Discorsi 2005-13 22200

A S.E. LA SIGNORA MAJA MARIA LOVRENCIC SVETEK, NUOVO AMBASCIATORE DI SLOVENIA PRESSO LA SANTA SEDE Venerdì, 22 ottobre 2010

22200

Eccellenza,

ho il vero piacere di riceverLa in questo momento nel quale presenta le Lettere che La accreditano presso la Sede Apostolica in qualità di Ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Repubblica di Slovenia. Esprimo apprezzamento per il deferente attestato delle Autorità civili e per i sentimenti d’affetto dei Suoi compatrioti nei confronti del Successore di Pietro, di cui Ella si è fatta interprete. La prego di porgere il mio saluto al Signor Presidente della Repubblica di Slovenia, Dott. Danilo Türk, così come ai membri del Governo; voglia assicurare tutti i Suoi connazionali del mio affetto e della mia vicinanza.

L’integrazione della Nazione slovena nell’Unione Europea, che si è compiuta in questi anni in modo sempre più organico, ha tra i suoi presupposti fondamentali le comuni radici cristiane del “vecchio continente”. In particolare, ai santi Cirillo e Metodio, instancabili e ardenti missionari nelle regioni centrali dell’Europa, si deve l’annuncio del Vangelo e il radicamento del cristianesimo nell’animo dei popoli slavi. Così, l’ancoraggio della Slovenia ai valori evangelici, che sempre rafforzano l’identità e arricchiscono la cultura di una nazione, ha contribuito in modo importante alla coesione del Paese e ha favorito sentimenti di amicizia con le altre nazioni di quella parte del continente. Guardando alla storia del popolo sloveno, emerge con evidenza l’impronta dei valori morali e spirituali del cristianesimo: infatti, le prime testimonianze della lingua e della letteratura slovene sono manoscritti di preghiere e di altri testi religiosi; ma penso pure alle belle chiese e cappelle che sorgono nel territorio. Questo patrimonio ha costituito, anche nei momenti più difficili e dolorosi, un costante fermento di conforto e di speranza, ed ha sostenuto la Slovenia nel suo cammino verso l’indipendenza, dopo la caduta del regime comunista. In quel periodo, la Santa Sede ha voluto essere particolarmente vicina alla Nazione slovena. Lei, gentile Signora, ha sottolineato che le relazioni tra la Repubblica di Slovenia e la Santa Sede sono state buone fin dall’inizio e continuano ad essere tali ancora oggi. Auspico, pertanto, che in questo contesto possano trovare soluzione tutte le problematiche non ancora risolte con l’Accordo firmato il 14 dicembre 2001.

Nell’esercizio delle prerogative democratiche, la Slovenia ha ottenuto un certo benessere economico, che ha consentito di consolidare la pacifica convivenza civile e sociale. Con compiacimento ho appreso la notizia della recente approvazione della legge riguardante la questione dei cosiddetti “cancellati”, che, in molti casi, si sono trovati in situazioni assai difficili. Si tratta di un importante passo avanti nel tentativo di condurre a soluzione i casi di quanti hanno perduto il diritto alla residenza, al lavoro e all’assistenza sanitaria. Incoraggio a continuare in questa direzione e auspico che si lavori per alleviare le loro sofferenze.

Come Lei, Eccellenza, ha sottolineato poc’anzi, l’impegno per il bene dell’uomo accomuna nella loro azione la Sede Apostolica e la Repubblica di Slovenia. Ella ha giustamente fatto allusione alla presenza attiva della Santa Sede nella vita internazionale e al suo perseverante lavoro teso al riconoscimento della dignità e delle libertà fondamentali di ogni essere umano e alla salvaguardia del diritto di ogni popolo di vivere nella pace. Per questo la Sede Apostolica incoraggia le iniziative assunte nelle sedi internazionali per promuovere la pace e la giustizia, per superare i disaccordi e per intensificare le relazioni costruttive. A questo riguardo, mi piace salutare come un positivo passo il recente ingresso della Slovenia nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, importante testimonianza di apertura e della volontà di collaborare con le altre nazioni. È lodevole tale intento di dedicarsi alle questioni che interessano la comunità internazionale e alle sfide globali. Nei rapporti internazionali, come d’altronde capita anche nei rapporti interpersonali, è di fondamentale importanza ottemperare agli impegni assunti: pacta sunt servanda. E’ mio sincero augurio che la Repubblica di Slovenia possa dare il proprio contributo nei fori internazionali, anche mediante una buona collaborazione con la Santa Sede.

La missione specifica della Chiesa Cattolica, che esercita in terra slovena come in ogni parte del mondo, è quella di annunciare il Vangelo e di portare ad ogni uomo la salvezza che viene dal Signore Gesù. Un segno della vivacità della Chiesa in Slovenia è stato il Congresso Eucaristico Nazionale recentemente celebrato, che ha visto numerosi fedeli radunarsi a Celje assieme ai loro Pastori. Momento culminante di questo evento, presieduto dal mio Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone, è stata la beatificazione del giovane Lojze Grozde, martirizzato in odio alla fede in un periodo molto difficile della storia del Paese. Ulteriori manifestazioni della vitalità della Comunità ecclesiale in terra slovena sono le numerose opere pastorali e caritative presenti nei vari contesti sociali: scuole, ospedali, prigioni, esercito e altre istituzioni. Colgo l’occasione per indirizzare un caloroso saluto a tutti i cattolici del Suo Paese; attraverso le varie iniziative, essi si impegnano ad aiutare tutti ad approfondire il senso spirituale dell’esistenza e desiderano contribuire alla costruzione di una società sempre più giusta e più solidale, nel rispetto delle convinzioni e delle pratiche religiose di ciascuno.

Eccellenza, la Santa Sede ha a cuore di intensificare la collaborazione fruttuosa con le Autorità slovene; nell’osservanza delle rispettive competenze e finalità, desidera proseguire nel comune impegno a perseguire il vero bene di ogni persona e della società. Mentre prende avvio la Sua missione di Rappresentante della Repubblica di Slovenia presso la Santa Sede, Le porgo i miei migliori voti augurali. Nell’esercizio delle Sue funzioni, Ella sia certa di poter trovare sempre presso i miei collaboratori il sostegno attento e la comprensione cordiale di cui avrà bisogno. Su di Lei, gentile Signora, sul popolo sloveno e sui suoi dirigenti, invoco di cuore l’abbondanza delle Benedizioni divine.


A S.E. IL SIGNOR MANUEL TOMÁS FERNANDES PEREIRA, NUOVO AMBASCIATORE DEL PORTOGALLO PRESSO LA SANTA SEDE Venerdì, 22 ottobre 2010

22300

Signor Ambasciatore,

Approfitto di buon grado di questo momento della presentazione delle Lettere Credenziali, con le quali oggi è ufficialmente nominato Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario di Portogallo presso la Santa Sede, per porgerle il benvenuto e, congratulandomi per la sua nomina, per formulare felici voti per la sua nuova missione che si propone quale nuovo contributo alle relazioni di amicizia già esistenti fra il suo paese e questa Sede Apostolica. Come lei ha ricordato nelle sue parole di saluto, la fede e la storia si sono unite per forgiare un vincolo speciale fra il popolo portoghese e il successore di Pietro, un vincolo che è affidato alla responsabilità di ognuna delle generazioni successive e per il quale non dobbiamo mai smettere di rendere grazie a Cristo, Buon Pastore della sua Chiesa e Signore della Storia, degli individui e delle nazioni.

La nobile espressione dei sentimenti che l'animano in questo giorno, certamente molto significativo, merita tutta la mia attenzione. Desidero innanzitutto esprimerle la mia riconoscenza per le parole che mi ha rivolto e poi contraccambiare i sentimenti di stima che il Signor Presidente della Repubblica, Aníbal Cavaco Silva, mi ha fatto pervenire attraverso di Lei, Eccellenza, e le chiedo a mia volta la cortesia di trasmettere al Signor Presidente la mia gratitudine per gli stessi, insieme a incoraggianti voti per la sua alta missione e alla certezza della mia preghiera all'Altissimo per la prosperità e il bene spirituale di tutti i portoghesi.

Mentre mi preparavo all'incontro con lei, Signor Ambasciatore, mi sono tornate in mente le edificanti e felici immagini, che serbo nella memoria e nel cuore, della mia visita in Portogallo lo scorso mese di maggio; ancora una volta desidero ringraziare tutti per il contributo dato per il sereno e fecondo svolgimento di tale visita, effetto ampiamente ottenuto come attestano gli innumerevoli messaggi relativi a quei giorni memorabili che mi sono pervenuti. Non dimenticherò mai l'accoglienza calorosa che mi è stata riservata, e anche il modo gentile e rispettoso con cui le mie parole sono state accolte. Ritengo che tutto ciò abbia anche un'importanza sociale: laddove la società cresce e le persone si rafforzano nel bene grazie al messaggio della fede, anche la convivenza sociale ne trae beneficio e i cittadini si sentono più disponibili a servire il bene comune.
Con la sua presenza nel forum internazionale, la Santa Sede mette tutto il suo impegno nel servire la causa della promozione integrale dell'uomo e dei popoli. Dovrebbe essere convinzione di tutti che gli ostacoli a tale promozione non sono solo di ordine economico, ma dipendono anche da atteggiamenti e valori più profondi: i valori morali e spirituali che determinano il comportamento di ogni essere umano verso se stesso, gli altri e l'intero creato. La sua presenza, Signor Ambasciatore, in questo luogo testimonia la volontà del Portogallo di dare un posto importante a tali valori, senza i quali una società non si può stabilire in modo duraturo.

Quando la Chiesa, nel suo Paese, promuove la consapevolezza che questi stessi valori devono ispirare la vita pubblica e privata, lo fa non per ambizioni politiche, ma per essere fedele alla missione che il suo divino Fondatore le ha affidato. Dato che la Chiesa, con le parole del Concilio Vaticano ii, "non è legata ad alcuna particolare forma di cultura, o sistema politico, economico, o sociale, per questa sua universalità può costituire un legame strettissimo fra le diverse comunità umane e nazioni, perché queste abbiano fiducia in lei e le riconoscano di fatto una versa libertà per il compimento della sua missione" (Costituzione Gaudium et spes
GS 42). Essa non rappresenta modelli parziali o passeggeri di società, ma tende alla trasformazione dei cuori e delle menti, affinché l'uomo possa riscoprirsi e riconoscersi nella verità piena della sua umanità. Essendo la sua missione di natura morale e religiosa, la Chiesa rispetta l'area specifica di responsabilità dello Stato. Allo stesso tempo incoraggia i cristiani ad assumersi pienamente le loro responsabilità come cittadini affinché, insieme agli altri, contribuiscano efficacemente al bene comune e alle grandi cause dell'uomo.

Da una rispettosa collaborazione e da una leale intesa fra la Chiesa e il potere civile potranno derivare solo benefici per la società portoghese. Animato da questa speranza, sei anni fa, nasceva il nuovo Concordato fra la Santa Sede e il Portogallo, che lei, Signor Ambasciatore, ha ricordato. In quella occasione, Papa Giovanni Paolo II vide in quello strumento giuridico la conferma dei "sentimenti di mutua stima che animano le relazioni reciproche", e formulò voti affinché il nuovo Concordato potesse "favorire un'intesa sempre più grande fra le Autorità dello Stato e i Pastori della Chiesa per il bene comune della Nazione" (L'Osservatore Romano, ed. portoghese del 22/v/2004, 253). Signor Ambasciatore, l'ho ascoltata con gioia riferirsi al desiderio di incoraggiare gli sforzi che si stanno compiendo per una completa e fedele applicazione del Concordato nei diversi campi della Chiesa cattolica e della società portoghese.

Prima di concludere questo incontro, desidero assicurarla, Signor Ambasciatore, della piena collaborazione e del sostegno della Santa Sede nello svolgimento dell'alta missione che le è stata affidata. Per intercessione di Nostra Signora di Fatima, chiedo al buon Dio del Cielo di assistere, con l'abbondanza dei suoi doni, Vostra Eccellenza e la sua distinta famiglia, quanti servono il bene comune della Nazione portoghese e tutto il suo popolo, al quale imparto la mia Benedizione.




PRANZO CON I PADRI DELL'ASSEMBLEA SPECIALE PER IL MEDIO ORIENTE DEL SINODO DEI VESCOVI Atrio dell'Aula Paolo VI Sabato, 23 ottobre 2010

23100

Cari amici,

secondo una bella tradizione creata da Papa Giovanni Paolo II, i Sinodi si concludono con un pranzo, un atto conviviale che si iscrive bene anche nel clima di questo Sinodo, che parla della comunione: non solo ne ha parlato, ma ci ha fatto realizzare la comunione.

Questo per me è il momento di dire grazie. Grazie al Segretario generale del Sinodo e al suo staff, che hanno preparato e stanno preparando anche il seguito dei lavori. Grazie ai Presidenti delegati, grazie soprattutto al Relatore e al Segretario aggiunto, che hanno fatto un lavoro incredibile. Grazie! Anch’io una volta sono stato relatore nel Sinodo sulla famiglia e posso un po’ immaginare quale lavoro avete fatto. Grazie pure a tutti i Padri che hanno presentato la voce della Chiesa in Oriente, agli Uditori, ai Delegati fraterni, a tutti!

Comunione e testimonianza. In questo momento ringraziamo il Signore per la comunione che ci ha donato e ci dona. Abbiamo visto la ricchezza, la diversità di questa comunione. Siete Chiese di riti diversi, che formano, tuttavia, insieme con tutti gli altri riti, l’unica Chiesa cattolica. E’ bello vedere questa vera cattolicità, che è così ricca di diversità, così ricca di possibilità, di culture diverse; e, tuttavia, proprio così cresce la polifonia di un’unica fede, di una vera comunione dei cuori, che solo il Signore può dare. Per questa esperienza della comunione ringraziamo il Signore, ringrazio tutti voi. Mi sembra forse questo il dono più importante del Sinodo che abbiamo vissuto e realizzato: la comunione che ci collega a tutti e che è anche in sé testimonianza.

Comunione. La comunione cattolica, cristiana, è una comunione aperta, dialogale. Così eravamo anche in permanente dialogo, interiormente ed esteriormente, con i fratelli ortodossi, con le altre Comunità ecclesiali. E abbiamo sentito che proprio in questo siamo uniti - anche se ci sono divisioni esteriori: abbiamo sentito la profonda comunione nel Signore, nel dono della sua Parola, della sua vita, e speriamo che il Signore ci guidi per avanzare in questa comunione profonda.

Noi siamo uniti col Signore e così - possiamo dire - siamo “trovati” dalla verità. E questa verità non chiude, non pone confini, ma apre. Perciò eravamo anche in dialogo franco e aperto con i fratelli musulmani, con i fratelli ebrei, tutti insieme responsabili per il dono della pace, per la pace proprio in questa parte della terra benedetta dal Signore, culla del cristianesimo e anche delle due altre religioni. Vogliamo continuare in questo cammino con forza, tenerezza e umiltà, e con il coraggio della verità che è amore e che nell’amore si apre.

Ho detto che concludiamo questo Sinodo con il pranzo. Ma la vera conclusione domani è la convivialità col Signore, la celebrazione dell’Eucaristia. L’Eucaristia, in realtà, non è una conclusione ma un’apertura. Il Signore cammina con noi, è con noi, il Signore ci mette in movimento. E così, in questo senso, siamo in Sinodo, cioè in un cammino che continua anche dispersi: siamo in Sinodo, in un cammino comune. Preghiamo il Signore che ci aiuti. E grazie a voi tutti!




AI PARTECIPANTI AL SIMPOSIO INTERNAZIONALE SU ERIK PETERSON Lunedì, 25 ottobre 2010

25100
Eminenze,
cari fratelli nel sacerdozio,
gentili Signore e Signori,
cari amici,

con grande gioia saluto tutti Voi che siete venuti qui a Roma in occasione del Simposio internazionale su Erik Peterson. In particolare ringrazio Lei, caro Cardinale Lehmann, per le cordiali parole con cui ha introdotto il nostro incontro.

Come Lei ha affermato, quest’anno ricorrono i 120 anni dalla nascita ad Amburgo di questo illustre teologo; e, quasi in questo stesso giorno di 50 anni fa, il 26 ottobre 1960, Erik Peterson moriva, sempre nella sua città natale di Amburgo. Egli ha abitato qui a Roma, con la sua famiglia, per alcuni periodi a partire dal 1930 e poi vi si è stabilito dal 1933: prima sull’Aventino, vicino a Sant’Anselmo, e, successivamente, nei pressi del Vaticano, in una casa di fronte a Porta Sant’Anna. Per questo, è per me una gioia particolare poter salutare la famiglia Peterson presente tra noi, le stimate figlie e il figlio con le rispettive famiglie. Nel 1990, insieme con il Cardinale Lehmann, ho potuto consegnare a Vostra madre, nel vostro comune appartamento, in occasione del suo 80° compleanno, un autografo con l’immagine di Papa Giovanni Paolo II, e ricordo volentieri questo incontro con Voi.

“Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (
He 13,14). Questa citazione dalla Lettera agli Ebrei, si potrebbe porre come motto della vita di Erik Peterson. In realtà, egli non ha trovato un vero posto in tutta la sua vita, dove poter ottenere riconoscimento e stabile dimora. L’inizio della sua attività scientifica cade in un periodo di rivolgimenti nella Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. La monarchia era crollata. L’ordine civile sembrava a rischio di fronte agli sconvolgimenti politici e sociali. Ciò si rifletteva anche nell’ambito religioso, e, in modo particolare, nel protestantesimo tedesco. La teologia liberale fino ad allora predominante, con il proprio ottimismo nel progresso, era entrata in crisi e lasciava spazio a nuove spinte teologiche in contrasto tra loro. La situazione contemporanea poneva un problema esistenziale al giovane Peterson. Con interesse sia storico che teologico, egli aveva già scelto la materia dei suoi studi, come afferma, secondo la prospettiva “che quando rimaniamo soli con la storia umana, ci troviamo davanti ad un enigma senza senso” (Eintrag in das Bonner „Album Professorum“ 1926/27, Ausgewählte Schriften, Sonderband S. 111). Peterson, lo cito di nuovo, decise di “lavorare in campo storico e di affrontare specialmente problemi di storia delle religioni”, perché nella teologia evangelica di allora egli non riusciva “a farsi strada, nel folto delle opinioni, fino alle cose in se stesse” (ibid.). In questo cammino giunse sempre di più alla certezza che non c’è alcuna storia staccata da Dio e che in questa storia la Chiesa ha un posto speciale e trova il suo significato. Cito di nuovo: “Che la Chiesa c’è e che essa è costituita in un modo tutto particolare, dipende strettamente dal fatto che (…) c’è una determinata storia specificamente teologica” (Vorlesung „Geschichte der Alten Kirche“ Bonn 1928, Ausgewählte Schriften, Sonderband S.88). La Chiesa riceve da Dio il mandato di condurre gli uomini dalla loro esistenza limitata e isolata ad una comunione universale, dal naturale al soprannaturale, dalla fugacità al compimento alla fine dei tempi. Nel bel libretto sugli Angeli afferma in proposito: “Il cammino della Chiesa conduce dalla Gerusalemme terrestre a quella celeste, (…) alla città degli Angeli e dei Santi” (Buch von den Engeln, Einleitung).

Il punto di partenza di questo cammino è il carattere vincolante della Sacra Scrittura. Secondo Peterson, la Sacra Scrittura diventa ed è vincolante non in quanto tale, essa non sta solo in se stessa, ma nell’ermeneutica della Tradizione apostolica, che, a sua volta, si concretizza nella successione apostolica e così la Chiesa mantiene la Scrittura in un’attualità viva e contemporaneamente la interpreta. Attraverso i Vescovi, che si trovano nella successione apostolica, la testimonianza della Scrittura rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni di fede permanentemente valide della Chiesa, che incontriamo innanzitutto nel credo e nel dogma. Tali convinzioni si dispiegano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio. L’Ufficio divino celebrato sulla terra si trova, quindi, in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste: là è offerto a Dio e all’Agnello il vero ed eterno sacrifico di lode, di cui la celebrazione terrena è solamente immagine. Chi partecipa alla Santa Messa si ferma quasi alla soglia della sfera celeste, dalla quale contempla il culto che si compie tra gli Angeli e i Santi. In qualsiasi luogo in cui la Chiesa terrestre intona la sua lode eucaristica, essa si unisce a questa festosa assemblea celeste, nella quale, nei Santi, è già arrivata una parte di se stessa, e dà speranza a quanti sono ancora in cammino su questa terra verso il compimento eterno.

Forse è questo il punto, in cui devo inserire una riflessione personale. Ho scoperto per la prima volta la figura di Erik Peterson nel 1951. Allora ero Cappellano a Bogenhausen e il direttore della locale casa editrice Kösel, il signor Wild, mi diede il volume, appena pubblicato, «Theologische Traktate» (Trattati teologici). Lo lessi con curiosità crescente e mi lasciai davvero appassionare da questo libro, perché lì c’era la teologia che cercavo: una teologia, che impiega tutta la serietà storica per comprendere e studiare i testi, analizzandoli con tutta la serietà della ricerca storica, e che non li lascia rimanere nel passato, ma che, nella sua investigazione, partecipa all’autosuperamento della lettera, entra in questo autosuperamento e si lascia condurre da esso e così viene in contatto con Colui dal quale la teologia stessa proviene: con il Dio vivente. E così lo iato tra il passato, che la filologia analizza, e l’oggi è superato di per se stesso, perché la parola conduce all’incontro con la realtà, e l’attualità intera di quanto è scritto, che trascende se stesso verso la realtà, diventa viva e operante. Così, da lui ho imparato, in modo più essenziale e profondo, che cosa sia realmente la teologia e ho provato perfino ammirazione, perché qui non si dice solo ciò che si pensa, ma questo libro è espressione di un cammino, che era la passione della sua vita.

Paradossalmente, proprio lo scambio di lettere con Harnack esprime al massimo l’improvvisa attenzione, che Peterson stava ricevendo. Harnack ha confermato, anzi aveva scritto già precedentemente e indipendentemente, che il principio formale cattolico secondo cui «la Scrittura vive nella Tradizione e la Tradizione vive nella forma vivente della Successione», è il principio originario e oggettivo e che il «sola Scriptura» non funziona. Peterson ha colto questa affermazione del teologo liberale in tutta la sua serietà e da questa si è fatto scuotere, sconvolgere, piegare, trasformare e così ha trovato la via alla conversione. E con ciò, ha compiuto veramente un passo come Abramo, secondo quanto abbiamo ascoltato all’inizio dalla Lettera agli Ebrei: “Non abbiamo quaggiù una città stabile”. Egli è passato dalla sicurezza di una cattedra all’incertezza, senza dimora, ed è rimasto per tutta la vita privo di una base sicura e senza una patria certa, veramente in cammino con la fede e per la fede, nella fiducia che in questo essere in cammino senza dimora era a casa in un altro modo e si avvicinava sempre più alla liturgia celeste, che lo aveva toccato.

Da tutto questo si comprende che molte cose pensate e scritte da Peterson sono rimaste frammentarie a causa della situazione precaria della sua vita, dopo la perdita dell’insegnamento, in seguito alla sua conversione. Ma pur dovendo vivere senza la sicurezza di uno stipendio fisso, si sposò qui a Roma e costituì una famiglia. Con ciò egli ha espresso in modo concreto la sua convinzione interiore che noi, sebbene stranieri - e lui lo era in modo particolare - troviamo tuttavia un sostegno nella comunione dell’amore, e che nell’amore stesso vi è qualcosa che dura per l’eternità. Egli ha vissuto questo essere straniero del cristiano. Era divenuto straniero nella teologia evangelica ed è rimasto straniero anche nella teologia cattolica, come era allora. Oggi sappiamo che egli appartiene a entrambe, che entrambe devono imparare da lui tutto il dramma, il realismo e l’esigenza esistenziale e umana della teologia. Erik Peterson, come ha affermato il Cardinale Lehmann, è stato certamente apprezzato e amato da molti, un autore raccomandato in una cerchia ristretta, ma non ha ricevuto il riconoscimento scientifico che avrebbe meritato; sarebbe stato, in qualche modo, troppo presto. Come ho detto, lui era qui e là [nella teologia cattolica e in quella evangelica] uno straniero. Quindi non si potrà mai lodare abbastanza il Cardinale Lehmann per aver preso l’iniziativa di pubblicare le opere di Peterson in una magnifica edizione completa, e la signora Nichtweiß, alla quale ha affidato questo compito, che ella svolge con ammirevole competenza. Così l’attenzione che gli viene rivolta attraverso questa edizione è più che giusta, considerando che ora varie opere sono state anche tradotte in italiano, francese, spagnolo, inglese, ungherese e perfino in cinese. Auspico che con questo sia diffuso ulteriormente il pensiero di Peterson, che non si ferma nei dettagli, ma che ha sempre una visione dell’insieme della teologia.

Di cuore ringrazio tutti i presenti per essere venuti. Il mio ringraziamento particolare agli organizzatori di questo Simposio, soprattutto al Cardinale Farina, il Patrono di questo evento, e al Dottor Giancarlo Caronello. Volentieri rivolgo i miei migliori auguri per una discussione interessante e stimolante nello spirito di Erik Peterson. Aspetto abbondanti frutti da tale Convegno, e imparto a tutti Voi e a quanti Vi stanno a cuore la Benedizione Apostolica.




AI VESCOVI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DEL BRASILE (REGIONE NORDESTE V) IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM» Giovedì, 28 ottobre 2010

28100

Amati Fratelli nell'Episcopato,

"Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo" (
2Co 1,2). Desidero innanzitutto ringraziare Dio per il vostro zelo e per la vostra dedizione a Cristo e alla sua Chiesa che cresce nel regionale Nordeste 5. Leggendo le vostre relazioni, mi sono potuto rendere conto dei problemi di carattere religioso e pastorale, oltre che umano e sociale, con i quali vi dovete misurare ogni giorno. Il quadro generale ha le sue ombre, ma ha anche segnali di speranza, come monsignor Xavier Gilles mi ha appena riferito nel saluto che mi ha rivolto, esprimendo i sentimenti di tutti voi e del vostro popolo.

Come sapete, negli incontri che si sono succeduti con i diversi regionali della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, ho sottolineato i diversi ambiti e i rispettivi fattori del multiforme servizio evangelizzatore e pastorale della Chiesa nella vostra grande nazione; oggi vorrei parlarvi di come la Chiesa, nella sua missione di fecondare e di fermentare la società umana con il Vangelo, insegna all'uomo la sua dignità di figlio di Dio e la sua vocazione all'unione con tutti gli uomini, dalle quali derivano le esigenze della giustizia e della pace sociale, conformemente alla sapienza divina.
Intanto il dovere immediato di lavorare per un ordine sociale giusto è proprio dei fedeli laici che, come cittadini liberi e responsabili, s'impegnano a contribuire alla retta configurazione della vita sociale, nel rispetto della sua legittima autonomia e dell'ordine morale naturale (cfr. Deus caritas est ). Il vostro dovere come vescovi, insieme al vostro clero, è mediato, in quanto vi compete contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali necessarie per la costruzione di una società giusta e fraterna. Quando però i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo esigono, i pastori hanno il grave dovere di emettere un giudizio morale, persino in materia politica (cfr. Gaudium et spes GS 76).

Nel formulare tali giudizi, i pastori devono tener conto del valore assoluto di quei precetti morali negativi che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una determinata azione intrinsecamente cattiva e incompatibile con la dignità della persona; tale scelta non può essere riscattata dalla bontà di nessun fine, intenzione, conseguenza o circostanza. Pertanto, sarebbe totalmente falsa e illusoria qualsiasi difesa dei diritti umani politici, economici e sociali che non comprendesse l'energica difesa del diritto alla vita dal concepimento fino alla morte naturale (cfr. Christifideles laici CL 38). Inoltre, nel quadro dell'impegno a favore dei più deboli e dei più indifesi, chi è più inerme di un nascituro o di un malato in stato vegetativo o terminale? Quando i progetti politici contemplano, in modo aperto o velato, la decriminalizzazione dell'aborto o dell'eutanasia, l'ideale democratico - che è solo veramente tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana - è tradito nei suoi fondamenti (cfr. Evangelium vitae EV 74). Pertanto, cari Fratelli nell'episcopato, nel difendere la vita "non dobbiamo temere l'ostilità e l'impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di questo mondo" (Ibidem, n. 82).

Inoltre, per aiutare meglio i laici a vivere il loro impegno cristiano e socio-politico in modo unitario e coerente, come vi ho detto ad Aparecida, è "necessaria una catechesi sociale ed un'adeguata formazione nella dottrina sociale della Chiesa, essendo molto utile per ciò il Compendio della dottrina sociale della Chiesa". (Discorso inaugurale della V Conferenza generale dell'Episcopato dell'America Latina e dei Caraibi, n. 3). Ciò significa anche che, in determinate occasioni, i pastori devono pure ricordare a tutti i cittadini il diritto, che è anche un dovere, di usare liberamente il proprio voto per la promozione del bene comune (cfr. Gaudium et spes GS 75).
Su questo punto politica e fede s'incontrano. La fede ha, senza dubbio, la natura specifica di incontro con il Dio vivo che apre nuovi orizzonti ben al di là dell'ambito proprio della ragione. "Senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall'ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana" (Viaggio apostolico nel Regno Unito, Incontro con le autorità civili, 17-IX- 2010).

Una società può essere costruita solo rispettando, promuovendo e insegnando instancabilmente la natura trascendente della persona umana. Così Dio deve trovare "un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica" (Caritas in veritate ). Per questo, amati Fratelli, unisco la mia voce alla vostra in un vivo appello a favore dell'educazione religiosa, e più concretamente dell'insegnamento confessionale e diversificato della religione, nella scuola pubblica statale.

Desidero anche ricordare che la presenza di simboli religiosi nella vita pubblica è allo stesso tempo memoria della trascendenza dell'uomo e garanzia del suo rispetto. Essi hanno un valore particolare nel caso del Brasile, dove la religione cattolica è parte integrante della sua storia. Come non pensare in questo momento all'immagine di Gesù Cristo con le braccia tese sulla baia di Guanabara che rappresenta l'ospitalità e l'amore con cui il Brasile ha sempre saputo aprire le sue braccia a uomini e donne perseguitati e bisognosi provenienti da tutto il mondo? Fu in questa presenza di Gesù nella vita brasiliana che essi s'integrarono armoniosamente nella società, contribuendo all'arricchimento della cultura, alla crescita economica e allo spirito di solidarietà e di libertà.

Amati Fratelli, affido alla Madre di Dio e Nostra Madre, invocata in Brasile con il titolo di Nossa Senhora Aparecida, questi auspici della Chiesa cattolica nella Terra della Santa Croce e di tutti gli uomini di buona volontà in difesa dei valori della vita umana e della sua trascendenza, insieme con le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne della provincia ecclesiastica del Maranhão. Affido tutti alla Sua materna protezione e a voi e al vostro popolo imparto la mia benedizione apostolica.





Discorsi 2005-13 22200