Discorsi 2005-13 14096

INCONTRO CON I SACERDOTI E I DIACONI PERMANENTI DELLA BAVIERA DISCORSO DEL SANTO PADRE Cattedrale di S. Maria e S. Corbiniano, Freising Giovedì, 14 settembre 2006

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Cari Confratelli nel ministero vescovile e sacerdotale,
Cari fratelli e sorelle!

È questo per me un momento di gioia e di grande gratitudine – gratitudine per tutto ciò che durante questa visita pastorale in Baviera ho potuto vivere e ricevere. Tanta cordialità, tanta fede, tanta gioia in Dio – una esperienza che mi ha colpito profondamente e mi accompagnerà come fonte di nuovo vigore. Gratitudine, poi, in particolare per il fatto che ora, alla fine, sono potuto ancora tornare nel Duomo di Freising ed ho potuto vederlo nel suo nuovo, splendido aspetto. Grazie al Cardinale Wetter, grazie agli altri due Vescovi bavaresi, grazie a tutti coloro che hanno collaborato, grazie alla Provvidenza che ha reso possibile il restauro del Duomo che si presenta ora in questa sua nuova bellezza! Ora, che mi trovo in questa Cattedrale, riemergono nel mio intimo tanti ricordi alla vista degli antichi compagni e dei giovani sacerdoti che trasmettono il messaggio, la fiaccola della fede. Emergono i ricordi della mia ordinazione, a cui il Cardinale Wetter ha accennato: quando ero qui prostrato per terra e, come avvolto dalle Litanie di tutti i santi, dall’intercessione di tutti i santi, mi rendevo conto che su questa via non siamo soli, ma che la grande schiera dei santi cammina con noi e i santi ancora vivi, i fedeli di oggi e di domani, ci sostengono e ci accompagnano. Poi vi fu il momento dell’imposizione delle mani… e infine, quando il Cardinale Faulhaber ci gridò: “Iam non dico vos servos, sed amicos” – “Non vi chiamo più servi, ma amici”, allora ho sperimentato l’ordinazione sacerdotale come iniziazione nella comunità degli amici di Gesù, che sono chiamati a stare con Lui e ad annunciare il suo messaggio.

Poi il ricordo che qui io stesso ho potuto ordinare sacerdoti e diaconi, che sono adesso impegnati nel servizio del Vangelo e per molti anni – ormai sono decenni – hanno trasmesso il messaggio e lo trasmettono tuttora. E poi penso naturalmente alle processioni di san Corbiniano. Allora era ancora consuetudine di aprire il reliquiario. E poiché il Vescovo aveva il suo posto dietro l'urna, potevo guardare direttamente il cranio di san Corbiniano e vedermi così nella processione dei secoli che percorre la via della fede – potevo vedere che, in questa grande "processione dei tempi", possiamo camminare anche noi facendo sì che essa avanzi verso il futuro, una cosa che diventava chiara quando il corteo passava nel chiostro vicino ai tanti bambini lì raccolti, ai quali potevo tracciare sulla fronte la croce di benedizione. In questo momento facciamo ancora quell'esperienza, che cioè stiamo nella grande processione, nel pellegrinaggio del Vangelo, che possiamo essere insieme pellegrini e guide di questo pellegrinaggio e che, seguendo coloro che hanno seguito Cristo, seguiamo con loro Lui stesso ed entriamo così nella luce.

Dovendo ora introdurmi nell'omelia, vorrei soffermarmi su due punti soltanto. Il primo è relativo al Vangelo appena proclamato – un brano che tutti noi abbiamo già tante volte ascoltato, interpretato e meditato nel nostro cuore. “La messe è molta”, dice il Signore. E quando dice: “…è molta”, non si riferisce soltanto a quel momento e a quelle vie della Palestina su cui pellegrinava durante la sua vita terrena; è parola che vale anche per oggi. Ciò significa: nei cuori degli uomini cresce una messe. Ciò significa, ancora una volta: nel loro intimo c’è l’attesa di Dio; l’attesa di una direttiva che sia luce, che indichi la via. L’attesa di una parola che sia più che una semplice parola. La speranza, l’attesa dell’amore che, al di là dell’attimo presente, eternamente ci sostenga e ci accolga. La messe è molta e attende operai in tutte le generazioni. E in tutte le generazioni, pur se in modo differente, vale sempre anche l'altra parola: gli operai sono pochi.

“Pregate il padrone della messe che mandi operai!” Ciò significa: la messe c’è, ma Dio vuole servirsi degli uomini, perché essa venga portata nel granaio. Dio ha bisogno di uomini. Ha bisogno di persone che dicano: Sì, io sono disposto a diventare il Tuo operaio per la messe, sono disposto ad aiutare affinché questa messe che sta maturando nei cuori degli uomini possa veramente entrare nei granai dell’eternità e diventare perenne comunione divina di gioia e di amore. “Pregate il padrone della messe!” Questo vuol dire anche: non possiamo semplicemente “produrre” vocazioni, esse devono venire da Dio. Non possiamo, come forse in altre professioni, per mezzo di una propaganda ben mirata, mediante, per cosi dire, strategie adeguate, semplicemente reclutare delle persone. La chiamata, partendo dal cuore di Dio, deve sempre trovare la via al cuore dell’uomo. E tuttavia: proprio perché arrivi nei cuori degli uomini è necessaria anche la nostra collaborazione. Chiederlo al padrone della messe significa certamente innanzitutto pregare per questo, scuotere il suo cuore e dire: “Fallo per favore! Risveglia gli uomini! Accendi in loro l’entusiasmo e la gioia per il Vangelo! Fa' loro capire che questo è il tesoro più prezioso di ogni altro tesoro e che colui che l’ha scoperto deve trasmetterlo!”

Noi scuotiamo il cuore di Dio. Ma il pregare Dio non si realizza soltanto mediante parole di preghiera; comporta anche un mutamento della parola in azione, affinché dal nostro cuore orante scocchi poi la scintilla della gioia in Dio, della gioia per il Vangelo, e susciti in altri cuori la disponibilità a dire un loro “sì”. Come persone di preghiera, colme della Sua luce, raggiungiamo gli altri e, coinvolgendoli nella nostra preghiera, li facciamo entrare nel raggio della presenza di Dio, il quale farà poi la sua parte. In questo senso vogliamo sempre di nuovo pregare il Padrone della messe, scuotere il suo cuore, e con Dio toccare nella nostra preghiera anche i cuori degli uomini, perché Egli, secondo la sua volontà, vi faccia maturare il “sì”, la disponibilità; la costanza, attraverso tutte le confusioni del tempo, attraverso il calore della giornata ed anche attraverso il buio della notte, di perseverare fedelmente nel servizio, traendo proprio da esso continuamente la consapevolezza che – anche se faticoso – questo sforzo è bello, è utile, perché conduce all’essenziale, ad ottenere cioè che gli uomini ricevano ciò che attendono: la luce di Dio e l’amore di Dio.

Il secondo punto che vorrei trattare è una questione pratica. Il numero dei sacerdoti è diminuito, anche se in questo momento possiamo costatare che tuttavia ci siamo veramente, che pure oggi ci sono sacerdoti giovani ed anziani e che esistono giovani che si incamminano verso il sacerdozio. Ma i gravami sono diventati più pesanti: gestire due, tre, quattro parrocchie insieme, e questo con tutti i nuovi compiti che si sono aggiunti – è cosa che può risultare scoraggiante. Spesso mi si presenta la domanda, anzi ogni singolo la pone a se stesso e ai Confratelli: ma come possiamo farcela? Non è questa forse una professione che ci consuma, nella quale alla fine non possiamo più provare gioia vedendo che, per quanto possiamo fare, non basta mai? Tutto questo ci sovraffatica!

Che cosa si può rispondere? Naturalmente non posso dare delle ricette infallibili; vorrei tuttavia comunicare alcune indicazioni fondamentali. La prima la prendo dalla Lettera ai Filippesi (cfr 2, 5-8), dove san Paolo dice a tutti – e naturalmente in modo particolare a quanti lavorano nel campo di Dio – che dobbiamo "avere in noi i sentimenti di Gesù Cristo". I suoi sentimenti erano tali che Egli, di fronte al destino dell’uomo, quasi non sopportò più la sua esistenza nella gloria, ma dovette scendere e assumere l’incredibile, l’intera miseria di una vita umana fino all’ora della sofferenza sulla croce. Questo è il sentimento di Gesù Cristo: sentirsi spinto a portare agli uomini la luce del Padre, ad aiutarli perché con loro ed in loro si formi il Regno di Dio. E il sentimento di Gesù Cristo consiste contemporaneamente nel fatto che Egli resta sempre radicato profondamente nella comunione col Padre, immerso in essa. Lo vediamo, per così dire, dall'esterno nel fatto che gli Evangelisti ci raccontano ripetutamente che Egli si ritira sul monte, da solo, a pregare. Il suo operare nasce dal suo essere immerso nel Padre: proprio per questo suo essere immerso nel Padre, Egli deve uscire e percorrere tutti i villaggi e le città per annunciare il Regno di Dio, cioè la sua presenza, il suo "esserci" in mezzo a noi; perché il Regno diventi presente in noi e, mediante noi, trasformi il mondo; perché la sua volontà sia fatta come in cielo così in terra e il cielo arrivi sulla terra. Questi due aspetti fanno parte dei sentimenti di Gesù Cristo. Da una parte, conoscere Dio dal di dentro, conoscere Cristo dal di dentro, stare insieme con Lui; solo se questo si realizza, scopriamo veramente il "tesoro". Dall’altra parte, dobbiamo anche andare verso gli uomini. Il "tesoro" non possiamo più tenerlo per noi stessi, ma dobbiamo trasmetterlo.

Questa indicazione fondamentale con i suoi due aspetti vorrei tradurre ulteriormente nel concreto: occorre che vi sia l’insieme di zelo e di umiltà, del riconoscimento cioè dei propri limiti. Da una parte lo zelo: se veramente incontriamo Cristo sempre di nuovo, non possiamo tenercelo per noi stessi. Ci sentiamo spinti ad andare verso i poveri, gli anziani, i deboli, e così pure verso i bambini e i giovani, verso le persone nel pieno della loro vita; ci sentiamo spinti ad essere "annunciatori", apostoli di Cristo. Ma questo zelo, per non diventare vuoto e logorante per noi, deve collegarsi con l’umiltà, con la moderazione, con l’accettazione dei nostri limiti. Quante cose dovrebbero essere fatte – vedo che non ne sono capace. Ciò vale per i parroci – almeno immagino, in quale misura – ciò vale anche per il Papa: egli dovrebbe fare tante cose! E le mie forze semplicemente non bastano. Così devo imparare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e ai miei collaboratori e dire: “In definitiva sei Tu che devi farlo, poiché la Chiesa è Tua. E Tu mi dai solo l’energia che possiedo. Sia donata a Te, perché proviene da Te; il resto, appunto, lo lascio a Te”. Credo, che l’umiltà di accettare questo – “qui finisce la mia energia, lascio a Te, Signore, di fare il resto” – tale umiltà è decisiva. Ed avere poi la fiducia: Egli mi donerà anche i collaboratori che mi aiuteranno e faranno quello che io non riesco a fare.

E ancora, “tradotto” a un terzo livello, questo insieme di zelo e di moderazione significa poi anche l’insieme di servizio in tutte le sue dimensioni e di interiorità. Possiamo servire gli altri, possiamo donare solo se personalmente anche riceviamo, se noi stessi non ci svuotiamo. E la Chiesa per questo ci propone degli spazi liberi che, da una parte, sono spazi per un nuovo "espirare" ed "inspirare" e, d’altra parte, diventano centro e fonte del servire. Vi è innanzitutto la celebrazione quotidiana della Santa Messa: non compiamola come una cosa di routine, che in qualche modo, "devo fare", ma celebriamola "dal di dentro"! Immedesimiamoci con le parole, con le azioni, con l’avvenimento che lì è realtà! Se noi celebriamo la Messa pregando, se il nostro dire: “Questo è il mio Corpo” nasce veramente dalla comunione con Gesù Cristo che ci ha imposto le mani e ci ha autorizzato a parlare con il suo stesso Io, se noi realizziamo l'Eucaristia con intima partecipazione nella fede e nella preghiera, allora essa non si riduce ad un dovere esterno, allora l’“ars celebrandi” viene da sé, perché consiste appunto nel celebrare partendo dal Signore e in comunione con Lui, e così nel modo giusto anche per gli uomini. Allora noi stessi ne riceviamo in dono sempre di nuovo un grande arricchimento e al contempo trasmettiamo agli uomini più di quello che è nostro, vale a dire: la presenza del Signore.

L’altro spazio libero che la Chiesa, per così dire, ci impone e così anche ci libera donandocelo, è la Liturgia delle Ore. Cerchiamo di recitarla come vera preghiera, preghiera in comunione con l’Israele dell’Antica e della Nuova Alleanza, preghiera in comunione con gli oranti di tutti i secoli, preghiera in comunione con Gesù Cristo, preghiera che sale dall’Io più profondo, dal soggetto più profondo di queste preghiere. E pregando così, coinvolgiamo in questa preghiera anche gli altri uomini che per questo non hanno il tempo o l’energia o la capacità. Noi stessi, come persone oranti, preghiamo in rappresentanza degli altri, svolgendo con ciò un ministero pastorale di primo grado. Questo non è un ritirarsi nel privato, ma è una priorità pastorale, è un’azione pastorale, nella quale noi stessi diventiamo nuovamente sacerdoti, veniamo nuovamente colmati di Cristo, includiamo gli altri nella comunione della Chiesa orante e, al contempo, lasciamo emanare la forza della preghiera, la presenza di Gesù Cristo, in questo mondo.

Il motto di questi giorni era: “Chi crede, non è mai solo”. Questa parola vale e deve valere proprio anche per noi sacerdoti, per ciascuno di noi. E di nuovo vale sotto un duplice aspetto: chi è sacerdote non è mai solo, perché Gesù Cristo è sempre con lui. Egli è con noi; stiamo anche noi con Lui! Ma deve valere anche nell’altro senso: chi si fa sacerdote, viene introdotto in un presbiterio, in una comunità di sacerdoti con il Vescovo. Ed egli è sacerdote nell’essere in comunione con i suoi confratelli. Impegniamoci perché questo non resti soltanto un precetto teologico e giuridico, ma diventi esperienza concreta per ciascuno di noi. Doniamoci a vicenda questa comunione, doniamola specialmente a coloro che, sappiamo, soffrono di solitudine, sono oppressi da interrogativi e problemi, forse da dubbi e incertezze! Doniamoci a vicenda questa comunione, allora sperimenteremo sempre di nuovo in questo essere con l’altro, con gli altri, tanto di più e in modo più gioioso anche la comunione con Gesù Cristo! Amen.





CERIMONIA DI CONGEDO Aeroporto Internazionale Franz Joseph Strauss, München Giovedì, 14 settembre 2006

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Signor Ministro Presidente,
Illustri Membri del Governo,
Signori Cardinali e venerati Fratelli nell'Episcopato,
Illustri Signori, gentili Signore!

Nel momento di lasciare la Baviera per fare ritorno a Roma, desidero rivolgere a voi qui presenti, e in voi a tutti i cittadini della mia Patria, un cordiale saluto e insieme una parola di ringraziamento proveniente veramente dal profondo del cuore. Porto impresse indelebilmente nell'animo le emozioni suscitate in me dall'entusiasmo e dalla intensa religiosità di vaste moltitudini di fedeli, che si sono devotamente raccolte nell'ascolto della Parola di Dio e nella preghiera e che mi hanno salutato per le strade e nelle piazze. Ho potuto rendermi conto di quante persone, in Baviera, anche oggi si sforzano di camminare sulle strade di Dio in comunione con i loro Pastori, impegnandosi a rendere testimonianza della loro fede nell'attuale mondo secolarizzato e a renderla presente in esso come forza plasmante. Grazie alla infaticabile dedizione degli organizzatori, tutto ha potuto svolgersi nell'ordine e nella tranquillità, nella comunione e nella gioia. La mia prima parola, in questo commiato, deve dunque essere di gratitudine a tutti coloro che hanno collaborato per ottenere questo risultato. Posso solo dire di tutto cuore: "Dio ve ne renda merito!"

Naturalmente, il mio pensiero va innanzitutto a Lei, Signor Ministro Presidente, che ringrazio per le parole da Lei pronunciate, con cui ha reso una grande testimonianza in favore della nostra fede cristiana quale forza plasmante della nostra vita pubblica. Grazie di cuore per questo! Ringrazio le altre Personalità civili ed ecclesiastiche qui convenute, in particolare quelle che hanno contribuito alla perfetta riuscita di questa visita, nel corso della quale ho potuto incontrare dappertutto persone di questa Terra che mi testimoniavano il loro gioioso affetto e a cui anche il mio cuore resta sempre profondamente legato. Sono stati giorni intensi, e nel ricordo ho potuto rivivere tanti eventi del passato che hanno segnato la mia esistenza. Ovunque ho ricevuto un'accoglienza piena di premure e di attenzioni, devo dire di più, un’accoglienza all'insegna della più grande cordialità. Questo mi ha intimamente toccato. Posso in qualche misura immaginare le difficoltà, le preoccupazioni, la fatica che l'organizzazione della mia visita in Baviera ha comportato: vi sono state coinvolte molte persone appartenenti sia agli organismi della Chiesa che alle strutture pubbliche tanto della Regione quanto dello Stato e soprattutto anche un grande numero di volontari. A tutti dico un "Dio ve ne renda merito" che parte dal profondo del cuore ed è accompagnato dall'assicurazione della mia preghiera per voi tutti.

Sono venuto in Germania, in Baviera, per riproporre ai miei concittadini le eterne verità del Vangelo come verità e forza attuali e confermare i credenti nell'adesione a Cristo, Figlio di Dio fattosi uomo per la nostra salvezza. Sono convinto nella fede che in Lui, nella sua parola, si trova la via non solo per raggiungere la felicità eterna, ma anche per costruire un futuro degno dell'uomo già su questa nostra terra. Animata da questa consapevolezza, la Chiesa sotto la guida dello Spirito, ha trovato sempre di nuovo nella Parola di Dio le risposte alle sfide emergenti nel corso della storia. Questo ha cercato di fare, in particolare, anche per i problemi manifestatisi nel contesto della cosiddetta "questione operaia", soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo XIX. Lo sottolineo in questa circostanza, perché proprio oggi, 14 settembre, cade il 25° anniversario della pubblicazione dell'Enciclica Laborem exercens, con la quale il grande Papa Giovanni Paolo II ha indicato nel lavoro "una dimensione fondamentale dell'esistenza dell'uomo sulla terra" (n.4) e ha ricordato a tutti che, cito, "il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso" (n.6). Il lavoro pertanto, egli annotava, è "un bene dell'uomo", perché con esso "l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo" (n.9). Sulla base di questa intuizione di fondo, il Papa indicava nell'Enciclica alcuni orientamenti che restano attuali anche oggi. A quel testo non privo di valore profetico vorrei rimandare anche i cittadini della mia Patria, nella certezza che da una sua applicazione concreta potranno derivare grandi vantaggi anche per l'odierna situazione sociale in Germania.

Ed ora, nel congedarmi dalla mia amata Patria, affido il presente ed il futuro della Baviera e della Germania all'intercessione di tutti i Santi che sono vissuti sul territorio tedesco servendo fedelmente Cristo e sperimentando nella loro esistenza la verità di quelle parole che hanno accompagnato come leitmotiv le varie fasi della visita: "Chi crede non è mai solo". Questa esperienza ha fatto sicuramente anche l'autore del nostro inno bavarese. Con le sue parole, con le parole del nostro inno, che sono anche una preghiera, mi piace lasciare ancora un augurio alla mia Patria: "Dio sia con te, Paese dei Bavaresi, terra tedesca, Patria! / Sopra i tuoi vasti territori riposi la sua mano benedicente! / Egli protegga la tua campagna e gli edifici delle tue città / e conservi a te i colori del suo cielo bianco e azzurro!"

A tutti un cordiale "Vergelt's Gott" e "Arrivederci", se Dio vuole.





INCONTRO CON LA COMUNITÀ DELLA SEGRETERIA DI STATO IN OCCASIONE DELLA CERIMONIA DI CONGEDO

DALL'UFFICIO DI SEGRETARIO DI STATO DEL CARDINALE ANGELO SODANO E DELLA NOMINA A SEGRETARIO DI STATO DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE

DISCORSO PRONUNCIATO A BRACCIO Sala degli Svizzeri, Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo Venerdì, 15 settembre 2006

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Eminenze,
Eccellenze,
Cari Collaboratori e Collaboratrici,

Non posso terminare questo incontro senza aggiungere ancora una volta una parola che mi viene in questo momento dal cuore. È un momento, in un certo senso, di tristezza; ma soprattutto è un momento di profonda gratitudine. Lei, Eminenza, ha lavorato con tanti Papi, e alla fine con me, in veste di Segretario di Stato, con la dedizione, la competenza, la volontà di servire delle quali ho già parlato. Vorrei, associandomi al Suo discorso, estendere questo mio ringraziamento a tutti i Collaboratori e le Collaboratrici, e alle Rappresentanze Pontificie nel mondo. Ho capito sempre di più come solo questa grande rete di collaborazione rende possibile rispondere al mandato del Signore: “Confirma fratres tuos in fide”. Solo in virtù del confluire di tutte queste competenze, solo in virtù dell’umiltà di un impegno laborioso e molto esperto di tante persone, alla fine può scaturire questa "conferma dei fratelli", nella quale il Papa obbedisce al Signore. Egli può realizzare adeguatamente la sua missione grazie a questa ampia collaborazione.

Solo in questi ultimi anni, essendo Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ho capito sempre di più quanta competenza è qui presente, quanta dedizione, quanta umiltà e quanta volontà di servire realmente il Signore nella sua Chiesa. Questo lavoro curiale è, in realtà, un lavoro pastorale in un senso eminente, perché aiuta realmente a guidare il popolo di Dio sui pascoli erbosi – come dice il Salmo – dove la Parola di Dio è presente e ci nutre per tutta la nostra vita.

Eminenza, ho riflettuto nelle ultime settimane su quale segno della mia gratitudine avrei potuto darLe in questo momento. Ho avuto la gioia di essere accompagnato da Lei nel mio Viaggio in Baviera. Abbiamo visitato Sedi episcopali importanti – München, Regensburg e l’antica Sede di Freising – e abbiamo visitato il nostro Santuario nazionale, per così dire, di Altötting, che è chiamato da secoli “cuore” della Baviera. Esso è il vero “cuore” di questo Paese, perché lì, trovando la Madre, troviamo il Signore. Lì, in tutte le vicissitudini della storia, in tutte le difficoltà anche del presente, ritroviamo con la protezione della Madre anche di nuovo la gioia della fede. Lì si rinnova il nostro popolo.

Lei, Signor Cardinale, è stato testimone del fatto che il Vescovo di Passau mi ha consegnato a perenne ricordo una copia della figura quattrocentesca della Madonna, che attira sempre di nuovo i pellegrini che desiderano sperimentare l’amore della Madre di noi tutti. Ho potuto ottenere una copia fedele – ci sono copie meno preziose – della Madonna di Altötting. E penso che potrebbe essere questa Madonna di Altötting il segno non solo della mia perenne gratitudine, ma anche il segno della nostra comunicazione nella preghiera. La Madonna sia sempre accanto a Lei, La protegga sempre, La guidi. Questa è l’espressione della mia sincera gratitudine.





A S.E. IL SIGNOR IVAN REBERNIK NUOVO AMBASCIATORE DI SLOVENIA PRESSO LA SANTA SEDE Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo Sabato, 16 settembre 2006

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Signor Ambasciatore,

il cordiale e solenne gesto della presentazione delle Lettere che La accreditano quale Ministro Straordinario e Plenipotenziario della Repubblica di Slovenia presso la Sede Apostolica, richiama i millenari rapporti fra il Successore di Pietro e l'amato popolo che Ella è qui a rappresentare. Sia il benvenuto, Signor Ambasciatore. Sono certo che i sentimenti da Lei evocati, nelle parole testé rivoltemi, rispecchiano le intime convinzioni dei Suoi compatrioti nei confronti del Papa. Di tali genuine espressioni prendo atto con sincero compiacimento, manifestando alle Autorità che La accreditano, in special modo al Presidente della Repubblica Sua Eccellenza il Signor Janez Drnovšek, grato apprezzamento. La Repubblica di Slovenia, nella sua nativa libertà, coltiva un dialogo fecondo e costruttivo con le istanze ecclesiali presenti sul territorio, riconoscendone l’apporto positivo alla vita della Nazione. Ciò conferma come le tradizioni cattoliche, che da sempre hanno caratterizzato il Popolo sloveno, costituiscano un tesoro prezioso al quale attingere per esprimere l’identità stessa più profonda e vera di quella nobile Terra.

È in questo quadro che si sono sviluppate in maniera feconda le relazioni cordiali fra gli Sloveni e la Sede di Pietro: esse sono testimoniate ancor oggi dai buoni rapporti bilaterali, a cui Ella ha voluto opportunamente far cenno. Sin dai primi secoli del Cristianesimo la forza del Vangelo ha operato in terra slovena, come rivela la presenza di santi quali san Vittorino e san Massimiano, la cui testimonianza ha contribuito all’affermarsi della fede cristiana tra le genti che, nel VII secolo, hanno trovato casa nell'attuale Slovenia. Come non pensare poi alla figura di un Vescovo come il beato Anton Martin Slomšek che, in tempi più recenti, ha promosso il risveglio nazionale svolgendo una preziosa opera quale formatore del popolo sloveno? Il cristianesimo e l’identità nazionale sono strettamente connessi. È dunque naturale che vi sia una profonda sintonia fra il Vescovo di Roma e il nobile popolo che in Lei oggi ha qui il proprio rappresentante e la propria voce.

Frutto di questo intenso e costruttivo dialogo, non interrotto dalle tristi vicende del secolo appena trascorso, è l’Accordo fra la Repubblica di Slovenia e la Santa Sede su questioni giuridiche, del 14 dicembre 2001. Si tratta di un'intesa importante, la cui fedele applicazione non potrà che rafforzare i rapporti reciproci e la collaborazione per la promozione della persona e del bene comune (cfr art. 1), nel rispetto della legittima laicità dello Stato. Tuttavia, come Ella ha opportunamente rilevato, si registra l’esistenza di questioni ancora aperte, che attendono di essere avviate ad opportuna soluzione. Conoscendo la stima e l’affetto degli Sloveni per il Papa, sono certo che i loro rappresentanti a livello politico ne sapranno interpretare le tradizioni, la sensibilità, la cultura. Il popolo sloveno infatti ha il diritto di affermare e far valere l’anima cristiana che ne ha plasmato l’identità e lo ha inscritto nel contesto di quell’Europa le cui radici più profonde traggono vigore dalla semente evangelica operante nel continente da quasi due millenni.

Il compito di fronte al quale si trovano i responsabili di oggi è di individuare i metodi opportuni per coinvolgere le nuove generazioni nella conoscenza e nell’apprezzamento dei valori del passato, rendendole capaci di portare nel millennio appena iniziato il ricco patrimonio ereditato. Esse pertanto debbono essere messe in grado di giungere alla conoscenza concreta e specifica dei fondamenti culturali, etici e religiosi sui quali la Nazione si è edificata nel corso dei secoli. Sarebbe infatti strategia veramente miope non favorire l’apertura dei giovani alla conoscenza delle radici storiche dalle quali fluisce la linfa necessaria per assicurare alla Nazione nuove stagioni feconde di frutti. In tal senso, la questione della loro istruzione anche in merito ai valori religiosi condivisi dalla maggioranza della popolazione non va elusa, se non si vuole rischiare il progressivo smarrimento dei tratti più specifici della fisionomia nazionale. È in questione il rispetto della stessa libertà dei cittadini, sulla quale la Repubblica di Slovenia vigila con attenzione e che anche la Sede Apostolica desidera sia promossa nello spirito del suddetto Accordo. E’ tale, peraltro, l’esperienza anche di altri Popoli del Continente, in particolare dei Popoli slavi, che, coscienti dell’importanza del cristianesimo per la loro identità sociale e del valido contributo che in tal senso può offrire la Chiesa, non si sono sottratti al dovere di assicurare, anche a livello legislativo, che il ricco patrimonio etico e religioso continui a portare copiosi frutti alle giovani generazioni.

Possa il dialogo aperto in tale ambito tra Autorità civili e religiose in Slovenia condurre - è l’augurio che volentieri esprimo nella presente circostanza - a quella intesa giusta e sincera, di cui si sente il bisogno! Ciò non mancherà di giovare alle persone alle quali, pur in prospettiva diversa, sia lo Stato che la Chiesa si sentono impegnati a rendere un doveroso servizio. Posso assicurare che la Chiesa Cattolica non mancherà di collaborare con lo Stato in sincerità e cordialità, senza esigere per sé privilegi, ma avanzando proposte che, secondo il suo giudizio, possono contribuire al comune progresso della Nazione.

Mentre auspico che le cordiali relazioni tra la Slovenia e la Santa Sede continuino a svilupparsi sui saldi binari che le hanno finora guidate, Le confermo la stima e il sostegno miei e dei miei Collaboratori della Curia Romana nell’espletare l’alta missione affidataLe ed avvaloro tali sentimenti con l’invocazione di abbondanti benedizioni divine su di Lei e sulle persone che Le sono care.



AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE SUL TEMA: "LE CELLULE STAMINALI: QUALE FUTURO IN ORDINE ALLA TERAPIA?" PROMOSSO DALLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, 16 settembre 2006

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Sala degli Svizzeri, Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo Sabato

Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri Signori, gentili Signore!

A tutti rivolgo il mio saluto cordiale. L'incontro con scienziati e studiosi come Voi, dediti alla ricerca finalizzata alla terapia di malattie che affliggono pesantemente l'umanità, è per me motivo di particolare conforto. Sono grato agli organizzatori che hanno promosso questo Congresso su di un argomento che ha acquistato in questi anni crescente rilevanza. Lo specifico tema del Simposio è opportunamente formulato con un interrogativo aperto alla speranza: "Le cellule staminali: quale futuro per la terapia?". Ringrazio il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, Mons. Elio Sgreccia, per le parole gentili che mi ha rivolto anche a nome della Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici (FIAMC), associazione che ha cooperato alla organizzazione del Congresso ed è qui rappresentata dal Presidente uscente, Prof. Gianluigi Gigli e dal Presidente eletto Prof. Simon de Castellvi.

Quando la scienza si applica al sollievo della sofferenza e quando, su questo cammino, scopre nuove risorse, essa si dimostra due volte ricca di umanità: per lo sforzo dell'ingegno investito nella ricerca e per il beneficio annunciato a quanti sono afflitti dalla malattia. Anche coloro che forniscono i mezzi finanziari e incoraggiano le strutture di studio necessarie partecipano al merito di questo progresso sulla strada della civiltà. Vorrei ripetere in questa circostanza quanto ho avuto modo di affermare in una recente Udienza: "II progresso può essere progresso vero solo se serve alla persona umana e se la persona umana stessa cresce; se non cresce solo il suo potere tecnico, ma cresce anche la sua capacità morale" (Udienza Generale del 16 agosto). In questa luce, anche la ricerca sulle cellule staminali somatiche merita approvazione ed incoraggiamento quando coniuga felicemente insieme il sapere scientifico, la tecnologia più avanzata in ambito biologico e l'etica che postula il rispetto dell'essere umano in ogni stadio della sua esistenza. Le prospettive aperte da questo nuovo capitolo della ricerca sono in se stesse affascinanti, perché lasciano intravedere la possibilità di curare malattie che comportano la degenerazione dei tessuti, con i conseguenti rischi di invalidità e di morte per chi ne è affetto.

Come non sentire il dovere di lodare quanti si applicano a questa ricerca e quanti ne sostengono l'organizzazione e i costi? Vorrei in particolare esortare le strutture scientifiche che si rifanno per ispirazione e per organizzazione alla Chiesa Cattolica a incrementare questo tipo di ricerca e a stabilire i più stretti contatti fra loro e con quanti perseguono nei debiti modi il sollievo della sofferenza umana. Mi sia lecito anche rivendicare, di fronte a frequenti e ingiuste accuse di insensibilità rivolte alla Chiesa, il costante sostegno da essa dato nel corso della sua bimillenaria storia alla ricerca rivolta alla cura delle malattie e al bene dell'umanità. Se resistenza c'è stata - e c'è tuttora - essa era ed è nei confronti di quelle forme di ricerca che prevedono la programmata soppressione di esseri umani già esistenti, anche se non ancora nati. In tali casi la ricerca, a prescindere dai risultati di utilità terapeutica, non si pone veramente a servizio dell'umanità. Passa infatti attraverso la soppressione di vite umane che hanno uguale dignità rispetto agli altri individui umani e agli stessi ricercatori. La storia stessa ha condannato nel passato e condannerà in futuro una tale scienza, non solo perché priva della luce di Dio, ma anche perché priva di umanità. Vorrei ripetere qui quanto già scrivevo qualche tempo fa: "Qui c'è un nodo che non possiamo aggirare: nessuno può disporre della vita umana. Deve essere stabilito un confine invalicabile alle nostre possibilità di fare e sperimentare. L'uomo non è un oggetto di cui possiamo disporre, ma ogni singolo individuo rappresenta la presenza di Dio nel mondo" (J. Ratzinger, Dio e il mondo, pag. 119).

Di fronte alla diretta soppressione dell'essere umano non ci possono essere né compromessi né tergiversazioni; non si può pensare che una società possa combattere efficacemente il crimine, quando essa stessa legalizza il delitto nell'ambito della vita nascente. In occasione di recenti Congressi della Pontificia Accademia per la Vita ho avuto modo di ribadire l'insegnamento della Chiesa, rivolto a tutti gli uomini di buona volontà, circa il valore umano del neo concepito, anche quando viene considerato prima del suo impianto in utero. Il fatto che voi, in questo Congresso, abbiate espresso l'impegno e la speranza di conseguire nuovi risultati terapeutici utilizzando cellule del corpo adulto senza ricorrere alla soppressione di esseri umani neo concepiti, e il fatto che i risultati stiano premiando il vostro lavoro, costituiscono una conferma della validità del costante invito della Chiesa al pieno rispetto dell'essere umano fin dal concepimento. Il bene dell'uomo va ricercato non soltanto nelle finalità universalmente valide, ma anche nei metodi utilizzati per raggiungerle: il fine buono non può mai giustificare mezzi intrinsecamente illeciti. Non è soltanto questione di sano criterio per l'impiego delle limitate risorse economiche, ma anche, e soprattutto, di rispetto dei fondamentali diritti dell'uomo nell'ambito stesso della ricerca scientifica.

Al vostro sforzo, certamente sostenuto da Dio che agisce in ogni uomo di buona volontà e agisce per il bene di tutti, auguro che Egli conceda la gioia della scoperta della verità, la sapienza nella considerazione e nel rispetto di ogni essere umano, e il successo nella ricerca di efficaci rimedi alla sofferenza umana. A suggello di questo auspicio imparto di cuore a tutti voi, ai vostri collaboratori e familiari, come pure ai pazienti cui andranno le vostre risorse di ingegno e il frutto del vostro lavoro, un'affettuosa benedizione, con l'assicurazione di uno speciale ricordo nella preghiera.







Discorsi 2005-13 14096