Discorsi 2005-13 14010

AGLI AMMINISTRATORI DELLA REGIONE LAZIO DEL COMUNE E DELLA PROVINCIA DI ROMA Sala Clementina Giovedì, 14 gennaio 2010

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Illustri Signori e Gentili Signore!

Sono lieto di incontrarvi in questo tradizionale appuntamento, che ci offre l’occasione di scambiarci cordiali auguri per il nuovo anno e di riflettere sulla realtà del nostro territorio, nel quale da 2000 anni è presente il Successore di Pietro, come Vescovo di Roma e Arcivescovo metropolita della Provincia ecclesiastica romana, che comprende l’intero Lazio. Vi sono grato per questa visita e porgo il mio deferente e cordiale saluto al Vice Presidente della Giunta Regionale del Lazio, On. Esterino Montino, al Sindaco di Roma, On. Gianni Alemanno, ed al Presidente della Provincia di Roma, On. Nicola Zingaretti, ai quali desidero esprimere il mio vivo ringraziamento per le cortesi parole che mi hanno rivolto anche a nome delle Amministrazioni che essi guidano. Con loro, saluto i Presidenti delle rispettive Assemblee Consiliari e tutti i presenti.

La crisi che ha investito l'economia mondiale – come è stato ricordato - ha avuto conseguenze anche per gli abitanti e le imprese di Roma e del Lazio. Allo stesso tempo, essa ha offerto la possibilità di ripensare il modello di crescita perseguito in questi ultimi anni. Nell’Enciclica Caritas in veritate ho ricordato che lo sviluppo umano per essere autentico deve riguardare l'uomo nella sua totalità e deve realizzarsi nella carità e nella verità. La persona umana, infatti, è al centro dell'azione politica e la sua crescita morale e spirituale deve essere la prima preoccupazione per coloro che sono stati chiamati ad amministrare la comunità civile. È fondamentale che quanti hanno ricevuto dalla fiducia dei cittadini l'alta responsabilità di governare le istituzioni avvertano come prioritaria l'esigenza di perseguire costantemente il bene comune, che “non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene” (Caritas in veritate ). Affinché ciò avvenga, è opportuno che nelle sedi istituzionali si cerchi di favorire una sana dialettica perché quanto più le decisioni e i provvedimenti saranno condivisi tanto più essi permetteranno un efficace sviluppo per gli abitanti dei territori amministrati.

In tale contesto, desidero esprimere apprezzamento per gli sforzi compiuti da codeste Amministrazioni per venire incontro alle fasce più deboli ed emarginate della società, in vista della promozione di una convivenza più giusta e solidale. Al riguardo, vorrei invitarvi a porre ogni cura perché la centralità della persona umana e della famiglia costituiscano il principio ispiratore di ogni vostra scelta. Ad esso, in particolare, occorre far riferimento nella realizzazione dei nuovi insediamenti della città, perché i complessi abitativi che vanno sorgendo non siano solo quartieri dormitorio. A tal fine, è opportuno che siano previste quelle strutture che favoriscono i processi di socializzazione, evitando così che sorga e si incrementi la chiusura nell'individualismo e l'attenzione esclusiva ai propri interessi, dannose per ogni convivenza umana. Rispettando le competenze delle autorità civili, la Chiesa è lieta di offrire il proprio contributo perché in questi quartieri ci sia una vita sociale degna dell'uomo. So che in diverse zone periferiche della città ciò è già avvenuto, grazie all’impegno dell’Amministrazione Comunale per la realizzazione di importanti opere, ed auspico che tali esigenze siano tenute presenti dovunque. Sono grato per la consolidata collaborazione esistente fra le Amministrazioni da voi guidate e il Vicariato, in particolare per quanto concerne la costruzione dei nuovi complessi parrocchiali, che, oltre ad essere punti di riferimento per la vita cristiana, svolgono anche una fondamentale funzione educativa e sociale.

Tale collaborazione ha permesso di raggiungere significativi obiettivi. Al riguardo, mi piace ricordare che in alcuni nuovi quartieri, dove vivono in particolare giovani famiglie con bambini piccoli, le comunità ecclesiali, consapevoli che l'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo umano (cfr Ibid., 28), hanno realizzato gli “oratori dei piccoli”. Tali utili strutture permettono ai bambini di trascorrere le ore della giornata, mentre i genitori sono al lavoro. Confido che una sempre più feconda sinergia fra le diverse istituzioni permetta il sorgere nelle zone periferiche, come anche nel resto della città, di analoghe strutture che aiutino i giovani genitori nel loro compito educativo. Auspico, altresì, che possano essere adottati anche ulteriori provvedimenti in favore delle famiglie, in particolare di quelle numerose, in modo che l'intera città goda dell'insostituibile funzione di questa fondamentale istituzione, prima e indispensabile cellula della società.

All’interno della promozione del bene comune, l'educazione delle nuove generazioni, che costituiscono il futuro della nostra Regione, rappresenta una preoccupazione predominante che gli Amministratori della cosa pubblica condividono con la Chiesa e con tutte le organizzazioni formative. Da alcuni anni la Diocesi di Roma e quelle del Lazio sono impegnate a offrire il loro contributo per far fronte alle istanze sempre più urgenti che pervengono dal mondo giovanile e che chiedono risposte educative adeguate di alto profilo. È davanti agli occhi di tutti la necessità e l'urgenza di aiutare i giovani a progettare la vita sui valori autentici, che fanno riferimento ad una visione “alta” dell’uomo e che trovano nel patrimonio religioso e culturale cristiano una delle sue espressioni più sublimi. Oggi le nuove generazioni chiedono di sapere chi sia l'uomo e quale sia il suo destino e cercano risposte capaci di indicare loro la strada da percorrere per fondare l’esistenza sui valori perenni. In particolare, nelle proposte formative circa i grandi temi dell'affettività e della sessualità, così importanti per la vita, occorre evitare di prospettare agli adolescenti e ai giovani vie che favoriscono la banalizzazione di queste fondamentali dimensioni dell'esistenza umana. A tale scopo, la Chiesa chiede la collaborazione di tutti, in particolare di quanti operano nella scuola, per educare a una visione alta dell’amore e della sessualità umana. Desidero, a tal proposito, invitare tutti a comprendere che, nel pronunciare i suoi no, la Chiesa in realtà dice dei alla vita, all’amore vissuto nella verità del dono di sé all’altro, all'amore che si apre alla vita e non si chiude in una visione narcisistica della coppia. Essa è convinta che soltanto tali scelte possano condurre ad un modello di vita, nel quale la felicità è un bene condiviso. Su questi temi, come anche su quelli della famiglia fondata sul matrimonio e sul rispetto della vita dal suo concepimento fino al suo termine naturale, la comunità ecclesiale non può che essere fedele alla verità “che, sola, è garanzia di libertà e della possibilità di uno sviluppo umano integrale” (Ibid., 9).

Infine, non posso non esortare le autorità competenti ad un’attenzione costante e coerente al mondo della malattia e della sofferenza. Le strutture sanitarie, così numerose a Roma e nel Lazio, che offrono un importante servizio alla comunità, siano luoghi nei quali si incontrano sempre più gestione attenta e responsabile della cosa pubblica, competenze professionali e dedizione generosa verso il malato, la cui accoglienza e cura, devono essere il criterio sommo di quanti operano in tale ambito. Roma e il Lazio, accanto alle strutture sanitarie pubbliche, vedono da secoli la presenza di quelle di ispirazione cattolica, che operano a favore di ampie fasce della popolazione. In esse si cerca di coniugare la competenza professionale e l’attenzione al malato con la verità e la carità di Cristo. Infatti, ispirandosi al Vangelo, esse si sforzano di accostarsi alle persone sofferenti con amore e speranza, sostenendo anche la ricerca di senso e cercando di fornire risposte agli interrogativi che inevitabilmente sorgono nei cuori di quanti vivono la difficile dimensione della malattia e del dolore. L’uomo ha, infatti, bisogno di essere curato nella sua unità di essere spirituale e corporale. Confido pertanto che, nonostante le persistenti difficoltà economiche, tali strutture possano essere adeguatamente sostenute nel loro prezioso servizio.

Gentili Autorità, mentre esprimo la mia viva gratitudine per la cortese e gradita visita, assicuro la mia cordiale vicinanza e la mia preghiera per voi, per le alte responsabilità che vi sono state affidate e per gli abitanti delle realtà che amministrate. Il Signore vi sostenga, vi guidi e dia compimento alle attese di bene presenti nel cuore di ciascuno.

Con tali sentimenti, con affetto e benevolenza imparto la Benedizione Apostolica, estendendola di cuore alle vostre famiglie e a quanti vivono ed operano a Roma, nella sua provincia e nell’intero Lazio.






AI PARTECIPANTI ALL'ASSEMBLEA PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE Sala Clementina Venerdì, 15 gennaio 2010

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Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
Carissimi fedeli collaboratori,

è per me motivo di grande gioia incontrarvi in occasione della Sessione Plenaria e manifestarvi i sentimenti di profonda riconoscenza e di cordiale apprezzamento per il lavoro che svolgete al servizio del Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede (cfr
Lc 22,32).

Ringrazio il Signor Cardinale William Joseph Levada per il suo indirizzo di saluto, nel quale ha richiamato le tematiche che impegnano attualmente la Congregazione, nonché le nuove responsabilità che il Motu ProprioEcclesiae Unitatem” le ha affidato, unendo in modo stretto al Dicastero la Pontificia Commissione Ecclesia Dei.

Vorrei ora brevemente soffermarmi su alcuni aspetti che Ella, Signor Cardinale, ha esposto.

Anzitutto, desidero sottolineare come la Vostra Congregazione partecipi del ministero di unità, che è affidato, in special modo, al Romano Pontefice, mediante il suo impegno per la fedeltà dottrinale. L’unità è infatti primariamente unità di fede, sostenuta dal sacro deposito, di cui il Successore di Pietro è il primo custode e difensore. Confermare i fratelli nella fede, tenendoli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto costituisce per colui che siede sulla Cattedra di Pietro il primo e fondamentale compito conferitogli da Gesù. È un inderogabile servizio dal quale dipende l’efficacia dell’azione evangelizzatrice della Chiesa fino alla fine dei secoli.

Il Vescovo di Roma, della cui potestas docendi partecipa la Vostra Congregazione, è tenuto costantemente a proclamare: “Dominus Iesus” - “Gesù è il Signore”. La potestas docendi, infatti, comporta l’obbedienza alla fede, affinché la Verità che è Cristo continui a risplendere nella sua grandezza e a risuonare per tutti gli uomini nella sua integrità e purezza, così che vi sia un unico gregge, radunato attorno all’unico Pastore.

Il raggiungimento della comune testimonianza di fede di tutti i cristiani costituisce pertanto la priorità della Chiesa di ogni tempo, al fine di condurre tutti gli uomini all’incontro con Dio. In questo spirito confido in particolare nell’impegno del Dicastero perché vengano superati i problemi dottrinali che ancora permangono per il raggiungimento della piena comunione con la Chiesa da parte della Fraternità S. Pio X.

Desidero inoltre rallegrarmi per l’impegno in favore della piena integrazione di gruppi di fedeli e di singoli, già appartenenti all’Anglicanesimo, nella vita della Chiesa Cattolica, secondo quanto stabilito nella Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus. La fedele adesione di questi gruppi alla verità ricevuta da Cristo e proposta dal Magistero della Chiesa non è in alcun modo contraria al movimento ecumenico, ma mostra, invece, il suo ultimo scopo che consiste nel giungere alla piena e visibile comunione dei discepoli del Signore.

Nel prezioso servizio che rendete al Vicario di Cristo, mi preme ricordare anche come la Congregazione per la Dottrina della Fede nel settembre 2008 ha pubblicato l’Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di bioetica. Dopo l'Enciclica Evangelium vitae del Servo di Dio Giovanni Paolo II nel marzo 1995, questo documento dottrinale, centrato sul tema della dignità della persona, creata in Cristo e per Cristo, rappresenta un nuovo punto fermo nell’annuncio del Vangelo, in piena continuità con l’Istruzione Donum vitae, pubblicata da codesto Dicastero nel febbraio 1987.

In temi tanto delicati ed attuali, quali quelli riguardanti la procreazione e le nuove proposte terapeutiche che comportano la manipolazione dell’embrione e del patrimonio genetico umano, l’Istruzione ha ricordato che “il valore etico della scienza biomedica si misura con il riferimento sia al rispetto incondizionato dovuto ad ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, sia alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita” (Istr. Dignitas personae, n. 10). In tal modo il Magistero della Chiesa intende offrire il proprio contributo alla formazione della coscienza non solo dei credenti, ma di quanti cercano la verità e intendono dare ascolto ad argomentazioni che vengono dalla fede ma anche dalla stessa ragione. La Chiesa, nel proporre valutazioni morali per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge infatti alla luce sia della ragione che della fede (cfr Ibid., n. 3), in quanto è sua convinzione che “ciò che è umano non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato” (Ibid., n. 7).

In questo contesto viene altresì data una risposta alla mentalità diffusa, secondo cui la fede è presentata come ostacolo alla libertà e alla ricerca scientifica, perché sarebbe costituita da un insieme di pregiudizi che vizierebbero la comprensione oggettiva della realtà. Di fronte a tale atteggiamento, che tende a sostituire la verità con il consenso, fragile e facilmente manipolabile, la fede cristiana offre invece un contributo veritativo anche nell’ambito etico-filosofico, non fornendo soluzioni precostituite a problemi concreti, come la ricerca e la sperimentazione biomedica, ma proponendo prospettive morali affidabili all’interno delle quali la ragione umana può ricercare e trovare valide soluzioni.

Vi sono, infatti, determinati contenuti della rivelazione cristiana che gettano luce sulle problematiche bioetiche: il valore della vita umana, la dimensione relazionale e sociale della persona, la connessione tra l’aspetto unitivo e quello procreativo della sessualità, la centralità della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna. Questi contenuti, iscritti nel cuore dell’uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale e possono riscuotere accoglienza anche da coloro che non si riconoscono nella fede cristiana.

La legge morale naturale non è esclusivamente o prevalentemente confessionale, anche se la Rivelazione cristiana e il compimento dell’uomo nel mistero di Cristo ne illumina e sviluppa in pienezza la dottrina. Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, essa “indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale” (n. 1955). Fondata nella stessa natura umana e accessibile ad ogni creatura razionale, la legge morale naturale costituisce così la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini che cercano la verità e, più in generale, con la società civile e secolare. Questa legge, iscritta nel cuore di ogni uomo, tocca uno dei nodi essenziali della stessa riflessione sul diritto e interpella ugualmente la coscienza e la responsabilità dei legislatori.

Nell’incoraggiarvi a proseguire nel Vostro impegnativo e importante servizio, desidero esprimervi anche in questa circostanza la mia spirituale vicinanza, impartendo di cuore a voi tutti, in pegno di affetto e di gratitudine, la Benedizione Apostolica.



CONFERIMENTO DELLA CITTADINANZA ONORARIA DI FREISING - REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA Sala Clementina Sabato, 16 gennaio 2010

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Signor Sindaco,
caro signor Cardinale,
caro signor Arcivescovo,
caro signor Vescovo ausiliare,
care cittadine e cari cittadini di Frisinga,
cari amici!

È per me un momento di commozione essere diventato ora, anche giuridicamente, cittadino di Frisinga e appartenere così in modo nuovo e tanto ampio e profondo a questa città, della quale nell'intimo sento di far parte. Per questo posso solo dire di cuore: "Vergelt's Gott" (Dio ve ne renda merito). È una gioia che ora mi accompagna e che rimarrà con me.

Nella biografia della mia vita - nella biografia del mio cuore, se così posso dire - la città di Frisinga ha un ruolo molto speciale. In essa ho ricevuto la formazione che da allora caratterizza la mia vita. Così, in qualche modo questa città è sempre presente in me e io in lei. E il fatto che - come lei, signor Sindaco ha osservato - io abbia incluso nel mio stemma il moro e l'orso di Frisinga mostra al mondo intero quanto io appartenga ad essa. Il fatto, poi, che io sia ora cittadino di Frisinga, anche dal punto di vista legale, ne è il coronamento e mi rallegra profondamente.

In questa occasione affiora in me un intero orizzonte di immagini e di ricordi. Lei ha già accennato ad alcuni di essi, caro signor Sindaco. Vorrei riprendere alcuni spunti. Anzitutto c'è il 3 gennaio 1946. Dopo una lunga attesa, finalmente era arrivato il momento in cui il seminario di Frisinga poteva aprire le porte a quanti ritornavano. In effetti, era ancora un lazzaretto per ex prigionieri di guerra, ma ora potevamo cominciare. Quel momento rappresentava una svolta nella vita: essere sul cammino al quale ci sentivamo chiamati. Nell'ottica di oggi, abbiamo vissuto in modo molto "antiquato" e privo di comodità: eravamo in dormitori, in sale per gli studi e così via, ma eravamo felici, non solo perché finalmente sfuggiti alle miserie e alle minacce della guerra e del dominio nazista, ma anche perché eravamo liberi e soprattutto perché eravamo sul cammino al quale ci sentivamo di essere chiamati. Sapevamo che Cristo era più forte della tirannia, del potere dell'ideologia nazista e dei suoi meccanismi di oppressione. Sapevamo che a Cristo appartengono il tempo e il futuro, e sapevamo che Egli ci aveva chiamati e che aveva bisogno di noi, che c'era bisogno di noi. Sapevamo che la gente di quei tempi mutati ci attendeva, attendeva sacerdoti che arrivassero con un nuovo slancio di fede per costruire la casa viva di Dio. In questa occasione devo elevare anche un piccolo inno di lode al vecchio ateneo, del quale ho fatto parte, prima come studente e poi come docente. C'erano studiosi molto seri, alcuni anche di fama internazionale, ma la cosa più importante - secondo me - è che essi non erano solo studiosi, ma anche maestri, persone che non offrivano solamente le primizie della loro specializzazione, ma persone alle quali interessava dare agli studenti l'essenziale, il pane sano di cui avevano bisogno per ricevere la fede da dentro. Ed era importante il fatto che noi - se ora posso dire noi - non ci sentivamo dei singoli esperti, ma parte di un insieme; che ciascuno di noi lavorava all'insieme della teologia; che dal nostro operare doveva rendersi visibile la logica della fede come unità, e, in tal modo, crescere la capacità di dare ragione della nostra fede, come dice san Pietro (
1P 3,15), di trasmetterla in un tempo nuovo, all'interno delle nuove sfide.

La seconda immagine che vorrei riprendere è il giorno dell'ordinazione sacerdotale. Il duomo è sempre stato il centro della nostra vita, come pure in seminario eravamo una famiglia ed è stato padre Höck a fare di noi una vera famiglia. Il duomo era il centro e lo è diventato per tutta la vita nel giorno indimenticabile dell'ordinazione sacerdotale. Sono tre i momenti che mi sono rimasti particolarmente impressi. Anzitutto lo stare distesi per terra durante le litanie dei santi. Stando prostrati a terra, si diventa ancora una volta consapevoli di tutta la propria povertà e ci si domanda: davvero ne sono capace? E allo stesso tempo risuonano i nomi di tutti i santi della storia e l'implorazione dei fedeli: "Ascoltaci; aiutali". Cresce così la consapevolezza: sì, sono debole e inadeguato, ma non sono solo, ci sono altri con me, l'intera comunità dei santi è con me, essi mi accompagnano e quindi posso percorrere questo cammino e diventare compagno e guida per gli altri. Il secondo, l'imposizione delle mani da parte dell'anziano, venerabile cardinale Faulhaber - che ha imposto a me, a tutti noi, le mani in modo profondo ed intenso - e la consapevolezza che è il Signore a porre le mani su di me e dice: appartieni a me, non appartieni semplicemente a te stesso, ti voglio, sei al mio servizio; ma anche la consapevolezza che questa imposizione delle mani è una grazia, che non crea solo obblighi, ma che è soprattutto un dono, che Lui è con me e che il suo amore mi protegge e mi accompagna. Poi c'era ancora il vecchio rito, in cui il potere di rimettere i peccati veniva conferito in un momento a parte, che iniziava quando il vescovo diceva, con le parole del Signore: "Non vi chiamo più servi, ma amici". E sapevo - noi sapevamo - che questa non è solo una citazione di Giovanni 15, ma una parola attuale che il Signore mi sta rivolgendo adesso. Egli mi accetta come amico; sono in questo rapporto d'amicizia; egli mi ha donato la sua fiducia, e in questa amicizia posso operare e rendere altri amici di Cristo.

Alla terza immagine lei ha già fatto allusione, signor Sindaco: ho potuto trascorrere altri indimenticabili tre anni e mezzo con i miei genitori nel Lerchenfeldhof e quindi sentirmi ancora una volta pienamente a casa.

Questi ultimi tre anni e mezzo con i miei genitori sono stati per me un dono immenso e hanno davvero reso Frisinga la mia casa. Penso alle feste, a come abbiamo celebrato insieme il Natale, la Pasqua, la Pentecoste; alle passeggiate che abbiamo fatto insieme nei prati; a come siamo andati nel bosco a prendere i rami d'abete e il muschio per il presepe, e alle nostre escursioni nei campi lungo l'Isar. Così Frisinga è diventata per noi una vera patria, e come patria rimane nel mio cuore.

Oggi alle porte di Frisinga si trova l'aeroporto di Monaco. Chi vi atterra o decolla vede le torri del duomo di Frisinga, vede il mons doctus, e forse può intuire un po' della sua storia e del suo presente. Frisinga ha da sempre un'ampia veduta sulla catena delle Alpi; attraverso l'aeroporto essa è diventata, in un certo senso, anche mondiale e aperta al mondo. E tuttavia vorrei dire: il duomo con le sue torri indica un'altezza che è molto superiore e diversa rispetto a quella che raggiungiamo con gli aerei, è la vera altezza, l'altezza di Dio, dalla quale proviene l'amore che ci dona l'umanità autentica. Il duomo, però, non indica solo l'altezza di Dio, che ci forma e ci addita il cammino, ma indica anche l'ampiezza, e questo non solo perché nel duomo sono racchiusi secoli di fede e di preghiera, perché in esso è presente, per così dire, tutta la comunità dei santi, di tutti coloro che prima di noi hanno creduto, pregato, sofferto, gioito. Esso indica, in generale, la grande ampiezza di tutti i credenti di ogni tempo, mostrando così anche una vastità che va oltre la globalizzazione, poiché nella diversità, addirittura nel contrasto delle culture e delle origini, dona la forza dell'unità interiore, dona ciò che può unirci: la forza unificatrice dell'essere amati da Dio. Così Frisinga rimane per me anche l'indicazione di un cammino.

In conclusione vorrei ancora una volta ringraziare per il grande onore che mi fate, anche la banda musicale, che rende qui presente la cultura veramente bavarese. Il mio desiderio - la mia preghiera - è che il Signore continui a benedire questa città e che Nostra Signora del duomo di Frisinga la protegga, affinché essa possa essere, anche in futuro, un luogo di vita umana di fede e di gioia. Molte grazie.




VISITA ALLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA Domenica, 17 gennaio 2010

17010
PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI Sinagoga di Roma


“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:

eravamo pieni di gioia” (Ps 126)

“Ecco, com’è bello e com’è dolce

che i fratelli vivano insieme!” (Ps 133)



Signor Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma,
Signor Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,
Signor Presidente della Comunità Ebraica di Roma
Signori Rabbini,
Distinte Autorità,
Cari amici e fratelli,

1. All’inizio dell’incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma, i Salmi che abbiamo ascoltato ci suggeriscono l’atteggiamento spirituale più autentico per vivere questo particolare e lieto momento di grazia: la lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti con il suo Hèsed, l’amore misericordioso, e il ringraziamento per averci fatto il dono di ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, per l’invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato. Ringrazio poi i Presidenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avvocato Renzo Gattegna, e della Comunità Ebraica di Roma, Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno voluto rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si estende, in modo particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti hanno collaborato per rendere possibile il momento di incontro e di amicizia, che stiamo vivendo.

Venendo tra voi per la prima volta da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l’affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l’intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse nel mondo.

2. La dottrina del Concilio Vaticano II ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa. L’evento conciliare ha dato un decisivo impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e sviluppato in questi quarant’anni con passi e gesti importanti e significativi, tra i quali desidero menzionare nuovamente la storica visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore, il 13 aprile 1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche durante i Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare in Terra Santa nell’anno 2000, i documenti della Santa Sede che, dopo la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi orientamenti per un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell’Alleanza. Conservo ben vivo nel mio cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di realizzare in Terra Santa, nel maggio dello scorso anno, come pure i tanti incontri con Comunità e Organizzazioni ebraiche, in particolare quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York.

Inoltre, la Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo (cfr Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate per sempre! Torna alla mente l’accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza”.

3. Il passare del tempo ci permette di riconoscere nel ventesimo secolo un’epoca davvero tragica per l’umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria dell’uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo. Come dissi nella visita del 28 maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz, ancora profondamente impressa nella mia memoria, “i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità” e, in fondo, “con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno” (Discorso al campo di Auschwitz-Birkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727).

In questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta.

La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza.

4. La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia – in ebraico Sifre Qodesh o “Libri di Santità” – il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo. E’ scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica CEC 839). “A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. E’ al popolo ebraico che appartengono ‘l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!’ (Rm 11,29)” (Ibid.).

5. Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico “a livello della loro stessa identità” spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità di promuovere “un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento” (cfr Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, PP 12 pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità; l’impegno per preparare o realizzare il Regno dell’Altissimo nella “cura del creato” affidato da Dio all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca responsabilmente (cfr Gn 2,15).

6. In particolare il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (cfr Ex 20,1-17 Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo.

Le “Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono e devono offrire assieme.

Le “Dieci Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele.

Le “Dieci Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano.

7. Come insegna Mosè nello Shemà (cfr. Dt 6,5 Lv 19,34) – e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr. Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza.

8. In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi compiuti in questi quarant’anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, sono un segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su “L’insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l’ambiente”; auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e attuale.

9. Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso.

10. Infine un pensiero particolare per questa nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni, convivono, come disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo Vescovo e la Comunità ebraica con il suo Rabbino Capo; questo vivere assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare.

Invoco dal Signore il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio pellegrinaggio del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui che può tutto: “manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione” (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12 maggio 2009).

Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode per questo nostro incontro, chiedendo che Egli rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa.

[“Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre”. Alleluia” (Ps 117)]








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