Discorsi 2005-13 7100

A S.E. IL SIGNOR FERNANDO ZEGERS SANTA CRUZ, NUOVO AMBASCIATORE DEL CILE PRESSO LA SANTA SEDE Giovedì, 7 ottobre 2010

7100

Signor Ambasciatore,

Sono lieto di riceverla, Eccellenza, in questo solenne atto nel quale mi consegna le Lettere che l'accreditano come Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario del Cile presso la Santa Sede. Desidero porgerle il mio più cordiale benvenuto, e nello stesso tempo la ringrazio per le parole di saluto da parte del Presidente della Repubblica, il dottor Sebastián Piñera Echenique, e del suo Governo.

La presenza di Sua Eccellenza nella Santa Sede mi fa pensare con rinnovato vigore a un Paese che, sebbene geograficamente lontano da qui, serbo nel profondo del cuore, soprattutto dopo il terribile terremoto che ha subito recentemente. Fin dal primo momento, ho voluto mostrare la mia vicinanza al popolo cileno e, attraverso la visita del Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone, ho trasmesso il mio conforto e la mia speranza alle vittime, ai loro familiari e ai numerosi sinistrati, che tengo particolarmente presenti nel mio cuore. Non mi dimentico neppure dei minatori della regione di Atacama e dei loro cari, per i quali prego con fervore.

A tale proposito, desidero sottolineare e valorizzare l'unità del popolo cileno dinanzi alle disgrazie, la sua risposta tanto generosa e solidale quando la sofferenza imperversa, come pure lo sforzo immenso che la Chiesa cattolica in Cile, molte delle cui comunità sono state a loro volta duramente colpite dal sisma, sta realizzando per cercare di aiutare quanti ne hanno bisogno.
Lei, Eccellenza, comincia la sua missione presso la Santa Sede proprio nell'anno in cui il Cile celebra il Bicentenario della sua Indipendenza, il che mi offre l'opportunità di sottolineare ancora una volta il ruolo della Chiesa negli eventi più importanti del suo Paese, come pure nel consolidamento di un'identità nazionale propria, profondamente segnata dal sentimento cattolico. Sono molto numerosi i frutti che il Vangelo ha prodotto in questa terra benedetta. Frutti abbondanti di santità, di carità, di promozione umana, di ricerca costante della pace e della convivenza. In tal senso, desidero ricordare la celebrazione, lo scorso anno, del venticinquesimo anniversario della firma del Trattato di pace e di amicizia con l'Argentina, nazione sorella, che, con la mediazione pontificia, ha posto fine al contenzioso australe. Questo Accordo storico resterà per le generazioni future un esempio luminoso del bene immenso che la pace porta con sé, come pure dell'importanza di conservare e di promuovere quei valori morali e religiosi che costituiscono il tessuto più intimo dell'anima di un popolo. Non si può pretendere di spiegare il trionfo di questo anelito di pace, di concordia e di intesa, se non si tiene conto di quanto profondamente il seme del Vangelo si è radicato nel cuore dei cileni. In tal senso e ancora di più nelle circostanze attuali, nelle quali bisogna far fronte a tante sfide che minacciano la stessa identità culturale, è importante favorire soprattutto fra i giovani un sano orgoglio, un rinnovato apprezzamento e una rivalorizzazione della loro fede, della loro storia, della loro cultura, delle loro tradizioni e della loro ricchezza artistica e di ciò che costituisce il migliore e più ricco patrimonio spirituale e umano del Cile.

In questa ottica, vorrei sottolineare che, sebbene lo Stato e la Chiesa siano indipendenti e autonomi ognuno nel proprio campo, entrambi sono chiamati a sviluppare una collaborazione leale e rispettosa per servire la vocazione personale e sociale delle persone stesse (cfr. Gaudium et spes
GS 76). Nel compimento della sua missione specifica di annunciare la Buona Novella di Gesù Cristo, la Chiesa cerca di rispondere alle aspettative e agli interrogativi degli uomini, basandosi anche su valori e principi etici e antropologici iscritti nella natura stessa dell'essere umano. Quando la Chiesa fa sentire la sua voce dinanzi alle grandi sfide e ai problemi attuali, come le guerre, la fame, la povertà estrema di tanti, la difesa della vita umana dal concepimento fino al suo termine naturale, o la promozione della famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna e prima responsabile dell'educazione dei figli, non agisce per un interesse particolare o per principi che possono percepire solo quanti professano una determinata fede religiosa. Rispettando le regole della convivenza democratica, lo fa per il bene di tutta la società e a nome dei valori che ogni persona può condividere con la sua retta ragione (cfr. Discorso al Presidente della Repubblica italiana, 20 novembre 2006).

A tale proposito, il popolo cileno sa bene che la Chiesa in questa Nazione collabora, in modo sincero ed efficace, e desidera continuare a farlo, a tutto ciò che può contribuire alla promozione del bene comune, del giusto progresso e della pacifica e armoniosa convivenza di tutti coloro che vivono in questa bella terra.

Signor Ambasciatore, prima di concludere questo incontro, le formulo i miei voti migliori per lo svolgimento della sua alta missione, e nello stesso tempo l'assicuro della cordiale accoglienza e della disponibilità da parte dei miei collaboratori. Con questi sentimenti, invoco di cuore su di lei, Eccellenza, sulla sua famiglia e sugli altri membri di questa Missione Diplomatica, come pure su tutto l'amatissimo popolo cileno e sui suoi dirigenti, per intercessione della Vergine del Carmen, l'abbondanza delle benedizioni divine.




AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO SULLA STAMPA CATTOLICA PROMOSSO DAL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI Sala Clementina Giovedì, 7 ottobre 2010

7200

Signori Cardinali,
venerati Fratelli,
illustri Signore e Signori!

Vi accolgo con gioia al termine delle quattro giornate di intenso lavoro promosse dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali e dedicate alla stampa cattolica. Saluto cordialmente tutti voi - provenienti da 85 Paesi -, che operate nei quotidiani, nei settimanali o in altri periodici e nei siti internet. Saluto il Presidente del Dicastero, l’Arcivescovo Claudio Maria Celli, che ringrazio per essersi fatto interprete dei sentimenti di tutti, come pure i Segretari, il Sottosegretario, tutti gli Officiali ed il Personale. Sono lieto di potervi rivolgere una parola di incoraggiamento a continuare, con rinnovate motivazioni, nel vostro importante e qualificato impegno.

Il mondo dei media è attraversato da una profonda trasformazione anche al proprio interno. Lo sviluppo delle nuove tecnologie e, in particolare, la diffusa multimedialità, sembra porre in discussione il ruolo dei mezzi più tradizionali e consolidati. Opportunamente il vostro Congresso si sofferma a considerare il ruolo peculiare della stampa cattolica. Un’attenta riflessione su questo campo, infatti, fa emergere due particolari aspetti: da un lato la specificità del mezzo, la stampa, e cioè la parola scritta e la sua attualità ed efficacia, in una società che ha visto moltiplicarsi antenne, parabole e satelliti, divenuti quasi gli emblemi di un nuovo modo di comunicare nell’era della globalizzazione. Dall’altro lato, la connotazione “cattolica”, con la responsabilità che ne deriva di esservi fedeli in modo esplicito e sostanziale, attraverso il quotidiano impegno di percorrere la strada maestra della verità.

La ricerca della verità dev’essere perseguita dai giornalisti cattolici con mente e cuore appassionati, ma anche con la professionalità di operatori competenti e dotati di mezzi adeguati ed efficaci. Ciò risulta ancora più importante nell’attuale momento storico, che chiede alla figura stessa del giornalista, quale mediatore dei flussi di informazione, di compiere un profondo mutamento. Oggi, ad esempio, nella comunicazione ha un peso sempre maggiore il mondo dell’immagine con lo sviluppo di sempre nuove tecnologie; ma se da una parte tutto ciò comporta indubbi aspetti positivi, dall’altra l’immagine può anche diventare indipendente dal reale, può dare vita ad un mondo virtuale, con varie conseguenze, la prima delle quali è il rischio dell’indifferenza nei confronti del vero. Infatti, le nuove tecnologie, assieme ai progressi che portano, possono rendere interscambiabili il vero e il falso, possono indurre a confondere il reale con il virtuale. Inoltre, la ripresa di un evento, lieto o triste, può essere consumata come spettacolo e non come occasione di riflessione. La ricerca delle vie per un’autentica promozione dell’uomo passa allora in secondo piano, perché l’evento viene presentato principalmente per suscitare emozioni. Questi aspetti suonano come campanello d’allarme: invitano a considerare il pericolo che il virtuale allontani dalla realtà e non stimoli alla ricerca del vero, della verità.

In tale contesto, la stampa cattolica è chiamata, in modo nuovo, ad esprimere fino in fondo le sue potenzialità e a dare ragione giorno per giorno della sua irrinunciabile missione. La Chiesa dispone di un elemento facilitante, dal momento che la fede cristiana ha in comune con la comunicazione una struttura fondamentale: il fatto che il mezzo ed il messaggio coincidono; infatti il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, è, allo stesso tempo, messaggio di salvezza e mezzo attraverso il quale la salvezza si realizza. E questo non è un semplice concetto, ma una realtà accessibile a tutti, anche a quanti, pur vivendo da protagonisti nella complessità del mondo, sono capaci di conservare l’onestà intellettuale propria dei “piccoli” del Vangelo. Inoltre, la Chiesa, Corpo mistico di Cristo, presente contemporaneamente ovunque, alimenta la capacità di rapporti più fraterni e più umani, ponendosi come luogo di comunione tra i credenti e insieme come segno e strumento della vocazione di tutti alla comunione. La sua forza è Cristo, e nel suo nome essa “insegue” l’uomo sulle strade del mondo per salvarlo dal “mysterium iniquitatis”, insidiosamente operante in esso. La stampa evoca in maniera più diretta, rispetto ad ogni altro mezzo di comunicazione, il valore della parola scritta. La Parola di Dio è giunta agli uomini ed è stata tramandata anche a noi attraverso un libro, la Bibbia. La parola resta lo strumento fondamentale e, in un certo senso, costitutivo della comunicazione: essa viene utilizzata oggi sotto varie forme, e anche nella cosiddetta “civiltà dell’immagine” conserva tutto intero il suo valore.

A partire da queste brevi considerazioni, appare evidente che la sfida comunicativa è, per la Chiesa e per quanti condividono la sua missione, molto impegnativa. I cristiani non possono ignorare la crisi di fede che è sopraggiunta nella società, o semplicemente confidare che il patrimonio di valori trasmesso lungo i secoli passati possa continuare ad ispirare e plasmare il futuro della famiglia umana. L’idea di vivere “come se Dio non esistesse” si è dimostrata deleteria: il mondo ha bisogno piuttosto di vivere “come se Dio esistesse”, anche se non c’è la forza di credere, altrimenti esso produce solo un “umanesimo disumano”.

Carissimi fratelli e sorelle, chi opera nei mezzi della comunicazione, se non vuole essere solo “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (
1Co 13,1) - come direbbe san Paolo - deve avere forte in sé l’opzione di fondo che lo abilita a trattare le cose del mondo ponendo sempre Dio al vertice della scala dei valori. I tempi che stiamo vivendo, pur avendo un notevole carico di positività, perché i fili della storia sono nelle mani di Dio e il suo eterno disegno si svela sempre più, restano segnati anche da tante ombre. Il vostro compito, cari operatori della stampa cattolica, è quello di aiutare l’uomo contemporaneo ad orientarsi a Cristo, unico Salvatore, e a tenere accesa nel mondo la fiaccola della speranza, per vivere degnamente l’oggi e costruire adeguatamente il futuro. Per questo vi esorto a rinnovare costantemente la vostra scelta personale per Cristo, attingendo da quelle risorse spirituali che la mentalità mondana sottovaluta, mentre sono preziose, anzi, indispensabili. Cari amici, vi incoraggio a proseguire nel vostro non facile impegno e vi accompagno con la preghiera, perché lo Spirito Santo lo renda sempre proficuo. La mia benedizione, piena di affetto e di gratitudine, che volentieri imparto, vuole abbracciare voi qui presenti e quanti operano nella stampa cattolica in tutto il mondo.




AL CONVEGNO DI STUDIO PROMOSSO DAL PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI PER IL XX ANNIVERSARIO DELLA PROMULGAZIONE DEL CIO Sala Clementina Sabato, 9 ottobre 2010

9100

Signori Cardinali,
Venerati Patriarchi, Arcivescovi Maggiori,
Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri Rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, Egregi Operatori del Diritto Canonico Orientale,

con grande gioia vi accolgo a conclusione del Convegno di studio, col quale si è voluto opportunamente celebrare il ventesimo anniversario della promulgazione del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium. Vi saluto tutti cordialmente ad iniziare da Mons. Francesco Coccopalmerio, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto anche a nome dei presenti. Un pensiero riconoscente alla Congregazione per le Chiese Orientali, al Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e al Pontificio Istituto Orientale, che hanno collaborato con il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi nell’organizzare questo Convegno. Desidero esprimere cordiale apprezzamento ai Relatori per il competente apporto scientifico a questa iniziativa ecclesiale.

A vent’anni dalla promulgazione del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium vogliamo rendere omaggio all’intuizione del Venerabile Giovanni Paolo II, il quale, nella sua sollecitudine affinché le Chiese orientali cattoliche «fioriscano e assolvano con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Orientalium Ecclesiarum
OE 1), ha voluto dotare queste venerande Chiese di un Codice completo, comune e adatto ai tempi. Così si è adempiuta «la stessa costante volontà dei romani pontefici di promulgare due Codici, uno per la Chiesa latina e l’altro per le Chiese orientali cattoliche» (Cost. ap. Sacri canones). Al tempo stesso, si è riaffermata «chiarissima l’intenzione costante e ferma del supremo legislatore nella Chiesa a riguardo della fedele custodia e diligente osservanza di tutti i riti» (Ibid.)

Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium è stato seguito da due altri importanti documenti del magistero di Giovanni Paolo II: la Lettera enciclica Ut unum sint (1995) e la Lettera apostolica Orientale Lumen (1995). Inoltre, non possiamo dimenticare il Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo, pubblicato dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani (1993) e l’Istruzione della Congregazione per le Chiese Orientali circa l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice (1996). In questi autorevoli documenti del Magistero diversi canoni del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, come del Codex Iuris Canonici vengono quasi testualmente citati, commentati ed applicati alla vita della Chiesa.

Questa ricorrenza ventennale non è solo evento celebrativo per conservarne la memoria, bensì provvida occasione di verifica, alla quale sono chiamate anzitutto le Chiese orientali cattoliche sui iuris e le loro istituzioni, specie le Gerarchie. Al riguardo, la Costituzione Apostolica Sacri canones già prevedeva gli ambiti di verifica. Si tratta di vedere in quale misura il Codice abbia avuto effettivamente forza di legge per tutte le Chiese orientali cattoliche sui iuris e come sia stato tradotto nell’attività della vita quotidiana delle Chiese orientali; come pure in quale misura la potestà legislativa di ciascuna Chiesa sui iuris abbia provveduto alla promulgazione del proprio diritto particolare, tenendo presenti le tradizioni del proprio rito, come pure le disposizioni del Concilio Vaticano II.

Le tematiche del vostro Convegno, articolate in tre unità: la storia, le legislazioni particolari, le prospettive ecumeniche, indicano un iter quanto mai significativo da seguire in questa verifica. Essa deve partire dalla consapevolezza che il nuovo Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium ha creato per i fedeli orientali cattolici una situazione disciplinare in parte nuova, diventando valido strumento per custodire e promuovere il proprio rito inteso come «patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris» (can. 28, § 1).

In proposito, i sacri canones della Chiesa antica, che ispirano la vigente codificazione orientale, stimolano tutte le Chiese orientali a conservare la propria identità, che è allo stesso tempo orientale e cattolica. Nel mantenere la comunione cattolica, le Chiese orientali cattoliche non intendevano affatto rinnegare la fedeltà alla loro tradizione. Come più volte è stato ribadito, la già realizzata unione piena delle Chiese orientali cattoliche con la Chiesa di Roma non deve comportare per esse una diminuzione nella coscienza della propria autenticità ed originalità. Pertanto, compito di tutte le Chiese orientali cattoliche è quello di conservare il comune patrimonio disciplinare e alimentare le tradizioni proprie, ricchezza per tutta la Chiesa.

Gli stessi sacri canones dei primi secoli della Chiesa costituiscono in larga misura il fondamentale e medesimo patrimonio di disciplina canonica che regola anche le Chiese ortodosse. Pertanto, le Chiese orientali cattoliche possono offrire un peculiare e rilevante contributo al cammino ecumenico. Sono lieto che nel corso del vostro simposio abbiate tenuto conto di questo particolare aspetto e vi incoraggio a farne oggetto di ulteriori studi, cooperando così, da parte vostra al comune impegno di aderire alla preghiera del Signore: «Tutti siano una cosa sola…perché il mondo creda…» (Jn 17,21).

Cari amici, nell’ambito dell’attuale impegno della Chiesa per una nuova evangelizzazione, il diritto canonico, come ordinamento peculiare ed indispensabile della compagine ecclesiale, non mancherà di contribuire efficacemente alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo, se tutte le componenti del Popolo di Dio sapranno saggiamente interpretarlo e fedelmente applicarlo. Esorto perciò, come fece il Venerabile Giovanni Paolo II, tutti i diletti figli orientali «a osservare i precetti indicati con animo sincero e con umile volontà, non dubitando minimamente che le Chiese orientali provvederanno nel miglior modo possibile al bene delle anime dei fedeli cristiani con una rinnovata disciplina, e che sempre fioriranno e assolveranno il compito loro affidato sotto la protezione della gloriosa e benedetta sempre vergine Maria che con piena verità è chiamata Theothokos eche rifulge come madre eccelsa della Chiesa universale» (Cost. ap. Sacri canones).

Accompagno questo auspicio con la Benedizione Apostolica, che imparto a voi e a quanti recano il proprio contributo nei vari campi connessi con il diritto canonico orientale.




ASSEMBLEA SPECIALE PER IL MEDIO ORIENTE DEL SINODO DEI VESCOVI - MEDITAZIONE NEL CORSO DELLA PRIMA CONGREGAZIONE GENERALE Aula del Sinodo Lunedì, 11 ottobre 2010

11100

Cari fratelli e sorelle,

l'11 ottobre 1962, quarantotto anni fa, Papa Giovanni XXIII inaugurava il Concilio Vaticano II. Si celebrava allora l'11 ottobre la festa della Maternità divina di Maria, e, con questo gesto, con questa data, Papa Giovanni voleva affidare tutto il Concilio alle mani materne, al cuore materno della Madonna. Anche noi cominciamo l'11 ottobre, anche noi vogliamo affidare questo Sinodo, con tutti i problemi, con tutte le sfide, con tutte le speranze, al cuore materno della Madonna, della Madre di Dio.

Pio XI, nel 1930, aveva introdotto questa festa, milleseicento anni dopo il Concilio di Efeso, il quale aveva legittimato, per Maria, il titolo Theotókos, Dei Genitrix. In questa grande parola Dei Genitrix, Theotókos, il Concilio di Efeso aveva riassunto tutta la dottrina di Cristo, di Maria, tutta la dottrina della redenzione. E così vale la pena riflettere un po', un momento, su ciò di cui parla il Concilio di Efeso, ciò di cui parla questo giorno.

In realtà, Theotókos è un titolo audace. Una donna è Madre di Dio. Si potrebbe dire: come è possibile? Dio è eterno, è il Creatore. Noi siamo creature, siamo nel tempo: come potrebbe una persona umana essere Madre di Dio, dell'Eterno, dato che noi siamo tutti nel tempo, siamo tutti creature? Perciò si capisce che c'era forte opposizione, in parte, contro questa parola. I nestoriani dicevano: si può parlare di Christotókos, sì, ma di Theotókos no: Theós, Dio, è oltre, sopra gli avvenimenti della storia. Ma il Concilio ha deciso questo, e proprio così ha messo in luce l'avventura di Dio, la grandezza di quanto ha fatto per noi. Dio non è rimasto in sé: è uscito da sé, si è unito talmente, così radicalmente con quest'uomo, Gesù, che quest'uomo Gesù è Dio, e se parliamo di Lui, possiamo sempre anche parlare di Dio. Non è nato solo un uomo che aveva a che fare con Dio, ma in Lui è nato Dio sulla terra. Dio è uscito da sé. Ma possiamo anche dire il contrario: Dio ci ha attirato in se stesso, così che non siamo più fuori di Dio, ma siamo nell'intimo, nell'intimità di Dio stesso.

La filosofia aristotelica, lo sappiamo bene, ci dice che tra Dio e l'uomo esiste solo una relazione non reciproca. L'uomo si riferisce a Dio, ma Dio, l'Eterno, è in sé, non cambia: non può avere oggi questa e domani un'altra relazione. Sta in sé, non ha relazione ad extra. È una parola molto logica, ma è una parola che ci fa disperare: quindi Dio stesso non ha relazione con me. Con l'incarnazione, con l’avvenimento della Theotókos, questo è cambiato radicalmente, perché Dio ci ha attirato in se stesso e Dio in se stesso è relazione e ci fa partecipare nella sua relazione interiore. Così siamo nel suo essere Padre, Figlio e Spirito Santo, siamo nell'interno del suo essere in relazione, siamo in relazione con Lui e Lui realmente ha creato relazione con noi. In quel momento Dio voleva essere nato da una donna ed essere sempre se stesso: questo è il grande avvenimento. E così possiamo capire la profondità dell’atto di Papa Giovanni, che affidò l’Assise conciliare, sinodale, al mistero centrale, alla Madre di Dio che è attirata dal Signore in Lui stesso, e così noi tutti con Lei.

Il Concilio ha cominciato con l'icona della Theotókos. Alla fine Papa Paolo VI riconosce alla stessa Madonna il titolo Mater Ecclesiae. E queste due icone, che iniziano e concludono il Concilio, sono intrinsecamente collegate, sono, alla fine, un’icona sola. Perché Cristo non è nato come un individuo tra altri. È nato per crearsi un corpo: è nato — come dice Giovanni al capitolo 12 del suo Vangelo — per attirare tutti a sé e in sé. È nato — come dicono le Lettere ai Colossesi e agli Efesini — per ricapitolare tutto il mondo, è nato come primogenito di molti fratelli, è nato per riunire il cosmo in sé, cosicché Lui è il Capo di un grande Corpo. Dove nasce Cristo, inizia il movimento della ricapitolazione, inizia il momento della chiamata, della costruzione del suo Corpo, della santa Chiesa. La Madre di Theós, la Madre di Dio, è Madre della Chiesa, perché Madre di Colui che è venuto per riunirci tutti nel suo Corpo risorto.

San Luca ci fa capire questo nel parallelismo tra il primo capitolo del suo Vangelo e il primo capitolo degli Atti degli Apostoli, che ripetono su due livelli lo stesso mistero. Nel primo capitolo del Vangelo lo Spirito Santo viene su Maria e così partorisce e ci dona il Figlio di Dio. Nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli Maria è al centro dei discepoli di Gesù che pregano tutti insieme, implorando la nube dello Spirito Santo. E così dalla Chiesa credente, con Maria nel centro, nasce la Chiesa, il Corpo di Cristo. Questa duplice nascita è l’unica nascita del Christus totus, del Cristo che abbraccia il mondo e noi tutti.

Nascita a Betlemme, nascita nel Cenacolo. Nascita di Gesù Bambino, nascita del Corpo di Cristo, della Chiesa. Sono due avvenimenti o un unico avvenimento. Ma tra i due stanno realmente la Croce e la Risurrezione. E solo tramite la Croce avviene il cammino verso la totalità del Cristo, verso il suo Corpo risorto, verso l'universalizzazione del suo essere nell'unità della Chiesa. E così, tenendo presente che solo dal grano caduto in terra nasce poi il grande raccolto, dal Signore trafitto sulla Croce viene l'universalità dei suoi discepoli riuniti in questo suo Corpo, morto e risorto.

Tenendo conto di questo nesso tra Theotókos e Mater Ecclesiae, il nostro sguardo va verso l'ultimo libro della Sacra Scrittura, l'Apocalisse, dove, nel capitolo 12, appare proprio questa sintesi. La donna vestita di sole, con dodici stelle sul capo e la luna sotto i piedi, partorisce. E partorisce con un grido di dolore, partorisce con grande dolore. Qui il mistero mariano è il mistero di Betlemme allargato al mistero cosmico. Cristo nasce sempre di nuovo in tutte le generazioni e così assume, raccoglie l'umanità in se stesso. E questa nascita cosmica si realizza nel grido della Croce, nel dolore della Passione. E a questo grido della Croce appartiene il sangue dei martiri.

Così, in questo momento, possiamo gettare uno sguardo sul secondo Salmo di questa Ora Media, il Salmo 81, dove si vede una parte di questo processo. Dio sta tra gli dei – ancora sono considerati in Israele come dei. In questo Salmo, in un concentramento grande, in una visione profetica, si vede il depotenziamento degli dei. Quelli che apparivano dei non sono dei e perdono il carattere divino, cadono a terra. Dii estis et moriemini sicut homines (cfr
Ps 81,6-7): il depotenziamento, la caduta delle divinità.

Questo processo che si realizza nel lungo cammino della fede di Israele, e che qui è riassunto in un'unica visione, è un processo vero della storia della religione: la caduta degli dei. E così la trasformazione del mondo, la conoscenza del vero Dio, il depotenziamento delle forze che dominano la terra, è un processo di dolore. Nella storia di Israele vediamo come questo liberarsi dal politeismo, questo riconoscimento — «solo Lui è Dio» — si realizza in tanti dolori, cominciando dal cammino di Abramo, l'esilio, i Maccabei, fino a Cristo. E nella storia continua questo processo del depotenziamento, del quale parla l'Apocalisse al capitolo 12; parla della caduta degli angeli, che non sono angeli, non sono divinità sulla terra. E si realizza realmente, proprio nel tempo della Chiesa nascente, dove vediamo come col sangue dei martiri vengono depotenziate le divinità, cominciando dall'imperatore divino, da tutte queste divinità. È il sangue dei martiri, il dolore, il grido della Madre Chiesa che le fa cadere e trasforma così il mondo.

Questa caduta non è solo la conoscenza che esse non sono Dio; è il processo di trasformazione del mondo, che costa il sangue, costa la sofferenza dei testimoni di Cristo. E, se guardiamo bene, vediamo che questo processo non è mai finito. Si realizza nei diversi periodi della storia in modi sempre nuovi; anche oggi, in questo momento, in cui Cristo, l'unico Figlio di Dio, deve nascere per il mondo con la caduta degli dei, con il dolore, il martirio dei testimoni. Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi, pensiamo ai capitali anonimi che schiavizzano l'uomo, che non sono più cosa dell’uomo, ma sono un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati. Sono un potere distruttivo, che minaccia il mondo. E poi il potere delle ideologie terroristiche. Apparentemente in nome di Dio viene fatta violenza, ma non è Dio: sono false divinità, che devono essere smascherate, che non sono Dio. E poi la droga, questo potere che, come una bestia vorace, stende le sue mani su tutte le parti della terra e distrugge: è una divinità, ma una divinità falsa, che deve cadere. O anche il modo di vivere propagato dall'opinione pubblica: oggi si fa così, il matrimonio non conta più, la castità non è più una virtù, e così via.

Queste ideologie che dominano, così che si impongono con forza, sono divinità. E nel dolore dei santi, nel dolore dei credenti, della Madre Chiesa della quale noi siamo parte, devono cadere queste divinità, deve realizzarsi quanto dicono le Lettere ai Colossesi e agli Efesini: le dominazioni, i poteri cadono e diventano sudditi dell'unico Signore Gesù Cristo. Di questa lotta nella quale noi stiamo, di questo depotenziamento di dio, di questa caduta dei falsi dei, che cadono perché non sono divinità, ma poteri che distruggono il mondo, parla l'Apocalisse al capitolo 12, anche con un'immagine misteriosa, per la quale, mi pare, ci sono tuttavia diverse belle interpretazioni. Viene detto che il dragone mette un grande fiume di acqua contro la donna in fuga per travolgerla. E sembra inevitabile che la donna venga annegata in questo fiume. Ma la buona terra assorbe questo fiume ed esso non può nuocere. Io penso che il fiume sia facilmente interpretabile: sono queste correnti che dominano tutti e che vogliono far scomparire la fede della Chiesa, la quale non sembra più avere posto davanti alla forza di queste correnti che si impongono come l'unica razionalità, come l'unico modo di vivere. E la terra che assorbe queste correnti è la fede dei semplici, che non si lascia travolgere da questi fiumi e salva la Madre e salva il Figlio. Perciò il Salmo dice – il primo salmo dell’Ora Media – la fede dei semplici è la vera saggezza (cfr Ps 118,130). Questa saggezza vera della fede semplice, che non si lascia divorare dalle acque, è la forza della Chiesa. E siamo ritornati al mistero mariano.

E c'è anche un'ultima parola nel Salmo 81, “movebuntur omnia fundamenta terrae” (Ps 81,5), vacillano le fondamenta della terra. Lo vediamo oggi, con i problemi climatici, come sono minacciate le fondamenta della terra, ma sono minacciate dal nostro comportamento. Vacillano le fondamenta esteriori perché vacillano le fondamenta interiori, le fondamenta morali e religiose, la fede dalla quale segue il retto modo di vivere. E sappiamo che la fede è il fondamento, e, in definitiva, le fondamenta della terra non possono vacillare se rimane ferma la fede, la vera saggezza.

E poi il Salmo dice: “Alzati, Signore, e giudica la terra” (Ps 81,8). Così diciamo anche noi al Signore: “Alzati in questo momento, prendi la terra tra le tue mani, proteggi la tua Chiesa, proteggi l'umanità, proteggi la terra”. E affidiamoci di nuovo alla Madre di Dio, a Maria, e preghiamo: “Tu, la grande credente, tu che hai aperto la terra al cielo, aiutaci, apri anche oggi le porte, perché sia vincitrice la verità, la volontà di Dio, che è il vero bene, la vera salvezza del mondo”. Amen





CONCERTO IN ONORE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI OFFERTO DAL MAESTRO ENOCH ZU GUTTENBERG Aula Paolo VI Sabato, 16 ottobre 2010

16100

Signori Cardinali,

Venerati Fratelli,
illustri Signori e Signore!

Al termine di un ascolto così intenso, l’animo vorrebbe sostare in raccoglimento, ma al tempo stesso sente il bisogno di manifestare la riconoscenza.

Sehr herzlich danke ich Maestro Enoch zu Guttenberg für seine bewegenden Worte und für die Darbietung dieses Konzertes, das er mir gemeinsam mit dem wunderbaren Orchester "Die KlangVerwaltung", mit der Chorgemeinschaft Neubeuern und mit der Familie der Freiherren von und zu Guttenberg zum Geschenk gemacht hat. Ihnen, dem Dirigentem dieser Aufführung, wie auch den Solisten und jedem einzelnen Mitglied des Orchesters und des Chors gilt meine Anerkennung. Vielen herzlichen Dank!

[Desidero rivolgere il mio cordiale ringraziamento al Maestro Enoch zu Guttenberg, per le sentite parole che mi ha rivolto e per avermi voluto offrire questo concerto, insieme con la splendida Orchestra Die KlangVerwaltung, con la Chorgemeinschaft Neubeuern e con la Familie der Freiherren von und zu Guttenberg. A lui, che ha diretto l'esecuzione, ai solisti, a ciascuno degli Orchestrali e dei Coristi va il mio grato apprezzamento. Grazie di cuore!]

Sono lieto di salutare i Signori Cardinali, i Presuli, specialmente i Padri sinodali, le distinte Autorità, e tutti voi - tra i quali i poveri assistiti dalla Caritas diocesana di Roma - che avete potuto godere di questa eccellente esecuzione della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi. Egli la compose nel 1873, per la morte di Alessandro Manzoni, che ammirava e quasi venerava. In una lettera si chiede: "Cosa potrei dirvi di Manzoni? Come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me alla presenza di quel Santo, come voi lo chiamate?". Nella mente del grande Compositore, quest’opera doveva essere il culmine e il momento finale della sua produzione musicale; non era solo l’omaggio al grande scrittore, ma anche la risposta ad un’esigenza artistica, interiore e spirituale, che il confronto con la statura umana e cristiana del Manzoni aveva in lui suscitato.

Giuseppe Verdi ha speso l’esistenza a scrutare il cuore dell’uomo; nelle sue opere ha messo in luce il dramma della condizione umana: con la musica, le storie rappresentate, i vari personaggi. Il suo teatro è popolato di infelici, di perseguitati, di vittime. In tante pagine della Messa da Requiem riecheggia questa visione tragica dei destini umani: qui tocchiamo la realtà ineluttabile della morte e la questione fondamentale del mondo trascendente, e Verdi, libero dagli elementi della scena, rappresenta, con le sole parole della Liturgia cattolica e con la musica, la gamma dei sentimenti umani davanti al termine della vita: l’angoscia dell’uomo nel confronto con la propria fragile natura, il senso di ribellione davanti alla morte, lo sgomento alle soglie dell’eternità. Questa musica invita a riflettere sulle realtà ultime, con tutti gli stati d’animo del cuore umano, in una serie di contrasti di forme, toni, coloriti, in cui si alternano momenti drammatici a momenti melodici, segnati da speranza.

Giuseppe Verdi, che, in una famosa lettera all’editore Ricordi, si definiva "un po’ ateo", scrive questa Messa, che ci appare come un grande appello all’Eterno Padre, nel tentativo di superare il grido della disperazione davanti alla morte, per ritrovare l’anelito di vita che diventa silenziosa e accorata preghiera: "Libera me, Domine". Il Requiem verdiano si apre, infatti, con una frase in la minore, che sembra quasi scendere verso il silenzio – poche battute dei violoncelli, pianissimo, con sordina – e si conclude con la sommessa invocazione al Signore "Libera me". Questa cattedrale musicale si rivela come descrizione del dramma spirituale dell’uomo al cospetto di Dio Onnipotente, dell’uomo che non può eludere l’eterno interrogativo sulla propria esistenza.

Dopo la Messa da Requiem, Verdi vivrà una sorta di seconda "stagione compositiva", che si concluderà nuovamente con musica religiosa, i Pezzi Sacri: un segno della sua inquietudine spirituale, un segno che l’anelito verso Dio è iscritto nel cuore dell’essere umano, perché la nostra speranza riposa nel Signore. "Qui Mariam absolvisti, et latronem exaudisti, mihi quoque spem dedisti", abbiamo ascoltato: "Tu che perdonasti Maria (Maddalena) ed esaudisti il buon ladrone, anche a me hai dato speranza". Il grande affresco musicale di stasera rinnova in noi la certezza delle parole di sant’Agostino: "Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te - Il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te" (Confessioni, I, 1).

Liebe Freunde, ein weiteres Mal dürfen wir dem Herrn Dank sagen, daß er uns diesen Augenblick wahrer Schönheit gewährt hat, die unseren Geist zu erheben vermag. Zugleich danken wir all jenen, die sich zu Instrumenten der göttlichen Vorsehung gemacht haben! Herzlichen Dank Ihnen, Herr Professor zu Guttenberg, vielen Dank Ihnen, den Solisten und allen Mitgliedern des Orchesters und des Chors, sowie auch allen, die auf verschiedene Weise zum Gelingen dieses schönen Abends beigetragen haben. Ein herzliches Vergelt’s Gott Ihnen allen.

[Cari amici, ancora una volta dobbiamo ringraziare il Signore che ci ha donato un momento di vera bellezza, capace di elevare il nostro spirito. E al tempo stesso dobbiamo ringraziare anche chi si è fatto strumento della divina Provvidenza! Grazie ancora una volta, pertanto, al Prof. Enoch zu Guttenberg, ai solisti, all’Orchestra e al Coro, e a quanti in diversi modi hanno collaborato alla realizzazione di questa bella serata. Il Signore doni a tutti la sua ricompensa.]

Grazie e buona serata!





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