Centesimus annus



Lettera Enciclica a cento anni dalla “Rerum novarum”

  01/05/1991 Città del Vaticano (Roma) - ENCICLICA

  RIF. VOL. XIV/1 (1991) 953-1083


  Ai venerati fratelli nell’Episcopato

al clero e alle famiglie religiose,

ai fedeli della chiesa cattolica

e a tutti gli uomini di buona volontà

nel centenario della “Rerum novarum”

  Venerati fratelli, carissimi figli e figlie, salute e apostolica benedizione!


  INTRODUZIONE


1 Il centenario della promulgazione dell’Enciclica del mio predecessore Leone XIII di v. m., che inizia con le parole Rerum novarum (Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum, in Leonis XIII P .M. Acta, XI, Romae 1892, 97-144), segna una data di rilevante importanza nella presente storia della Chiesa e anche nel mio pontificato. Essa, infatti, ha avuto il privilegio di esser commemorata con solenni Documenti dai Sommi Pontefici, a partire dal quarantesimo anniversario fino al novantesimo: si può dire che il suo iter storico è stato ritmato da altri scritti, che la rievocavano ed insieme la attualizzavano (Pio XI, Lett. enc. Quadragesimo anno: AAS 23 [(1931] 177-228; Pio XII, Messaggio radiofonico del 1 giugno 1941: AAS 33 [1941] 195-205; Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et magistra, AAS 53 [1961] 401-464; Paolo VI, Epist. ap. Octogesima adveniens: AAS 63 [1971] 401-441).

Nel fare altrettanto per il centesimo anniversario su richiesta di numerosi Vescovi, istituzioni ecclesiali, centri di studi, imprenditori e lavoratori, sia a titolo individuale che come membri di associazioni, desidero anzitutto soddisfare il debito di gratitudine che l’intera Chiesa ha verso il grande Papa e il suo “immortale Documento” (cf. Pio XI, Lett. enc. Quadragesimo anno, III, l. c., 228). Desidero anche mostrare che la ricca linfa, che sale da quella radice, non si è esaurita col passare degli anni, ma è anzi diventata più feconda. Ne danno testimonianza le iniziative di vario genere che hanno preceduto, accompagnano e seguiranno questa celebrazione, iniziative promosse dalle Conferenze episcopali, da Organismi internazionali, da Università ed Istituti accademici, da Associazioni professionali e da altre istituzioni e persone in tante parti del mondo.


2 La presente Enciclica partecipa a queste celebrazioni per ringraziare Dio, dal quale “discende ogni buon regalo e ogni dono perfetto” (Jc 1,17), poiché si è servito di un Documento emanato cento anni or sono dalla Sede di Pietro, operando nella Chiesa e nel mondo tanto bene e diffondendo tanta luce. La commemorazione, che qui viene fatta, riguarda l’Enciclica leoniana ed insieme le Encicliche e gli altri scritti dei miei predecessori, che hanno contribuito a renderla presente e operante nel tempo, costituendo quella che sarebbe stata chiamata “dottrina sociale”, “insegnamento sociale”, o anche “Magistero sociale” della Chiesa.

Alla validità di tale insegnamento si riferiscono già due Encicliche che ho pubblicato negli anni del mio pontificato: la Laborem exercens sul lavoro umano e la Sollicitudo rei socialis sugli attuali problemi dello sviluppo degli uomini e dei popoli (Lett. enc. Laborem exercens, AAS 73 [1981] 577-647; Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, AAS 80 [1988] 513-586).


3 Intendo ora proporre una “rilettura” dell’Enciclica leoniana, invitando a “guardare indietro”, al suo testo stesso per scoprire nuovamente la ricchezza dei princìpi fondamentali, in essa formulati, per la soluzione della questione operaia. Ma invito anche a “guardare intorno”, alle “cose nuove”, che ci circondano ed in cui ci troviamo, per così dire, immersi, ben diverse dalle “cose nuove” che contraddistinsero l’ultimo decennio del secolo passato. Invito, infine, a “guardare al futuro”, quando già s’intravede il terzo Millennio dell’era cristiana, carico di incognite, ma anche di promesse. Incognite e promesse che fanno appello alla nostra immaginazione e creatività, stimolando anche la nostra responsabilità, quali discepoli dell’“unico maestro”, Cristo (cf. Mt 23,8), nell’indicare la via, nel proclamare la verità e nel comunicare la vita che è lui (cf. Jn 14,6).

Così facendo, sarà confermato non solo il permanente valore di tale insegnamento, ma si manifesterà anche il vero senso della Tradizione della Chiesa, la quale, sempre viva e vitale, costruisce sopra il fondamento posto dai nostri padri nella fede e, segnatamente, sopra quel che gli Apostoli trasmisero alla Chiesa (cf. S. Ireneo, Adversus haereses, I, 10, 1; III, 4, 1: PG 7,549-550; 855s; SC 264,154-155; 211,44-46) in nome di Gesù Cristo, il fondamento “che nessuno può sostituire” (cf. 1Co 3,11).

Fu per la coscienza della sua missione di successore di Pietro che Leone XIII si propose di parlare, e la stessa coscienza anima oggi il suo successore. Come lui, e come i Pontefici prima e dopo di lui, mi ispiro all’immagine evangelica dello “scriba divenuto discepolo del Regno dei cieli”, del quale il Signore dice che “è simile ad un padrone di casa, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). Il tesoro è la grande corrente della Tradizione della Chiesa, che contiene le “cose antiche”, ricevute e trasmesse da sempre, e permette di leggere le “cose nuove”, in mezzo alle quali trascorre la vita della Chiesa e del mondo.

Di tali cose che, incorporandosi alla Tradizione, diventano antiche ed offrono occasioni e materiale per il suo arricchimento e per l’arricchimento della vita di fede, fa parte anche l’operosità feconda di milioni e milioni di uomini, che, stimolati dal Magistero sociale, si sono sforzati di ispirarsi ad esso in ordine al proprio impegno nel mondo.

Agendo individualmente, o variamente coordinati in gruppi, associazioni ed organizzazioni, essi hanno costituito come un grande movimento per la difesa della persona umana e la tutela della sua dignità, il che nelle alterne vicende della storia ha contribuito a costruire una società più giusta o, almeno, a porre argini e limiti all’ingiustizia.

La presente Enciclica mira a mettere in evidenza la fecondità dei principi espressi da Leone XIII, i quali appartengono al patrimonio dottrinale della Chiesa e, per tale titolo, impegnano l’autorità del suo Magistero. Ma la sollecitudine pastorale mi ha spinto, altresì, a proporre l’analisi di alcuni avvenimenti della storia recente. È superfluo rilevare che il considerare attentamente il corso degli avvenimenti per discernere le nuove esigenze dell’evangelizzazione fa parte del compito dei Pastori. Tale esame, tuttavia, non intende dare giudizi definitivi, in quanto di per sé non rientra nell’ambito specifico del Magistero.




Capitolo I - TRATTI CARATTERISTICI DELLA “RERUM NOVARUM”

4 Sul finire del secolo scorso la Chiesa si trovò di fronte ad un processo storico, in atto già da qualche tempo, ma che raggiungeva allora un punto nevralgico. Fattore determinante di tale processo fu un insieme di radicali mutamenti avvenuti nel campo politico, economico e sociale, ma anche nell’ambito scientifico e tecnico, oltre al multiforme influsso delle ideologie dominanti. Risultato di questi cambiamenti era stata, in campo politico, una nuova concezione della società e dello Stato e, di conseguenza, dell’autorità. Una società tradizionale si dissolveva e cominciava a formarsene un’altra, carica della speranza di nuove libertà, ma anche dei pericoli di nuove forme di ingiustizia e servitù.

In campo economico, dove confluivano le scoperte e le applicazioni delle scienze, si era arrivati progressivamente a nuove strutture nella produzione dei beni di consumo. Era apparsa una nuova forma di proprietà, il capitale, e una nuova forma di lavoro, il lavoro salariato, caratterizzato da gravosi ritmi di produzione, senza i dovuti riguardi per il sesso, l’età o la situazione familiare, ma unicamente determinato dall’efficienza in vista dell’incremento del profitto.

Il lavoro diventava così una merce, che poteva essere liberamente acquistata e venduta sul mercato e il cui prezzo era regolato dalla legge della domanda e dell’offerta, senza tener conto del minimo vitale necessario per il sostentamento della persona e della sua famiglia. Per di più, il lavoratore non aveva nemmeno la sicurezza di riuscire a vendere la “propria merce”, essendo continuamente minacciato dalla disoccupazione, la quale, in assenza di previdenze sociali, significava lo spettro della morte per fame.

Conseguenza di questa trasformazione era “la divisione della società in due classi separate da un abisso profondo” (Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum: l. c., p. 132): tale situazione si intrecciava con l’accentuato mutamento di ordine politico. Così la teoria politica allora dominante cercava di promuovere, con leggi appropriate o, al contrario, con voluta assenza di qualsiasi intervento, la totale libertà economica. Nello stesso tempo, cominciava a sorgere in forma organizzata, e non poche volte violenta, un’altra concezione della proprietà e della vita economica, che implicava una nuova organizzazione politica e sociale.

Nel momento culminante di questa contrapposizione, quando ormai apparivano in piena luce la gravissima ingiustizia della realtà sociale, quale esisteva in molte parti, e il pericolo di una rivoluzione favorita dalle concezioni allora chiamate “socialiste”, Leone XIII intervenne con un Documento che affrontava in modo organico la “questione operaia”. L’Enciclica era stata preceduta da altre, dedicate piuttosto ad insegnamenti di carattere politico, mentre altre ancora seguiranno più tardi (Leone XIII, Epist. Enc. Arcanum divinae sapientiae, in : Leonis XIII P. M. Acta, II, Romae 1882, 10-40; Epist. Enc. Diuturnum illud, in Leonis XIII P. M. Acta, II, Romae 1882, 269-287; Lett. enc. Libertas praestantissimum, in Leonis XIII P. M. Acta, VIII, Romae 1889, 212-246; Epist. Enc. Graves de communi, in Leonis XIII P. M. Acta, XXI, Romae 1902, 3-20). In questo contesto è da ricordare, in particolare, l’Enciclica Libertas praestantissimum, in cui era richiamato il legame costitutivo della libertà umana con la verità, tale che una libertà che rifiuti di vincolarsi alla verità scadrebbe in arbitrio e finirebbe col sottomettere se stessa alle passioni più vili e con l’autodistruggersi. Da cosa derivano, infatti, tutti i mali a cui la Rerum novarum vuole reagire se non da una libertà che, nel campo dell’attività economica e sociale, si distacca dalla verità dell’uomo?

Il Pontefice si ispirava, inoltre, all’insegnamento dei predecessori, nonché ai molti Documenti episcopali, agli studi scientifici promossi da laici, all’azione di movimenti e associazioni cattoliche e alle concrete realizzazioni in campo sociale, che contraddistinsero la vita della Chiesa nella seconda metà del XIX secolo.


5 Le “cose nuove”, alle quali il Papa si riferiva, erano tutt’altro che positive. Il primo paragrafo dell’Enciclica descrive le “cose nuove”, che le han dato il nome, con parole forti: “Una volta suscitata la brama di cose nuove, che da tempo sta sconvolgendo gli Stati, ne sarebbe derivato come conseguenza che i desideri di cambiamenti si trasferissero alla fine dall’ordine politico al settore contiguo dell’economia. Difatti, i progressi incessanti dell’industria, le nuove strade aperte dalle professioni, le mutate relazioni tra padroni e operai, l’accumulo della ricchezza nelle mani di pochi, accanto alla miseria della moltitudine, la maggiore coscienza che i lavoratori hanno acquistato di sé e, di conseguenza, una maggiore unione tra essi ed inoltre il peggioramento dei costumi, tutte queste cose hanno fatto scoppiare un conflitto” (Lett. enc. Rerum novarum: l. c., 97).

Il Papa, e con lui la Chiesa, come anche la comunità civile, si trovavano di fronte ad una società divisa da un conflitto, tanto più duro e inumano perché non conosceva regola né norma. Era il conflitto tra il capitale e il lavoro, o – come lo chiamava l’Enciclica – la questione operaia, e proprio su di esso, nei termini acutissimi in cui allora si prospettava, il Papa non esitò a dire la sua parola.

Si presenta qui la prima riflessione, che l’Enciclica suggerisce per il tempo presente. Di fronte ad un conflitto che opponeva, quasi come “lupi”, l’uomo all’uomo fin sul piano della sussistenza fisica degli uni e dell’opulenza degli altri, il Papa non dubitò di dover intervenire, in virtù del suo “ministero apostolico”, ossia della missione ricevuta da Gesù Cristo stesso di “pascere gli agnelli e le pecorelle” (cf.
Jn 21,15-17) e di “legare e sciogliere sulla terra” per il Regno dei cieli (cf. Mt 16,19). Sua intenzione era certamente quella di ristabilire la pace, e il lettore contemporaneo non può non notare la severa condanna della lotta di classe, che egli pronunciava senza mezzi termini (cf. Rerum novarum: l. c., 109-110). Ma era ben consapevole del fatto che la pace si edifica sul fondamento della giustizia: contenuto essenziale dell’Enciclica fu appunto quello di proclamare le condizioni fondamentali della giustizia nella congiuntura economica e sociale di allora (cf. Rerum novarum: descrizione delle condizioni di lavoro; associazioni operaie anti-cristiane).

In questo modo Leone XIII, sulle orme dei predecessori, stabiliva un paradigma permanente per la Chiesa. Questa, infatti, ha la sua parola da dire di fronte a determinate situazioni umane, individuali e comunitarie, nazionali e internazionali, per le quali formula una vera dottrina, un corpus, che le permette di analizzare le realtà sociali, di pronunciarsi su di esse e di indicare orientamenti per la giusta soluzione dei problemi che ne derivano.

Ai tempi di Leone XIII una simile concezione del diritto-dovere della Chiesa era ben lontana dall’essere comunemente ammessa. Prevaleva, infatti, una duplice tendenza: l’una orientata a questo mondo ed a questa vita, alla quale la fede doveva rimanere estranea; l’altra rivolta verso una salvezza puramente ultraterrena, che però non illuminava né orientava la presenza sulla terra. L’atteggiamento del Papa nel pubblicare la Rerum novarum conferì alla Chiesa quasi uno “statuto di cittadinanza” nelle mutevoli realtà della vita pubblica, e ciò si sarebbe affermato ancor più in seguito. In effetti, per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società ed inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore. Essa costituisce, altresì, una fonte di unità e di pace dinanzi ai conflitti che inevitabilmente insorgono nel settore economico-sociale. Diventa in tal modo possibile vivere le nuove situazioni senza avvilire la trascendente dignità della persona umana né in se stessi né negli avversari, ed avviarle a retta soluzione.

Ora, la validità di tale orientamento mi offre, a distanza di cento anni, l’opportunità di dare un contributo all’elaborazione della dottrina sociale cristiana. La “nuova evangelizzazione”, di cui il mondo moderno ha urgente necessità e su cui ho più volte insistito, deve annoverare tra le sue componenti essenziali l’annuncio della dottrina sociale della Chiesa, idonea tuttora, come ai tempi di Leone XIII, ad indicare la retta via per rispondere alle grandi sfide dell’età contemporanea, mentre cresce il discredito delle ideologie. Come allora, bisogna ripetere che non c’è vera soluzione della “questione sociale” fuori del Vangelo e che, d’altra parte, le “cose nuove” possono trovare in esso il loro spazio di verità e la dovuta impostazione morale.


6 Proponendosi di far luce sul conflitto che si era venuto a creare tra capitale e lavoro, Leone XIII affermava i diritti fondamentali dei lavoratori. Per questo, la chiave di lettura del testo leoniano è la dignità del lavoratore in quanto tale e, per ciò stesso, la dignità del lavoro, che viene definito come “l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione” (Rerum novarum: l. c., 130; cf. anche 114-115). Il Pontefice qualifica il lavoro come “personale”, perché “la forza attiva è inerente alla persona e del tutto propria di chi la esercita e al cui vantaggio fu data” (Rerum novarum: l. c., 130). Il lavoro appartiene così alla vocazione di ogni persona; l’uomo, anzi, si esprime e si realizza nella sua attività di lavoro. Nello stesso tempo, il lavoro ha una dimensione “sociale” per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune, “poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati” (Rerum novarum.: l. c., 123). È quanto ho ripreso e sviluppato nell’Enciclica Laborem exercens (cf. Lett. enc. Laborem exercens LE 1 LE 2 LE 6).

Un altro principio rilevante è senza dubbio quello del diritto alla “proprietà privata” (cf. Lett. enc. Rerum novarum: l. c., 99-107). Lo spazio stesso, che l’Enciclica gli dedica, rivela l’importanza che gli si attribuisce. Il Papa è ben cosciente del fatto che la proprietà privata non è un valore assoluto, né tralascia di proclamare i principi di necessaria complementarità, come quello della destinazione universale dei beni della terra (cf. Rerum novarum: l. c., 102-103).

D’altra parte, è senz’altro vero che il tipo di proprietà privata, che egli precipuamente considera, è quello della proprietà della terra (cf. Rerum novarum: l. c., 101-104). Ciò, tuttavia, non impedisce che le ragioni addotte per tutelare la proprietà privata, ossia per affermare il diritto di possedere le cose necessarie per lo sviluppo personale e della propria famiglia – quale che sia la forma concreta che questo diritto può assumere –, conservino oggi il loro valore. Ciò deve essere nuovamente affermato sia di fronte ai cambiamenti, di cui siamo testimoni, avvenuti nei sistemi dove imperava la proprietà collettiva dei mezzi di produzione; sia anche di fronte ai crescenti fenomeni di povertà o, più esattamente, agli impedimenti della proprietà privata, che si presentano in tante parti del mondo, comprese quelle in cui predominano i sistemi che dell’affermazione del diritto di proprietà privata fanno il loro fulcro. A seguito di detti cambiamenti e della persistenza della povertà, si rivela necessaria una più profonda analisi del problema, come sarà sviluppata più avanti.


7 In stretta relazione col diritto di proprietà l’Enciclica di Leone XIII afferma parimenti altri diritti, come propri e inalienabili della persona umana. Tra essi è preminente, per lo spazio che il Papa gli dedica e l’importanza che gli attribuisce, il “diritto naturale dell’uomo” a formare associazioni private; il che significa, anzitutto, il diritto a creare associazioni professionali di imprenditori e operai, o di soli operai (cf. Rerum novarum: l. c., 134-135.137-138). Si coglie qui la ragione per cui la Chiesa difende e approva la creazione di quelli che comunemente si chiamano sindacati, non certo per pregiudizi ideologici, né per cedere a una mentalità di classe, ma perché l’associarsi è un diritto naturale dell’essere umano e, dunque, anteriore rispetto alla sua integrazione nella società politica. Infatti, “non può lo Stato proibirne la formazione”, perché “i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, esso contraddice se stesso” (Rerum novarum: l. c., 135).

Insieme con questo diritto, che – è doveroso sottolineare – il Papa riconosce esplicitamente agli operai o, secondo il suo linguaggio, ai “proletari”, sono affermati con eguale chiarezza il diritto alla “limitazione delle ore di lavoro”, al legittimo riposo e ad un diverso trattamento dei fanciulli e delle donne (cf. Rerum novarum: l. c., 128-129) quanto al tipo e alla durata del lavoro.

Se si tiene presente ciò che dice la storia circa i procedimenti consentiti, o almeno non esclusi legalmente, in ordine alla contrattazione senza alcuna garanzia né quanto alle ore di lavoro, né quanto alle condizioni igieniche dell’ambiente e ancora senza riguardo per l’età e il sesso dei candidati all’occupazione, ben si comprende la severa affermazione del Papa. “Non è giusto né umano egli scrive – esigere dall’uomo tanto lavoro, da farne per la troppa fatica istupidire la mente e da fiaccarne il corpo”. E con maggior precisione, riferendosi al contratto, inteso a far entrare in vigore simili “relazioni di lavoro”, afferma: “In ogni convenzione stipulata tra padroni ed operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa” che si sia provveduto convenientemente al riposo, proporzionato “alla somma delle energie consumate nel lavoro”; poi conclude: “Un patto contrario sarebbe immorale” (Rerum novarum: l. c., 129).


8 Subito dopo il Papa enuncia un altro diritto dell’operaio in quanto persona. Si tratta del diritto al “giusto salario”, il quale non può essere lasciato “al libero consenso delle parti: sicché il datore di lavoro, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro” (Rerum novarum: l. c., 129). Lo Stato – si diceva a quel tempo – non ha potere di intervenire nella determinazione di questi contratti, se non per assicurare l’adempimento di quanto è stato esplicitamente pattuito. Una simile concezione delle relazioni tra padroni e operai, puramente pragmatica ed ispirata ad un rigoroso individualismo, viene severamente biasimata nell’Enciclica, perché contraria alla duplice natura del lavoro, come fatto personale e necessario. Poiché, se il lavoro, in quanto personale, rientra nella disponibilità che ciascuno ha delle proprie facoltà ed energie, in quanto necessario è regolato dal grave obbligo che ciascuno ha di “conservarsi in vita”; “di qui nasce per necessaria conseguenza – conclude il Papa – il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che per la povera gente si riducono al salario del proprio lavoro” (Rerum novarum: l. c., 130-131).

Il salario deve essere sufficiente a mantenere l’operaio e la sua famiglia. Se il lavoratore, “costretto dalla necessità, o per timore del peggio, accetta patti più duri perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, e che volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza contro la quale la giustizia protesta” (Rerum novarum: l. c., 131).

Volesse Dio che queste parole, scritte mentre avanzava il cosiddetto “capitalismo selvaggio”, non debbano oggi essere ripetute con la medesima severità. Purtroppo, si riscontrano ancora oggi casi di contratti tra padroni e operai, nei quali è ignorata la più elementare giustizia in materia di lavoro minorile o femminile, circa gli orari di lavoro, lo stato igienico dei locali e l’equa retribuzione. E questo nonostante le Dichiarazioni e Convenzioni internazionali al riguardo, e le stesse leggi interne degli Stati. Il Papa attribuiva all’“autorità pubblica” lo “stretto dovere” di prendersi debita cura del benessere dei lavoratori, perché non facendolo si offendeva la giustizia; anzi, non esitava a parlare di “giustizia distributiva” (cf. Lett. enc. Rerum novarum: l. c., 121-123).


9 A tali diritti Leone XIII ne aggiunge un altro, sempre a proposito della condizione operaia, che desidero ricordare per l’importanza che ha: il diritto di adempiere liberamente i doveri religiosi. Il Papa lo proclama nel contesto degli altri diritti e doveri degli operai, nonostante il clima generale che, anche ai suoi tempi, considerava certe questioni come attinenti esclusivamente all’ambito privato. Egli afferma la necessità del riposo festivo, perché l’uomo sia riportato al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla maestà divina (cf. Rerum novarum: l. c., 127). Di questo diritto, radicato in un comandamento, nessuno può privare l’uomo: “A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande rispetto”; di conseguenza, lo Stato deve assicurare all’operaio l’esercizio di tale libertà (Rerum novarum: l. c., 126-127).

Non sbaglierebbe chi in questa limpida affermazione vedesse il germe del principio del diritto alla libertà religiosa, divenuto poi oggetto di molte solenni Dichiarazioni e Convenzioni internazionali (cf. Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo; Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e discriminazione fondate sulla religione o sulle convinzioni), nonché della nota Dichiarazione conciliare e del mio ripetuto insegnamento (Dignitatis humanae; Giovanni Paolo II, Lettera ai Capi di Stato [1 settembre 1980]: AAS 72 [1980] 1252-1260; Messaggio per la Giornata mondiale della pace 1988: AAS 80 [1988] 278-286). Al riguardo, ci si deve domandare se gli ordinamenti legali vigenti e la prassi delle società industrializzate assicurino oggi effettivamente l’elementare diritto al riposo festivo.


10 Un’altra importante nota, ricca di insegnamenti per i nostri giorni, è la concezione dei rapporti tra lo Stato e i cittadini. La Rerum novarum critica i due sistemi sociali ed economici: il socialismo e il liberalismo. Al primo è dedicata la parte iniziale, nella quale si riafferma il diritto alla proprietà privata; al secondo non è dedicata una speciale sezione, ma – cosa meritevole di attenzione – si riservano le critiche, quando si affronta il tema dei doveri dello Stato (cf. Lett. enc. Rerum novarum: l. c., 99-105; 130s; 135). Questo non può limitarsi a “provvedere ad una parte dei cittadini”, cioè a quella ricca e prospera, e non può “trascurare l’altra”, che rappresenta indubbiamente la grande maggioranza del corpo sociale; altrimenti si offende la giustizia, che vuole si renda a ciascuno il suo. “Tuttavia, nel tutelare questi diritti dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. La classe dei ricchi, forte per se stessa, ha meno bisogno della pubblica difesa; la classe proletaria, mancando di un proprio sostegno, ha speciale necessità di cercarla nella protezione dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, lo Stato deve rivolgere di preferenza le sue cure e provvidenze” (Rerum novarum: l. c., 125).

Questi passi oggi hanno valore soprattutto di fronte alle nuove forme di povertà esistenti nel mondo, anche perché sono affermazioni che non dipendono da una determinata concezione dello Stato né da una particolare teoria politica. Il Papa ribadisce un elementare principio di ogni sana organizzazione politica, cioè che gli individui, quanto più sono indifesi in una società, tanto più necessitano dell’interessamento e della cura degli altri e, in particolare, dell’intervento dell’autorità pubblica.

In tal modo il principio, che oggi chiamiamo di solidarietà, e la cui validità, sia nell’ordine interno a ciascuna Nazione, sia nell’ordine internazionale, ho richiamato nella Sollicitudo rei socialis (cf. Lett. enc.
SRS 38-40 cf. anche Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et magistra, l. c., MM 407), si dimostra come uno dei principi basilari della concezione cristiana dell’organizzazione sociale e politica. Esso è più volte enunciato da Leone XIII col nome di “amicizia”, che troviamo già nella filosofia greca; da Pio XI è designato col nome non meno significativo di “carità sociale”, mentre Paolo VI, ampliando il concetto secondo le moderne e molteplici dimensioni della questione sociale, parlava di “civiltà dell’amore” (cf. Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum: l. c., 114-116; Pio XI, Lett. enc. Quadragesimo anno, III, l. c., 208; Paolo VI, Omelia per la chiusura dell’Anno Santo [25 dicembre 1975]: AAS 68 [1976] 145; Messaggio per la Giornata mondiale della pace 1977: AAS 68 [1976] 709).


11 La rilettura dell’Enciclica alla luce delle realtà contemporanee permette di apprezzare la costante preoccupazione e dedizione della Chiesa verso quelle categorie di persone, che sono oggetto di predilezione da parte del Signore Gesù. Il contenuto del testo è un’eccellente testimonianza della continuità, nella Chiesa, della cosiddetta “opzione preferenziale per i poveri”, opzione che ho definito come una “forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana” (Lett. enc. Sollicitudo rei socialis SRS 42). L’Enciclica sulla “questione operaia”, dunque, è un’Enciclica sui poveri e sulla terribile condizione, alla quale il nuovo e non di raro violento processo di industrializzazione aveva ridotto grandi moltitudini. Anche oggi, in gran parte del mondo, simili processi di trasformazione economica, sociale e politica producono i medesimi mali.

Se Leone XIII si appella allo Stato per rimediare secondo giustizia alla condizione dei poveri, lo fa anche perché riconosce opportunamente che lo Stato ha il compito di sovrintendere al bene comune e di curare che ogni settore della vita sociale, non escluso quello economico, contribuisca a promuoverlo, pur nel rispetto della giusta autonomia di ciascuno di essi. Ciò, però, non deve far pensare che per Papa Leone ogni soluzione della questione sociale debba venire dallo Stato. Al contrario, egli insiste più volte sui necessari limiti dell’intervento dello Stato e sul suo carattere strumentale, giacché l’individuo, la famiglia e la società gli sono anteriori ed esso esiste per tutelare i diritti dell’uno e delle altre, e non già per soffocarli (cf. Lett. enc. Rerum novarum: l. c., 101s; 104s; 130s; 136).

A nessuno sfugge l’attualità di queste riflessioni. Sull’importante tema delle limitazioni inerenti alla natura dello Stato converrà tornare più avanti; intanto, i punti sottolineati, non certo gli unici dell’Enciclica, si pongono in continuità nel Magistero sociale della Chiesa, anche alla luce di una sana concezione della proprietà privata, del lavoro, del processo economico, della realtà dello Stato e, prima di tutto, dell’uomo stesso. Altri temi saranno menzionati in seguito nell’esaminare taluni aspetti della realtà contemporanea; ma occorre tener presente fin d’ora che ciò che fa da trama e, in certo modo, da guida all’Enciclica ed a tutta la dottrina sociale della Chiesa, è la corretta concezione della persona umana e del suo valore unico, in quanto “l’uomo... in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” (Gaudium et spes GS 24). In lui ha scolpito la sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1,26), conferendogli una dignità incomparabile, sulla quale più volte insiste l’Enciclica. In effetti, al di là dei diritti che l’uomo acquista col proprio lavoro, esistono diritti che non sono il corrispettivo di nessuna opera da lui prestata, ma che derivano dall’essenziale sua dignità di persona.




Capitolo II - VERSO LE “COSE NUOVE” DI OGGI

12 La commemorazione della Rerum novarum non sarebbe adeguata, se non guardasse pure alla situazione di oggi. Già nel suo contenuto il Documento si presta ad una tale considerazione, perché il quadro storico e le previsioni ivi delineate si rivelano, alla luce di quanto è accaduto in seguito, sorprendentemente esatte.

Ciò è confermato, in particolare, dagli avvenimenti degli ultimi mesi dell’anno 1989 e dei primi del 1990. Essi e le conseguenti trasformazioni radicali non si spiegano se non in base alle situazioni anteriori, le quali, in certa misura, avevano cristallizzato o istituzionalizzato le previsioni di Leone XIII e i segnali, sempre più inquieti, avvertiti dai suoi successori. Papa Leone, infatti, previde le conseguenze negative sotto tutti gli aspetti, politico, sociale ed economico, di un ordinamento della società quale proponeva il “socialismo”, che allora era allo stadio di filosofia sociale e di movimento più o meno strutturato. Qualcuno potrebbe meravigliarsi del fatto che il Papa cominciava dal “socialismo” la critica delle soluzioni che si davano della “questione operaia”, quando esso non si presentava ancora – come poi accadde – sotto la forma di uno Stato forte e potente con tutte le risorse a disposizione. Tuttavia, egli valutò esattamente il pericolo che rappresentava per le masse l’attraente presentazione di una soluzione tanto semplice quanto radicale della questione operaia di allora. Ciò risulta tanto più vero, se viene considerato in relazione con la paurosa condizione di ingiustizia in cui giacevano le masse proletarie nelle Nazioni da poco industrializzate.

Occorre qui sottolineare due cose: da una parte, la grande lucidità nel percepire, in tutta la sua crudezza, la reale condizione dei proletari, uomini, donne e bambini; dall’altra, la non minore chiarezza con cui si intuisce il male di una soluzione che, sotto l’apparenza di un’inversione delle posizioni di poveri e ricchi, andava in realtà a detrimento di quegli stessi che si riprometteva di aiutare. Il rimedio si sarebbe così rivelato peggiore del male. Individuando la natura del socialismo del suo tempo nella soppressione della proprietà privata, Leone XIII arrivava al nodo della questione.

Le sue parole meritano di essere rilette con attenzione: “Per rimediare a questo male (l’ingiusta distribuzione delle ricchezze e la miseria dei proletari), i socialisti spingono i poveri all’odio contro i ricchi, e sostengono che la proprietà privata deve essere abolita e i beni di ciascuno debbono essere comuni a tutti...; ma questa teoria, oltre a non risolvere la questione, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché contro i diritti dei legittimi proprietari snatura le funzioni dello Stato e scompagina tutto l’ordine sociale” (Lett. enc. Rerum novarum: l. c., 99). Non si potrebbero indicar meglio i mali indotti dall’instaurazione di questo tipo di socialismo come sistema di Stato: quello che avrebbe preso il nome di “socialismo reale”.


Centesimus annus