Discorsi 2005-13 15359

CERIMONIA DI CONGEDO Aeroporto Internazionale Ben Gurion - Tel Aviv Venerdì, 15 maggio 2009

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Signor Presidente,
Signor Primo Ministro,
Eccellenze, Signore e Signori,

mentre mi accingo a ritornare a Roma, vorrei condividere con voi alcune forti impressioni che il mio pellegrinaggio in Terra Santa ha lasciato dentro di me. Ho avuto fruttuosi colloqui con le Autorità civili, sia in Israele, sia nei Territori Palestinesi, e ho constatato i grandi sforzi che entrambi i Governi stanno compiendo per assicurare il benessere delle persone. Ho incontrato i Responsabili della Chiesa cattolica in Terra Santa e mi rallegro di vedere il modo in cui lavorano insieme nel prendersi cura del gregge del Signore. Ho anche avuto la possibilità di incontrare i Responsabili delle varie Chiese cristiane e comunità ecclesiali, nonché i Responsabili di altre religioni in Terra Santa. Questa terra è davvero un terreno fertile per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso e prego affinché la ricca varietà delle testimonianze religiose nella regione possa portare frutto in una crescente comprensione reciproca e mutuo rispetto.

Signor Presidente, Lei ed io abbiamo piantato un albero di olivo nella Sua residenza, nel giorno del mio arrivo in Israele. L’albero di olivo, come Ella sa, è un’immagine usata da San Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra Cristiani ed Ebrei. Nella sua Lettera ai Romani, Paolo descrive la Chiesa dei Gentili come un germoglio di olivo selvatico, innestato nell’albero di olivo buono che è il Popolo dell’Alleanza (cfr 11, 17-24). Traiamo il nostro nutrimento dalle medesime radici spirituali. Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in certi momenti della loro storia hanno avuto un rapporto teso, ma sono adesso fermamente impegnati nella costruzione di ponti di amicizia duratura.

La cerimonia al Palazzo Presidenziale è stata seguita da uno dei momenti più solenni della mia permanenza in Israele – la mia visita al Memoriale dell’Olocausto a Yad Vashem dove ho reso omaggio alle vittime della Shoah. Lì ho anche incontrato alcuni dei sopravvissuti. Quegli incontri profondamente commoventi hanno rinnovato ricordi della mia visita di tre anni fa al campo della morte di Auschwitz, dove così tanti Ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio. Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato. Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso olivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno.

Signor Presidente, La ringrazio per il calore della Sua ospitalità, molto apprezzata, e desidero sottolineare che sono venuto a visitare questo Paese da amico degli Israeliani, così come sono amico del Popolo Palestinese. Gli amici amano trascorrere del tempo in reciproca compagnia e si affliggono profondamente nel vedere l’altro soffrire. Nessun amico degli Israeliani e dei Palestinesi può evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli. Nessun amico può fare a meno di piangere per le sofferenze e le perdite di vite umane che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni. Mi consenta di rivolgere questo appello a tutto il popolo di queste terre: Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza. Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento. Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Che la “two-state solution” (la soluzione di due Stati) divenga realtà e non rimanga un sogno. E che la pace possa diffondersi da queste terre; possano essere “luce per le Nazioni” (
Is 42,6), recando speranza alle molte altre regioni che sono colpite da conflitti.

Una delle visioni più tristi per me durante la visita a queste terre è stato il muro. Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi reciprocamente e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione. Signor Presidente, so quanto sarà difficile raggiungere questo obiettivo. So quanto sia difficile il Suo compito e quello dell’Autorità Palestinese. Ma Le assicuro che le mie preghiere e le preghiere dei cattolici di tutto il mondo La accompagnano mentre Ella prosegue nello sforzo di costruire una pace giusta e duratura in questa regione.

Mi resta solo da esprimere il mio sentito ringraziamento a quanti hanno contribuito in vari modi alla mia visita. Sono profondamente grato al Governo, agli organizzatori, ai volontari, ai media, a quanti hanno dato ospitalità a me e a coloro che mi hanno accompagnato. Siate certi di essere ricordati con affetto nelle mie preghiere. A tutti dico: grazie e che il Signore sia con voi. Shalom!





INCONTRO CON I GIORNALISTI DURANTE IL VOLO DI RITORNO DALLA TERRA SANTA Volo Papale, Venerdì, 15 maggio 2009

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Cari amici,

grazie per il vostro lavoro. Immagino quanto sia stato difficile, circondato com’era da tanti problemi, tanti trasferimenti, ecc., e vorrei ringraziarvi perché avete accettato tutte queste difficoltà per informare il mondo su questo pellegrinaggio, invitando così anche altri al pellegrinaggio in questi luoghi santi.

Ho già fatto un breve riassunto di questo viaggio nel discorso all’aeroporto, non vorrei aggiungere molto. Potrei citare tanti, molti dettagli: la commovente discesa nel punto più profondo della terra, al Giordano, che per noi è anche un simbolo della discesa di Dio, della discesa di Cristo nei punti più profondi dell’esistenza umana.

Il Cenacolo, dove il Signore ci ha donato l’Eucaristia, dove c’è stata la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo; poi il Santo Sepolcro, e tante altre impressioni, ma mi sembra che non sia il momento di soffermarcisi.

Forse, tuttavia, qualche breve accenno potrei farlo. Tre sono le impressioni fondamentali: la prima è che ho trovato dappertutto, in tutti gli ambienti, musulmani, cristiani, ebrei, una decisa disponibilità al dialogo interreligioso, all’incontro, alla collaborazione tra le religioni. Ed è importante che tutti vedano questo, non solo come un’azione - diciamo – ispirata a motivi politici nella situazione data, ma come frutto dello stesso nucleo della fede, perché credere in un unico Dio che ha creato tutti noi, Padre di tutti noi, credere in questo Dio che ha creato l’umanità come una famiglia, credere che Dio è amore e vuole che l’amore sia la forza dominante nel mondo, implica questo incontro, questa necessità dell’incontro, del dialogo, della collaborazione come esigenza della fede stessa.

Secondo punto: ho trovato anche un clima ecumenico molto incoraggiante. Abbiamo avuto tanti incontri con il mondo ortodosso con grande cordialità; ho potuto anche parlare con un rappresentante della Chiesa anglicana e due rappresentanti luterani, e si vede che proprio questo clima della Terra Santa incoraggia anche l’ecumenismo.

E terzo punto: ci sono grandissime difficoltà – lo sappiamo, lo abbiamo visto e sentito. Ma ho anche visto che c’è un profondo desiderio di pace da parte di tutti. Le difficoltà sono più visibili e non dobbiamo nasconderle: ci sono, devono essere chiarite. Ma non è così visibile il desiderio comune della pace, della fraternità, e mi sembra dobbiamo parlare anche di questo, incoraggiare tutti in questa volontà per trovare le soluzioni certamente non facili a queste difficoltà.

Sono venuto come pellegrino di pace. Il pellegrinaggio è un elemento essenziale di molte religioni. Lo è anche dell’islam, della religione ebraica, del cristianesimo. È anche l’immagine della nostra esistenza, che è un camminare in avanti, verso Dio e così verso la comunione dell’umanità.

Sono venuto come pellegrino e spero che molti seguano queste tracce e così incoraggino l’unità dei popoli di questa Terra Santa e diventino a loro volta messaggeri di pace. Grazie!




AI VESCOVI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DEL PERÚ IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM» Sala del Concistoro Lunedì, 18 maggio 2009

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Signor Cardinale,
Cari Fratelli nell'Episcopato,

1. Con il cuore pieno della gioia pasquale, dono del Signore Risorto, e come Successore di Pietro, vi porgo il mio cordiale benvenuto, mentre "rendo grazie continuamente al mio Dio per voi" (
1Co 1,4). Ringrazio Monsignor Héctor Miguel Cabrejos Vidarte, Arcivescovo di Trujillo e Presidente della Conferenza Episcopale Peruviana, per le deferenti parole che mi ha rivolto a nome di tutti. In esse riconosco la carità e la dedizione con cui pascete le vostre Chiese particolari.

2. La visita ad limina Apostolorum è un'occasione significativa per rafforzare i vincoli di comunione con il Romano Pontefice e fra di voi, sapendo che tra le vostre preoccupazioni pastorali deve essere sempre presente l'unità di tutta la Chiesa, affinché le vostre comunità, come pietre vive, contribuiscano all'edificazione di tutto il Popolo di Dio (cfr. 1P 2,4-5). Di fatto, "i vescovi, come legittimi successori degli apostoli e membri del collegio episcopale, sappiano essere sempre tra loro uniti e dimostrarsi solleciti di tutte le Chiese" (Christus Dominus CD 6). L'esperienza tuttavia ci dice che questa unità non viene mai definitivamente raggiunta e si deve costruire e perfezionare incessantemente, senza arrendersi dinanzi alle difficoltà obiettive e soggettive, con il proposito di mostrare il vero volto della Chiesa cattolica, una e unica.

Anche oggi, come nel corso di tutta la storia della Chiesa, è indispensabile coltivare lo spirito di comunione, valorizzando le qualità di ognuno dei fratelli che la divina Provvidenza ha voluto porre al nostro fianco. In tal modo, le diverse membra del Corpo di Cristo riescono ad aiutarsi reciprocamente per portare avanti l'attività quotidiana (cfr. 1Co 12,24-26 Ph 2,1-4 Ga 6,2-3). Perciò è necessario che i Vescovi sentano il costante bisogno di mantenere vivo e tradurre concretamente in pratica l'affetto collegiale, poiché "costituisce un validissimo sostegno per leggere con attenzione i segni dei temi e discernere con chiarezza quello che lo Spirito dice alle Chiese" (Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica, Pastores gregis ).

3. L'unità autentica nella Chiesa è sempre fonte inesauribile di spirito evangelizzatore. A tale riguardo, so che state accogliendo, nei vostri programmi pastorali, l'impulso missionario promosso dalla V Conferenza Generale dell'Episcopato dell'America Latina e dei Caraibi, tenutasi ad Aparecida, e soprattutto la "Missione continentale", affinché ogni fedele aspiri alla santità in un rapporto personale con il Signore Gesù, amandolo con perseveranza e conformando la propria vita ai criteri evangelici, di modo che si creino comunità ecclesiali d'intensa vita cristiana. Certamente, una Chiesa in missione relativizza i propri problemi interni e guarda con speranza ed entusiasmo al futuro. Si tratta di rilanciare lo spirito missionario, non per timore del futuro, ma perché la Chiesa è una realtà dinamica e il vero discepolo di Gesù Cristo prova piacere nel trasmettere gratuitamente agli altri la sua divina Parola e nel condividere con loro l'amore che sgorga dal costato trafitto sulla croce (cfr. Mt Mt 10,8 Jn 13,34-35 Jn 19,33-34 1Co 9,16). In effetti, quando la bellezza e la verità di Cristo conquistano i nostri cuori, sperimentiamo la gioia di essere suoi discepoli e assumiamo in modo convinto la missione di proclamare il suo messaggio redentore. A tale proposito, vi esorto a invitare tutte le forze vive delle vostre Diocesi a camminare partendo da Cristo e irradiando sempre la luce del suo volto, in particolare per i fratelli che, forse perché si sentono poco valorizzati o non sufficientemente assistiti nei loro bisogni spirituali e materiali, cercano in altre esperienze religiose risposte alle loro inquietudini.

4. Voi stessi, cari Fratelli nell'Episcopato, seguendo l'insigne esempio di santo Toribio di Mogrovejo e di tanti altri santi Pastori, siete chiamati a vivere come audaci discepoli e missionari del Signore. Le visite pastorali assidue alle comunità ecclesiali - anche alle più lontane e umili -, la preghiera prolungata, l'accurata preparazione della predicazione, la paterna attenzione per i sacerdoti, le famiglie, i giovani, i catechisti e gli altri agenti di pastorale, sono il modo migliore per suscitare in tutti l'ardente desiderio di essere messaggeri della Buona Novella della salvezza, aprendovi allo stesso tempo le porte del cuore di quanti vi circondano, soprattutto dei malati e dei più bisognosi.

5. La Chiesa nella vostra Nazione ha potuto contare fin dal suo avvento sulla benefica presenza di generosi membri della vita consacrata. È di grande importanza che continuiate ad accompagnare e incoraggiare fraternamente i religiosi e le religiose presenti nelle vostre Chiese particolari, affinché, vivendo con fedeltà i consigli evangelici secondo il proprio carisma, continuino a rendere una vigorosa testimonianza di amore a Dio, di adesione irremovibile al Magistero della Chiesa e di collaborazione sollecita con i piani pastorali diocesani.

6. Penso ora, in particolare, ai peruviani che non hanno un lavoro e adeguati servizi educativi e sanitari, o a quelli che vivono nelle periferie delle grandi città e in zone isolate. Penso, parimenti, a quanti sono caduti nelle mani della tossicodipendenza o della violenza. Non possiamo disinteressarci di questi nostri fratelli più deboli e amati da Dio, tenendo sempre presente che la carità di Cristo ci spinge (cfr. 2Co 5,14 Rm 12,9 Rm 13,8 Rm 15,1-3).

7. Nel concludere questo sentito incontro, chiedo al Signore Gesù di illuminarvi nel vostro servizio pastorale al Popolo di Dio. A volte vi assalirà lo sconforto, ma le parole di Cristo a san Paolo vi devono confortare nell'esercizio della vostra responsabilità: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2Co 12,9).

Con questa viva speranza, vi chiedo di trasmettere il mio affettuoso saluto ai Vescovi emeriti, ai sacerdoti, ai diaconi e ai seminaristi, alle comunità religiose e ai fedeli del Perú.

Che Maria Santissima, Nostra Signora dell'Evangelizzazione, vi protegga sempre con il suo amore di Madre! Mentre invoco la sua intercessione, e quella di tutti i santi e le sante venerati specialmente fra voi, vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica.




A S. E. IL SIGNOR GEORGI PARVANOV, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI BULGARIA Venerdì, 22 maggio 2009

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Signor presidente,
signore e signori membri della delegazione governativa,
venerati rappresentanti
della Chiesa ortodossa
e della Chiesa cattolica,

Sono particolarmente lieto di porgere a ognuno di voi i miei più cordiali saluti, in questo incontro che si svolge in occasione della festa annuale dei santi Cirillo e Metodio. In questa felice circostanza, desidero rinnovare i miei sentimenti di amicizia verso l'amato popolo bulgaro, le cui radici spirituali - come testimonia ancora la vostra visita odierna - affondano nella predicazione dei santi compatroni dell'Europa. Saluto ognuno di voi con deferenza ed estendo questi sentimenti alle autorità e a tutto il popolo bulgaro, come pure ai responsabili e ai fedeli della Chiesa ortodossa e della Chiesa cattolica presenti nella vostra amata terra.

Questo incontro ci offre l'opportunità di pensare nuovamente all'opera evangelica e sociale realizzata da quei due insigni testimoni del Vangelo che furono i santi Cirillo e Metodio. La loro eredità spirituale ha segnato la vita dei popoli slavi; il loro esempio ha sorretto la testimonianza e la fedeltà di innumerevoli cristiani che, nel corso dei secoli, hanno dedicato la loro esistenza a diffondere il messaggio di salvezza, operando allo stesso tempo per la costruzione di una società giusta e solidale. Possa la loro testimonianza spirituale rimanere viva nella vostra nazione affinché anche la Bulgaria, attingendo a questa fonte di luce e di speranza, contribuisca efficacemente a costruire un'Europa che resti fedele alle sue radici cristiane! I valori di solidarietà e di giustizia, di libertà e di pace, oggi costantemente riaffermati, acquistano in effetti più forza e solidità nell'insegnamento eterno di Cristo, tradotto nella vita dei suoi discepoli di tutti i tempi.

Sono questi i sentimenti che desidero esprimere a ognuno di voi, assicurandovi della mia stima e della mia vicinanza spirituale. Siate certi anche che la Santa Sede continua a seguire con interesse il cammino della vostra nazione e l'impegno di tutti coloro che lavorano per il suo bene. Di tutto cuore, su ognuno di voi invoco l'abbondanza delle benedizioni divine.




A S. E. IL SIGNOR GJEORGE IVANOV, PRESIDENTE DELLA EX-REPUBBLICA JUGOSLAVA DI MACEDONIA Venerdì, 22 maggio 2009

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Signor presidente,
onorevoli membri della delegazione,
venerati fratelli della Chiesa ortodossa e della Chiesa cattolica!

Anche quest'anno provo gioia nel ricevervi in occasione della solennità dei santi Cirillo e Metodio. Sono lieto del fatto che nel corso della vostra visita per rendere omaggio ai compatroni d'Europa abbiate espresso il desiderio di incontrarmi, un'occasione che è già divenuta una tradizione. Vi ringrazio per questo gesto ed estendo il mio sincero benvenuto e il mio apprezzamento per i sentimenti che manifestate in quest'occasione. Porgo un benvenuto particolare alle autorità e a tutta la popolazione della ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia. Invio anche saluti particolari ai fedeli e a quanti hanno responsabilità pastorali nel vostro Paese. Colgo l'occasione per esprimere i sentimenti di stima e di amicizia che uniscono la Santa Sede all'amato popolo macedone.

La celebrazione annuale della festa dei santi Cirillo e Metodio, maestri della fede e apostoli dei popoli slavi, invita tutti noi che siamo uniti dall'unica fede in Gesù Cristo a contemplare la loro eroica testimonianza evangelica. Al contempo, riceviamo la sfida a preservare il patrimonio di ideali e di valori che hanno trasmesso con le parole e con le azioni. Infatti questo è il contributo più prezioso che i cristiani possono offrire alla costruzione di un'Europa del terzo millennio, che aspira a un futuro di progresso, giustizia e pace per tutti.

La vostra amata patria, influenzata da due grandi santi, cerca di diventare sempre più un luogo di incontro e di dialogo pacifico fra numerose sfere sociali e religiose del Paese. La mia speranza, che rinnovo oggi con tutto il cuore, è continuiate a progredire lungo questo cammino. Mentre invoco la protezione divina sulle autorità della vostra nazione, alla quale rinnovo la vicinanza della Sede Apostolica, desidero assicurarvi della mia stima e della mia amicizia personali.

Ancora una volta, estendo i miei affettuosi buoni auspici a ognuno di voi in questo giorno di festa e offro ferventi preghiere al Signore sia per voi che siete qui oggi sia per tutto il popolo macedone.




ALLA COMUNITÀ DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA ECCLESIASTICA Sala dei Papi Sabato, 23 maggio 2009

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Venerato Fratello nell'Episcopato,
cari fratelli sacerdoti!

E' per me una gioia rinnovata accogliere e salutare tutti voi, venuti anche quest'anno per manifestare al Successore di Pietro la testimonianza del vostro affetto e della vostra fedeltà. Saluto il Presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica, Mons. Beniamino Stella, e lo ringrazio per le parole che mi ha cortesemente rivolto, come pure per il servizio che svolge con grande dedizione. Saluto i suoi collaboratori, le Suore Francescane Missionarie di Gesù Bambino, e voi tutti, che in questi anni della vostra giovinezza sacerdotale vi state preparando a servire la Chiesa e il suo Pastore universale, in un singolare ministero, quale è appunto quello svolto nelle Rappresentanze Pontificie.

In effetti, il servizio nelle Nunziature Apostoliche si può considerare, in qualche misura, come una specifica vocazione sacerdotale, un ministero pastorale che comporta un particolare inserimento nel mondo e nelle sue problematiche spesso assai complesse, di carattere sociale e politico. E' allora importante che impariate a decifrarle, sapendo che il "codice", per così dire, di analisi e di comprensione di queste dinamiche non può essere che il Vangelo e il perenne Magistero della Chiesa. Occorre che vi formiate alla lettura attenta delle realtà umane e sociali, a partire da una certa sensibilità personale, che ogni servitore della Santa Sede deve possedere, e usufruendo di una esperienza specifica da acquisire durante questi anni. Inoltre, quella capacità di dialogo con la modernità che vi è richiesta, nonché il contatto con le persone e le istituzioni che esse rappresentano, esigono una robusta struttura interiore e una solidità spirituale in grado di salvaguardare e anzi di evidenziare sempre meglio la vostra identità cristiana e sacerdotale. Solo così potrete evitare di risentire degli effetti negativi della mentalità mondana, e non vi lascerete attrarre né contaminare da logiche troppo terrene.

Poiché è il Signore stesso che vi domanda di svolgere nella Chiesa questa missione, attraverso la chiamata del vostro Vescovo che vi segnala e vi pone a disposizione della Santa Sede, è al Signore stesso che dovete sempre e soprattutto far riferimento. Nei momenti di oscurità e di difficoltà interiore, volgete il vostro sguardo verso Cristo che un giorno vi ha fissati con amore e vi ha chiamati a stare con Lui e ad occuparvi, alla sua scuola, del suo Regno. Ricordate sempre che è essenziale e fondamentale per il ministero sacerdotale, in qualunque modo lo si eserciti, mantenere un legame personale con Gesù. Egli ci vuole suoi "amici", amici che cercano la sua intimità, seguono i suoi insegnamenti e si impegnano a farlo conoscere ed amare da tutti. Il Signore ci vuole santi, cioè tutti "suoi", non preoccupati di costruirci una carriera umanamente interessante o comoda, non alla ricerca del plauso e del successo della gente, ma interamente dediti al bene delle anime, disposti a compiere fino in fondo il nostro dovere con la consapevolezza di essere "servi inutili", lieti di poter offrire il nostro povero apporto alla diffusione del Vangelo.

Cari sacerdoti, siate, in primo luogo, uomini di intensa preghiera, che coltivano una comunione di amore e di vita con il Signore. Senza questa solida base spirituale come sarebbe possibile perseverare nel vostro ministero? Chi così lavora nella vigna del Signore sa che quanto viene realizzato con dedizione, con sacrificio e per amore, non va mai perduto. E se talora ci è dato di assaporare il calice della solitudine, dell'incomprensione e della sofferenza, se il servizio ci risulta talora pesante e la croce qualche volta dura da portare, ci sostenga e ci sia di conforto la certezza che Dio sa rendere tutto fecondo. Noi sappiamo che la dimensione della croce, ben simboleggiata nella parabola del chicco di grano che sepolto in terra muore per dare frutto - immagine usata da Gesù poco prima della sua passione - è parte essenziale della vita di ogni uomo e di ogni missione apostolica. In ogni situazione dobbiamo offrire la lieta testimonianza della nostra adesione al Vangelo, accogliendo l'invito dell'apostolo Paolo a vantarci solamente della croce di Cristo, con l'unica ambizione di completare in noi stessi ciò che manca della passione del Signore, a favore del suo Corpo che è la Chiesa (cfr
Col 1,24).

Occasione quanto mai preziosa per rinnovare e rafforzare la vostra risposta generosa alla chiamata del Signore, per intensificare la vostra relazione con Lui, è l'Anno Sacerdotale, che avrà inizio il prossimo 19 giugno, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù e Giornata di santificazione sacerdotale. Valorizzate al massimo questa opportunità per essere sacerdoti secondo il cuore di Cristo, come san Giovanni Maria Vianney, il santo Curato d'Ars, del quale ci apprestiamo a celebrare il 150º anniversario della morte. Alla sua intercessione e a quella di sant'Antonio Abate, Patrono dell'Accademia, affido questi voti ed auspici. Vegli materna su di voi e vi protegga Maria, Madre della Chiesa. Quanto a me, mentre vi ringrazio per la vostra odierna visita, vi assicuro il mio speciale ricordo nella preghiera, e imparto di cuore la Benedizione Apostolica a ciascuno di voi, alle reverende Suore, al personale della Casa e a tutti coloro che vi sono cari.




APERTURA DEL CONVEGNO PASTORALE DELLA DIOCESI DI ROMA Basilica di San Giovanni in Laterano Martedì, 26 maggio 2009

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SUL TEMA: "APPARTENENZA ECCLESIALE E CORRESPONSABILITÀ PASTORALE"


Signor Cardinale,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
cari religiosi e religiose,
cari fratelli e sorelle!

Seguendo una ormai felice consuetudine, sono lieto di aprire anche quest'anno il Convegno diocesano pastorale. A ciascuno di voi, che qui rappresentate l'intera comunità diocesana, rivolgo con affetto il mio saluto e un sentito ringraziamento per il lavoro pastorale che svolgete. Per vostro tramite, estendo a tutte le parrocchie il mio saluto cordiale con le parole dell'apostolo Paolo: «A quanti sono in Roma, diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo» (
Rm 1,7). Ringrazio di cuore il Cardinale Vicario per le incoraggianti parole che mi ha rivolto, facendosi interprete dei vostri sentimenti, e per l'aiuto che, unitamente ai Vescovi Ausiliari, mi offre nel quotidiano servizio apostolico a cui il Signore mi ha chiamato come Vescovo di Roma.

E' stato appena ricordato che, nel corso del passato decennio, l'attenzione della Diocesi si è concentrata per tre anni inizialmente sulla famiglia; poi, per un successivo triennio, sull'educazione alla fede delle nuove generazioni, cercando di rispondere a quella «emergenza educativa», che è per tutti una sfida non facile; e da ultimo, sempre con riferimento all'educazione, sollecitati dalla Lettera enciclica Spe salvi, avete preso in considerazione il tema dell'educare alla speranza. Mentre ringrazio con voi il Signore del tanto bene che ci ha dato di compiere — penso in particolare ai parroci e ai sacerdoti che non si risparmiano nel guidare le comunità loro affidate — desidero esprimere il mio apprezzamento per la scelta pastorale di dedicare tempo ad una verifica del cammino percorso, con lo scopo di mettere a fuoco, alla luce dell'esperienza vissuta, alcuni ambiti fondamentali della pastorale ordinaria, al fine di meglio precisarli, e renderli più condivisi. A fondamento di questo impegno, al quale attendete già da alcuni mesi in tutte le parrocchie e nelle altre realtà ecclesiali, ci deve essere una rinnovata presa di coscienza del nostro essere Chiesa e della corresponsabilità pastorale che, in nome di Cristo, tutti siamo chiamati ad esercitare. E proprio su questo aspetto vorrei ora soffermarmi.

Il Concilio Vaticano II, volendo trasmettere pura e integra la dottrina sulla Chiesa maturata nel corso di duemila anni, ha dato di essa «una più meditata definizione», illustrandone anzitutto la natura misterica, cioè di «realtà imbevuta di divina presenza, e perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni» (Paolo VI, Discorso di apertura della seconda sessione, 29 settembre 1963). Orbene, la Chiesa, che ha origine nel Dio trinitario, è un mistero di comunione. In quanto comunione, la Chiesa non è una realtà soltanto spirituale, ma vive nella storia, per così dire, in carne e ossa. Il Concilio Vaticano II la descrive «come un sacramento, o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano». (Lumen gentium LG 1). E l'essenza del sacramento è proprio che si tocca nel visibile l’invisibile, che il visibile toccabile apre la porta a Dio stesso. La Chiesa, abbiamo detto, è una comunione, una comunione di persone che, per l'azione dello Spirito Santo, formano il Popolo di Dio, che è al tempo stesso il Corpo di Cristo. Riflettiamo un po' su queste due parole-chiave. Il concetto “Popolo di Dio” è nato e si è sviluppato nell'Antico Testamento: per entrare nella realtà della storia umana, Dio ha eletto un popolo determinato, il popolo di Israele, perché sia il suo popolo. L'intenzione di questa scelta particolare è di arrivare, per il tramite di pochi, ai molti, e dai molti a tutti. L'intenzione, con altre parole, dell'elezione particolare è l'universalità. Per il tramite di questo Popolo, Dio entra realmente in modo concreto nella storia. E questa apertura all'universalità si è realizzata nella croce e nella risurrezione di Cristo. Nella croce Cristo, così dice San Paolo, ha abbattuto il muro di separazione. Dandoci il suo Corpo, Egli ci riunisce in questo suo Corpo per fare di noi una cosa sola. Nella comunione del “Corpo di Cristo” tutti diventiamo un solo popolo, il Popolo di Dio, dove - per citare di nuovo san Paolo - tutti sono una cosa sola e non c'è più distinzione, differenza, tra greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro, scita, schiavo, ebreo, ma Cristo è tutto in tutti. Ha abbattuto il muro della distinzione di popoli, di razze, di culture: tutti siamo uniti in Cristo. Così vediamo che i due concetti – “Popolo di Dio” e “Corpo di Cristo” - si completano e formano insieme il concetto neotestamentario di Chiesa. E mentre “Popolo di Dio” esprime la continuità della storia della Chiesa, “Corpo di Cristo” esprime l'universalità inaugurata nella croce e nella risurrezione del Signore. Per noi cristiani, quindi, “Corpo di Cristo” non è solo un'immagine, ma un vero concetto, perché Cristo ci fa il dono del suo Corpo reale, non solo di un'immagine. Risorto, Cristo ci unisce tutti nel Sacramento per farci un unico corpo. Quindi il concetto “Popolo di Dio” e “Corpo di Cristo” si completano: in Cristo diventiamo realmente il Popolo di Dio. E “Popolo di Dio” significa quindi “tutti”: dal Papa fino all'ultimo bambino battezzato. La prima Preghiera eucaristica, il cosiddetto Canone romano scritto nel IV secolo, distingue tra servi – “noi servi tuoi” - e “plebs tua sancta”; quindi, se si vuol distinguere, si parla di servi e plebs sancta, mentre il termine “Popolo di Dio” esprime tutti insieme nel loro comune essere la Chiesa.

All'indomani del Concilio questa dottrina ecclesiologica ha trovato vasta accoglienza, e grazie a Dio tanti buoni frutti sono maturati nella comunità cristiana. Dobbiamo però anche ricordare che la recezione di questa dottrina nella prassi e la conseguente assimilazione nel tessuto della coscienza ecclesiale, non sono avvenute sempre e dovunque senza difficoltà e secondo una giusta interpretazione. Come ho avuto modo di chiarire nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre del 2005, una corrente interpretativa, appellandosi ad un presunto «spirito del Concilio», ha inteso stabilire una discontinuità e addirittura una contrapposizione tra la Chiesa prima e la Chiesa dopo il Concilio, travalicando a volte gli stessi confini oggettivamente esistenti tra il ministero gerarchico e le responsabilità dei laici nella Chiesa. La nozione di «Popolo di Dio», in particolare, venne da alcuni interpretata secondo una visione puramente sociologica, con un taglio quasi esclusivamente orizzontale, che escludeva il riferimento verticale a Dio. Posizione, questa, in aperto contrasto con la parola e con lo spirito del Concilio, il quale non ha voluto una rottura, un'altra Chiesa, ma un vero e profondo rinnovamento, nella continuità dell'unico soggetto Chiesa, che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre identico, unico soggetto del Popolo di Dio in pellegrinaggio.

In secondo luogo, va riconosciuto che il risveglio di energie spirituali e pastorali nel corso di questi anni non ha prodotto sempre l'incremento e lo sviluppo desiderati. Si deve in effetti registrare in talune comunità ecclesiali che, ad un periodo di fervore e di iniziativa, è succeduto un tempo di affievolimento dell'impegno, una situazione di stanchezza, talvolta quasi di stallo, anche di resistenza e di contraddizione tra la dottrina conciliare e diversi concetti formulati in nome del Concilio, ma in realtà opposti al suo spirito e alla sua lettera. Anche per questa ragione, al tema della vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, è stata dedicata l'assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi nel 1987. Questo fatto ci dice che le luminose pagine dedicate dal Concilio al laicato non erano ancora state sufficientemente tradotte e realizzate nella coscienza dei cattolici e nella prassi pastorale. Da una parte esiste ancora la tendenza a identificare unilateralmente la Chiesa con la gerarchia, dimenticando la comune responsabilità, la comune missione del Popolo di Dio, che siamo in Cristo noi tutti. Dall'altra, persiste anche la tendenza a concepire il Popolo di Dio come ho già detto, secondo un'idea puramente sociologica o politica, dimenticando la novità e la specificità di quel popolo che diventa popolo solo nella comunione con Cristo.

Cari fratelli e sorelle, viene ora da domandarsi: la nostra Diocesi di Roma a che punto sta? In che misura viene riconosciuta e favorita la corresponsabilità pastorale di tutti, particolarmente dei laici? Nei secoli passati, grazie alla generosa testimonianza di tanti battezzati che hanno speso la vita per educare alla fede le nuove generazioni, per curare gli ammalati e soccorrere i poveri, la comunità cristiana ha annunciato il Vangelo agli abitanti di Roma. Questa stessa missione è affidata a noi oggi, in situazioni diverse, in una città dove non pochi battezzati hanno smarrito la via della Chiesa e quelli che non sono cristiani non conoscono la bellezza della nostra fede. Il Sinodo Diocesano, voluto dal mio amato predecessore Giovanni Paolo II, è stato un'effettiva receptio della dottrina conciliare, e il Libro del Sinodo ha impegnato la Diocesi a diventare sempre più Chiesa viva e operosa nel cuore della città, attraverso l'azione coordinata e responsabile di tutte le sue componenti. La Missione cittadina, che ne seguì in preparazione al Grande Giubileo del 2000, ha consentito alla nostra comunità ecclesiale di prendere coscienza del fatto che il mandato di evangelizzare non riguarda solo alcuni ma tutti i battezzati. E' stata una salutare esperienza che ha contribuito a far maturare nelle parrocchie, nelle comunità religiose, nelle associazioni e nei movimenti la consapevolezza di appartenere all'unico Popolo di Dio, che — secondo le parole dell'apostolo Pietro — «Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui» (1P 2,9). E di ciò questa sera vogliamo rendere grazie.

Molta strada tuttavia resta ancora da percorrere. Troppi battezzati non si sentono parte della comunità ecclesiale e vivono ai margini di essa, rivolgendosi alle parrocchie solo in alcune circostanze per ricevere servizi religiosi. Pochi sono ancora i laici, in proporzione al numero degli abitanti di ciascuna parrocchia che, pur professandosi cattolici, sono pronti a rendersi disponibili per lavorare nei diversi campi apostolici. Certo, non mancano le difficoltà di ordine culturale e sociale, ma, fedeli al mandato del Signore, non possiamo rassegnarci alla conservazione dell'esistente. Fiduciosi nella grazia dello Spirito, che Cristo risorto ci ha garantito, dobbiamo riprendere con rinnovata lena il cammino. Quali vie possiamo percorrere? Occorre in primo luogo rinnovare lo sforzo per una formazione più attenta e puntuale alla visione di Chiesa della quale ho parlato, e questo da parte tanto dei sacerdoti quanto dei religiosi e dei laici. Capire sempre meglio che cosa è questa Chiesa, questo Popolo di Dio nel Corpo di Cristo. E' necessario, al tempo stesso, migliorare l'impostazione pastorale, così che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell'insieme di tutti i membri del Popolo di Dio. Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli «collaboratori» del clero a riconoscerli realmente «corresponsabili» dell'essere e dell'agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato. Questa coscienza comune di tutti i battezzati di essere Chiesa non diminuisce la responsabilità dei parroci. Tocca proprio a voi, cari parroci, promuovere la crescita spirituale e apostolica di quanti sono già assidui e impegnati nelle parrocchie: essi sono il nucleo della comunità che farà da fermento per gli altri. Affinché tali comunità, anche se qualche volta numericamente piccole, non smarriscano la loro identità e il loro vigore, è necessario che siano educate all'ascolto orante della Parola di Dio, attraverso la pratica della lectio divina, ardentemente auspicata dal recente Sinodo dei Vescovi. Nutriamoci realmente dell'ascolto, della meditazione della Parola di Dio. A queste nostre comunità non deve venir meno la consapevolezza che sono «Chiesa» perché Cristo, Parola eterna del Padre, le convoca e le fa suo Popolo. La fede, infatti, è da una parte una relazione profondamente personale con Dio, ma possiede una essenziale componente comunitaria e le due dimensioni sono inseparabili. Potranno così sperimentare la bellezza e la gioia di essere e di sentirsi Chiesa anche i giovani, che sono maggiormente esposti al crescente individualismo della cultura contemporanea, la quale comporta come inevitabili conseguenze l'indebolimento dei legami interpersonali e l'affievolimento delle appartenenze. Nella fede in Dio siamo uniti nel Corpo di Cristo e diventiamo tutti uniti nello stesso Corpo e così, proprio credendo profondamente, possiamo esperire anche la comunione tra di noi e superare la solitudine dell'individualismo.

Se è la Parola a convocare la Comunità, è l'Eucaristia a farla essere un corpo: «Poiché c'è un solo pane — scrive san Paolo —, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane» (1Co 10,17). La Chiesa dunque non è il risultato di una somma di individui, ma un'unità fra coloro che sono nutriti dall'unica Parola di Dio e dall'unico Pane di vita. La comunione e l'unità della Chiesa, che nascono dall'Eucaristia, sono una realtà di cui dobbiamo avere sempre maggiore consapevolezza, anche nel nostro ricevere la santa comunione, sempre più essere consapevoli che entriamo in unità con Cristo e così diventiamo noi, tra di noi, una cosa sola. Dobbiamo sempre nuovamente imparare a custodire e difendere questa unità da rivalità, da contese e gelosie che possono nascere nelle e tra le comunità ecclesiali. In particolare, vorrei chiedere ai movimenti e alle comunità sorti dopo il Vaticano II, che anche all'interno della nostra Diocesi sono un dono prezioso di cui dobbiamo sempre ringraziare il Signore, vorrei chiedere a questi movimenti, che ripeto sono un dono, di curare sempre che i loro itinerari formativi conducano i membri a maturare un vero senso di appartenenza alla comunità parrocchiale. Centro della vita della parrocchia, come ho detto, è l'Eucaristia, e particolarmente la Celebrazione domenicale. Se l'unità della Chiesa nasce dall'incontro con il Signore, non è secondario allora che l'adorazione e la celebrazione dell'Eucaristia siano molto curate, dando modo a chi vi partecipa di sperimentare la bellezza del mistero di Cristo. Dato che la bellezza della liturgia «non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce» (Sacramentum caritatis n. 35), è importante che la Celebrazione eucaristica manifesti, comunichi, attraverso i segni sacramentali, la vita divina e riveli agli uomini e alle donne di questa città il vero volto della Chiesa.

La crescita spirituale ed apostolica della comunità porta poi a promuoverne l'allargamento attraverso una convinta azione missionaria. Prodigatevi pertanto a ridar vita in ogni parrocchia, come ai tempi della Missione cittadina, ai piccoli gruppi o centri di ascolto di fedeli che annunciano Cristo e la sua Parola, luoghi dove sia possibile sperimentare la fede, esercitare la carità, organizzare la speranza. Questo articolarsi delle grandi parrocchie urbane attraverso il moltiplicarsi di piccole comunità permette un respiro missionario più largo, che tiene conto della densità della popolazione, della sua fisionomia sociale e culturale, spesso notevolmente diversificata. Sarebbe importante se questo metodo pastorale trovasse efficace applicazione anche nei luoghi di lavoro, oggi da evangelizzare con una pastorale di ambiente ben pensata, poiché per l'elevata mobilità sociale la popolazione vi trascorre gran parte della giornata.

Infine, non va dimenticata la testimonianza della carità, che unisce i cuori e apre all'appartenenza ecclesiale. Alla domanda come si spieghi il successo del Cristianesimo dei primi secoli, l'ascesa da una presunta setta ebrea alla religione dell'Impero, gli storici rispondono che fu particolarmente l'esperienza della carità dei cristiani che ha convinto il mondo. Vivere la carità è la forma primaria della missionarietà. La Parola annunciata e vissuta diventa credibile se si incarna in comportamenti di solidarietà, di condivisione, in gesti che mostrano il volto di Cristo come di vero Amico dell'uomo. La silenziosa e quotidiana testimonianza della carità, promossa dalle parrocchie grazie all'impegno di tanti fedeli laici, continui ad estendersi sempre di più, perché chi vive nella sofferenza senta vicina la Chiesa e sperimenti l'amore del Padre, ricco di misericordia. Siate, dunque, «buoni samaritani» pronti a curare le ferite materiali e spirituali dei vostri fratelli. I diaconi, conformati con l'ordinazione a Cristo servo, potranno svolgere un utile servizio nel promuovere una rinnovata attenzione verso le vecchie e le nuove forme di povertà. Penso inoltre ai giovani: carissimi, vi invito a porre a servizio di Cristo e del Vangelo il vostro entusiasmo e la vostra creatività, facendovi apostoli dei vostri coetanei, disposti a rispondere generosamente al Signore, se vi chiama a seguirlo più da vicino, nel sacerdozio o nella vita consacrata.

Cari fratelli e sorelle, il futuro del cristianesimo e della Chiesa a Roma dipende anche dall'impegno e dalla testimonianza di ciascuno di noi. Invoco per questo la materna intercessione della Vergine Maria, venerata da secoli nella Basilica di Santa Maria Maggiore come Salus populi romani. Come fece con gli Apostoli nel Cenacolo in attesa della Pentecoste, accompagni anche noi e ci incoraggi a guardare con fiducia al domani. Con questi sentimenti, mentre vi ringrazio per il vostro diuturno lavoro, imparto di cuore a tutti una speciale Benedizione Apostolica.





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