Discorsi 2005-13 21228

AI PADRI DELLA CONGREGAZIONE GENERALE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ Sala Clementina Giovedì, 21 febbraio 2008

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Cari Padri della Congregazione Generale
della Compagnia di Gesù,

sono lieto di accogliervi quest’oggi mentre i vostri impegnativi lavori stanno entrando nelle fasi conclusive. Ringrazio il nuovo Preposito Generale, Padre Adolfo Nicolas, per essersi fatto interprete dei vostri sentimenti e del vostro impegno per rispondere alle attese che la Chiesa ripone in voi. Ve ne ho parlato nel messaggio indirizzato al Rev. Padre Kolvenbach e – per suo tramite – a tutta la vostra Congregazione all’inizio dei vostri lavori. Ringrazio ancora una volta il Padre Peter-Hans Kolvenbach per il prezioso servizio di governo da lui reso al vostro Ordine per quasi un quarto di secolo. Saluto anche i membri del nuovo Consiglio Generale e gli Assistenti che aiuteranno il Preposito nel suo delicatissimo compito di guida religiosa e apostolica di tutta la vostra Compagnia.

La vostra Congregazione si svolge in un periodo di grandi cambiamenti sociali, economici, politici; di accentuati problemi etici, culturali ed ambientali, di conflitti di ogni genere; ma anche di comunicazioni più intense fra i popoli, di nuove possibilità di conoscenza e di dialogo, di profonde aspirazioni alla pace. Sono situazioni che interpellano fino in fondo la Chiesa cattolica e la sua capacità di annunciare ai nostri contemporanei la Parola di speranza e di salvezza. Mi auguro perciò vivamente che tutta la Compagnia di Gesù, grazie ai risultati della vostra Congregazione, possa vivere con rinnovato slancio e fervore la missione per cui lo Spirito l’ha suscitata nella Chiesa e da oltre quattro secoli e mezzo l’ha conservata con straordinaria fecondità di frutti apostolici. Voglio oggi incoraggiare voi e i vostri confratelli a continuare sulla strada di questa missione, in piena fedeltà al vostro carisma originario, nel contesto ecclesiale e sociale che caratterizza questo inizio di millennio. Come più volte vi hanno detto i miei Predecessori, la Chiesa ha bisogno di voi, conta su di voi, e continua a rivolgersi a voi con fiducia, in particolare per raggiungere quei luoghi fisici e spirituali dove altri non arrivano o hanno difficoltà ad arrivare. Sono rimaste scolpite nel vostro cuore le parole di Paolo VI: “Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i Gesuiti” (3 dicembre 1974, alla 32a Congregazione Generale).

Come dice la Formula del vostro Istituto, la Compagnia di Gesù è istituita anzitutto “per la difesa e la propagazione della fede”. In un tempo in cui si aprivano nuovi orizzonti geografici, i primi compagni di Ignazio si erano messi a disposizione del Papa proprio perché “li impiegasse là dove egli giudicava essere di maggior gloria di Dio e utilità delle anime” (Autobiografia, n. 85). Così essi furono inviati ad annunciare il Signore a popoli e culture che non lo conoscevano ancora. Lo fecero con un coraggio e uno zelo che rimangono di esempio e di ispirazione fino ai nostri giorni: il nome di San Francesco Saverio è il più famoso di tutti, ma quanti altri se ne potrebbero fare! Oggi i nuovi popoli che non conoscono il Signore, o che lo conoscono male, così da non saperlo riconoscere come il Salvatore, sono lontani non tanto dal punto di vista geografico quanto da quello culturale. Non sono i mari o le grandi distanze gli ostacoli che sfidano gli annunciatori del Vangelo, quanto le frontiere che, a seguito di una errata o superficiale visione di Dio e dell’uomo, vengono a frapporsi fra la fede e il sapere umano, la fede e la scienza moderna, la fede e l’impegno per la giustizia.

Perciò la Chiesa ha urgente bisogno di persone di fede solida e profonda, di cultura seria e di genuina sensibilità umana e sociale, di religiosi e sacerdoti che dedichino la loro vita a stare proprio su queste frontiere per testimoniare e aiutare a comprendere che vi è invece un’armonia profonda fra fede e ragione, fra spirito evangelico, sete di giustizia e operosità per la pace. Solo così diventerà possibile far conoscere il vero volto del Signore a tanti a cui oggi rimane nascosto o irriconoscibile. A questo pertanto deve dedicarsi preferenzialmente la Compagnia di Gesù. Fedele alla sua migliore tradizione, essa deve continuare a formare con grande cura i suoi membri nella scienza e nella virtù, senza accontentarsi della mediocrità, perché il compito del confronto e del dialogo con i contesti sociali e culturali molto diversi e le mentalità differenti del mondo di oggi è fra i più difficili e faticosi. E questa ricerca della qualità e della solidità umana, spirituale e culturale, deve caratterizzare anche tutta la molteplice attività formativa ed educativa dei Gesuiti, nei confronti dei più diversi generi di persone ovunque essi si trovino.

Nella sua storia la Compagnia di Gesù ha vissuto esperienze straordinarie di annuncio e di incontro fra il Vangelo e le culture del mondo – basti pensare a Matteo Ricci in Cina, a Roberto De Nobili in India, o alle “Riduzioni” dell’America latina -. Ne siete giustamente fieri. Sento oggi il dovere di esortarvi a mettervi nuovamente sulle tracce dei vostri predecessori con altrettanto coraggio e intelligenza, ma anche con altrettanta profonda motivazione di fede e passione di servire il Signore e la sua Chiesa. Tuttavia, mentre cercate di riconoscere i segni della presenza e dell’opera di Dio in ogni luogo del mondo, anche oltre i confini della Chiesa visibile, mentre vi sforzate di costruire ponti di comprensione e di dialogo con chi non appartiene alla Chiesa o ha difficoltà ad accettarne le posizioni e i messaggi, dovete allo stesso tempo farvi lealmente carico del dovere fondamentale della Chiesa di mantenersi fedele al suo mandato di aderire totalmente alla Parola di Dio, e del compito del Magistero di conservare la verità e l’unità della dottrina cattolica nella sua completezza. Ciò vale non solo per l’impegno personale dei singoli Gesuiti: poiché lavorate come membra di un corpo apostolico, dovete anche essere attenti affinché le vostre opere ed istituzioni conservino sempre una chiara ed esplicita identità, perchè il fine della vostra attività apostolica non rimanga ambiguo od oscuro, e perché tante altre persone possano condividere i vostri ideali e unirsi a voi efficacemente e con entusiasmo, collaborando al vostro impegno di servizio di Dio e dell’uomo.

Come voi ben sapete per aver compiuto molte volte sotto la guida di Sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali la meditazione “delle due bandiere”, il nostro mondo è teatro di una battaglia fra il bene e il male, e vi sono all’opera potenti forze negative, che causano quelle drammatiche situazioni di asservimento spirituale e materiale dei nostri contemporanei contro cui avete più volte dichiarato di voler combattere, impegnandovi per il servizio della fede e la promozione della giustizia. Tali forze si manifestano oggi in molti modi, ma con particolare evidenza attraverso tendenze culturali che spesso diventano dominanti, come il soggettivismo, il relativismo, l’edonismo, il materialismo pratico. Per questo ho chiesto il vostro rinnovato impegno a promuovere e difendere la dottrina cattolica “in particolare sui punti nevralgici oggi fortemente attaccati dalla cultura secolare”, alcuni dei quali ho esemplificato nella mia Lettera. I temi, oggi continuamente discussi e messi in questione, della salvezza di tutti gli uomini in Cristo, della morale sessuale, del matrimonio e della famiglia, vanno approfonditi e illuminati nel contesto della realtà contemporanea, ma conservando quella sintonia con il Magistero che evita di provocare confusione e sconcerto nel Popolo di Dio.

So e capisco bene che questo è un punto particolarmente sensibile e impegnativo per voi e per diversi dei vostri confratelli, soprattutto quelli impegnati nella ricerca teologica, nel dialogo interreligioso e nel dialogo con le culture contemporanee. Proprio per questo vi ho invitato e vi invito anche oggi a riflettere per ritrovare il senso più pieno di quel vostro caratteristico “quarto voto” di obbedienza al Successore di Pietro, che non comporta solo la prontezza ad essere inviati in missione in terre lontane, ma anche – nel più genuino spirito ignaziano del “sentire con la Chiesa e nella Chiesa” – ad “amare e servire” il Vicario di Cristo in terra con quella devozione “effettiva ed affettiva” che deve fare di voi dei suoi preziosi e insostituibili collaboratori nel suo servizio per la Chiesa universale.

Allo stesso tempo vi incoraggio a continuare e a rinnovare la vostra missione fra i poveri e con i poveri. Non mancano purtroppo nuove cause di povertà e di emarginazione in un mondo segnato da gravi squilibri economici e ambientali, da processi di globalizzazione guidati dall’egoismo più che dalla solidarietà, da conflitti armati devastanti ed assurdi. Come ho avuto modo di ribadire ai Vescovi latinoamericani riuniti al Santuario di Aparecida, “la opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che per noi si è fatto povero, per arricchirci con la sua povertà (
2Co 8,9)”. E’ quindi naturale che chi vuol essere veramente compagno di Gesù, ne condivida realmente l’amore per i poveri. Per noi la scelta dei poveri non è ideologica, ma nasce dal Vangelo. Innumerevoli e drammatiche sono le situazioni di ingiustizia e di povertà nel mondo di oggi, e se bisogna impegnarsi a comprenderne e a combatterne la cause strutturali, occorre anche saper scendere a combattere fin nel cuore stesso dell’uomo le radici profonde del male, il peccato che lo separa da Dio, senza dimenticare di venire incontro ai bisogni più urgenti nello spirito della carità di Cristo. Raccogliendo e sviluppando una delle ultime lungimiranti intuizioni del Padre Arrupe, la vostra Compagnia continua a impegnarsi in modo meritorio nel servizio per i rifugiati, che spesso sono i più poveri fra i poveri e che hanno bisogno non solo del soccorso materiale, ma anche di quella più profonda vicinanza spirituale, umana e psicologica che è più propria del vostro servizio.

Un’attenzione specifica vi invito infine a riservare a quel ministero degli Esercizi Spirituali che fin dalle origini è stato caratteristico della vostra Compagnia. Gli Esercizi sono la fonte della vostra spiritualità e la matrice delle vostre Costituzioni, ma sono anche un dono che lo Spirito del Signore ha fatto alla Chiesa intera: sta a voi continuare a farne uno strumento prezioso ed efficace per la crescita spirituale delle anime, per la loro iniziazione alla preghiera, alla meditazione, in questo mondo secolarizzato in cui Dio sembra essere assente. Proprio nella settimana scorsa ho profittato anch’io degli Esercizi Spirituali, insieme con i miei più stretti collaboratori della Curia Romana, sotto la guida di un vostro esimio confratello, il Card. Albert Vanhoye. In un tempo come quello odierno, in cui la confusione e la molteplicità dei messaggi, la rapidità dei cambiamenti e delle situazioni, rende particolarmente difficile ai nostri contemporanei mettere ordine nella propria vita e rispondere con decisione e con gioia alla chiamata che il Signore rivolge a ognuno di noi, gli Esercizi Spirituali rappresentano una via e un metodo particolarmente prezioso per cercare e trovare Dio, in noi, attorno a noi e in ogni cosa, per conoscere la sua volontà e metterla in pratica.

In questo spirito di obbedienza alla volontà di Dio, a Gesù Cristo, che diviene anche umile obbedienza alla Chiesa, vi invito a continuare e a portare a compimento i lavori della vostra Congregazione, e mi unisco a voi nella preghiera insegnataci da Sant’Ignazio al termine degli Esercizi – preghiera che sempre mi appare troppo grande, al punto che quasi non oso dirla e che, tuttavia, dovremmo sempre di nuovo riproporci: “Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo; tu me l’hai dato, a te, Signore, lo ridono; tutto è tuo, di tutto disponi secondo ogni tua volontà; dammi soltanto il tuo amore e la tua grazia; questo mi basta” (Ex 234).



AD UNA DELEGAZIONE DEL CIRCOLO SAN PIETRO Sala dei Papi Venerdì, 22 febbraio 2008

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Cari Soci del Circolo San Pietro,

anche quest’anno, in occasione della festa della Cattedra di san Pietro, ho il piacere di incontrarvi: grazie per questa vostra visita. Vi saluto tutti cordialmente ed estendo il mio saluto ai vostri familiari, alle persone che vi sono care, a quanti cooperano con voi nelle diverse attività che svolgete. Saluto il vostro Assistente spirituale, Mons. Franco Camaldo, il vostro Presidente Generale, Duca Leopoldo Torlonia, che ringrazio per le parole con le quali ha interpretato i sentimenti di tutti voi qui presenti. Egli mi ha anche illustrato brevemente ciò che fa la vostra ben nota e benemerita associazione.

Chi non conosce il Circolo San Pietro? Il vostro è un sodalizio che ha origini antiche e si è sempre distinto per fedeltà incondizionata alla Chiesa e al suo universale Pastore, il Romano Pontefice. Il servizio che il Circolo rende costituisce, nelle sue varie articolazioni, un apostolato molto apprezzato, ed offre una costante testimonianza dell’amore che voi nutrite verso la Chiesa e in particolare verso la Santa Sede. Penso alla vostra presenza nella Basilica Vaticana e al servizio d’ordine che svolgete durante le celebrazioni da me presiedute; penso ai vostri incontri formativi e spirituali che tendono a suscitare in voi una costante tensione verso la santità; penso alle attività di assistenza e di carità che sostenete con generosità.

Grazie per questa vostra collaborazione e per le tante iniziative che promuovete con spirito evangelico e senso ecclesiale. Potremmo quasi dire che quanto voi fate, in un certo senso, è a nome stesso del Papa che lo compite: ad esempio, è a suo nome che vi preoccupate di andare incontro, per quanto vi è possibile, alle necessità di tanti poveri che vivono nella città di Roma, di cui è Vescovo il Successore di Pietro. Voi volete essere così le sua braccia e il suo cuore che raggiungono, anche attraverso di voi, coloro che versano in condizioni precarie. E so che, nel corso di questi ultimi anni, avete moltiplicato i vostri sforzi per rispondere, con iniziative caritative generose ed impegnative, alle esigenze di queste persone in difficoltà.

Vi ringrazio per questa vostra collaborazione: operando con ammirevole zelo apostolico, voi date una silenziosa quanto eloquente testimonianza evangelica. Rispondendo al comando di Cristo, vi sforzate di riconoscere e servire in ogni persona lo stesso Gesù che nel Vangelo ci assicura: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (
Mt 25,40). La fede e l’amore che nutriamo per Lui, il Signore ci chiama a tradurli in gesti quotidiani di attenzione alle persone che incontriamo, specialmente a quelle che attraversano momenti di prova, perché nel volto di ogni persona, ancor più se bisognosa, brilla il volto di Cristo. Nell’Enciclica Spe salvi ho scritto che “accettare l'altro che soffre significa assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c'è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell'amore” (n. 38). In tal modo si diventa messaggeri e testimoni del Vangelo della carità, compiendo un’autentica e capillare opera di evangelizzazione.

Cari amici, c’è un altro motivo per cui vorrei ringraziarvi. Anche oggi, infatti, come ogni anno, siete venuti a consegnarmi l’obolo di San Pietro, che voi stessi vi siete preoccupati di raccogliere qui a Roma. Esso rappresenta un concreto aiuto offerto al Papa perché possa rispondere alle tantissime richieste che gli pervengono da ogni parte del mondo, specialmente dai Paesi più poveri. Grazie pertanto per questo vostro servizio che svolgete con tanta generosità e spirito di sacrificio. La Vergine Santa, che in questo tempo quaresimale contempliamo associata alla Passione di Cristo, susciti e sostenga in voi ogni proposito e progetto di bene. Da parte mia, vi assicuro uno speciale ricordo nella preghiera, mentre con affetto vi imparto la Benedizione Apostolica, che estendo volentieri alle vostre famiglie e a quanti vi sono cari.





IN OCCASIONE DELL'INAUGURAZIONE DEL CORTILE SAN GREGORIO L'ILLUMINATORE Cortile Nord della Basilica Vaticana Venerdì, 22 febbraio 2008

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Cari fratelli e sorelle,

rivolgo il mio cordiale saluto a tutti i presenti. In primo luogo saluto il Cardinale Angelo Comastri, Arciprete della Basilica di S. Pietro (e il Cardinale Giovanni Lajolo Presidente del Governatorato). Saluto poi il Patriarca Nersès Bédros XIX, che ringrazio per le cortesi parole con le quali ha interpretato i comuni sentimenti. Estendo il mio pensiero agli Arcivescovi, Vescovi e personalità religiose dell’intera Chiesa Armena Cattolica. Saluto, inoltre, le personalità politiche, le delegazioni e quanti hanno voluto prendere parte a questa significativa cerimonia, nella quale benedirò la targa toponomastica di questo cortile. Colgo volentieri l’odierna occasione per abbracciare con fraterno amore la Chiesa Apostolica Armena, come pure la Nazione armena e tutti gli Armeni sparsi nel mondo.

E’ senz’altro una circostanza provvidenziale, questa, che ci offre l’opportunità di incontrarci qui, accanto alla tomba dell’apostolo Pietro, per ricordare un altro grande Santo al quale, in questo momento, viene intitolato il cosiddetto cortilone. Mi piace ricordare che il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II benedisse la statua di San Gregorio l’Illuminatore, proprio qui collocata, pochi mesi prima della sua morte. Questo grande Santo, più di diciotto secoli fa, fece degli Armeni un popolo cristiano, anzi il primo popolo ad essere ufficialmente cristiano. La conversione degli Armeni è un evento che ha segnato in modo profondo l’identità armena, non solo a livello personale, ma dell’intera Nazione. Il termine “Illuminatore” con cui egli viene denominato questo santo a voi molto caro, mette in evidenza la duplice funzione che San Gregorio ebbe nella storia della conversione armena. “Illuminazione”, infatti, è un termine che si usa nel linguaggio cristiano per indicare il passaggio dalle tenebre alla luce di Cristo. Ed è, in verità, proprio Cristo il grande illuminatore che irradia la sua luce su tutta l’esistenza di chi lo accoglie e lo segue fedelmente. Ora, San Gregorio fu detto l’Illuminatore proprio perché in lui si rifletteva in modo straordinario il volto del Salvatore. La parola “illuminazione” riveste anche un ulteriore significato nell’accezione armena; indica la luce che deriva dalla diffusione della cultura attraverso l’insegnamento. E questo fa subito pensare a quei monaci-maestri che, seguendo le orme di San Gregorio, ne continuarono la predicazione, propagando in tal modo la luce della verità evangelica, che rivela all’uomo la verità del suo stesso essere e ne dispiega le ricche potenzialità culturali e spirituali.

Cari fratelli e sorelle, grazie ancora una volta per aver preso parte a questo nostro incontro. Inaugurando il “Cortile San Gregorio l’Illuminatore”, preghiamo perché il Popolo armeno, per intercessione di questo suo illustre e benemerito figlio, continui a camminare sulle vie della fede lasciandosi guidare, come ha fatto nel corso dei secoli, da Cristo e dal suo Vangelo, che ne ha segnato in modo indelebile la cultura. Con questo auspicio, che affido all’intercessione della Vergine Maria, a tutti imparto la mia Benedizione.



CONSEGNA ALLA DIOCESI DI ROMA DELLA "LETTERA SUL COMPITO URGENTE DELL’EDUCAZIONE" Piazza San Pietro Sabato, 23 febbraio 2008

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Cari fratelli e sorelle,

vi ringrazio di aver accolto, tanto numerosi, l’invito a questa speciale Udienza, nella quale riceverete dalle mie mani la Lettera che ho indirizzato alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione. Saluto con affetto ciascuno di voi: sacerdoti, religiosi e religiose, genitori, insegnanti, catechisti ed altri educatori, fanciulli, adolescenti e giovani, compresi coloro che seguono l’Udienza attraverso la televisione. Saluto e ringrazio, in particolare, il Cardinale Vicario e tutti coloro che hanno preso la parola in rappresentanza delle varie categorie di persone partecipi della grande sfida educativa.

Siamo qui riuniti, infatti, perché ci muove una comune sollecitudine per il bene delle nuove generazioni, per la crescita e per il futuro dei figli che il Signore ha donato a questa città. Ci muove anche una preoccupazione, la percezione cioè di quella che abbiamo chiamato "una grande emergenza educativa". Educare non è mai stato facile e oggi sembra diventare sempre più difficile: perciò non pochi genitori e insegnanti sono tentati di rinunciare al proprio compito, e non riescono più nemmeno a comprendere quale sia, veramente, la missione loro affidata. Troppe incertezze e troppi dubbi, infatti, circolano nella nostra società e nella nostra cultura, troppe immagini distorte sono veicolate dai mezzi di comunicazione sociale. Diventa difficile, così, proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita. Siamo qui oggi, però, anche e soprattutto perché ci sentiamo sostenuti da una grande speranza e da una forte fiducia: dalla certezza, cioè, che quel "sì", chiaro e definitivo, che Dio in Gesù Cristo ha detto alla famiglia umana (cfr
2Co 1,19-20), vale anche per i nostri ragazzi e giovani, vale per i bambini che oggi si affacciano alla vita. Perciò anche nel nostro tempo educare al bene è possibile, è una passione che dobbiamo portare nel cuore, è un’impresa comune alla quale ciascuno è chiamato a recare il proprio contributo.

Siamo qui, in concreto, perché intendiamo rispondere a quella domanda educativa che oggi avvertono dentro di sé i genitori, preoccupati per il futuro dei propri figli, gli insegnanti, che vivono dal di dentro la crisi della scuola, i sacerdoti e i catechisti che sanno per esperienza quanto sia difficile educare alla fede, gli stessi ragazzi, adolescenti e giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita. E’ questa la ragione per la quale vi ho scritto, cari fratelli e sorelle, la lettera che sto per consegnarvi. In essa potete trovare alcune indicazioni, semplici e concrete, sugli aspetti fondamentali e comuni dell’opera educativa. Oggi mi rivolgo a ciascuno di voi per offrirvi il mio affettuoso incoraggiamento ad assumere con gioia le responsabilità che il Signore vi affida, affinché la grande eredità di fede e di cultura, che è la ricchezza più vera di questa nostra amata città, non vada smarrita nel passaggio dall’una all’altra generazione, ma al contrario si rinnovi, si irrobustisca, sia di guida e di stimolo nel nostro cammino verso il futuro.

In questo spirito mi rivolgo a voi, cari genitori, per chiedervi anzitutto di rimanere saldi, per sempre, nel vostro reciproco amore: è questo il primo e grande dono di cui hanno bisogno i vostri figli, per crescere sereni, acquisire fiducia in se stessi e fiducia nella vita e imparare così ad essere a loro volta capaci di amore autentico e generoso. Il bene che volete ai figli deve poi darvi lo stile e il coraggio del vero educatore, con una coerente testimonianza di vita ed anche con la fermezza necessaria per temprare il carattere delle nuove generazioni, aiutandole a distinguere con chiarezza il bene dal male ed a costruirsi a loro volta delle solide regole di vita, che le sostengano nelle prove future. Così farete ricchi i vostri figli dell’eredità più preziosa e duratura, che consiste nell’esempio di una fede quotidianamente vissuta.

Con il medesimo animo domando a voi, docenti dei diversi ordini di scuole, di avere un concetto alto e grande del vostro impegnativo lavoro, nonostante le difficoltà, le incomprensioni, le delusioni che troppo spesso sperimentate. Insegnare, infatti, significa andare incontro a quel desiderio di conoscere e di capire che è insito nell’uomo e che nel bambino, nell’adolescente, nel giovane si manifesta in tutta la sua forza e spontaneità. Il vostro compito, perciò, non può limitarsi a fornire delle nozioni e delle informazioni, lasciando da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Siete infatti, a pieno titolo, degli educatori: a voi, in stretta sintonia con i genitori, è affidata la nobile arte della formazione della persona. In particolare, quanti insegnano nelle scuole cattoliche portino dentro di sé e traducano in azione quotidiana quel progetto educativo che ha al proprio centro il Signore Gesù e il suo Vangelo.

E voi, cari sacerdoti, religiosi e religiose, catechisti, animatori e formatori delle parrocchie, dei gruppi giovanili, delle associazioni e movimenti ecclesiali, degli oratori, delle attività sportive e ricreative, cercate di avere sempre, verso i ragazzi e i giovani che accostate, gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo (cfr Ph 2,5). Siate dunque quegli amici affidabili nei quali essi possano toccare con mano l’amicizia di Gesù per loro, e al tempo stesso siate i testimoni sinceri e coraggiosi di quella verità che rende liberi (cfr Jn 8,32) e che indica alle nuove generazioni la via che conduce alla vita.

L’educazione però non è soltanto opera degli educatori: è un rapporto tra persone nel quale, con il crescere degli anni, entrano sempre più in gioco la libertà e la responsabilità di coloro che vengono educati. Perciò, con grande affetto, mi rivolgo a voi, fanciulli, adolescenti e giovani, per ricordarvi che voi stessi siete chiamati ad essere gli artefici della vostra crescita morale, culturale e spirituale. Sta a voi, dunque, accogliere liberamente nel cuore, nell’intelligenza e nella vita il patrimonio di verità, di bontà e di bellezza che si è formato attraverso i secoli e che ha in Gesù Cristo la sua pietra angolare. Sta a voi rinnovare e sviluppare ulteriormente questo patrimonio, liberandolo dalle tante menzogne e brutture che spesso lo rendono irriconoscibile e provocano in voi diffidenza e delusione. Sappiate comunque che in questo non facile cammino non siete mai soli: vi sono vicini non soltanto i vostri genitori, insegnanti, sacerdoti, amici e formatori, ma soprattutto quel Dio che ci ha creato e che è l’ospite segreto dei nostri cuori. Egli illumina dal di dentro la nostra intelligenza, Egli orienta al bene la nostra libertà, che spesso avvertiamo fragile e incostante, Egli è la vera speranza e il fondamento solido della nostra vita. Di Lui, anzitutto, ci possiamo fidare.

Cari fratelli e sorelle, nel momento in cui vi consegno simbolicamente la Lettera sul compito urgente dell’educazione, ci affidiamo dunque, tutti insieme, a Colui che è il nostro vero e unico Maestro (cfr Mt 23,8), per impegnarci insieme a Lui, con fiducia e con gioia, in quella meravigliosa impresa che è la formazione e la crescita autentica delle persone. Con questi sentimenti ed auspici a tutti imparto la mia Benedizione.




VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SANTA MARIA LIBERATRICE A TESTACCIO: INCONTRO CON I GRUPPI PARROCCHIALI Domenica, 24 febbraio 2008

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Sono molto contento di essere oggi qui tra voi. Purtroppo non parlo romanesco, ma come cattolici siamo tutti un po' romani e portiamo Roma nel nostro cuore, dunque comprendiamo un po' del dialetto romanesco. È stato per me molto bello essere salutato con questo vostro dialetto, perché si capisce che si tratta di parole che vengono dal cuore. Bello e incoraggiante è anche vedere qui in voi rappresentate le tante attività che si svolgono in questa parrocchia, le tante realtà che vi sono: sacerdoti, suore di diverse Congregazioni, catechisti, laici che collaborano in diversi modi con la parrocchia. E vedo anche san Giovanni Bosco vivo tra di voi che continua la sua opera, e vedo anche come la Madonna Liberatrice, colei che rende liberi, inviti ad aprire le porte a Cristo e a dare la vera libertà anche agli altri. Questo significa creare la Chiesa, creare anche la presenza del Regno di Cristo tra di noi. Grazie per tutto questo.

Oggi abbiamo letto un brano del Vangelo molto attuale. La donna samaritana della quale si parla, può apparire come una rappresentante dell'uomo moderno, della vita moderna. Ha avuto cinque mariti e convive con un altro uomo. Faceva ampio uso della sua libertà e tuttavia non diventava più libera, anzi diventava più vuota. Ma vediamo anche che in questa donna era vivo un grande desiderio di trovare la vera felicità, la vera gioia. Per questo era sempre inquieta e si allontanava sempre di più dalla vera felicità.

Tuttavia anche questa donna, che viveva una vita apparentemente così superficiale, anche lontana da Dio, nel momento in cui Cristo le parla allora mostra che nella profondità del cuore custodiva questa domanda su Dio: chi è Dio? Dove possiamo trovarlo? Come possiamo adorarlo? In questa donna possiamo vedere tutto lo specchio della nostra vita di oggi, con tutti i problemi che ci coinvolgono; ma vediamo anche come nella profondità del cuore ci sia sempre la questione di Dio, e l'attesa che Egli si mostri in un altro modo.

La nostra attività è realmente l'attesa; rispondiamo all'attesa di quanti attendono la luce del Signore, e nel darle risposta a questa attesa anche noi cresciamo nella fede e possiamo capire che questa fede è quell'acqua della quale abbiamo sete.

In questo senso voglio incoraggiarvi ad andare avanti con il vostro impegno pastorale e missionario, con il vostro dinamismo per aiutare le persone di oggi a trovare la vera libertà e la vera gioia. Tutti, come questa donna del Vangelo, sono in cammino per essere totalmente liberi, per trovare la piena libertà e per trovare in essa la gioia piena; ma spesso si ritrovano sulla strada sbagliata. Possano costoro, tramite la luce del Signore e la nostra cooperazione con il Signore, scoprire che la vera libertà viene dall'incontro con la Verità che è l'amore e la gioia.

Oggi mi hanno particolarmente toccato due frasi. La prima è quella del parroco: “Abbiamo più futuro che passato”. Questa è la verità della nostra Chiesa, ha sempre più futuro che passato. E per ciò con coraggio andiamo avanti.

L'altra frase che mi ha toccato è nel discorso del rappresentante del Consiglio pastorale: “La vera santità è essere allegri”. La santità si mostra con l'allegria. Dall'incontro con Cristo nasce l'allegria. E questo vuole essere il mio augurio per tutti voi, che nasca sempre di nuovo questa allegria nel conoscere Cristo e con essa un rinnovato dinamismo nell'annunciarlo ai vostri fratelli. Grazie per tutto quello che fate. Buona Pasqua!.



Uscendo dalla parrocchia, al termine della visita, il Santo Padre ha aggiunto:

Vi saluto ancora di cuore. Sono veramente molto felice di essere qui in questo bel quartiere di Testaccio, che ha una grande storia ed è sotto la protezione di Maria Liberatrice. Tutti noi abbiamo desiderio di libertà; ma la Madonna ci dice che la libertà che ci rende liberi la troviamo incontrandoci con Cristo, colui che ci dà la vita. La Madonna ha aperto la porta a Cristo e dunque ha aperto a tutti la porta della vera libertà. Auguriamoci che anche noi, aprendo i nostri cuori a Cristo possiamo trovare la risposta alla nostra ricerca di libertà. Auguro a tutti voi una buona Pasqua.



AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO SUL TEMA "ACCANTO AL MALATO INGUARIBILE E AL MORENTE: ORIENTAMENTI ETICI ED OPERATIVI" Sala Clementina Lunedì, 25 febbraio 2008

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INDETTO DALLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA

Cari fratelli e sorelle,

con viva gioia porgo il mio saluto a voi tutti che partecipate al Congresso indetto dalla Pontificia Accademia per la Vita sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi”. Il Congresso si svolge in connessione con la XIV Assemblea Generale dell’Accademia, i cui membri sono pure presenti a questa Udienza. Ringrazio anzitutto il Presidente Mons. Sgreccia per le sue cortesi parole di saluto; con lui ringrazio la Presidenza tutta, il Consiglio Direttivo della Pontificia Accademia, tutti i collaboratori e i membri ordinari, onorari e corrispondenti. Un saluto cordiale e riconoscente voglio poi rivolgere ai relatori di questo importante Congresso, così come a tutti i partecipanti provenienti da diversi Paesi del mondo. Carissimi, il vostro generoso impegno e la vostra testimonianza sono veramente meritevoli di encomio.

Già semplicemente considerando i titoli delle relazioni congressuali, si può percepire il vasto panorama delle vostre riflessioni e l’interesse che esse rivestono per il tempo presente, in special modo nel mondo secolarizzato di oggi. Voi cercate di dare risposte ai tanti problemi posti ogni giorno dall'incessante progresso delle scienze mediche, le cui attività risultano sempre più sostenute da strumenti tecnologici di elevato livello. Di fronte a tutto questo, emerge l’urgente sfida per tutti, e in special modo per la Chiesa, vivificata dal Signore risorto, di portare nel vasto orizzonte della vita umana lo splendore della verità rivelata e il sostegno della speranza.

Quando si spegne una vita in età avanzata, o invece all’alba dell’esistenza terrena, o nel pieno fiorire dell’età per cause impreviste, non si deve vedere in ciò soltanto un fatto biologico che si esaurisce, o una biografia che si chiude, bensì una nuova nascita e un’esistenza rinnovata, offerta dal Risorto a chi non si è volutamente opposto al suo Amore. Con la morte si conclude l’esperienza terrena, ma attraverso la morte si apre anche, per ciascuno di noi, al di là del tempo, la vita piena e definitiva. Il Signore della vita è presente accanto al malato come Colui che vive e dona la vita, Colui che ha detto: “Sono venuto perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza” (
Jn 10,10), “Io sono la Resurrezione e la Vita: chi crede in me, anche se muore vivrà, (Jn 10,25) e "Io lo resusciterò nell’ultimo giorno” (Jn 6,54). In quel momento solenne e sacro, tutti gli sforzi compiuti nella speranza cristiana per migliorare noi stessi e il mondo che ci è affidato, purificati dalla Grazia, trovano il loro senso e si impreziosiscono grazie all’amore di Dio Creatore e Padre. Quando, al momento della morte, la relazione con Dio si realizza pienamente nell’incontro con “Colui che non muore, che è la vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita; allora viviamo” (Benedetto XVI, Spe salvi ). Per la comunità dei credenti, questo incontro del morente con la Sorgente della Vita e dell’Amore rappresenta un dono che ha valore per tutti, che arricchisce la comunione di tutti i fedeli. Come tale, esso deve raccogliere l’attenzione e la partecipazione della comunità, non soltanto della famiglia dei parenti stretti, ma, nei limiti e nelle forme possibili, di tutta la comunità che è stata legata alla persona che muore. Nessun credente dovrebbe morire nella solitudine e nell’abbandono. Madre Teresa di Calcutta aveva una particolare premura di raccogliere i poveri e i derelitti, perché almeno nel momento della morte potessero sperimentare, nell’abbraccio delle sorelle e dei fratelli, il calore del Padre.

Ma non è soltanto la comunità cristiana che, per i suoi particolari vincoli di comunione soprannaturale, è impegnata ad accompagnare e celebrare nei suoi membri il mistero del dolore e della morte e l’alba della nuova vita. In realtà, tutta la società mediante le sue istituzioni sanitarie e civili è chiamata a rispettare la vita e la dignità del malato grave e del morente. Pur nella consapevolezza del fatto che “non è la scienza che redime gli uomini” (Benedetto XVI, Spe salvi ), la società intera e in particolare i settori legati alla scienza medica sono tenuti ad esprimere la solidarietà dell’amore, la salvaguardia e il rispetto della vita umana in ogni momento del suo sviluppo terreno, soprattutto quando essa patisce una condizione di malattia o è nella sua fase terminale. Più in concreto, si tratta di assicurare ad ogni persona che ne avesse bisogno il sostegno necessario attraverso terapie e interventi medici adeguati, individuati e gestiti secondo i criteri della proporzionalità medica, sempre tenendo conto del dovere morale di somministrare (da parte del medico) e di accogliere (da parte del paziente) quei mezzi di preservazione della vita che, nella situazione concreta, risultino “ordinari”. Per quanto riguarda, invece, le terapie significativamente rischiose o che fossero prudentemente da giudicare “straordinarie”, il ricorso ad esse sarà da considerare moralmente lecito ma facoltativo. Inoltre, occorrerà sempre assicurare ad ogni persona le cure necessarie e dovute, nonché il sostegno alle famiglie più provate dalla malattia di uno dei loro componenti, soprattutto se grave e prolungata. Anche sul versante della regolamentazione del lavoro, solitamente si riconoscono dei diritti specifici ai familiari al momento di una nascita; in maniera analoga, e specialmente in certe circostanze, diritti simili dovrebbero essere riconosciuti ai parenti stretti al momento della malattia terminale di un loro congiunto. Una società solidale ed umanitaria non può non tener conto delle difficili condizioni delle famiglie che, talora per lunghi periodi, devono portare il peso della gestione domiciliare di malati gravi non autosufficienti. Un più grande rispetto della vita umana individuale passa inevitabilmente attraverso la solidarietà concreta di tutti e di ciascuno, costituendo una delle sfide più urgenti del nostro tempo.

Come ho ricordato nell’Enciclica Spe salvi, “la misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana” (n. 38). In una società complessa, fortemente influenzata dalle dinamiche della produttività e dalle esigenze dell’economia, le persone fragili e le famiglie più povere rischiano, nei momenti di difficoltà economica e/o di malattia, di essere travolte. Sempre più si trovano nelle grandi città persone anziane e sole, anche nei momenti di malattia grave e in prossimità della morte. In tali situazioni, le spinte eutanasiche diventano pressanti, soprattutto quando si insinui una visione utilitaristica nei confronti della persona. A questo proposito, colgo l'occasione per ribadire, ancora una volta, la ferma e costante condanna etica di ogni forma di eutanasia diretta, secondo il plurisecolare insegnamento della Chiesa.

Lo sforzo sinergico della società civile e della comunità dei credenti deve mirare a far sì che tutti possano non solo vivere dignitosamente e responsabilmente, ma anche attraversare il momento della prova e della morte nella migliore condizione di fraternità e di solidarietà, anche là dove la morte avviene in una famiglia povera o nel letto di un ospedale. La Chiesa, con le sue istituzioni già operanti e con nuove iniziative, è chiamata ad offrire la testimonianza della carità operosa, specialmente verso le situazioni critiche di persone non autosufficienti e prive di sostegni familiari, e verso i malati gravi bisognosi di terapie palliative, oltre che di appropriata assistenza religiosa. Da una parte, la mobilitazione spirituale delle comunità parrocchiali e diocesane e, dall’altra, la creazione o qualificazione delle strutture dipendenti dalla Chiesa, potranno animare e sensibilizzare tutto l’ambiente sociale, perché ad ogni uomo che soffre e in particolare a chi si avvicina al momento della morte, siano offerte e testimoniate la solidarietà e la carità. La società, per parte sua, non può mancare di assicurare il debito sostegno alle famiglie che intendono impegnarsi ad accudire in casa, per periodi talora lunghi, malati afflitti da patologie degenerative (tumorali, neurodegenerative, ecc.) o bisognosi di un’assistenza particolarmente impegnativa. In modo speciale, si richiede il concorso di tutte le forze vive e responsabili della società per quelle istituzioni di assistenza specifica che assorbono personale numeroso e specializzato e attrezzature di particolare costo. E’ soprattutto in questi campi che la sinergia tra la Chiesa e le Istituzioni può rivelarsi singolarmente preziosa per assicurare l’aiuto necessario alla vita umana nel momento della fragilità.

Mentre auspico che in questo Congresso Internazionale, celebrato in connessione con il Giubileo delle apparizioni di Lourdes, si possano individuare nuove proposte per alleviare la situazione di quanti sono alle prese con le forme terminali della malattia, vi esorto a proseguire nel vostro benemerito impegno di servizio alla vita in ogni sua fase. Con questi sentimenti, vi assicuro la mia preghiera a sostegno del vostro lavoro e vi accompagno con una speciale Benedizione Apostolica.






Discorsi 2005-13 21228