Crisostomo - PRIMA TIMOTEO

COMMENTO ALLA PRIMA LETTERA A TIMOTEO

Giovanni Crysostomo






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OMELIA 1

PAOLO, APOSTOLO DI CRISTO GESÙ, PER COMANDO DI DIO NOSTRO SALVATORE E DI GESÙ CRISTO NOSTRA SPERANZA, A TIMOTEO, MIO VERO FIGLIO NELLA FEDE: GRAZIA, MISERICORDIA E PACE DA DIO PADRE E DA CRISTO GESÙ SIGNORE NOSTRO



(1Tm 1,1-2)


Prima Timoteo 1,1-2

1011. Grande era l'autorità dell'Apostolo, grande e degna d'ammirazione; noi vediamo dappertutto che Paolo mette in evidenza le prove della sua autorità, non con l'intento di arrogarsi un titolo d'onore, ma perché ne ha ricevuto il carattere ed è nella necessità di manifestarlo. Sia quando egli si dichiara prescelto 1, sia quando dice: per volontà di Dio 2; e altrove: per me è un dovere 3; e ancora: per questo sono stato prescelto 4: in tutte queste espressioni, insomma, non vi è nulla che non escluda l'ambizione e l'orgoglio. Infatti, come è degno della massima riprovazione chi usurpa una dignità come se gli fosse stata conferita da Dio, allo stesso modo colui che la rifiuta e l'abbandona, è tenuto a rendere conto di accuse d'altro genere, cioè di disubbidienza e di ribellione. Ed è proprio questo che Paolo esprime qui, all'inizio stesso di questa sua lettera a Timoteo.

Paolo, apostolo di Cristo Gesù, per comando di Dio. Non dice: prescelto 5, ma: per comando. Ebbene, Paolo esordisce in questo modo affinché Timoteo non provi un sentimento troppo umano, pensando che il maestro gli parli come agli altri discepoli. Ma Dio dove gli ha dato quest'ordine? Noi troviamo lo Spirito Santo dire negli Atti degli Apostoli: Riservate per me Barnaba e Saulo 6. All'inizio dell'epistolario Paolo fa seguire al suo nome il titolo di apostolo, abituando in tal modo l'uditore a non ritenere la sua parola come detta da un uomo, giacché un apostolo non parla in nome proprio.

La missione di un «apostolo»: maestro e guida

Col dire quindi apostolo fa subito rivolgere la mente dell'uditore a colui che ha affidato la missione. Ecco perché in tutte le sue lettere esordisce sempre allo stesso modo, con un preambolo degno di credito, quando appunto si esprime così: Paolo, apostolo di Cristo Gesù, per comando di Dio nostro salvatore. Inoltre, in nessuna parte appare il Padre per dargli un comando, mentre è sempre e dovunque Cristo a parlargli. E cosa gli dice? Va', perché io ti manderò lontano, tra i pagani 7; e ancora: Bisogna che tu compaia davanti a Cesare 8. Ora, poiché il Figlio dice che i suoi non sono che gli ordini del Padre, così come del Figlio sono quelli dello Spirito, ecco il motivo per cui (Paolo) dice per comando di Dio: l'Apostolo, infatti, è inviato dallo Spirito e lo Spirito vuole che egli sia messo a parte. Che dunque? Il fatto che l'Apostolo sia inviato per comando di Dio può forse diminuire la potenza del Figlio? Certamente no; anzi, osserva come Paolo affermi esplicitamente la comune potenza di entrambi. Infatti, dopo aver detto, per comando di Dio nostro salvatore, ha aggiunto: e del Signore nostro Gesù Cristo, nostra speranza.

Inoltre, fa' attenzione alla precisione con cui ha adoperato i termini. Anche il salmista, riferendosi al Padre, lo aveva detto: Speranza dei confini della terra 9, mentre il beato Paolo in un altro passo scriverà : Per questo noi ci affatichiamo e combattiamo, perché abbiamo riposto la nostra speranza nel Dio vivo e vero 10. È necessario, infatti, che il maestro non solo affronti dei pericoli, ma che questi siano di molto più gravi di quelli del discepolo. Nelle tribolazioni abbiamo Dio come salvatore e Cristo come speranza. È stato scritto: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge 11. Ebbene, poiché le cose stanno così, il diavolo infierisce contro di lui con più veemenza perché, morto il pastore, anche il gregge sarà disperso. Infatti, se uccidendo le pecore il gregge diminuisce, eliminando invece il pastore, egli distruggerà l'intero gregge.

Dunque, poiché si rende conto che con una fatica minore ottiene di più e che in una sola anima riesce a mandare tutto in rovina, si avventa in modo particolare contro i maestri. Ecco allora perché l'Apostolo subito, all'inizio, infonde coraggio nell'animo del suo discepolo dicendogli che noi abbiamo Dio come salvatore e Cristo come speranza. Le nostre tribolazioni, è vero, sono numerose, ma nutriamo grandi speranze; corriamo dei pericoli e siamo soggetti a insidie, è vero, ma abbiamo colui che ci salva: non un uomo, ma Dio, e colui che ci salva non è debole, perché è Dio. Perciò, per quanto grandi possano essere i pericoli, essi non riusciranno mai a sopraffarci, né la nostra speranza resterà confusa, poiché essa è Cristo stesso.

Abbiamo dunque due possibilità per fronteggiare i pericoli: o riusciamo subito a liberarcene, oppure possiamo nutrire buone speranze per superarli. Ma perché Paolo non si definisce mai apostolo del Padre, bensì di Cristo? Perché egli mette tutto in comune, tanto che il vangelo egli lo dice vangelo di Dio. Le cose della terra, afferma, sono un niente, qualsiasi cosa noi abbiamo a soffrire.

Timoteo, figlio verace nella fede

A Timoteo, figlio verace nella fede. Anche questo è un segno di incoraggiamento. Infatti, se il discepolo ha dato prova di una fede tale da diventare figlio di Paolo, e non solo figlio, ma anche figlio verace, allora egli si mostrerà coraggioso anche di fronte al futuro. Lo specifico della fede consiste, infatti, nel non lasciarsi mai né abbattere né sconcertare, neppure quando i fatti sembrano contrari alle promesse. Ecco perché l'Apostolo parla di figlio, anzi figlio verace, quantunquenon sia affatto della stessa sostanza. Cosa? È un essere di un'altra specie? 12

Certamente no; perché Paolo esclude una filiazione materiale, volendo semplicemente affermare che Timoteo non è nato da lui. Qual è dunque il senso dell'espressione? Forse che Timoteo proviene da un'altra sostanza? Neppure questo. Infatti, non appena l'ha chiamato figlio, ha subito aggiunto: nella fede, per indicare che egli è un figlio verace, proveniente da lui e in nulla diverso da lui per la somiglianza secondo la fede.

Anche nell'uomo, per quanto riguarda la sostanza, si verifica la stessa cosa: il figlio cioè è simile al padre, sì, ma non allo stesso modo che è in Dio, cioè perfetto, in quanto la somiglianza (tra il Padre e il Figlio) è più intima e più profonda. Infatti, mentre negli uomini, benché la sostanza sia la stessa, si riscontrano per altri aspetti numerose differenze: il colore, la forma, le idee, l'età, la volontà, le facoltà dell'anima e le fattezze fisiche esteriori; anzi, essi differiscono tra loro più di quanto non si rassomiglino, in Dio invece non vi è nessuna di queste differenze. Inoltre, l'espressione per comando è più efficace del semplice chiamato 13, come appunto lo si può evincere in un'altra lettera. Infatti, lo stesso concetto espresso in: A Timoteo, mio figlio verace, l'Apostolo lo afferma quando, scrivendo ai Corinti, dice: poiché sono io che in Cristo Gesù (per mezzo del vangelo) vi ho generati 14, e cioè nella fede. Perciò Paolo, con l'aggiunta di verace al titolo di figlio, intende attestare nei confronti di Timoteo una somiglianza maggiore di quella che egli ha con gli altri; ma non solo questo, è infatti anche la testimonianza del vivo e tenero affetto che nutre per lui.È questo dunque il senso autentico della preposizione «in» nell'espressione: nella fede, quando appunto dice: Al figlio verace nella fede. Osserva quindi l'elogio che tesse di Timoteo: non solo lo chiama figlio suo, ma anche figlio verace.

Grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signore nostro (@+1Tm 1,2@).

1022. Perché l'Apostolo non ha premesso il terminemisericordia in nessun'altra lettera, ma solamente in questa? Perché vuole offrire un'ulteriore testimonianza del suo grande affetto, esprimendo i suoi voti migliori per un figlio che è oggetto delle sue sollecitudini e dei suoi timori. Infatti, cosa che giammai aveva fatto, Paolo teme per lui fino a preoccuparsi del suo stato fisico e perciò gli dice: (Smetti di bere soltanto acqua), ma fa' uso di un po' di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni 15. Inoltre, soprattutto i maestri hanno bisogno di maggiore misericordia. Dice: da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro. Si tratta ancora una volta di una formula d'incoraggiamento. Infatti, se Dio è Padre, certamente egli si dà pensiero dei suoi figli. Del resto, ascolta ciò che Cristo stesso dice: Chi tra voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? .

Come ti raccomandai di rimanere in Efeso alla mia partenza per la Macedonia, (così te lo ripeto ora) (1 Tim. 1, 3).

Ascolta la dolcezza del linguaggio: Paolo si esprime non come un maestro, ma quasi come un servitore. Egli non ha detto: Io ti ho dato l'ordine... Io ti ho imposto il dovere; e neppure: Io ti ho rivolto l'esortazione; ma cosa? Io ti ho raccomandato. Noi, dunque, dobbiamo assumere un atteggiamento affettuoso non verso tutti i discepoli, ma soltanto verso coloro che sono sottomessi e virtuosi, in quanto bisogna agire diversamente nei riguardi dei corrotti e dei non veraci. Lo stesso Paolo, infatti, altrove scrive: Richiamali al dovere con ogni autorità.

Vedi ciò che egli ancora dice qui: E questo perché tu richiami alcuni; non dice perché tu preghi alcuni, ma perché richiami alcuni affinché non insegnino cose diverse 19. Che significa questo? Non era sufficiente la lettera che Paolo aveva loro indirizzato? Certamente era sufficiente, ma gli uomini mostrano minor rispetto verso ciò che ad essi è semplicemente trasmesso per iscritto. O la cosa si può spiegare così, oppure vuol dire che tale era la situazione prima dell'invio della sua lettera. Egli stesso, per molto tempo 20, aveva soggiornato in questa città dove vi era il tempio di Artemide (Diana) 21 e dove aveva tanto sofferto. Dopo aver lasciato il teatro 22, convocò i discepoli, li esortò, stette ancora accanto ad essi e poi salpò (per la Macedonia).

A ragione ci si può domandare se è in tale occasione che Paolo insediò colà Timoteo nel suo ufficio pastorale, quando dice: perché richiami alcuni affinché non insegnino cose diverse. Egli non li chiama per nome, per timore di non renderli ancora più impudenti mediante un palese richiamo. Fra i Giudei vi erano dei falsi apostoli, che volevano ancora lasciare i fedeli sotto il giogo della legge e l'Apostolo li accusa dunque nelle sue lettere 23. Costoro si comportavano così spinti non dalla retta coscienza ma dalla vanagloria, desiderando essi avere dei discepoli, rivaleggiando col beato Paolo e provando gelosia nei suoi riguardi. Questo appunto significa: insegnare cose diverse. A non dar peso - dice - a favole e a genealogie interminabili 24. Egli dice favole e non legge; lungi da lui questo pensiero! Intende così designare lefalse storie e gli insegnamenti alterati e contraffatti. È probabile che alcuni tra i Giudei spendevano tante parole in cose inutili, enumerando avi e proavi per acquistarsi, s'intende, la fama di uomini di vasta esperienza e conoscenza. E questo perché - dice Paolo - tu richiami alcuni affinché non insegnino cose diverse, né diano peso a favole e a genealogie interminabili.

Cosa intende con interminabili? L'Apostolo o vuole riferirsi a quelle cose che non hanno fine, o a quelle prive di qualsiasi utilità o, infine, a quelle che per noi sono difficili da comprendere.

La fede non ha bisogno di minuziose e laboriose indagini

Osserva come Paolo condanna queste minuziose indagini! Dove c'è la fede, infatti, non c'è bisogno di ricerca; e quando non vi è più nulla da indagare, che bisogno c'è di ricercare? Fare indagini sulla fede significa distruggerla. Infatti colui che cerca non ha ancora trovato, e chi cerca continuamente, non può credere. Per questo l'Apostolo dice di non tenerci impegnati dietro a siffatte ricerche, perché se cerchiamo, neghiamo la fede che supera ogni tentativo di razionalizzazione. Perché, dunque, Cristo dice: Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto 25 e: Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna 26? Mentre nella prima espressione dice: cercate, in riferimento alla preghiera e all'ardente desiderio (della domanda), nella seconda, invece, dice: Voi scrutate le Scritture, alludendo non a colui che si sobbarca le fatiche della ricerca, ma a colui che le rigetta. Cosa quindi significa: Voi scrutate le Scritture?

Significa studiarle accuratamente, acquisirne la perfetta conoscenza, non per cercare sempre, ma per mettere un termine alle nostre ricerche. Dunque, ben si è espresso quando ha affermato: E questo perché tu richiami alcuni affinché non insegnino cose diverse, né diano peso a favole e a genealogie interminabili, le quali servono piuttosto a (vane) discussioni che all'economia di Dio nella fede.

L'economia di Dio e la fede incrollabile del credente

(Paolo adopera) ancora una felice espressione: economia di Dio. Dio ha voluto donarci grandi cose, ma il ragionamento non è in grado di comprendere lagrandezza dei suoi piani provvidenziali. È necessario, dunque, che essi siano resi intelligibili per mezzo della fede, poiché essa è il farmaco più efficace per le nostre anime. L' indagare è, pertanto, cosa contraria all'economia della sapienza di Dio. Che cosa, dunque, viene partecipato per mezzo della fede? Questa ci consente di ricevere le grazie divine, di divenire migliori, di non essere mai né in disaccordo né dubbiosi, ma di essere del tutto tranquilli. Infatti il nostro continuo indagare, a furia di agitare questioni e respingere la fede, rovescia ciò che per l'appunto la fede ha portato a compimento, ciò che essa ha edificato.

Né diano peso - dice - a favole e a genealogie interminabili.

L'Apostolo parla di genealogie; ma quale danno esse potevano arrecare? Cristo affermava che la salvezza si ottiene per mezzo della fede: essi, al contrario, erano ancora alla ricerca, anzi dissentivano e ponevano la questione in altri termini. Infatti, sostenevano la necessità della fede solamente perché mentre il parlare, dicevano, riguarda la vita presente, invece la sua realizzazione implica quella futura. Essi allora, restando imbrigliati nelle osservanze legali, ostacolavano la fede. Perciò io penso che qui Paolo, parlando di favole e di genealogie, alluda anche ai Greci, in quanto pure essi amavano descrivere minuziosamente le genealogie dei loro dèi. Smettiamola dunque di discutere! Del resto, ci chiamiamo fedeli proprio perché senza dubitare e senza la minima esitazione crediamo a quanto ci è stato insegnato. Inoltre, se gli insegnamenti fossero stati umani, allora sì che bisognava vagliarli attentamente; ora, poiché essi provengono da Dio, bisogna soltanto accettarli rispettosamente e credere sinceramente in essi. Se non crediamo, vuol dire che non siamo convinti neppure dell'esistenza di Dio!

Come si può affermare di sapere che Dio esiste, se poi esigiamo il rendiconto del suo operato? (Sappiate che) il primo indizio della conoscenza di Dio è questo: credere a ciò che egli dice senza aver bisogno di nessun'altra sua testimonianza e senza nessun'altra prova umana. Questo lo sanno anche i Greci. Essi, infatti, continuano a credere nei loro dèi, afferma Paolo, senza che questi producano prove concrete delle loro parole. Per quale motivo? Semplicemente perché esse provengono dagli dèi. Osservate: anche i Greci sanno questo! Ma perché io giungo a incomodare gli dèi? I Greci, infatti, prestavano fede perfino a un uomo, a un prestigiatore, a un mago: Pitagora.

Le dottrine dei Greci e la «dottrina cristiana»

Il maestro ha detto 28, ed eccoti il silenzio scritto sul frontespizio della sua scuola: il filosofo stesso, ponendo il dito sulla bocca e serrando le labbra, raccomandava il silenzio a tutti coloro che passavano. E che? Possibile che mentre il loro comportamento era così degno di rispetto, il nostro invece non solo non lo è, ma sembrerà addirittura degno di riso? E questo, inoltre, di quale mai follia sarebbe l'eccesso? Ora, mentre le filosofie dei Greci, risolvendosi in gare di ragionamenti, di controversie e di conclusioni sillogistiche, per loro stessa natura si prestano alla discussione, la nostra dottrina invece è ben svincolata da tutti questi sofismi. Quelle le ha scoperte la saggezza umana, la nostra l'ha insegnata la grazia dello Spirito divino; quelle sono dottrine stolte e folli, la nostra è un dogma tutto ricco di ineffabile sapienza. Presso i Greci non vi è né discepolo né maestro, ma tutti disputano gareggiando in interminabili questioni; presso noi cristiani, invece, sia il maestro che il discepolo prendono lezioni da colui che solo può istruire; lo fanno senza esitazione e credono senza sofisticate argomentazioni. Tutti i nostri antenati, infatti, si distinsero per la loro fede, senza la quale tutto va in rovina.

Attacchiamoci alla fede e affidiamoci ad essa

Ma perché parlo di cose celesti? Infatti, se esaminiamo con oculatezza e da vicino le cose della terra, scopriremo che anch'esse hanno uno stretto rapporto con la fede, in quanto senza di questa né si potranno sancire patti, né intraprendere relazioni d'affari, né porre mano a un'arte, né insomma si potrà assumere un qualsiasi impegno di siffatto genere.

Ora, se c'è bisogno della fede nelle cose della terra dove regna la menzogna, quanto più indispensabile sarà essa in quelle celesti? 29 Attacchiamoci perciò alla fede, affidiamoci ad essa. Scacciamo così dalla nostra mente ogni funesta credenza, come ad esempio quella della nascita e del destino. Se infatti si crede nella risurrezione e nel giudizio, tutte queste credenze sicuramente svaniranno dall'animo. Al contrario, impara a credere nell'esistenza di un Dio giusto e non credere a una nascita ingiusta; credi nell'esistenza di un Dio provvidente e non ritenere che la nascita sarà il cardine su cui s'impernierà (l'avvenire) della tua esistenza. Credi all'esistenza di una punizione e di un premio nel regno futuro, e non credere che siamo privati del nostro libero arbitrio o che siamo posti sotto il giogo di una forza ineluttabile.

Non seminare, non piantare, non combattere, non fare cioè assolutamente niente, in quanto tutto ciò che nasce è destinato a giungere al suo totale compimento, che ciascuno lo voglia o meno! Allora, obietterai, che bisogno abbiamo di pregare? Perché continuare a essere cristiani, se vi è (la fatalità) della nascita? Perché noi, rispondo, non saremo accusati (nel giudizio finale).

Rifletti: da dove provengono le arti? Forse dalla nascita? Certamente, mi risponderai. Infatti è segnato dal destino che uno diventi sapiente con grande sforzo. Mostrami, d'altronde, chi ha appreso un'arte senza farlo con fatica. Ti sarebbe impossibile, in quanto ciò dipende non dalla nascita, ma da un incessante lavoro. Mi chiederai: Come avviene che uno è ricco, pur essendo scellerato e malvagio e pur non avendo ricevuto dal padre nessuna eredità, mentre un altro vive nella povertà nonostante i suoi incalcolabili sacrifici? (Io ti rispondo) che agitano incessantemente tali questioni, solamente coloro che imperniano tutta la loro esistenza sui concetti di ricchezza e povertà e non su quelli di vizio e di virtù.

L'azione universale della divina provvidenza

103 Adesso, comunque, non è il momento d'affrontare tale questione; mostrami, piuttosto, se un uomo pieno di zelo sia mai divenuto cattivo e se un uomo infingardo sia mai divenuto buono. Ebbene, se il destino ha qualche potere, lo mostri in cose di ben più grande importanza, vale a dire nell'opposizione esistente tra il vizio e la virtù e non tra la ricchezza e la povertà. Tu obietterai: Da cosa dipende il fatto che uno è malato e un altro gode ottima salute, che uno ha una buona reputazione e un altro vive nel vituperio, che a uno le cose procedono secondo i suoi desideri e un altro s'imbatte in mille e mille ostacoli? Rifuggi dal credere che tutto derivi dalla fatalità della nascita e comprenderai ciascuna di queste cose! Credi invece fermamente che è Dio colui il quale provvede, e avrai l'inequivocabile intelligenza di tutto!

Ma replicherai: Non posso, semplicemente perché la confusione che regna tra queste cose non consente di supporre una provvidenza. Se, infatti, esse sono opera di Dio, come possiamo credere che un Dio giusto doni ricchezza al fornicatore, al malvagio, a colui che desidera avere sempre di più e non all'uomo virtuoso? Come potremo credere? Non è forse vero che bisogna credere partendo dai fatti concreti?

Bene! Allora io chiedo: Ciò deriva da un destino di nascita giusto o ingiusto? Ingiusto, mi si risponderà. E chi l'ha determinato? Forse Dio? No, si replicherà, perché esso non è stato determinato. Ma, se non è stato determinato, come può produrre simili cose? Non ci si trova di fronte a una vera e propria contraddizione?

Perché Dio permette ai malvagi di vivere giorni felici? Dunque, non è assolutamente possibile che queste cose siano opera di Dio! Chiediamoci allora chiha fatto il cielo, la terra, il mare e le stagioni. È forse il destino? In tal caso, (dobbiamo affermare che) colui il quale nelle cose inanimate ha stabilito un così ammirabile ordine e una così perfetta armonia, invece ha posto in noi un così grande disordine, proprio in noi per i quali egli ha creato ogni cosa! Ciò equivarrebbe a dire che una persona si è preoccupata di prepararsi una splendida dimora, senza tuttavia darsi pensiero di quelli che devono abitarla! Chi conserva l'ordinato avvicendarsi delle stagioni? Chi ha sancito le sagge leggi della natura? Chi ha stabilito il succedersi dei giorni e delle notti? Eppure, tutte queste cose si sottraggono al potere del destino! Tu obietterai: No, queste cose hanno in sé la ragione della loro esistenza. Sì? E in che modo un ordine così perfetto si sarebbe fatto da sé senza una causa intelligente? E tu con insistenza mi chiederai: Da dove mai traggono origine quelli che possiedono ricchezze, buona salute e reputazione, se non chi dall'avidità, chi da un'eredità e chi dalla violenza? Insomma, perché Dio permette ai malvagi di vivere giorni felici? È perché la ricompensa secondo il merito non si ottiene qui (nella vita presente), ma ci è stata riservata nella vita futura!

Tu mi dici: Mostrami allora qualcosa di simile, che già si sia verificato. Per il momento, dammela per vinta qui sulla terra, e io smetterò di cercare altrove! (E io ti rispondo): Ma tu non riceverai, proprio perché indaghi. Infatti, se al di là del piacere tu cerchi le cose della vita presente a tal punto da preferirle a quelle della vita futura, molto di più le cercheresti se godessi di puri piaceri. Pertanto, il motivo per cui Dio ti fa vedere queste cose, è perché esse sono un niente, sono senza alcuna importanza: se non fossero veramente tali, Dio non te le avrebbe date!

Rifletti: Non è forse indifferente essere bianco o nero, grande o piccolo? Ebbene, le ricchezze non sono meno indifferenti. Dimmi: I beni necessari non sono stati dati equamente a tutti, come ad esempio l'attitudine alla virtù e l'elargizione dei doni spirituali? Se tu conoscessi i benefici di Dio e ne traessi equo

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OMELIA 2

IL FINE DI QUESTO RICHIAMO È PERÒ LA CARITÀ, CHE SGORGA DA UN CUORE PURO, DA UNA BUONA COSCIENZA E DA UNA FEDE SINCERA. PROPRIO DEVIANDO DA QUESTA LINEA, ALCUNI SI SONO VOLTI A FATUE VERBOSITÀ, PRETENDENDO DI ESSERE DOTTORI DELLA LEGGE MENTRE NON CAPISCONO QUELLO CHE DICONO, NÉ ALCUNA DI QUELLE COSE CHE DANNO PER SICURE

(1Tm 1,5-7)

Prima Timoteo 1,5-7

Donde nascono le eresie? Uno strumento invincibile: la carità

2011. Niente nuoce al genere umano quanto disprezzare l'amicizia e non coltivarla con il più premuroso interesse; al contrario, non si può imprimere nessun giusto indirizzo all'esistenza, se nonci si ripromette di volerla perseguire a ogni costo. È questo l'insegnamento di Cristo, quando afferma: Se due di voi (sopra la terra) si accorderanno per domandare qualunque cosa (il Padre mio che è nei cieli ve la concederà) 1; e ancora: ...per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà 2. Da ciò sono nate le eresie. Infatti, quando non si amano i propri fratelli, si finisce con l'essere invidiosi della loro prosperità; l'invidia, a sua volta, genera l'ambizione e da quest'ultima nasce l'eresia.

Per questo motivo, dopo aver detto: ...perché tu invitassi alcuni a non insegnare dottrine diverse 3, Paolo suggerisce (a Timoteo) anche il mezzo da adoperare. Ma qual è questo mezzo? È la carità. Pertanto, come quando l'Apostolo dice: Ora, il termine della legge è Cristo 4, cioè Cristo è il suo compimento, e questo comporta significativamente una stretta connessione con tutte le istituzioni riguardanti la legge; allo stesso modo, l'ordine di Paolo si congiunge immediatamente con la carità. Il fine della medicina è la sanità fisica. Perciò, come quando essendoci la salute non vi è bisogno di nessuna prescrizione medica, così quando vi è la carità, non vi è alcuna necessità di impartire molti ordini. Ma di quale carità Paolo intende parlare? Della carità vera, non di quella fatta di parole, ma di quella che procede da una sincera disposizione d'animo, da uno schietto sentimento di comprensione; insomma, dice l'Apostolo, da un cuore puro, da una retta condotta di vita e da una leale amicizia. Infatti, un'impura condotta di vita produce anche gli scismi: Chiunque fa il male odia la luce5.

Il senso autentico dell'amicizia

È vero, pure tra i malvagi sorgono delle amicizie, tanto che i ladroni amano i ladroni e gli omicidi gli omicidi; però è altrettanto vero che questo loro sentimento non scaturisce da una coscienza buona, ma cattiva; non da un cuore puro, ma impuro; non da una fede sincera, ma finta e contraffatta. La fede, al contrario, mostra la verità; dalla fede nasce la carità vera, e colui che veramente crede in Dio, non si allontanerà mai da essa.

Proprio deviando da questa linea - dice l'Apostolo - alcuni si sono volti a fatue verbosità. E dice bene, quando afferma: Proprio deviando da questa linea. Infatti è come scagliare dei dardi: si richiede perizia e abilità, se non si vuole andare oltre il bersaglio. Noi abbiamo, quindi, bisogno di essere diretti dallo Spirito ma, dal momento che molte sono le ragioni che ci distolgono dalla retta via, dobbiamo proporci un'unica e sola meta. Pretendendo - dice - di essere dottori della legge. Hai inteso? Un'altra causa è questa: l'ambizione di dominare. Perciò Cristo diceva: Ma voi non fatevi chiamare «rabbi» 6; e l'Apostolo: Infatti neppure essi (gli stessi circoncisi) osservano la legge, (ma vogliono la vostra circoncisione) per trarre vanto dalla vostra carne 7. Essi ambiscono la dignità, afferma, ed è per questo che non hanno lo sguardo rivolto alla verità.

L'errore dei falsi dottori e il vero scopo della legge

Non capiscono quello che dicono, né alcuna di quelle cose che danno per sicure. A questo punto egli li accusa apertamente di ignorare lo scopo a cui tende la legge, nonché il momento opportuno nel quale deve fermarsi il suo potere. Ebbene, se la causa (del loro comportamento) è l'ignoranza, come si può parlare di peccato? La questione è che essi si comportavano in questo modo non solo perché pretendevano di essere dottori della legge, ma soprattutto perché non avevano la carità: e la loro ignoranza traeva origine da qui e non da altrove. Quando infatti l'anima si abbandona alle opere della carne offusca la chiaroveggenza: perdendo la carità, essa cade nelle rivalità e ottunde in tal modo l'occhio della sua intelligenza. Del resto, colui che si lascia imbrigliare dalla brama di qualcosa di effimero, ebbro com'è di questa sua passione, non è in grado di essere giudice imparziale della verità: Non capiscono quello che dicono - dice - né alcuna di quelle cose che danno per sicure. È comunque verosimile che essi, trattando della legge, abbiano fatto cadere il loro discorso sulle purificazioni e sulle altre pratiche corporali. Ebbene, senza per nulla soffermarsi a rimproverare loro queste osservanze, che in fondo non erano altro se non l'ombra e l'abbozzo delle cose dello Spirito, (l'Apostolo) affronta un argomento che certamente sta più a cuore ad essi. Qual è quest'argomento? (Paolo) tesse l'elogio della legge, dove però per legge egli intende il Decalogo, apportando così un ulteriore argomento contro le osservanze legali. Infatti, se i precetti comportano la condanna dei trasgressori, e sotto quest'aspetto non sono per niente utili, a maggior ragione non lo sono le semplici osservanze legali.

L'uso legittimo della legge conduce a Cristo

Certo, noi sappiamo che la legge è buona se uno ne usa legalmente; sono convinto che la legge non è fatta per il giusto... (1Tm 1,8-9).

Paolo, dunque, nello stesso tempo afferma che la legge è buona e non è buona. Ma, obietterai, cosa intende dire mai? Forse che essa non è buona se non la si usa legalmente? No, essa lo è anche in questo caso! Pertanto, ciò che l'Apostolo afferma significa semplicemente che la legge deve conformarsi alle azioni.

Il significato dell'espressione è dunque questo: bisogna farne un uso legittimo. Infatti, quando essi la esaltano a parole ma la trasgrediscono con le loro azioni, certamente non ne fanno un uso legittimo: ne usano, è vero, ma non per il loro bene. A questa si può ancora aggiungere un'altra riflessione. Quale? La seguente: se fai un uso legittimo della legge, questa ti conduce a Cristo. La legge, infatti, non avendo altro scopo che quello di giustificare l'uomo, poiché di per sé non lo può, rinvia a colui che lo può. E vi è ancora un altro uso legittimo della legge, vale a dire quando noi la osserviamo con sovrabbondanza. Che cosa significa: con sovrabbondanza? Come un cavallo fa un uso conveniente del freno quando lo porta come puro ornamento e non quando imbizzarrisce o morde, allo stesso modo fa un uso legittimo della legge colui che agisce in modo corretto ed equilibrato, lungi cioè da una pedissequa osservanza della lettera della legge. Chi dunque ne farà un uso legittimo? Colui che sa di non averne bisogno. Infatti, chi è giunto a tal punto di perfezione da osservare la legge non per la paura di essa ma per la perfezione stessa, certamente costui ne fa un uso legittimo: egli la usa senza temerne le prescrizioni, anche se ha davanti agli occhi il castigo che in essa si trova scritto. Qui, sia pure in maniera diversa, Paolo chiama giusto colui che rettamente esercita la virtù. In conclusione, fa un nobile uso della legge colui che, per la sua educazione, non ha affatto bisogno di essa.

Chi adempie pienamente e legittimamente la legge?

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2. Come quando ai fanciulli si presentano le formedelle lettere dell'alfabeto, colui che insegna, acquistando maggiore perizia e conoscenza non dalle lettere in sé ma da altri fattori, finisce per servirsi delle forme delle lettere nel modo migliore, allo stesso modo colui che trascende la legge, non la riconosce più come suo pedagogo. Infatti, adempie in modo eccellente la legge non chi vi si sottomette perché ne ha paura, ma chi vi si conforma perché ama la virtù in modo particolare. Similmente, non adempie la legge né colui che ne teme il castigo, né colui che vi è spinto dall'onore (che deriva dalla obbedienza). Inoltre, adempie la legge non colui che è sotto la legge, ma colui che è al di sopra di essa. Vivere infatti al di sopra della legge significa fare di essa un uso legittimo. D'altronde fa un corretto uso della legge e la custodisce chi, nel compierla, va ben al di là del comando (in essa contenuto), per cui non ha bisogno di riconoscerla come suo pedagogo. La legge, generalmente, consiste nella proibizione di compiere il male; ebbene, non è il divieto a produrre ciò che è giusto, bensì la pratica del bene. Coloro che pertanto si astengono dal male per lo stesso motivo per cui lo fanno i servi, certamente non attendono allo scopo della legge: essa è stata stabilita unicamente per punire la trasgressione. Anche i servi infatti si servono di essa, ma solamente perché ne temono il castigo. Perciò l'Apostolo dice: Vuoi non aver da temere l'autorità? Fa' del bene.

In altre parole, è come se uno dicesse: La legge prescrive il castigo soltanto per i colpevoli; ma allora qual è la sua utilità per colui che compie azioni meritevoli di corone? Essa dunque è come il medico: è utile a coloro che sono feriti oppure ammalati, e non a quelli che godono di perfetta salute fisica. La legge - continua l'Apostolo - è fatta per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori 9. Ora egli, dicendo: iniqui e ribelli, intende designare i Giudei. La legge - afferma - produce l'ira. Questo chiaramente riguarda coloro che compiono il male; cosa però rappresenta per l'uomo degno d'onore? Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato.

Inoltre, qual è il rapporto tra essa e l'uomo giusto? La legge, dice, non è fatta per il giusto. E per quale motivo? Perché egli va al di là del castigo; perché non si aspetta di apprendere dalla legge ciò che deve fare: egli, infatti, possiede all'interno di sé la grazia dello Spirito che gli detta i suoi doveri. La legge è stata fatta affinché (i malvagi) siano tenuti a freno per mezzo della paura e della minaccia. Infatti, come un cavallo docile non ha bisogno del freno, così un uomo già istruito non sente la necessità del pedagogo.

(La legge è fatta) per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi.

Paolo, del resto, non si è fermato a questo punto, né si è soltanto limitato a fare una generica enunciazione dei peccati; ma li ha esaminati in rapporto alla loro specie con l'intento di far vergognare i colpevoli di fronte all'autorità della legge. Perciò, dopo averli enumerati secondo la loro specie, egli continua a fare esortazioni, come se ciò che ha già detto non sia molto. Ma di chi dice queste cose? Chiaramente, dei Giudei: sono essi i parricidi e i matricidi, i sacrileghi e i profanatori; l'Apostolo indica proprio loro quando parla di empi e peccatori. Ebbene, fu necessario dare la legge proprio perché vi erano siffatti uomini. Dimmi: Non erano forse essi che continuamente adoravano gl'idoli, che volevano lapidare Mosè, che avevano le mani macchiate del sangue dei loro fratelli? Forse che i profeti non stavano continuamente a rimproverarli di queste loro empie azioni? Tutte queste precisazioni, al contrario, sono completamente inutili per coloro che attendono alla filosofia del cielo!


Crisostomo - PRIMA TIMOTEO