Discorsi 2005-13 14027

VISITA ALLA FABBRICA DI SAN PIETRO Mercoledì, 14 marzo 2007

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Venerati Fratelli nell’Episcopato,
cari amici,

sono molto contento di questo incontro con voi, che avviene nella sede di un'antica e illustre Istituzione Pontificia: la Fabbrica di San Pietro. Saluto anzitutto l'Arcivescovo Mons. Angelo Comastri, Arciprete della Basilica di San Pietro e vostro Presidente, che si è fatto interprete dei comuni sentimenti. Saluto poi il Vescovo Mons. Vittorio Lanzani, Delegato della medesima Fabbrica, come pure ciascuno di voi. Voi lavorate in un luogo, la veneranda Basilica dell'Apostolo, che è il cuore della Chiesa cattolica: un cuore pulsante, grazie allo Spirito Santo che lo tiene sempre vivo, ma anche grazie all'attività di quanti quotidianamente lo fanno funzionare. Sono passati da poco i 500 anni dalla posa della prima pietra della seconda Basilica Vaticana, come ha ricordato Mons. Comastri. Cinque secoli: eppure, essa è sempre viva e giovane; non è un museo, è un organismo spirituale, e anche le pietre risentono di questa sua vitalità! Voi per primi, che lavorate qui, siete "pietre vive", come scriveva l'apostolo Pietro, pietre vive dell'edificio spirituale che è la Chiesa.

Sono contento di questo incontro pur breve con voi, quasi a chiudere le celebrazioni del quinto centenario della Basilica Vaticana, dove voi operate concretamente. Vorrei cogliere l'occasione per ricordare, in questo momento, tutti i vostri colleghi che nei 500 anni passati vi hanno preceduto. A voi esprimo il mio ringraziamento per ciò che fate, con impegno e competenza, perché questo "cuore" della Chiesa, come dicevo sopra, possa continuare a "pulsare" con perenne vitalità: attirando a sé uomini e donne dal mondo intero e aiutandoli a compiere un'esperienza spirituale che segni la loro esistenza. In effetti, grazie al vostro contributo, quasi sempre nascosto ma sempre opportuno, tante persone, pellegrini di tutte le parti del mondo, possono vivere con frutto il loro pellegrinaggio, o semplicemente la loro visita alla Basilica Vaticana, e recare con sé nel cuore un messaggio di fede e di speranza la certezza di aver visto non solo grandi opere d'arte ma di essersi incontrati con la Chiesa viva, con l'Apostolo Pietro e infine con Cristo. Ancora una volta vi ringrazio e vi incoraggio: la vostra attività lavorativa compitela sempre come atto di amore alla Chiesa, a San Pietro e quindi a Cristo. Affido tutti alla speciale protezione di San Pietro, voi e i vostri cari. E, mentre vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e vi chiedo di ricambiarlo pregando per me, di cuore vi benedico.



AI PARTECIPANTI AL CORSO SUL FORO INTERNO ORGANIZZATO DALLA PENITENZIERIA APOSTOLICA Sala Clementina Venerdì, 16 marzo 2007

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Signor Cardinale,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

ben volentieri vi accolgo quest’oggi e rivolgo il mio cordiale saluto a ciascuno di voi, partecipanti al Corso sul Foro interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica. In primo luogo saluto il Signor Cardinale James Francis Stafford, Penitenziere Maggiore, che ringrazio per le gentili parole rivoltemi, il Vescovo Gianfranco Girotti, Reggente della Penitenzieria, e tutti i presenti.

L’odierno incontro mi offre l’opportunità di riflettere insieme a voi sull’importanza del sacramento della Penitenza anche in questo nostro tempo e di ribadire la necessità che i sacerdoti si preparino ad amministrarlo con devozione e fedeltà a lode di Dio e per la santificazione del popolo cristiano, come promettono al Vescovo nel giorno della loro Ordinazione presbiterale. Si tratta infatti di uno dei compiti qualificanti del peculiare ministero che essi sono chiamati ad esercitare “in persona Christi”. Con i gesti e le parole sacramentali, i sacerdoti rendono visibile soprattutto l’amore di Dio, che in Cristo si è rivelato in pienezza. Nell’amministrare il Sacramento del perdono e della riconciliazione, il presbitero - ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica - agisce come “il segno e lo strumento dell'amore misericordioso di Dio verso il peccatore” (n. 1465). Ciò che avviene in questo sacramento è pertanto innanzitutto mistero di amore, opera dell'amore misericordioso del Signore.

“Dio è amore” (
1Jn 4,16): in questa semplice affermazione l’evangelista Giovanni ha racchiuso la rivelazione dell’intero mistero di Dio Trinità. E nell’incontro con Nicodemo Gesù, preannunciando la sua passione e morte in croce, afferma: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Jn 3,16). Abbiamo tutti bisogno di attingere alla fonte inesauribile dell’amore divino, che si manifesta a noi totalmente nel mistero della Croce, per trovare l’autentica pace con Dio, con noi stessi e con il prossimo. Solo da questa sorgente spirituale è possibile trarre quell’energia interiore indispensabile per sconfiggere il male e il peccato nella lotta senza pausa, che segna il nostro pellegrinaggio terreno verso la patria celeste.

Il mondo contemporaneo continua a presentare le contraddizioni ben rilevate dai Padri del Concilio Vaticano II (cfr Cost. past. Gaudium et spes GS 4-10): vediamo un’umanità che vorrebbe essere autosufficiente, dove non pochi ritengono quasi di poter fare a meno di Dio per vivere bene; eppure, quanti sembrano tristemente condannati ad affrontare drammatiche situazioni di vuoto esistenziale, quanta violenza c’è ancora sulla terra, quanta solitudine pesa sull’animo dell’uomo dell’era della comunicazione! In una parola, oggi pare che si sia perso il “senso del peccato”, ma in compenso sono aumentati i “complessi di colpa”. Chi potrà liberare il cuore degli uomini da questo giogo di morte, se non Colui che morendo ha sconfitto per sempre la potenza del male con l’onnipotenza dell’amore divino? Come ricordava san Paolo ai cristiani di Efeso, “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo” (Ep 2,4). Il sacerdote, nel sacramento della Confessione, è strumento di questo amore misericordioso di Dio, che invoca nella formula dell’assoluzione dei peccati: “Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace”.

Il Nuovo Testamento, in ogni sua pagina, parla dell’amore e della misericordia di Dio che si sono resi visibili in Cristo. Gesù infatti, che “riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2), e con autorità afferma: “Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi” (Lc 5,20), dice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi” (Lc 5,31-32). L’impegno del sacerdote e del confessore è principalmente questo: portare ciascuno a fare esperienza dell’amore di Cristo per lui, incontrandolo sulla strada della propria vita come Paolo lo incontrò sulla via di Damasco. Conosciamo l’appassionata dichiarazione dell’Apostolo delle genti dopo quell’incontro che ne cambiò la vita: “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Ga 2,20). Possa ogni persona fare questa stessa esperienza spirituale e “riscoprire Cristo come mysterium pietatis, colui nel quale Dio ci mostra il suo cuore compassionevole e ci riconcilia pienamente a sé. È questo volto di Cristo che occorre far riscoprire anche attraverso il sacramento della Penitenza” (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 37). Il sacerdote, ministro del sacramento della Riconciliazione, senta sempre come suo compito quello di far trasparire, nelle parole e nel modo di accostare il penitente, l'amore misericordioso di Dio. Come il padre della parabola del figlio prodigo, accolga il peccatore pentito, lo aiuti a risollevarsi dal peccato, lo incoraggi a emendarsi non venendo mai a patti con il male, ma riprendendo sempre il cammino verso la perfezione evangelica.

Cari Fratelli, tutto ciò comporta che il sacerdote impegnato nel ministero del sacramento della Penitenza sia animato egli stesso da una costante tensione alla santità. Il Catechismo della Chiesa Cattolica punta alto in tale esigenza, quando afferma: “Il confessore [...] deve avere una provata conoscenza del comportamento cristiano, l'esperienza delle realtà umane, il rispetto e la delicatezza nei confronti di colui che è caduto; deve amare la verità, essere fedele al Magistero della Chiesa e condurre con pazienza il penitente verso la guarigione e la piena maturità. Deve pregare e fare penitenza per lui, affidandolo alla misericordia del Signore” (n. 1466). Per portare a compimento questa importante missione, interiormente unito sempre al Signore, il sacerdote si mantenga fedele al Magistero della Chiesa per quanto concerne la dottrina morale, cosciente che la legge del bene e del male non è determinata dalle situazioni, ma da Dio. Alla Vergine Maria, Madre di misericordia, chiedo di sostenere il ministero dei sacerdoti confessori e di aiutare ogni comunità cristiana a comprendere sempre più il valore e l’importanza del sacramento della Penitenza per la crescita spirituale di ogni fedele. A voi, qui presenti, e alle persone che vi sono care imparto con affetto la mia Benedizione.




INCONTRO CON I PARTECIPANTI AI PELLEGRINAGGI DELL’O.F.T.A.L. (OPERA FEDERATIVA TRASPORTO AMMALATI A LOURDES)

E DEL M.A.C. (MOVIMENTO APOSTOLICO CIECHI) Basilica Vaticana Sabato, 17 marzo 2007

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Cari amici dell’OFTAL e del Movimento Apostolico Ciechi!

Con grande gioia vi incontro nella Basilica Vaticana, dove avete partecipato alla Celebrazione eucaristica presieduta dal mio Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone, che saluto cordialmente. Saluto l'Arcivescovo Angelo Comastri, Vicario Generale per la Città del Vaticano e Arciprete della Basilica Vaticana, ed i vostri Assistenti ecclesiastici. Saluto ciascuno di voi, in particolare il Presidente dell'OFTAL, Monsignor Franco Degrandi, e il Vice Presidente del MAC, Dottor Francesco Scelzo, che ringrazio per avermi presentato le vostre rispettive Associazioni, nate a poca distanza di tempo l'una dall'altra.

Il Movimento Apostolico Ciechi, infatti, ebbe origine nel 1928, dall'intuizione e dallo slancio apostolico di un'insegnante non vedente di Monza, Maria Motta, dotata di profonda fede e di grande forza d'animo. Mentre l'Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes (OFTAL) celebra il suo 75° anniversario: in effetti, iniziata nel 1913 da Mons. Alessandro Rastelli, sacerdote della diocesi di Vercelli, nacque ufficialmente nel '32, promossa dall'Arcivescovo di quella Chiesa particolare. La vostra compresenza qui oggi è provvidenziale, perché le due Associazioni, pur differenziandosi per molti aspetti, ne hanno però in comune uno fondamentale, che desidero mettere subito in risalto. Mi riferisco al fatto che sia il MAC che l'OFTAL si presentano come esperienze di condivisione fraterna, basata sul Vangelo e capace di mettere in grado le persone in difficoltà, in questo caso malate e non vedenti, di essere pienamente partecipi della vita della Comunità ecclesiale e costruttrici della civiltà dell'amore. Due realtà che, come diceva il tema del recente Convegno ecclesiale di Verona, danno testimonianza di Cristo risorto speranza del mondo, manifestando che la fede e l'amicizia cristiana permettono di attraversare insieme ogni condizione di fragilità.

In questo senso è emblematica l'esperienza dei due fondatori: Don Rastelli e Maria Motta. Il primo si recò a Lourdes dopo un incidente che lo costrinse per un mese in ospedale. L'esperienza dell'infermità lo rese particolarmente sensibile al messaggio della Vergine Immacolata, che lo chiamò a ritornare alla Grotta di Massabielle dapprima in compagnia di un solo malato - e ciò è molto significativo! - e quindi alla guida del primo pellegrinaggio diocesano con oltre 300 persone di cui 30 malati. Per Maria Motta, cieca dalla nascita, la limitazione visiva non fu un impedimento alla sua vocazione, anzi, lo Spirito fece di lei un'apostola dei non vedenti, e in seguito rese feconda la sua iniziativa ben oltre le sue stesse aspettative. Da quella "rete" spirituale che lei aveva formato si sviluppò una vera e propria associazione, formata da gruppi diocesani presenti in ogni parte d'Italia, ed approvata dal beato Giovanni XXIII col nome di Movimento Apostolico Ciechi. In essa ciechi e vedenti, imparando lo stile della reciprocità e della condivisione, si impegnano nella formazione per mettersi al servizio della missione apostolica della Chiesa.

Ciascuna delle due Associazioni contribuisce ad edificare la Chiesa con il proprio, specifico carisma. Voi, amici dell'OFTAL, offrite l'esperienza del pellegrinaggio con i malati, segno forte di fede e di solidarietà tra persone che escono da se stesse e dal chiuso dei propri problemi per partire verso una meta comune, un luogo dello spirito: Lourdes, la Terra Santa, Loreto, Fatima, e altri Santuari. Aiutate così il Popolo di Dio a tener desta la consapevolezza della sua natura pellegrinante alla sequela di Cristo, come emerge in maniera rilevante nella Sacra Scrittura. Pensiamo al Libro dell'Esodo, che la liturgia ci fa meditare in questo tempo quaresimale; pensiamo alla vita pubblica di Gesù, che i Vangeli presentano come un grande pellegrinaggio verso Gerusalemme, dove deve compiersi il suo "esodo". Voi, amici del MAC, a vostra volta siete portatori di un'esperienza tipica, che vi è propria: quella del camminare insieme, fianco a fianco, ciechi e vedenti. È una testimonianza di come l'amore cristiano permetta di superare l'handicap e di vivere positivamente la diversità, quale occasione di apertura all'altro, di attenzione ai suoi problemi, ma prima di tutto ai suoi doni, e di vicendevole servizio.

Cari fratelli e sorelle, la Chiesa ha bisogno anche del vostro contributo per rispondere fedelmente e pienamente alla volontà del Signore. E altrettanto si può dire della società civile: l'umanità ha bisogno dei vostri doni, che sono profezia del Regno di Dio. Non vi spaventino i limiti e la povertà di risorse: Dio ama compiere le sue opere con mezzi poveri. Chiede però di mettergli a disposizione una fede generosa! Ecco, in fondo, perché siete venuti qui: per implorare presso la tomba di Pietro il dono di una fede più salda. Domani concluderete il vostro pellegrinaggio in due luoghi mariani di Roma: il MAC nella Basilica di Santa Maria Maggiore, e l'OFTAL nel Santuario della Madonna del Divino Amore. Ripartite, dunque, da questo momento di grazia animati dalla fede di Pietro e di Maria! E con questa fede proseguite il vostro cammino, accompagnati anche dalla mia preghiera e dalla mia benedizione, che con affetto imparto a voi qui presenti e a tutti i vostri soci e alle persone a voi care.




VISITA ALL’ISTITUTO PENALE PER MINORI "CASAL DEL MARMO" DI ROMA Saluto in Palestra - IV Domenica di Quaresima, 18 marzo 2007

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Cari ragazzi e ragazze,

Vorrei innanzitutto dirvi grazie per la vostra gioia, grazie per questa preparazione. Per me, è una grande gioia avervi dato un po’ di luce con questa mia visita. Così si conclude adesso il nostro incontro, si conclude la mia breve, ma intensa visita. Come è stato ricordato, è il mio primo contatto con il mondo delle carceri da quando sono Papa. Ho ascoltato con attenzione le parole del Direttore, del Comandante e di un vostro rappresentante e vi ringrazio per i sentimenti cordiali che mi avete manifestato, come pure per gli auguri che mi avete rivolto in occasione del mio onomastico. Ho sentito, inoltre, che è ancora vivo tra voi il ricordo del Cardinale Casaroli, chiamato familiarmente Padre Agostino. Lui mi ha diverse volte parlato di queste sue esperienze dove si sentiva sempre molto amico, molto vicino a tutti i ragazzi e ragazze presenti qui in questo carcere.

Voi, cari ragazzi e ragazze, provenite da diverse nazioni: mi piacerebbe poter restare più a lungo con voi, purtroppo il tempo è limitato. Forse troveremo un’altra volta una giornata più lunga. Sappiate tuttavia che il Papa vi vuole bene e vi segue con affetto. Desidero, poi, cogliere questa occasione per estendere il mio saluto a tutti coloro che sono in carcere e a quanti, in vario modo, lavorano nell’ambito penitenziario.

Cari ragazzi e ragazze, oggi per voi è una giornata di festa, come è stato detto: è venuto a trovarvi il Papa, sono presenti il Ministro della Giustizia, diverse Autorità, il Cardinale Vicario, il Vescovo ausiliare, il vostro Cappellano, tante altre personalità e amici. Una giornata di gioia, quindi. La liturgia stessa di questa domenica inizia con un invito ad essere nella gioia: “Rallègrati!” è la prima parola con cui inizia la Messa. Ma come si può essere felici quando si soffre, quando si è privi della libertà, quando ci si sente abbandonati?

Durante la Messa abbiamo ricordato che Dio ci ama: ecco la sorgente della vera gioia. Pur avendo tutto ciò che si desidera, si è talora infelici; si potrebbe invece essere privi di tutto, persino della libertà o della salute, ed essere in pace e nella gioia, se dentro il cuore c’è Dio. Il segreto, dunque, sta qui: occorre che Dio occupi sempre il primo posto nella nostra vita. Ed il vero volto di Dio ce lo ha rivelato Gesù. Cari amici, prima di lasciarci vi assicuro di tutto cuore che continuerò a ricordarvi davanti al Signore. Sarete sempre presenti nelle mie preghiere.

Vi anticipo gli auguri per la prossima festa di Pasqua e tutti vi benedico. Il Signore vi accompagni sempre con la sua Grazia e vi guidi nella vostra vita futura.




INCONTRO CON IL COLLEGIO DEI DOCENTI DELLA FACOLTÀ DI TEOLOGIA CATTOLICA DI TÜBINGEN Auletta dell’Aula Paolo VI Mercoledì, 21 marzo 2007

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Caro signor Vescovo, stimato signor Decano, gentili signori colleghi, se mi è consentito dirlo!

Vi ringrazio per questa visita e posso dire di rallegrarmi veramente di cuore per essa. Da un lato, l'incontro con il proprio passato è sempre una cosa bella, poiché ha in sé qualcosa che ringiovanisce. Dall'altro è però qualcosa di più che un incontro nostalgico. Lei stesso, signor Vescovo, ha detto che è pure un segno: un segno, da un lato, di quanto la teologia mi stia a cuore - e come potrebbe essere diversamente -, poiché avevo considerato come mia vera vocazione l'insegnamento, anche se il buon Dio all'improvviso ha voluto diversamente. Inversamente, però, è anche un segno da parte vostra, che cioè vedete l'unità interiore tra la ricerca teologica, la dottrina e il lavoro teologico e il servizio pastorale nella Chiesa, e con questo l'interezza dell'impegno ecclesiale per l'uomo, per il mondo, per il nostro futuro.

Naturalmente ieri sera, in vista di questo incontro, ho incominciato a rovistare un po' tra i miei ricordi. E così mi è tornato in mente un ricordo che ben si combina con ciò che lei, signor Decano, ha appena esposto, vale a dire il ricordo del Grande Senato. Non so se ancora oggi tutte le nomine passano per il Grande Senato. Era molto interessante che quando, per esempio, doveva essere assegnata una cattedra di Matematica, o di Assiriologia, o di Fisica dei corpi solidi o qualunque altra materia, il contributo da parte delle altre Facoltà era minimo e tutto si risolveva piuttosto rapidamente, perché quasi nessuno osava dire la sua. Già un po' diversa era la situazione nelle Discipline umanistiche. E quando si trattava delle cattedre di Teologia in entrambe le Facoltà, in fin dei conti, tutti dicevano la loro, sicché si vedeva che tutti i docenti (professori?) dell’Università si sentivano in qualche modo competenti in Teologia, avevano la sensazione di potere e di dovere partecipare alla decisione. Ovviamente la Teologia stava loro particolarmente a cuore. Così, da una parte, si percepiva che i colleghi delle altre Facoltà in qualche modo consideravano la Teologia come cuore dell'Università e, dall'altra, che la Teologia, appunto, è qualcosa che riguarda tutti, di cui tutti si sentivano coinvolti e in qualche modo si sapevano anche competenti. In altre parole, a pensarci bene, questo significa che proprio nel dibattito sulle cattedre di Teologia l'Università poteva essere sperimentata (sentita) come Università. Sono lieto di apprendere che ora esistono queste cooptazioni, più che in passato, sebbene Tübingen si sia sempre impegnata per questo. Non so se esista ancora il Leibniz-Kolleg del quale ho fatto parte; comunque la moderna Università corre assai il pericolo di diventare come un complesso di istituti superiori, uniti piuttosto esternamente e istituzionalmente e meno in grado di formare un'unità interiore di universitas.

Teologia evidentemente era qualcosa in cui l'universitas era presente e dove si mostrava che l'insieme forma un’unità e che, appunto, alla base vi è un domandare comune, un compito comune, uno scopo comune. In ciò, penso, si può vedere, da una parte, un alto apprezzamento per la Teologia. Ritengo questo un fatto particolarmente importante che palesa che nel nostro tempo - in cui almeno nei Paesi latini la laicità dello Stato e delle istituzioni statali viene sottolineata fino all'estremo e quindi richiesto di lasciare fuori tutto ciò che ha a che fare con Chiesa, cristianesimo fede - esistono intrecci da cui quel complesso che chiamiamo Teologia (che, appunto, è anche fondamentalmente collegato con Chiesa, fede e cristianesimo) non può essere scisso. Così diventa evidente che in questo insieme delle nostre realtà europee - per quanto, sotto un certo aspetto, siano e debbano essere laiche – il pensiero cristiano con le sue domande e risposte è presente e l’accompagna.

Dico che questo fatto, da un lato, manifesta che proprio la Teologia continua a dare in qualche modo il suo contributo a costituire ciò che è Università, ma dall’altro, esso significa naturalmente anche un’immensa sfida per la teologia di soddisfare questa aspettativa, di esserne all'altezza e di svolgere il servizio che le viene affidato e che ci si aspetta da essa. Mi fa piacere che attraverso le cooptazioni diventi ormai visibile in modo assai concreto - ancora molto più di allora -, che il dibattito intra-universitario faccia l’Università essere veramente quello che è coinvolgendola in un collettivo domandarsi e rispondere. Penso, però, che sia anche un motivo per riflettere fino a che punto siamo in grado - non solo a Tübingen, ma anche altrove - di soddisfare questa esigenza. L'Università e la società, l'umanità, infatti, hanno bisogno di domande, ma hanno bisogno anche di risposte. E ritengo che a tal riguardo appaia per la Teologia - e non solo per la Teologia - una certa dialettica tra la rigida scientificità e la domanda più grande che la trascende e ripetutamente in essa scoppia - la domanda sulla verità.

Vorrei renderlo più chiaro mediante un esempio. Un esegeta, un interprete della Sacra Scrittura, deve spiegarla come opera storica «secundum artem», cioè con la rigida scientificità che conosciamo, secondo tutti gli elementi storici che ciò richiede, secondo la metodicità necessaria. Questo da solo, tuttavia, non basta perché egli sia un teologo. Se si limitasse a fare questo, allora la Teologia, o comunque l'interpretazione della Bibbia, sarebbe qualcosa di simile all'Egittologia o all'Assiriologia, o a qualunque altra specializzazione. Per essere teologo e per svolgere il servizio per l'Università e, oso dire, per l'umanità - il servizio, quindi, che ci si attende da lui - egli deve andare oltre e domandare: Ma è vero ciò che lì vien detto? E se è vero, ci riguarda? E in che modo ci riguarda? E come possiamo riconoscere che è vero e che ci riguarda? Ritengo che in questo senso la teologia, pur nell’ambito della scientificità, sia richiesta e interpellata sempre anche al di là della scientificità. L'Università, l'umanità ha bisogno di domande. Laddove non vengono più poste domande, fino a quelle che toccano l’essenziale e vanno oltre ogni specializzazione, non riceviamo più nemmeno delle risposte. Solo se domandiamo e se con le nostre domande siamo radicali, così radicali come deve essere radicale la teologia, al di là di ogni specializzazione, possiamo sperare di ottenere delle risposte a queste domande fondamentali che ci riguardano tutti. Innanzitutto dobbiamo domandare. Chi non domanda non riceve risposta. Ma, aggiungerei, per la teologia occorre oltre il coraggio di domandare anche l'umiltà di ascoltare le risposte che ci dà la fede cristiana; l'umiltà di percepire in queste risposte la loro ragionevolezza e di renderle in tal modo nuovamente accessibili al nostro tempo e a noi stessi. Così non solo si costituisce l’Università ma anche si aiuta l’umanità a vivere. Per questo compito invoco per voi la Benedizione di Dio.



AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PASTORALE SANITARIA Giovedì, 22 Marzo 2007

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Signor Cardinale,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di accogliervi, in occasione della Sessione Plenaria del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute. Rivolgo il mio cordiale saluto a ciascuno di voi, venuti da varie parti del mondo, quali valide espressioni dell'impegno delle Chiese particolari, degli Istituti di Vita Consacrata e delle numerose opere della comunità cristiana in campo sanitario. Ringrazio il Cardinale Javier Lozano Barragán, Presidente del Dicastero, per le cortesi parole con cui si è fatto interprete dei comuni sentimenti, illustrandomi gli obiettivi che al momento sono oggetto del vostro lavoro. Saluto con riconoscenza il Segretario, il Sotto-Segretario, gli Officiali e i Consultori presenti, e gli altri collaboratori.

Questa vostra riunione non si propone di approfondire uno specifico tema, bensì di verificare lo stato di attuazione del programma da voi precedentemente stabilito e di determinare conseguentemente gli obiettivi futuri. Incontrarvi, perciò, in una circostanza come l'attuale, mi dà la gioia, per così dire, di far sentire a ciascuno di voi la concreta vicinanza del Successore di Pietro e, per il suo tramite, dell'intero Collegio episcopale nel vostro servizio ecclesiale. La pastorale della salute è infatti un ambito squisitamente evangelico, che richiama immediatamente l'opera di Gesù, buon Samaritano dell'umanità. Quando passava attraverso i villaggi della Palestina annunciando la buona novella del Regno di Dio, Egli accompagnava sempre la predicazione con i segni che compiva sui malati, guarendo tutti coloro che erano prigionieri di ogni sorta di malattie e di infermità. La salute dell'uomo, di tutto l'uomo, è stato il segno che Cristo ha prescelto per manifestare la prossimità di Dio, il suo amore misericordioso che risana lo spirito, l'anima e il corpo. Questo, cari amici, sia sempre il riferimento fondamentale di ogni vostra iniziativa: la sequela di Cristo, che i Vangeli ci presentano quale “medico” divino.

E' questa prospettiva biblica che valorizza il principio etico naturale del dovere della cura del malato, in base al quale ogni esistenza umana va difesa secondo le particolari difficoltà in cui si trova e secondo le nostre possibilità concrete di aiuto. Soccorrere l'essere umano è un dovere sia in risposta a un diritto fondamentale della persona, sia perché la cura degli individui ridonda a beneficio della collettività. La scienza medica progredisce in quanto accetta di rimettere sempre in discussione la diagnosi e il metodo di cura, nel presupposto che i precedenti dati acquisiti e i presunti limiti possano essere superati. Del resto, la stima e la fiducia nei confronti del personale sanitario sono proporzionati alla certezza che tali difensori di ufficio della vita non disprezzeranno mai un'esistenza umana, per quanto menomata, e sapranno sempre incoraggiare tentativi di cura. L’impegno della cura va quindi esteso ad ogni essere umano, nell’intento di coprire l'intera sua esistenza. Il concetto moderno di cura sanitaria è, infatti, la promozione umana: dalla cura del malato alla cura preventiva, con la ricerca del maggiore sviluppo umano, favorendo un adeguato ambiente familiare e sociale.

Questa prospettiva etica, basata sulla dignità della persona umana e sui diritti e doveri fondamentali ad essa connessi, viene confermata e potenziata dal comandamento dell'amore, centro del messaggio cristiano. Gli operatori sanitari cristiani, pertanto, sanno bene che vi è un legame strettissimo e indissolubile tra la qualità del loro servizio professionale e la virtù della carità alla quale Cristo li chiama: è proprio nel compiere bene il loro lavoro che essi portano alle persone la testimonianza dell'amore di Dio. La carità come compito della Chiesa, che ho fatto oggetto di riflessione nella mia Enciclica Deus caritas est, trova un'attuazione particolarmente significativa nella cura dei malati. Lo attesta la storia della Chiesa, con innumerevoli testimonianze di uomini e donne che, in forma sia individuale che associata, hanno operato in questo campo. Perciò, tra i Santi che hanno esercitato in modo esemplare la carità, ho potuto menzionare nell'Enciclica figure emblematiche come quelle di Giovanni di Dio, di Camillo de Lellis e del Cottolengo, che hanno servito Cristo povero e sofferente nelle persone dei malati.

Cari fratelli e sorelle, permettetemi dunque di riconsegnarvi idealmente oggi le riflessioni che ho proposto nell’Enciclica con i relativi orientamenti pastorali sul servizio caritativo della Chiesa quale “comunità d’amore”. E all’Enciclica posso ora aggiungere anche l’Esortazione apostolica post-sinodale da poco pubblicata, che tratta in modo ampio e articolato dell’Eucaristia quale “Sacramento della carità”. E’ proprio dall’Eucaristia che la pastorale della salute può continuamente attingere la forza per soccorrere efficacemente l’uomo e promuoverlo secondo la dignità che gli è propria. Negli ospedali e nelle case di cura, la Cappella è il cuore pulsante in cui Gesù si offre incessantemente al Padre celeste per la vita dell’umanità. L’Eucaristia, distribuita decorosamente e con spirito di preghiera ai malati, è la linfa vitale che li conforta e infonde nel loro animo luce interiore per vivere con fede e con speranza la condizione di infermità e di sofferenza. Vi affido, dunque, anche questo recente documento: fatelo vostro, applicatelo al campo della pastorale della salute, traendone indicazioni spirituali e pastorali appropriate.

Mentre vi auguro ogni bene per i vostri lavori di questi giorni, li accompagno con un particolare ricordo nella preghiera, invocando la materna protezione di Maria Santissima, Salus infirmorum, e con la Benedizione Apostolica, che imparto di cuore a voi qui presenti, a quanti collaborano con voi nelle rispettive sedi e a tutti i vostri cari.



AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO PROMOSSO DALLA COMMISSIONE DEGLI EPISCOPATI DELLA COMUNITÀ EUROPEA (COMECE) Sala Clementina Sabato, 24 marzo 2007

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Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato,
Onorevoli Parlamentari,
Gentili Signore e Signori!

Sono particolarmente lieto di ricevervi così numerosi in questa Udienza, che si svolge alla vigilia del cinquantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, avvenuta il 25 marzo 1957. Si compiva allora una tappa importante per l’Europa, uscita stremata dal secondo conflitto mondiale e desiderosa di costruire un futuro di pace e di maggiore benessere economico e sociale, senza dissolvere o negare le diverse identità nazionali. Saluto Mons. Adrianus Herman van Luyn, Vescovo di Rotterdam, Presidente della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea, e lo ringrazio per le gentili parole che mi ha rivolto. Saluto gli altri Presuli, le distinte personalità e quanti prendono parte al Convegno promosso in questi giorni dalla COMECE per riflettere sull’Europa.

Dal marzo di cinquant’anni or sono, questo Continente ha percorso un lungo cammino, che ha condotto alla riconciliazione dei due “polmoni” – l’Oriente e l’Occidente – legati da una storia comune, ma arbitrariamente separati da una cortina d’ingiustizia. L’integrazione economica ha stimolato quella politica e ha favorito la ricerca, ancora faticosamente in corso, di una struttura istituzionale adeguata per un’Unione Europea che, ormai, conta 27 Paesi ed aspira a diventare nel mondo un attore globale.

In questi anni si è avvertita sempre più l’esigenza di stabilire un sano equilibrio fra la dimensione economica e quella sociale, attraverso politiche capaci di produrre ricchezza e d’incrementare la competitività, senza tuttavia trascurare le legittime attese dei poveri e degli emarginati. Sotto il profilo demografico, si deve purtroppo constatare che l’Europa sembra incamminata su una via che potrebbe portarla al congedo dalla storia. Ciò, oltre a mettere a rischio la crescita economica, può anche causare enormi difficoltà alla coesione sociale e, soprattutto, favorire un pericoloso individualismo, disattento alle conseguenze per il futuro. Si potrebbe quasi pensare che il Continente europeo stia di fatto perdendo fiducia nel proprio avvenire. Inoltre, per quanto riguarda, ad esempio, il rispetto dell’ambiente oppure l’ordinato accesso alle risorse ed agli investimenti energetici, la solidarietà viene incentivata a fatica, non soltanto nell’ambito internazionale ma anche in quello strettamente nazionale. Il processo stesso di unificazione europea si rivela non da tutti condiviso, per l’impressione diffusa che vari “capitoli” del progetto europeo siano stati “scritti” senza tener adeguato conto delle attese dei cittadini.

Da tutto ciò emerge chiaramente che non si può pensare di edificare un’autentica “casa comune” europea trascurando l’identità propria dei popoli di questo nostro Continente. Si tratta infatti di un’identità storica, culturale e morale, prima ancora che geografica, economica o politica; un’identità costituita da un insieme di valori universali, che il Cristianesimo ha contribuito a forgiare, acquisendo così un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti dell’Europa. Tali valori, che costituiscono l’anima del Continente, devono restare nell’Europa del terzo millennio come “fermento” di civiltà. Se infatti essi dovessero venir meno, come potrebbe il “vecchio” Continente continuare a svolgere la funzione di “lievito” per il mondo intero? Se, in occasione del 50.mo dei Trattati di Roma, i Governi dell’Unione desiderano “avvicinarsi” ai loro cittadini, come potrebbero escludere un elemento essenziale dell’identità europea qual è il Cristianesimo, in cui una vasta maggioranza di loro continua ad identificarsi? Non è motivo di sorpresa che l’Europa odierna, mentre ambisce di porsi come una comunità di valori, sembri sempre più spesso contestare che ci siano valori universali ed assoluti? Questa singolare forma di “apostasia” da se stessa, prima ancora che da Dio, non la induce forse a dubitare della sua stessa identità? Si finisce in questo modo per diffondere la convinzione che la “ponderazione dei beni” sia l’unica via per il discernimento morale e che il bene comune sia sinonimo di compromesso. In realtà, se il compromesso può costituire un legittimo bilanciamento di interessi particolari diversi, si trasforma in male comune ogniqualvolta comporti accordi lesivi della natura dell’uomo.

Una comunità che si costruisce senza rispettare l’autentica dignità dell’essere umano, dimenticando che ogni persona è creata ad immagine di Dio, finisce per non fare il bene di nessuno. Ecco perché appare sempre più indispensabile che l’Europa si guardi da quell’atteggiamento pragmatico, oggi largamente diffuso, che giustifica sistematicamente il compromesso sui valori umani essenziali, come se fosse l’inevitabile accettazione di un presunto male minore. Tale pragmatismo, presentato come equilibrato e realista, in fondo tale non è, proprio perché nega quella dimensione valoriale ed ideale, che è inerente alla natura umana. Quando, poi, su un tale pragmatismo si innestano tendenze e correnti laicistiche e relativistiche, si finisce per negare ai cristiani il diritto stesso d’intervenire come tali nel dibattito pubblico o, per lo meno, se ne squalifica il contributo con l’accusa di voler tutelare ingiustificati privilegi. Nell’attuale momento storico e di fronte alle molte sfide che lo segnano, l’Unione Europea per essere valida garante dello stato di diritto ed efficace promotrice di valori universali, non può non riconoscere con chiarezza l’esistenza certa di una natura umana stabile e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui, compresi coloro stessi che li negano. In tale contesto, va salvaguardato il diritto all’obiezione di coscienza, ogniqualvolta i diritti umani fondamentali fossero violati.

Cari amici, so quanto difficile sia per i cristiani difendere strenuamente questa verità dell’uomo. Non stancatevi però e non scoraggiatevi! Voi sapete di avere il compito di contribuire a edificare con l’aiuto di Dio una nuova Europa, realistica ma non cinica, ricca d’ideali e libera da ingenue illusioni, ispirata alla perenne e vivificante verità del Vangelo. Per questo siate presenti in modo attivo nel dibattito pubblico a livello europeo, consapevoli che esso fa ormai parte integrante di quello nazionale, ed affiancate a tale impegno un’efficace azione culturale. Non piegatevi alla logica del potere fine a se stesso! Vi sia di costante stimolo e sostegno l’ammonimento di Cristo: se il sale perde il suo sapore a null’altro serve che ad essere buttato via e calpestato (cfr
Mt 5,13). Il Signore renda fecondo ogni vostro sforzo e vi aiuti a riconoscere e valorizzare gli elementi positivi presenti nell’odierna civiltà, denunciando però con coraggio tutto ciò che è contrario alla dignità dell’uomo.

Sono certo che Iddio non mancherà di benedire lo sforzo generoso di quanti, con spirito di servizio, operano per costruire una casa comune europea dove ogni apporto culturale, sociale e politico sia finalizzato al bene comune. A voi, già coinvolti in diversi modi in tale importante impresa umana ed evangelica, esprimo il mio sostegno e rivolgo il mio più vivo incoraggiamento. Soprattutto vi assicuro un ricordo nella preghiera e, mentre invoco la materna protezione di Maria, Madre del Verbo incarnato, imparto di cuore a voi ed alle vostre famiglie e comunità la mia affettuosa Benedizione.




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