, quando pensava ad altra cosa.

La nostra volontà immagine dello Spirito Santo

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Invece per quanto riguarda lo Spirito Santo non abbiamo scoperto in questo enigma 268 niente che gli rassomigli se non la volontà, o l'amore o la dilezione, che non è che la volontà in tutta la sua forza; perché la nostra volontà, che fa parte della natura del nostro essere, secondo che è sollecitata o incontra degli oggetti che l'attraggono o la respingono, prova delle affezioni differenti. Che è essa dunque? Diremo forse che la nostra volontà, quando è retta, ignora ciò che deve cercare, ciò che deve evitare? Ma se lo sa, occorre che possieda una certa conoscenza, conoscenza che non potrebbe esistere senza la memoria e la intelligenza. O forse bisogna dare ascolto a chi pretende che la carità ignora ciò che fa, essa che non agisce alla leggera? Dunque, come è immanente l'intelligenza, è immanente anche la dilezione a quella memoria che ne è il principio, in cui si trova presente e nascosto ciò che possiamo raggiungere con l'atto del pensiero; perché prendiamo coscienza che anche queste due potenze sono nella memoria, quando con l'atto del pensiero prendiamo coscienza che comprendiamo qualcosa ed amiamo qualcosa: esse vi esistevano già, anche quando non vi pensavamo. E come è immanente la memoria, così è immanente la dilezione a questa intelligenza che prende forma nell'atto del pensiero: questo verbo vero lo diciamo interiormente, senza ricorrere ad alcuna lingua, quando diciamo ciò che sappiamo; perché senza il ricordo lo sguardo del nostro pensiero non ritornerebbe su una conoscenza, e senza l'amore non si prenderebbe cura di ritornarvi. Così la dilezione, che unisce, in una specie di relazione di paternità e di filiazione, la visione presente nella memoria e la visione del pensiero che prende forma da essa, se non possiede la conoscenza di ciò che deve desiderare, conoscenza che non può esistere senza la memoria e l'intelligenza, non saprebbe ciò che è giusto amare.

Profonda differenza tra la trinità dello spirito e la Trinità divina

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Quando queste tre potenze si trovano in una sola persona, come è il caso dell'uomo, qualcuno potrebbe dirci: "Queste tre potenze: memoria, intelligenza, amore appartengono a me, non a se stesse; non è per se stesse, ma è per me che compiono ciò che compiono, anzi sono io che agisco per mezzo di esse. Sono io infatti che ricordo con la memoria, che comprendo con l'intelligenza, che amo con l'amore; e quando volgo verso la mia memoria lo sguardo del pensiero e dico così nel mio cuore ciò che so e dalla mia scienza è generato un verbo vero, queste due cose sono mie, sia la conoscenza che il verbo. Infatti sono io che so e che dico nel mio cuore ciò che so. E quando con l'atto del pensiero scopro che nella mia memoria già comprendevo, già amavo qualcosa - intelligenza e amore che già erano nella memoria ancor prima che ne prendessi coscienza con il pensiero -, è la mia intelligenza e il mio amore che scopro nella mia memoria e sono io che comprendo e amo per mezzo di essi, non essi stessi. Così pure, quando il mio pensiero cerca un ricordo e vuole ritornare su ciò che aveva lasciato nella memoria, vederlo con l'intelligenza 269 e dirlo interiormente, è con la mia memoria che ricorda, è con la mia volontà che vuole, non con la sua memoria e con la sua volontà. Anche il mio amore, quando ricorda e comprende ciò che deve desiderare, ciò che deve evitare, ricorda con la mia, non con la sua memoria, e con la mia intelligenza, non con la sua, comprende tutto ciò che ama, comprendendolo". Tutto ciò si può esprimere in breve così: "Per mezzo di tutte queste tre potenze, sono io che ricordo, io che comprendo, io che amo, io che non sono né memoria, né intelligenza né amore, ma che li possiedo". Tutto ciò può dunque essere detto da una sola persona, che possiede queste tre potenze, ma che non è queste tre potenze. Invece in quella natura supremamente semplice, che è Dio, sebbene vi sia un solo Dio, vi sono tuttavia tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Analisi di questa differenza

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Una cosa è dunque la Trinità nella sua realtà stessa, altra cosa l'immagine della Trinità in una realtà diversa: è proprio a causa di questa immagine che ciò in cui si trovano queste tre potenze è anche chiamato immagine, come si chiama immagine sia la tela che ciò che è dipinto sulla tela, ma è a causa della pittura che la ricopre che è chiamata immagine anche la tela. Ma in quella suprema Trinità, incomparabilmente superiore a tutte le cose, è tanto accentuata l'inseparabilità che, mentre una trinità di persone umane non si può chiamare un solo uomo, essa è detta ed è un solo Dio, e quella Trinità non è in un solo Dio, ma è un solo Dio 270. Ed ancora per quanto riguarda quella Trinità le cose non stanno come nella sua immagine, l'uomo, che sebbene possegga quelle tre potenze è una sola persona; ma vi sono tre Persone: il Padre del Figlio, il Figlio del Padre, lo Spirito Santo del Padre e del Figlio. Sebbene infatti la memoria dell'uomo - e particolarmente quella che non possiedono le bestie, cioè quella che contiene delle realtà intelligibili che non provengono dai sensi del corpo - presenti a suo modo, in questa immagine della Trinità, una somiglianza, incomparabilmente indegna certo, ma tuttavia non del tutto dissimile, del Padre; e così pure, sebbene l'intelligenza dell'uomo che è informata dalla memoria per mezzo dell'attenzione del pensiero, quando si dice ciò che si sa e si produce quel verbo del cuore che non appartiene ad alcuna lingua, presenti, malgrado la sua accentuata differenza, una certa somiglianza del Figlio; e sebbene l'amore dell'uomo, che procede dalla conoscenza e unisce la memoria e l'intelligenza - essendo comune alla potenza che svolge in qualche modo la funzione di padre e a quella che svolge la funzione di figlio, motivo per cui se ne deduce che non è né padre né figlio -, presenti, in questa immagine, una certa somiglianza, benché molto imperfetta, dello Spirito Santo, tuttavia, mentre in questa immagine della Trinità queste tre potenze non sono un solo uomo, ma appartengono ad un solo uomo, in questa suprema Trinità, di cui l'uomo è immagine, queste tre realtà non appartengono ad un solo Dio, ma sono un solo Dio ed esse sono tre Persone, non una sola. Ecco una cosa di certo meravigliosamente ineffabile o ineffabilmente meravigliosa: sebbene in questa immagine della Trinità vi sia una sola persona, invece nella suprema Trinità vi siano tre Persone, è più inseparabile quella Trinità di tre Persone, che questa di una sola. Perché in quella natura della divinità, o per meglio dire della deità, ciò che è, è, e quella divinità è immutabilmente e sempre uguale tra le Persone; non vi fu un tempo in cui non esistette o esistette in modo diverso, né vi sarà un tempo in cui non esisterà o esisterà in modo diverso. Invece le tre potenze che sono nell'immagine imperfetta della Trinità, sebbene non siano separabili nello spazio, perché non sono dei corpi, lo sono tra loro ora in questa vita per grandezza. Infatti in esse non vi è alcuna massa corporea, nondimeno vediamo che in un uomo la memoria è più grande dell'intelligenza, in un altro vediamo il contrario; vediamo in un altro l'amore che sorpassa in grandezza queste due potenze, siano esse tra loro due uguali o non lo siano. E così accade che due di loro siano inferiori ad una sola, una sola alle altre due, o l'una all'altra, le più piccole alle più grandi. E quando, guarite dalla loro debolezza, saranno uguali tra loro, nemmeno allora questa realtà, che per mezzo della grazia è sottratta al mutamento, sarà uguale alla realtà immutabile per natura, perché mai la creatura può eguagliare il Creatore e il fatto stesso di venir guarita dalla sua debolezza sarà per essa un mutamento.

La conoscenza "attraverso uno specchio"

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Ma questa Trinità, che non è soltanto immateriale, ma anche supremamente inseparabile e veramente immutabile, quando verrà la visione a faccia a faccia che ci è promessa, la vedremo con molta maggiore chiarezza e certezza di quanto ora vediamo la sua immagine che noi siamo. Tuttavia coloro che vedono attraverso questo specchio e in questo enigma 271, come ci è concesso di vedere in questa vita, non sono coloro che percepiscono nel loro spirito queste tre potenze che abbiamo indicato nella nostra analisi, ma coloro che vedono il loro spirito come immagine, in modo da poter riferire ciò che vedono, in qualunque sia maniera, a colui di cui il loro spirito è immagine ed in modo da poter vedere, per congettura per mezzo dell'immagine che vedono contemplandola, Dio, perché non possono ancora vederlo a faccia a faccia. Infatti l'Apostolo non dice: "vediamo ora uno specchio", ma invece: "Vediamo attraverso uno specchio".

Coloro


dunque che vedono il loro spirito, come è possibile vederlo, ed in esso vedono questa trinità circa la quale ho discusso, come ho potuto, con molte analisi, ma che non credono e non comprendono 272 che essa è l'immagine di Dio, vedono lo specchio, ma tanto poco vedono colui che deve essere ora veduto nello specchio da non sapere nemmeno che lo specchio è uno specchio, ossia l'immagine di lui. Se lo sapessero, forse avvertirebbero che questo Dio di cui lo spirito è lo specchio deve essere cercato attraverso questo specchio, deve essere visto in maniera imperfetta e provvisoria attraverso questo specchio, con una fede sincera 273 che purifica i cuori affinché possano vedere a faccia a faccia Colui che ora vedono attraverso uno specchio 274. Se disprezzano questa fede che purifica i cuori, l'intelligenza che acquisiscono della natura dello spirito umano attraverso queste sottilissime discussioni che altro risultato può conseguire se non la dannazione per testimonianza della loro stessa intelligenza? Non si darebbero tanto da fare in questa ricerca per giungere appena a qualche certezza se non fossero avvolti in queste tenebre che sono un castigo e non fossero onerati dal gravame del corpo corruttibile che pesa sull'anima 275. E perché ci è stato inflitto questo male, se non per il peccato? Per questo, una volta che la loro attenzione è stata richiamata sull'ampiezza di un male così grande, dovrebbero seguire l'Agnello 276 che toglie il peccato del mondo 277.

Infatti, per coloro che appartengono a questo Agnello, fossero pure più tardi di ingegno di quelli di cui ho parlato, quando alla fine di questa vita vengono liberati dal corpo, le potenze invidiose perdono il diritto di trattenerli. L'Agnello che da esse è stato ucciso, mentre non doveva pagare alcun debito dovuto al peccato, non le ha volute vincere con la forza della sua potenza prima di vincerle con la giustizia del suo sangue. Perciò, liberi dal potere del diavolo 278, sono ricevuti dagli Angeli santi, liberati da tutti i mali ad opera del Mediatore di Dio e degli uomini, l'uomo Cristo Gesù 279; perché tutte le Scritture sono concordi, sia l'Antico che il Nuovo Testamento, l'Antico preannunciando Cristo, il Nuovo annunciandone la venuta, nel dire che non esiste sotto il cielo altro nome per mezzo del quale gli uomini debbono essere salvati 280. Purificati da ogni contagio di corruzione saranno collocati in luoghi tranquilli fino a quando non riprendano i loro corpi, ma corpi ormai incorruttibili, che siano un ornamento, non un peso. Perché è piaciuto al Creatore supremamente buono e sapiente che lo spirito dell'uomo, piamente sottomesso a Dio, possieda beatamente un corpo sottomesso e che la stessa beatitudine duri senza mai finire.


Sant'Agostino - La Trinità 1500