Discorsi 2005-13 14030

VISITA ALLA CHIESA EVANGELICA LUTERANA DI ROMA Domenica, 14 marzo 2010

14030

PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI



Care Sorelle e cari Fratelli,

desidero ringraziare di cuore tutta la comunità, i vostri responsabili, in particolare il parroco Kruse, per avermi invitato a celebrare con voi questa domenica Laetare, questo giorno in cui l’elemento determinante è speranza, che guarda alla luce che dalla resurrezione di Cristo irrompe nelle tenebre della nostra quotidianità, nelle questioni irrisolte della nostra vita. Ella, caro parroco Kruse, ci ha esposto il messaggio di speranza di san Paolo. Il Vangelo, dal dodicesimo capitolo di Giovanni, che io vorrei cercare di spiegare, è anche un Vangelo della speranza e, nello stesso tempo, è un Vangelo della Croce. Queste due dimensioni vanno insieme: poiché il Vangelo si riferisce alla Croce, parla della speranza, e poiché dona speranza, deve parlare della Croce.

Giovanni ci narra che Gesù era salito a Gerusalemme per celebrare la Pasqua e poi dice: “C'erano anche alcuni greci che erano saliti per il culto”. Erano sicuramente uomini del gruppo dei cosiddetti phoboumenoi ton Theon, i “timorati di Dio”, che, al di là del politeismo del loro mondo, erano alla ricerca del Dio autentico che è veramente Dio, alla ricerca dell’unico Dio, al quale appartiene il mondo intero e che è il Dio di tutti gli uomini. E avevano trovato quel Dio, che chiedevano e cercavano, al quale ogni uomo anela in silenzio, nella Bibbia di Israele, riconoscendovi quel Dio che ha creato il mondo. Egli è il Dio di tutti gli uomini e, allo stesso tempo, ha scelto un popolo concreto e un luogo per essere da lì presente tra noi. Sono cercatori di Dio, e sono venuti a Gerusalemme per adorare l'unico Dio, per sapere qualcosa del suo mistero. Inoltre, l'evangelista ci narra che queste persone sentono parlare di Gesù, vanno da Filippo, l'apostolo proveniente da Betsaida, in cui per metà si parlava in greco, e dicono: “Vogliamo vedere Gesù”. Il loro desiderio di conoscere Dio li spinge a voler vedere Gesù e attraverso di lui conoscere più da vicino Dio. “Vogliamo vedere Gesù”: un’espressione che ci commuove, poiché noi tutti vorremmo sempre più veramente vederlo e conoscerlo. Penso che quei greci ci interessano per due motivi: da una parte, la loro situazione è anche la nostra, anche noi siamo pellegrini con la domanda su Dio, alla ricerca di Dio. E anche noi vorremmo conoscere Gesù più da vicino, vederlo veramente. Tuttavia è anche vero che, come Filippo e Andrea, dovremmo essere amici di Gesù, amici che lo conoscono e possono aprire agli altri il cammino che porta a lui. E perciò penso che in quest’ora dovremmo pregare così: Signore, aiutaci a essere uomini in cammino verso di te. Signore, donaci di poterti vedere sempre di più. Aiutaci a essere tuoi amici, che aprono agli altri la porta verso di te. Se ciò portò effettivamente ad un incontro fra Gesù e quei greci, san Giovanni non lo narra. La risposta di Gesù, che egli ci riferisce, va molto al di là di quel momento contingente. Si tratta di una doppia risposta: parla della glorificazione di Gesù che ora iniziava: “È venuta l’ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato” (
Jn 12,23). Il Signore spiega questo concetto della glorificazione con la parabola del chicco di grano: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto” (v. 24). In effetti, il chicco di grano deve morire, in certo qual modo spezzarsi nel terreno, per assorbire in sé le forze della terra e così divenire stelo e frutto. Per quanto riguarda il Signore, questa è la parabola del suo proprio mistero. Egli stesso è il chicco di grano venuto da Dio, il chicco di grano divino, che si lascia cadere sulla terra, che si lascia spezzare, rompere nella morte e, proprio attraverso questo, si apre e può così portare frutto nella vastità del mondo. Non si tratta più solo di un incontro con questa o quella persona per un momento. Ora, in quanto risorto, è “nuovo” e oltrepassa i limiti spaziali e temporali. Adesso raggiunge veramente i greci. Ora si mostra a loro e parla con loro, ed essi parlano con lui e in tal modo nasce la fede, cresce la Chiesa a partire da tutti i popoli, la comunità di Gesù Cristo risorto, che diventerà il suo corpo vivo, frutto del chicco di grano. In questa parabola possiamo trovare anche un riferimento al mistero dell'Eucaristia: Egli, che è il chicco di grano, cade nella terra e muore.

Così nasce la santa moltiplicazione del pane dell'Eucaristia, nella quale egli diviene pane per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Ciò, che qui, in questa parabola cristologica, il Signore dice di sé, lo applica a noi in due altri versetti: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (v. 25). Penso che quando ascoltiamo ciò, in un primo momento, non ci piace. Vorremmo dire al Signore: Ma cosa ci stai dicendo, Signore? Dobbiamo odiare la nostra vita, noi stessi? La nostra vita non è forse un dono di Dio? Non siamo stati creati a tua immagine? Non dovremmo essere grati e lieti perché ci ha donato la vita? Ma la parola di Gesù ha un altro significato. Naturalmente il Signore ci ha donato la vita, e di questo siamo grati. Gratitudine e gioia sono atteggiamenti fondamentali dell’esistenza cristiana. Sì, possiamo essere lieti perché sappiamo che questa mia vita è da Dio. Non è un caso privo di senso. Io sono voluto e sono amato. Quando Gesù dice che dovremmo odiare la nostra propria vita, intende dire tutt’altro. Pensa qui a due atteggiamenti fondamentali. Uno è quello per cui io vorrei tenere per me la mia vita, per cui considero la mia vita come mia proprietà, considero me stesso come mia proprietà, per cui vorrei sfruttare il più possibile questa vita presente, così da aver vissuto molto vivendo per me stesso. Chi lo fa, chi vive per se stesso e considera e vuole solo se stesso, non si trova, si perde. È proprio il contrario: non prendere la vita, ma darla. Questo ci dice il Signore. E non è che prendendo la vita per noi, noi la riceviamo, ma è donandola, andando oltre noi stessi, non guardando a noi, ma dandosi all’altro nell’umiltà dell’amore, donando la nostra vita a lui e agli altri. Così diveniamo ricchi allontanandoci da noi stessi, liberandoci da noi stessi. Donando la vita, e non prendendola, riceviamo veramente vita.

Il Signore prosegue e afferma, in un secondo versetto: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà” (v. 26). Questo donarsi, che in realtà è l’essenza dell’amore, è identico alla Croce. Infatti, la Croce non è altro che questa legge fondamentale del chicco di grano morto, la legge fondamentale dell’amore: che noi diveniamo noi stessi solo quando ci doniamo. Ma il Signore aggiunge che questo donarsi, questo accettare la Croce, questo allontanarsi da sé, è un andare con lui, in quanto noi, andando dietro a lui e seguendo la via del chicco di grano, troviamo la via dell’amore, che subito sembra una via di tribolazione e di fatica, ma proprio per questo è la via della salvezza. Della via della Croce, che è la via dell’amore, del perdersi e del donarsi, fa parte la sequela, l’andare con lui, che è, Egli stesso, la via, la verità e la vita. Questo concetto include anche il fatto che questa sequela si realizza nel “noi”, che nessuno di noi ha il proprio Cristo, il proprio Gesù, che lo possiamo seguire soltanto se camminiamo tutti insieme con lui, entrando in questo “noi” e imparando con lui il suo amore che dona. La sequela si realizza in questo “noi”. Fa parte dell’essere cristiani l’ “essere noi” nella comunità dei suoi discepoli. E questo ci pone la questione dell’ecumenismo: la tristezza per aver spezzato questo “noi”, per aver suddiviso l’unica via in tante vie, e così viene offuscata la testimonianza che dovremmo dare in tal modo, e l’amore non può trovare la sua piena espressione. Che cosa dovremmo dire al riguardo? Oggi ascoltiamo molte lamentele sul fatto che l’ecumenismo sarebbe giunto a un punto di stallo, accuse vicendevoli; tuttavia penso che dovremmo anzitutto essere grati che vi sia già tanta unità. È bello che oggi, domenica Laetare, noi possiamo pregare insieme, intonare gli stessi inni, ascoltare la stessa parola di Dio, insieme spiegarla e cercare di capirla; che noi guardiamo all’unico Cristo che vediamo e al quale vogliamo appartenere, e che, in questo modo, già rendiamo testimonianza che Egli è l’Unico, colui che ci ha chiamati tutti e al quale, nel più profondo, noi tutti apparteniamo. Credo che dovremmo mostrare al mondo soprattutto questo: non liti e conflitti di ogni sorta, ma gioia e gratitudine per il fatto che il Signore ci dona questo e perché esiste una reale unità, che può diventare sempre più profonda e che deve divenire sempre più una testimonianza della parola di Cristo, della via di Cristo in questo mondo. Naturalmente non ci dobbiamo accontentare di ciò, anche se dobbiamo essere pieni di gratitudine per questa comunanza. Tuttavia, il fatto che in cose essenziali, nella celebrazione della santa Eucaristia non possiamo bere allo stesso calice, non possiamo stare intorno allo stesso altare, ci deve riempire di tristezza perché portiamo questa colpa, perché offuschiamo questa testimonianza. Ci deve rendere interiormente inquieti, nel cammino verso una maggiore unità, nella consapevolezza che, in fondo, solo il Signore può donarcela perché un’unità concordata da noi sarebbe opera umana e quindi fragile, come tutto ciò che gli uomini realizzano. Noi ci doniamo a lui, cerchiamo sempre più di conoscerlo e di amarlo, di vederlo, e lasciamo a lui che ci conduca così, veramente, all’unità piena, per la quale lo preghiamo con ogni urgenza in questo momento.

Cari amici, ancora una volta desidero ringraziarvi per questo invito, che mi avete rivolto, per la cordialità, con la quale mi avete accolto – anche per le sue parole, gentile signora Esch. Ringraziamo per aver potuto pregare e cantare insieme. Preghiamo gli uni per gli altri, preghiamo insieme affinché il Signore ci doni l’unità e aiuti il mondo affinché creda. Amen.




CONFERIMENTO DELLA CITTADINANZA ONORARIA DEL COMUNE DI ROMANO CANAVESE Auletta dell'Aula Paolo VI Mercoledì, 17 marzo 2010

17030

Signor Cardinale,
Cari Fratelli nell’Episcopato e cari fratelli nel Sacerdozio,
Signor Sindaco e Consiglieri comunali,
Signore e Signori!

Sono molto contento di ricevere la cittadinanza onoraria del Comune di Romano Canavese, a cui sono legato da vincoli di affetto. Anzitutto perché è il luogo che ha dato i natali al mio carissimo Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone, che conosco e stimo da tanti anni, specialmente da quando ero Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. A lui desidero rinnovare la mia viva riconoscenza per il prezioso servizio alla Santa Sede. Poi, perché io stesso, il 19 luglio dello scorso anno, ho avuto la gioia di visitare il vostro paese e di incontrare la gente laboriosa del Canavese. Rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto, in particolare al Vescovo di Ivrea, Mons. Arrigo Miglio e al Sindaco, Sig. Oscar Ferrero, grazie per le parole, grazie per i pensieri e per le preghiere.

Il conferimento della cittadinanza onoraria attesta la stima, la vicinanza e l’affetto che nutrite nei miei confronti; con tale gesto, in un certo senso, avete voluto accogliermi nella grande famiglia di Romano Canavese, anche se la mia presenza non potrà essere fisica, ma certamente cordiale e paterna. Mi sentirò in qualche modo parte della vostra gloriosa storia, che affonda le radici nel secondo secolo avanti la nascita di Cristo e ha avuto momenti di particolare rilievo, specie nell’Alto Medioevo e nel diciannovesimo secolo. Ma ciò che caratterizza Romano Canavese è soprattutto una lunga storia di fede, che inizia dal sangue dei martiri, tra i quali san Solutore, e giunge fino ai nostri giorni. In questa occasione vi rinnovo l’invito a custodire e coltivare i genuini valori della vostra tradizione e della vostra cultura, che si radicano nel Vangelo. In particolare a testimoniare con impegno sempre nuovo la fede nel Signore crocifisso e risorto, l’attaccamento alla famiglia, lo spirito di solidarietà. Abbiate sempre fiducia nell’aiuto di Dio, che non abbandona mai i suoi figli ed è vicino con la sua amorosa premura a quanti si adoperano per il bene, la pace e la giustizia.

Cari amici, nel rinnovarvi i miei sentimenti di gratitudine, invoco su ciascuno di voi, sulle vostre famiglie e su tutti i cittadini l’intercessione della Beata Vergine Maria e dei Santi Patroni, perché continuino a proteggere e a guidare la vostra Comunità. Con affetto, imparto a ciascuno di voi e ai vostri concittadini, miei concittadini adesso, una speciale Benedizione Apostolica.



AI RAPPRESENTANTI DELL'UNIONE DEGLI INDUSTRIALI E DELLE IMPRESE DI ROMA Sala Clementina Giovedì, 18 marzo 2010

18030

Gentile Presidente,
illustri Signori e Signore!

Sono lieto di porgere il mio cordiale benvenuto a ciascuno di voi, in questa vigilia della festa di San Giuseppe, che è un esempio per tutti coloro che operano nel mondo del lavoro. Rivolgo il mio deferente pensiero al Dottor Aurelio Regina, Presidente dell’Unione degli Industriali e delle Imprese di Roma, ringraziandolo per le cortesi espressioni che mi ha indirizzato. Con lui saluto la Giunta e il Consiglio direttivo del Sodalizio.

La realtà imprenditoriale romana, formata in gran parte da piccole e medie imprese, è una delle più importanti associazioni territoriali appartenenti alla Confindustria, che oggi opera anch’essa in un contesto caratterizzato dalla globalizzazione, dagli effetti negativi della recente crisi finanziaria, dalla cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia e delle stesse imprese. Si tratta di una situazione complessa, perché la crisi attuale ha sottoposto a dura prova i sistemi economici e produttivi dei vari Paesi. Tuttavia, essa va vissuta con fiducia, perché può essere considerata un’opportunità dal punto di vista della revisione dei modelli di sviluppo e di una nuova organizzazione del mondo della finanza, un “tempo nuovo” - com’è stato detto - di profondo ripensamento.

Nell’Enciclica sociale, Caritas in veritate, ho notato che veniamo da una fase di sviluppo in cui si è privilegiato ciò che è materiale e tecnico, rispetto a ciò che è etico e spirituale, ed ho incoraggiato a porre al centro dell’economia e della finanza la persona (cfr n. 25), che Cristo svela nella sua dignità più profonda. Proponendo, inoltre, che la politica non sia subordinata ai meccanismi finanziari, ho sollecitato la riforma e la creazione di ordinamenti giuridici e politici internazionali (cfr n. 67), proporzionati alle strutture globali dell’economia e della finanza, per conseguire più efficacemente il bene comune della famiglia umana. Seguendo le orme dei miei predecessori, ho ribadito che l’aumento della disoccupazione, specie giovanile, l’impoverimento economico di molti lavoratori e l’emersione di nuove forme di schiavitù, esigono come obiettivo prioritario l’accesso ad un lavoro dignitoso per tutti (cfr nn. 32 e 63). Ciò che guida la Chiesa nel farsi promotrice di un simile traguardo è il convincimento che il lavoro è un bene per l’uomo, per la famiglia e per la società, ed è fonte di libertà e di responsabilità. Nel raggiungimento di tali obiettivi sono ovviamente coinvolti, assieme ad altri soggetti sociali, gli imprenditori, che vanno particolarmente incoraggiati nel loro impegno a servizio della società e del bene comune.

Nessuno ignora quanti sacrifici occorre affrontare per aprire o tenere nel mercato la propria impresa, quale “comunità di persone” che produce beni e servizi e che, quindi, non ha come unico scopo il profitto, peraltro necessario. In particolare le piccole e medie imprese risultano sempre più bisognose di finanziamento, mentre il credito appare meno accessibile ed è molto forte la concorrenza nei mercati globalizzati, specie da parte di quei Paesi dove non vi sono – o sono minimi – i sistemi di protezione sociale per i lavoratori. Ne deriva che l’elevato costo del lavoro rende i propri prodotti e servizi meno competitivi e sono richiesti sacrifici non piccoli per non licenziare i propri lavoratori dipendenti e consentire ad essi l’aggiornamento professionale.

In tale contesto, è importante saper vincere quella mentalità individualistica e materialistica che suggerisce di distogliere gli investimenti dall’economia reale per privilegiare l’impiego dei propri capitali nei mercati finanziari, in vista di rendimenti più facili e più rapidi. Mi permetto di ricordare che invece le vie più sicure per contrastare il declino del sistema imprenditoriale del proprio territorio consistono nel mettersi in rete con altre realtà sociali, investire in ricerca ed innovazione, non praticare un’ingiusta concorrenza tra imprese, non dimenticare i propri doveri sociali ed incentivare una produttività di qualità per rispondere ai reali bisogni della gente. Esistono varie riprove che la vita di un’impresa dipende dalla sua attenzione a tutti i soggetti con cui intesse relazioni, dall’eticità del suo progetto e della sua attività. La stessa crisi finanziaria ha mostrato che entro un mercato sconvolto da fallimenti a catena, hanno resistito quei soggetti economici capaci di attenersi a comportamenti morali e attenti ai bisogni del proprio territorio. Il successo dell’imprenditoria italiana, specie in alcune regioni, è sempre stato caratterizzato dall’importanza assegnata alla rete di relazioni che essa ha saputo tessere con i lavoratori e con le altre realtà imprenditoriali, mediante rapporti di collaborazione e di fiducia reciproca. L’impresa può essere vitale e produrre “ricchezza sociale” se a guidare gli imprenditori e i manager è uno sguardo lungimirante, che preferisce l’investimento a lungo termine al profitto speculativo e che promuove l’innovazione anziché pensare ad accumulare ricchezza solo per sé.

L’imprenditore attento al bene comune è chiamato a vedere la propria attività sempre nel quadro di un tutto plurale. Tale impostazione genera, mediante la dedizione personale e la fraternità vissuta concretamente nelle scelte economiche e finanziarie, un mercato più competitivo ed insieme più civile, animato dallo spirito di servizio. E’ chiaro che una simile logica di impresa presuppone certe motivazioni, una certa visione dell’uomo e della vita; un umanesimo, cioè, che nasca dalla consapevolezza di essere chiamati come singoli e comunità a far parte dell’unica famiglia di Dio, che ci ha creati a sua immagine e somiglianza e ci ha redenti in Cristo; un umanesimo che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità; un umanesimo aperto a Dio e proprio per questo aperto all’uomo e ad una vita intesa come compito solidale e gioioso (cfr n. 78). Lo sviluppo, in qualsiasi settore dell’esistenza umana, implica anche apertura al trascendente, alla dimensione spirituale della vita, alla fiducia in Dio, all’amore, alla fraternità, all’accoglienza, alla giustizia, alla pace (cfr n. 79). Mi piace sottolineare tutto questo mentre ci troviamo in Quaresima, tempo propizio per la revisione dei propri atteggiamenti profondi e per interrogarsi sulla coerenza tra i fini a cui tendiamo e i mezzi che utilizziamo.

Gentili Signori e Signore, vi lascio queste riflessioni. E, mentre vi ringrazio per la vostra visita, auguro ogni bene per l’attività economica, come pure per quella associativa, e volentieri imparto a voi e a tutti i vostri cari la mia Benedizione.





CONCERTO IN ONORE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI IN OCCASIONE DELLA SUA FESTA ONOMASTICA Sala Clementina Venerdì, 19 marzo 2010

19030

Cari amici,

al termine di un ascolto così intenso e spiritualmente profondo, la cosa migliore sarebbe conservare il silenzio e prolungare la meditazione. Tuttavia, sono molto lieto di rivolgervi un saluto e ringraziare ciascuno di voi per la vostra presenza nel giorno della mia festa onomastica, in modo particolare quanti mi hanno offerto questo graditissimo dono. Esprimo la mia cordiale riconoscenza al Cardinale Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato, per le belle parole che mi ha indirizzato. Saluto con affetto gli altri Cardinali, il Cardinale Decano Sodano, Presuli e Prelati presenti. Un grazie speciale va poi ai musicisti, a partire dal Maestro José Peris Lacasa, compositore strettamente legato alla Casa Reale Spagnola. A lui va il merito di aver elaborato una versione de Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce di Franz Joseph Haydn che riprende quella per quartetto d'archi e quella in forma di oratorio, scritte dallo stesso Haydn. Mi congratulo poi con il Quartetto Henschel per la pregevole esecuzione, e con la Signora Susanne Kelling, che ha messo la sua voce straordinaria al servizio delle parole sante del Signore Gesù.

La scelta di quest'opera è stata davvero felice. Infatti, se da una parte, la sua bellezza austera è degna della solennità di san Giuseppe - di cui lo stesso insigne compositore portava il nome - dall'altra il suo contenuto è quanto mai adatto al tempo quaresimale, anzi, ci predispone a vivere il Mistero centrale della fede cristiana. Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce è, infatti, un esempio tra i più sublimi, in campo musicale, di come si possano sposare l'arte e la fede. L'invenzione del musicista è tutta ispirata e quasi "diretta" dai testi evangelici, che culminano nelle parole pronunciate da Gesù crocifisso, prima di rendere l'ultimo respiro. Ma, oltre che dal testo, il compositore era vincolato anche da precise condizioni poste dai committenti, dettate dal particolare tipo di celebrazione in cui la musica sarebbe stata eseguita. Ed è proprio a partire da tali vincoli così stringenti che il genio creativo ha potuto manifestarsi in tutta la sua eccellenza: dovendo immaginare sette sonate di carattere drammatico e meditativo, Haydn punta sull'intensità, come scrisse egli stesso in una lettera del tempo: "Ogni sonata, o ogni testo, è espresso con i soli mezzi della musica strumentale, in modo tale che esso susciterà necessariamente l'impressione più profonda nell'anima dell'ascoltatore, anche il meno avvertito" (Lettera a W. Forster, 8 aprile 1787).

Vi è, in questo, qualcosa di simile al lavoro dello scultore, che deve costantemente misurarsi con la materia su cui opera - pensiamo al marmo della "Pietà" di Michelangelo -, e tuttavia riesce a far parlare quella materia, a far emergere una sintesi singolare e irripetibile di pensiero e di emozione, un'espressione artistica assolutamente originale ma che, al tempo stesso, è totalmente al servizio di quel preciso contenuto di fede, è come dominata da quell'avvenimento che rappresenta - nel nostro caso dalle sette parole e dal loro contesto.

C'è qui nascosta una legge universale dell'espressione artistica: il saper comunicare una bellezza, che è anche un bene e una verità, attraverso un mezzo sensibile - un dipinto, una musica, una scultura, un testo scritto, una danza, eccetera. A ben vedere, è la stessa legge che ha seguito Dio per comunicare a noi se stesso e il suo amore: si è incarnato nella nostra carne umana e ha realizzato il massimo capolavoro dell'intera creazione: "l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù" - come scrive san Paolo (
1Tm 2,5). Più è "dura" la materia, più sono stretti i vincoli dell'espressione, e maggiormente risalta il genio dell'artista. Così sulla "dura" croce Dio ha pronunciato in Cristo la Parola d'amore più bella e più vera, che è Gesù nel suo donarsi pieno e definitivo: è Lui l'ultima Parola di Dio, in senso non cronologico, ma qualitativo. È la Parola universale, assoluta, ma è stata pronunciata in quell'uomo concreto, in quel tempo e in quel luogo, in quell'"ora" - dice il Vangelo di Giovanni. Questo vincolarsi alla storia, alla carne, è segno per eccellenza di fedeltà, di un amore talmente libero da non avere paura di legarsi per sempre, di esprimere l'infinito nel finito, il tutto nel frammento. Questa legge, che è la legge dell'amore, è anche la legge dell'arte nelle sue espressioni più alte.

Cari amici, forse mi sono spinto un po' oltre con questa riflessione, ma la colpa - o forse il merito! - è di Franz Joseph Haydn. Ringraziamo il Signore per questi grandi geni artistici, che hanno saputo e voluto misurarsi con la sua Parola - Gesù Cristo - e con le sue parole - le sacre Scritture. Rinnovo il mio grazie a quanti hanno ideato e preparato questo omaggio: il Signore ricompensi ciascuno con larghezza.

Sehr herzlich danke ich nochmals allen, die diesen Abend ermöglicht haben. Mein besonderer Dank gilt dem Henschel Quartett und dem Mezzosopran Frau Susanne Kelling, die uns mit ihrer ausdrucksvollen Darbietung die Worte des Erlösers am Kreuz in musikalischer Form näher gebracht haben. Vielen lieben Dank!

[Ringrazio sentitamente ancora una volta tutti coloro che hanno reso possibile questa serata. Rivolgo un ringraziamento particolare al Quartetto Henschell e al mezzosoprano, signora Susanne Kelling, che, con la sua espressiva esibizione, ci ha avvicinato in forma musicale alle parole del Salvatore sulla Croce. Molte grazie!].

Saludo muy cordialmente al Maestro José Peris Lacasa, autor de una lograda reelaboración de las Siete últimas Palabras de Cristo en Cruz, de Haydn, y que hoy hemos tenido el gusto de escuchar. Saludo también a los que han venido de España para esta ocasión. Muchas gracias.

[Saluto molto cordialmente il Maestro José Peris Lacasa, autore di una riuscita rielaborazione delle Sette ultime Parole di Cristo sulla Croce, di Haydn, che oggi abbiamo avuto il piacere di ascoltare. Saluto anche quanti sono venuti dalla Spagna per questa occasione. Grazie.].

A tutti rinnovo un saluto cordiale con l'augurio di seguire Gesù da vicino, come la Vergine Maria, per vivere in profondità la Settimana Santa, e celebrare in verità la Pasqua ormai vicina. Con questa intenzione, imparto a voi e ai vostri cari la mia Benedizione.




AI VESCOVI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DI BURKINA FASO-NIGER IN VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM" Sabato, 20 marzo 2010

20030



Cari Fratelli nell'Episcopato,

È con grande gioia che vi accolgo, voi che avete ricevuto la responsabilità pastorale della Chiesa che è nel Burkina Faso e nel Niger. Saluto in particolare il Presidente della vostra Conferenza episcopale, Monsignor Séraphin Rouamba, Arcivescovo di Koupéla, e lo ringrazio per le sue cordiali parole. Ai vostri diocesani e a tutti gli abitanti dei vostri Paesi, in particolare ai malati e alle persone che sono nella prova, portate l'incoraggiamento e il saluto affettuoso del Papa. La visita ad limina che state realizzando è un segno concreto della comunione fra le vostre Chiese particolari e la Chiesa universale, che si manifesta in modo significativo nel vostro legame con il Successore di Pietro. Auspico che il rafforzamento di questa unità fra voi e in seno alla Chiesa fortifichi il vostro ministero e accresca la credibilità della testimonianza dei discepoli di Cristo.

Dopo oltre un secolo, l'evangelizzazione ha già recato frutti abbondanti, visibili attraverso tanti segni della vitalità della Chiesa-famiglia di Dio nei vostri Paesi. Che un nuovo slancio missionario animi le vostre comunità, affinché il messaggio evangelico sia pienamente accolto e fedelmente vissuto! La fede ha sempre bisogno di consolidare la sue radici per non ritornare a pratiche antiche o incompatibili con la sequela di Cristo e per resistere agli appelli di un mondo a volte ostile all'ideale evangelico. Saluto gli sforzi che da molti anni si stanno compiendo per una sana inculturazione della fede. Vegliate affinché proseguano grazie al lavoro di persone competenti, nel rispetto delle norme e facendo riferimento alle strutture adeguate. D'altro canto, vi incoraggio a continuare il bello sforzo missionario di solidarietà generosamente intrapreso nei riguardi delle Chiese-sorelle del vostro continente!

La recente Assemblea sinodale per l'Africa ha invitato le comunità cristiane a far fronte alle sfide della riconciliazione, della giustizia e della pace. Mi rallegro di sapere che nelle vostre diocesi la Chiesa continua, in diversi modi, la lotta contro i mali che impediscono alle popolazioni di giungere a un autentico sviluppo. Così, le gravi inondazioni dello scorso settembre sono state l'occasione per promuovere la solidarietà verso tutti e in particolare verso i più bisognosi. Questa solidarietà radicata nell'amore di Dio deve essere un impegno permanente della comunità ecclesiale: i vostri fedeli l'hanno generosamente espresso anche nei confronti delle vittime del recente terremoto ad Haiti, nonostante i loro grandi bisogni. Li ringrazio vivamente per questo. Infine, vorrei salutare qui in particolare l'opera svolta dalla Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel che, lo scorso anno, ha celebrato a Ouagadougou il suo venticinquesimo anniversario.

Cari Fratelli nell'Episcopato, l'anno sacerdotale contribuisce a mettere in evidenza la grandezza del sacerdozio e a promuovere il rinnovamento interiore nella vita dei sacerdoti, affinché il loro ministero sia sempre più intenso e fecondo. Il sacerdote è prima di tutto un uomo di Dio, che cerca di rispondere con sempre maggiore coerenza alla sua vocazione e alla sua missione al servizio del popolo che gli è stato affidato e che deve guidare verso Dio. Per questo è necessario assicurargli una solida formazione, non solo durante la sua preparazione all'ordinazione, ma per tutto il suo ministero. È in effetti indispensabile che il sacerdote possa dedicare del tempo ad approfondire la sua vita sacerdotale al fine di evitare di cadere nell'attivismo. Che l'esempio di Giovanni Maria Vianney susciti nel cuore dei vostri sacerdoti, al cui coraggioso impegno missionario rendo omaggio, una rinnovata consapevolezza del loro dono totale a Cristo e alla Chiesa, alimentato da una fervente vita di preghiera e dall'amore appassionato del Signore Gesù! Possa il loro esempio suscitare numerose vocazioni sacerdotali!

I catechisti sono i collaboratori indispensabili dei sacerdoti nell'annuncio del Vangelo. Essi hanno un ruolo fondamentale non solo nella prima evangelizzazione e per il catecumenato, ma anche nell'animazione e nel sostegno delle vostre comunità, in unione con gli altri agenti di pastorale. Attraverso di voi, vorrei salutarli calorosamente e incoraggiarli nel loro compito di evangelizzatori dei loro fratelli. Le vostre diocesi stanno facendo sforzi considerevoli per garantire la loro formazione umana, intellettuale, spirituale e pastorale, permettendo loro così di assicurare il servizio con fede e competenza; me ne rallegro e vi incoraggio ad andare avanti, provvedendo allo stesso tempo ai loro bisogni materiali perché possano condurre una vita dignitosa.

Affinché i laici possano trovare il posto che corrisponde loro nelle vostre comunità e nella società, è necessario accrescere i mezzi atti a consolidare la loro fede. Sviluppando le istituzioni di formazione, darete loro la possibilità di assumere responsabilità nella Chiesa e nella società, per essere in esse autentici testimoni del Vangelo. Vi invito a rivolgere un'attenzione particolare alle élite politiche e intellettuali dei vostri Paesi, che si devono spesso confrontare con ideologie opposte a una concezione cristiana dell'uomo e della società. Una fede sicura, fondata su una relazione personale con Cristo, espressa nella pratica abituale della carità e sostenuta da una comunità viva, è un sostegno allo sviluppo della vita cristiana. Infondete anche nei giovani, spesso pieni di generosità, il piacere di andare incontro a Cristo! Il rafforzamento delle cappellanie scolastiche e universitarie li aiuterà a trovare in Lui la Luce capace di guidarli nel corso dell'intera vita e di trasmettere loro il vero significato dell'amore umano.

Il bel clima che normalmente esiste nelle relazioni interreligiose permette di approfondire i vincoli di stima e di amicizia, come pure la collaborazione fra tutte le componenti della società. L'insegnamento alle giovani generazioni dei valori fondamentali del rispetto e della fraternità favorirà la comprensione reciproca. Possano i vincoli che uniscono soprattutto cristiani e musulmani continuare a rafforzarsi al fine di far progredire la pace e la giustizia e di promuovere il bene comune, rifiutando ogni tentazione di violenza o d'intolleranza!

Cari Fratelli nell'Episcopato, al momento di concludere il nostro incontro, affido ognuna delle vostre diocesi alla protezione materna della Vergine Maria. In questi tempi segnati dall'incertezza, che Ella vi dia la forza di guardare al futuro con fiducia! Che sia per i popoli del Burkina Faso e del Niger un segno di speranza! Di tutto cuore, vi imparto un'affettuosa Benedizione Apostolica, che estendo ai sacerdoti, ai religiosi, alle religiose, ai catechisti e a tutti i fedeli delle vostre diocesi.







Discorsi 2005-13 14030