Dilecti amici IT


LETTERA APOSTOLICA

DILECTI AMICI

DEL PAPA

GIOVANNI PAOLO II

PER L'ANNO INTERNAZIONALE DELLA GIOVENTU'

Cari amici!


Auguri per l'anno della gioventù


1 «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1P 3,15).

E' questo l'augurio che rivolgo a voi, giovani, sin dall'inizio dell'anno corrente. Il 1985 è stato proclamato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite l'Anno Internazionale della Gioventù, e ciò riveste un molteplice significato prima di tutto per voi stessi, ed anche per tutte le generazioni, per le singole persone, per le comunità e per l'intera società. Ciò riveste un particolare significato anche per la Chiesa, quale custode di fondamentali verità e valori ed insieme ministra degli eterni destini che l'uomo e la grande famiglia umana hanno in Dio stesso.

Se l'uomo è la fondamentale ed insieme quotidiana via della Chiesa (Redemptor Hominis RH 14), allora si comprende bene perché la Chiesa attribuisca una speciale importanza al periodo della giovinezza come ad una tappa-chiave della vita di ogni uomo. Voi, giovani, incarnate appunto questa giovinezza: voi siete la giovinezza delle nazioni e delle società, la giovinezza di ogni famiglia e dell'intera umanità; voi siete anche la giovinezza della Chiesa. Tutti guardiamo in direzione vostra, poiché noi tutti, grazie a voi, in un certo senso ridiventiamo di continuo giovani. Pertanto, la vostra giovinezza non è solo proprietà vostra, proprietà personale o di una generazione: essa appartiene al complesso di quello spazio, che ogni uomo percorre nell'itinerario della sua vita, ed è al tempo stesso un bene speciale di tutti. E' un bene dell'umanità stessa.

In voi c'è la speranza, perché voi appartenete al futuro, come il futuro appartiene a voi. La speranza, infatti, è sempre legata al futuro, è l'attesa dei «beni futuri». Come virtù cristiana, essa è unita all'attesa di quei beni eterni, che Dio ha promesso all'uomo in Gesù Cristo (cfr. Rm 8,19 Rm 8,21 Ep 4,4 Ph 3,10 s; 1Tm 3,7 He 7,19 1P 1,13). E contemporaneamente questa speranza, come virtù insieme cristiana e umana, è l'attesa dei beni che l'uomo si costruirà utilizzando i talenti a lui dati dalla Provvidenza.

In questo senso a voi, giovani, appartiene il futuro, così come un tempo esso appartenne alla generazione degli adulti e proprio insieme con essi è divenuto attualità. Di questa attualità, della sua molteplice forma e profilo sono responsabili prima di tutto gli adulti. A voi spetta la responsabilità di ciò che un giorno diventerà attualità insieme con voi, ed ora è ancora futuro.

Quando diciamo che a voi appartiene il futuro, pensiamo in categorie di transitorietà umana, la quale è sempre un passaggio verso il futuro. Quando diciamo che da voi dipende il futuro, pensiamo in categorie etiche, secondo le esigenze della responsabilità morale, che ci ordina di attribuire all'uomo come persona - e alle comunità e società che sono composte da persone - il valore fondamentale degli atti, dei propositi, delle iniziative e delle intenzioni umane.

Questa dimensione è anche la dimensione propria della speranza cristiana e umana. E in questa dimensione il primo e principale augurio che la Chiesa fa a voi giovani, per mia bocca, in quest'Anno dedicato alla Gioventù è: siate «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1P 3,15).

Cristo parla con i giovani


2 Queste parole, scritte un tempo dall'apostolo Pietro alla prima generazione cristiana, sono in rapporto con tutto il Vangelo di Gesù Cristo. Avvertiremo questo rapporto in modo forse più distinto, quando mediteremo il colloquio di Cristo col giovane, riferito dagli evangelisti (cfr. Mc 10,17-22 Mt 19,16-22 Lc 18,18-23). Tra i molti testi biblici è questo prima di tutto che merita di essere qui ricordato.

Alla domanda: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?», Gesù risponde prima con la domanda: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo». Poi continua dicendo: «Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre» (Mc 10,17-19). Con queste parole Gesù ricorda al suo interlocutore alcuni dei comandamenti del Decalogo.

Ma la conversazione non finisce qui. Il giovane, infatti, afferma: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora - scrive l'evangelista - «Gesù, fissatolo, lo amò» e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Mc 10,20s).

A questo punto cambia il clima dell'incontro. L'evangelista scrive che il giovane «rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (Mc 10,22).

Ci sono ancora altri passi nei Vangeli, in cui Gesù di Nazareth incontra i giovani - particolarmente suggestive sono le due risurrezioni: quella della figlia di Giairo (cfr. Lc Lc 8,49-56) e quella del figlio della vedova di Naim (cfr. Lc Lc 7,11-17) -; tuttavia, possiamo ammettere senz'altro che il colloquio sopra ricordato è l'incontro più completo e più ricco di contenuto. Si può anche dire che esso ha carattere più universale e ultratemporale, e cioè che vale, in un certo senso, costantemente e continuamente, attraverso i secoli e le generazioni. Cristo parla così con un giovane, con un ragazzo o una ragazza: conversa in diversi luoghi della terra, in mezzo alle diverse nazioni, razze e culture. Ognuno di voi in questo colloquio è un suo potenziale interlocutore.

Al tempo stesso, tutti gli elementi della descrizione e tutte le parole, dette in quella conversazione da ambedue le parti, hanno un significato quanto mai essenziale, possiedono un loro peso specifico. Si può dire che queste parole contengano una verità particolarmente profonda sull'uomo in genere e, soprattutto, la verità sulla giovinezza umana. Esse sono davvero importanti per i giovani.

Permettete, perciò, che in linea di massima io colleghi la mia riflessione nella presente lettera con questo incontro e con questo testo evangelico. Forse in tal modo sarà più facile per voi sviluppare il proprio colloquio con Cristo: un colloquio che è d'importanza fondamentale ed essenziale per un giovane.

La giovinezza è una ricchezza singolare


3 Inizieremo da ciò che si trova alla fine del testo evangelico. Il giovane se ne va rattristato, «perché aveva molti beni».

Senza dubbio questa frase si riferisce ai beni materiali, dei quali quel giovane era proprietario o erede. Forse è questa una situazione propria solo di alcuni, ma non è tipica. E perciò le parole dell'evangelista suggeriscono un'altra impostazione del problema: si tratta del fatto che la giovinezza di per se stessa (indipendentemente da qualsiasi bene materiale) è una singolare ricchezza dell'uomo, di una ragazza o di un ragazzo, e il più delle volte viene vissuta dai giovani come una specifica ricchezza. Il più delle volte, ma non sempre, non di regola, perché non mancano al mondo uomini che per diversi motivi non sperimentano la giovinezza come ricchezza. Occorrerà parlarne separatamente.

Ci sono tuttavia ragioni - e anche di natura oggettiva - per pensare alla giovinezza come ad una singolare ricchezza, che l'uomo sperimenta proprio in tale periodo della sua vita. Questo si distingue certamente dal periodo dell'infanzia (è appunto l'uscita dagli anni dell'infanzia), come si distingue anche dal periodo della piena maturità. Il periodo della giovinezza, infatti, è il tempo di una scoperta particolarmente intensa dell'«io» umano e delle proprietà e capacità ad esso unite. Davanti alla vista interiore della personalità in sviluppo di un giovane o di una giovane, gradualmente e successivamente si scopre quella specifica e, in un certo senso, unica e irripetibile potenzialità di una concreta umanità, nella quale è come inscritto l'intero progetto della vita futura. La vita si delinea come la realizzazione di quel progetto: come «auto-realizzazione».

La questione merita naturalmente una spiegazione da molti punti di vista; a volerla tuttavia esprimere in breve, si rivela proprio un tale profilo e forma di quella ricchezza che è la giovinezza. E' questa la ricchezza di scoprire ed insieme di programmare, di scegliere, di prevedere e di assumere le prime decisioni in proprio, che avranno importanza per il futuro nella dimensione strettamente personale dell'esistenza umana. Nello stesso tempo, tali decisioni hanno non poca importanza sociale. Il giovane del Vangelo si trovava proprio in questa fase esistenziale, come desumiamo dalle domande stesse che egli fa nel colloquio con Gesù. Perciò, anche quelle parole conclusive sui «molti beni», cioè sulla ricchezza, possono essere intese proprio in tale senso: ricchezza che è la giovinezza stessa.

Dobbiamo però chiedere: questa ricchezza, che è la giovinezza, deve forse allontanare l'uomo da Cristo? L'evangelista certamente non dice questo; l'esame del testo permette, piuttosto, di concludere diversamente. Sulla decisione di allontanarsi da Cristo hanno pesato in definitiva solo le ricchezze esteriori, ciò che quel giovane possedeva («i beni»). Non ciò che egli era! Ciò che egli era, proprio in quanto giovane uomo - cioè la ricchezza interiore che si nasconde nella giovinezza umana - l'aveva condotto a Gesù. E gli aveva anche imposto di fare quelle domande, in cui si tratta nella maniera più chiara del progetto di tutta la vita. Che cosa devo fare? «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Che cosa devo fare, affinché la mia vita abbia pieno valore e pieno senso?

La giovinezza di ciascuno di voi, cari amici, è una ricchezza che si manifesta proprio in questi interrogativi. L'uomo se li pone nell'arco di tutta la vita; tuttavia, nella giovinezza essi si impongono in modo particolarmente intenso, addirittura insistente.. Ed è bene che sia così. Questi interrogativi provano appunto la dinamica dello sviluppo della personalità umana, che è propria della vostra età. Queste domande ve le ponete a volte in modo impaziente, e contemporaneamente voi stessi capite che la risposta ad esse non può essere frettolosa né superficiale. Essa deve avere un peso specifico e definitivo. Si tratta qui di una risposta che riguarda tutta la vita, che racchiude in sé l'insieme dell'esistenza umana.

In modo particolare queste domande essenziali se le pongono quei vostri coetanei, la cui vita sin dalla giovinezza è gravata dalla sofferenza: da qualche carenza fisica, da qualche deficienza, da qualche handicap o limitazione, dalla difficile situazione familiare o sociale. Se con tutto ciò la loro coscienza si sviluppa normalmente, l'interrogativo sul senso e sul valore della vita diventa per loro tanto più essenziale ed insieme particolarmente drammatico, perché sin dall'inizio è contrassegnato dal dolore dell'esistenza. E quanti di questi giovani si trovano in mezzo alla grande moltitudine dei giovani nel mondo intero! Nelle diverse nazioni e società; nelle singole famiglie! Quanti sin dalla giovinezza sono costretti a vivere in un istituto o in un ospedale, condannati ad una certa passività, che può far nascere in loro ii sentimento di essere inutili all'umanità!

Si può dire allora che anche tale loro giovinezza sia una ricchezza interiore? A chi dobbiamo chiedere questo? A chi essi devono porre questo interrogativo essenziale? Sembra che qui sia Cristo l'unico interlocutore competente, quello che nessuno può sostituire pienamente.

Dio è amore


4 Cristo risponde al suo giovane interlocutore nel Vangelo. Egli dice: «Nessuno è buono, se non Dio solo». Abbiamo già sentito che cosa l'altro aveva domandato: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Come agire, affinché la mia vita abbia senso, pieno senso e valore? Noi potremmo tradurre così la sua domanda nel linguaggio della nostra epoca. In questo contesto la risposta di Cristo vuol dire: solo Dio è il fondamento ultimo di tutti i valori; solo lui dà il senso definitivo alla nostra esistenza umana. Solo Dio è buono, il che significa: in lui e solo in lui tutti i valori hanno la loro prima fonte e il loro compimento finale: egli è «l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine» (Ap 21,6). Solo in lui essi trovano la loro autenticità e la loro conferma definitiva. Senza di lui - senza il riferimento a Dio - l'intero mondo dei valori creati resta come sospeso in un vuoto assoluto. Esso perde anche la sua trasparenza, la sua espressività. Il male si presenta come bene e il bene viene squalificato. Non ci indica questo l'esperienza stessa dei nostri tempi, dovunque Dio sia stato rimosso oltre l'orizzonte delle valutazioni, degli apprezzamenti, degli atti?

Perché solo Dio è buono? Perché egli è amore. Cristo dà questa risposta con le parole del Vangelo e, soprattutto, con la testimonianza della propria vita e morte: «Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Jn 3,16). Dio è buono proprio perché «è amore» (1Jn 4,8 1Jn 4,16).

L'interrogativo sul valore, l'interrogativo sul senso della vita - abbiamo detto - fa parte della ricchezza singolare della giovinezza. Esso erompe dal cuore stesso delle ricchezze e delle inquietudini, legate a quel progetto di vita che si deve assumere e realizzare. Ancor più, quando la giovinezza è provata dalla sofferenza personale o è profondamente cosciente della sofferenza altrui; quando sperimenta una forte scossa di fronte al male multiforme, che è nel mondo; infine, quando si pone a faccia a faccia col mistero del peccato, dell'iniquità umana «mysterium iniquitatis» (cfr. 2Th 2,7). La risposta di Cristo suona così: «Solo Dio è buono»; solo Dio è amore. Questa risposta può sembrare difficile, ma nello stesso tempo essa è ferma ed è vera: essa porta in sé la soluzione definitiva. Quanto prego affinché voi, giovani amici, udiate questa risposta di Cristo in modo veramente personale, affinché troviate la strada interiore per comprenderla, per accettarla e per intraprenderne la realizzazione!

Tale è Cristo nella conversazione col giovane. Tale è nel colloquio con ciascuno e con ciascuna di voi. Quando voi gli dite: «Maestro buono ...», egli domanda: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo». E dunque: il fatto che io sono buono dà testimonianza a Dio. «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Jn 14,9). Così dice Cristo, maestro e amico, Cristo crocifisso e risorto: sempre lo stesso ieri, oggi e nei secoli (cfr. Eb He 13,8).

Tale è il nucleo, il punto essenziale della risposta a questi interrogativi che voi, giovani, ponete a lui mediante la ricchezza che è in voi, che è radicata nella vostra giovinezza. Questa schiude davanti a voi diverse prospettive, vi offre come compito il progetto di tutta la vita. Di qui l'interrogativo sui valori; di qui la domanda sul senso, sulla verità, sul bene e sul male. Quando Cristo rispondendovi vi comanda di riferire tutto questo a Dio, nello stesso tempo vi indica quale di ciò sia la fonte e il fondamento in voi stessi. Ognuno di voi, infatti, è immagine e somiglianza di Dio per il fatto stesso della creazione (cfr. Gn 1,26). Proprio una tale immagine e somiglianza fa sì che voi poniate quegli interrogativi che dovete porvi. Essi dimostrano fino a che punto l'uomo senza Dio non può comprendere se stesso, e non può neanche realizzarsi senza Dio. Gesù Cristo è venuto nel mondo prima di tutto per rendere ognuno di noi consapevole di questo. Senza di lui questa dimensione fondamentale della verità sull'uomo sprofonderebbe facilmente nel buio. Tuttavia, «la luce è venuta nel mondo» (Jn 3,19 cfr. Jn 1,9) «ma le tenebre non l'hanno accolta» (Jn 1,5).

La domanda sulla vita eterna ...


5 Che cosa devo fare perché la mia vita abbia valore, abbia senso? Questo interrogativo appassionante nella bocca del giovane del Vangelo suona così: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Un uomo, che ponga la domanda in questa forma, parla in un linguaggio ancora comprensibile agli uomini d'oggi? Non siamo noi la generazione, alla quale il mondo e il progresso temporale riempiono completamente l'orizzonte dell'esistenza? Noi pensiamo prima di tutto in categorie terrene. Se oltrepassiamo i confini del nostro pianeta, ciò facciamo allo scopo di inaugurare i voli interplanetari, per trasmettere segnali agli altri pianeti ed inviare le sonde cosmiche nella loro direzione.

Tutto questo è diventato il contenuto della nostra civiltà moderna. La scienza insieme alla tecnica ha scoperto in modo impareggiabile le possibilità dell'uomo nei riguardi della materia, ed è riuscita, altresì, a dominare il mondo interiore del suo pensiero, delle sue capacità, delle sue tendenze, delle sue passioni.

Allo stesso tempo, però, è chiaro che, quando ci poniamo di fronte a Cristo, quando egli diventa il confidente degli interrogativi della nostra giovinezza, non possiamo porre la domanda diversamente da quel giovane del Vangelo: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Ogni altra domanda sul senso e sul valore della nostra vita sarebbe, di fronte a Cristo, insufficiente e non essenziale.

Cristo, infatti, non solo è il «maestro buono», che indica le vie della vita sulla terra. Egli è il testimone di quei definitivi destini che l'uomo ha in Dio stesso. Egli è il testimone dell'immortalità dell'uomo. Il Vangelo, che egli annunciava con la sua voce, viene definitivamente sigillato con la Croce e con la Risurrezione nel mistero pasquale. «Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui» (
Rm 6,9). Nella sua risurrezione Cristo è divenuto anche il permanente «segno di contraddizione» (Lc 2,34) di fronte a tutti i programmi incapaci di condurre l'uomo oltre la frontiera della morte. Anzi essi con questo confine chiudono ogni interrogativo dell'uomo sul valore e sul senso della vita. Di fronte a tutti questi programmi, ai modi di vedere il mondo e alle ideologie Cristo ripete costantemente: «lo sono la risurrezione e la vita» (Jn 11,25).

Se tu dunque, caro fratello e cara sorella, desideri parlare con Cristo aderendo a tutta la verità della sua testimonianza, devi da un lato «amare il mondo» - poiché «Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito» (Jn 3,16) - e, nello stesso tempo, devi acquistare il distacco interiore nei riguardi di tutta questa ricca e appassionante realtà, qual è «il mondo». Devi deciderti a fare la domanda sulla vita eterna. Infatti, «passa la scena di questo mondo» (1Co 7,13), e ciascuno di noi è soggetto a tale passaggio. L'uomo nasce con la prospettiva del giorno della sua morte, nella dimensione del mondo visibile; al tempo stesso, l'uomo, per cui l'interiore ragion d'essere è di superare se stesso, porta in sé anche tutto ciò con cui supera il mondo.

Tutto quello con cui l'uomo supera in se stesso il mondo - pur essendo in esso radicato - si spiega con l'immagine e la somiglianza di Dio, che è inscritta nell'essere umano sin dall'inizio. E tutto ciò con cui l'uomo supera il mondo non solo giustifica l'interrogativo sulla vita eterna, ma lo rende addirittura indispensabile. Questa è la domanda che gli uomini si pongono da tempo non solo nell'ambito del cristianesimo, ma anche al di fuori di esso. Voi dovete trovare il coraggio anche di porla come il giovane del Vangelo. Il cristianesimo ci insegna a comprendere la temporalità dalla prospettiva del Regno di Dio, dalla prospettiva della vita eterna. Senza di essa la temporalità, anche la più ricca, anche la più formata in tutti gli aspetti, alla fine non porta all'uomo null'altro che l'ineluttabile necessità della morte.

Ora, esiste un'antinomia tra la giovinezza e la morte. La morte sembra essere lontana dalla giovinezza. E' così. Poiché, tuttavia, la giovinezza significa il progetto di tutta la vita, progetto costruito secondo il criterio del senso e del valore, anche durante la giovinezza è indispensabile la domanda sulla fine. L'esperienza umana, lasciata a se stessa, dice la stessa cosa della Sacra Scrittura: «E' stabilito che gli uomini muoiano una sola volta» (He 9,27). Lo scrittore ispirato aggiunge: «Dopo di che viene il giudizio». E Cristo dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Jn 11,25s). Domandate dunque a Cristo, come il giovane del Vangelo: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?».

... sulla morale e sulla coscienza

6 A questo interrogativo Gesù risponde: «Tu conosci i comandamenti», e subito elenca questi comandamenti, che fan parte del Decalogo. Li ricevette un giorno Mosè sul monte Sinai, al momento dell'Alleanza di Dio con Israele. Essi furono scritti su tavole di pietra (cfr. Ex 34,1 Dt 9,10 2Co 3,3) e costituivano per ogni israelita l'indicazione quotidiana della strada (cfr. Dt 4,5-9). Il giovane che parla con Cristo conosce naturalmente a memoria, i comandamenti del Decalogo; può, anzi, dichiarare con gioia: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza» (Mc 10,20).

Dobbiamo presupporre che in quel dialogo che Cristo sviluppa con ciascuno di voi, o giovani, si ripeta la stessa domanda: «Conosci i comandamenti?». Essa si ripeterà infallibilmente, perché i comandamenti fanno parte dell'Alleanza tra Dio e l'umanità. I comandamenti determinano le basi essenziali del comportamento, decidono del valore morale degli atti umani, rimangono in rapporto organico con la vocazione dell'uomo alla vita eterna, con l'instaurazione del Regno di Dio negli uomini e tra gli uomini. Nella parola della Rivelazione divina è inscritto il chiaro codice della moralità, di cui rimangono punto-chiave le tavole del Decalogo del monte Sinai, ed il cui apice si trova nel Vangelo: nel Discorso della montagna (cfr. Mt 5-7) e nel comandamento dell'amore (Cfr. Mt Mt 22,37-40 Mc 12,29-31 Lc 10,27).

Questo codice della moralità trova, al tempo stesso, un'altra redazione. Esso è inscritto nella coscienza morale dell'umanità, sicché coloro che non conoscono i comandamenti, cioè la legge rivelata da Dio, «sono legge a se stessi» (cfr. Rm Rm 2,14). Così scrive san Paolo nella Lettera ai Romani, e subito aggiunge: «Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza» (Rm 2,15).

Tocchiamo qui problemi di somma importanza per la vostra giovinezza e per quel progetto di vita, che da essa emerge.

Questo progetto aderisce alla prospettiva della vita eterna prima di tutto attraverso la verità delle opere, sulle quali verrà costruito. La verità delle opere ha il suo fondamento in quella duplice redazione della legge morale: quella che si trova scritta nelle tavole del Decalogo di Mosè e nel Vangelo, e quella che si trova scolpita nella coscienza morale dell'uomo. E la coscienza «si presenta come testimone» di quella legge, come scrive san Paolo. Questa coscienza - secondo le parole della Lettera ai Romani - sono «i ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,15). Ognuno sa quanto queste parole corrispondano alla nostra realtà interiore: ciascuno di noi sin dalla giovinezza sperimenta la voce della coscienza.

Quando dunque Gesù, nel colloquio col giovane, elenca i comandamenti: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre» (Mc 10,19), la retta coscienza risponde con una reazione interiore alle rispettive opere dell'uomo: essa accusa o difende. Bisogna, però, che la coscienza non sia deviata; bisogna che la fondamentale formulazione dei principi della morale non ceda alla deformazione ad opera di un qualsiasi relativismo o utilitarismo.

Cari giovani amici! La risposta, che Gesù dà al suo interlocutore del Vangelo, è rivolta a ciascuno e a ciascuna di voi. Cristo vi interroga circa lo stato della vostra consapevolezza morale, e vi interroga, al tempo stesso, circa lo stato delle vostre coscienze. Questa è una domanda-chiave per l'uomo: è l'interrogativo fondamentale della vostra giovinezza, valevole per tutto il progetto di vita, che appunto deve formarsi nella giovinezza. Il suo valore è quello più strettamente unito al rapporto che ognuno di voi ha nei confronti del bene e del male morale. Il valore di questo progetto dipende in modo essenziale dall'autenticità e dalla rettitudine della vostra coscienza. Dipende anche dalla sua sensibilità.

In tal modo ci troviamo qui in un momento cruciale, in cui ad ogni passo temporalità ed eternità si incontrano ad un livello che è proprio dell'uomo. E' il livello della coscienza, il livello dei valori morali: questa è la più importante dimensione della temporalità e della storia. La storia, infatti, viene scritta non solo dagli avvenimenti, che si svolgono in un certo qual senso «dall'esterno», ma è scritta prima di tutto «dal di dentro»: è la storia delle coscienze umane, delle vittorie o delle sconfitte morali. Qui trova anche il suo fondamento l'essenziale grandezza dell'uomo: la sua dignità autenticamente umana. Questo è quel tesoro interiore, per il quale l'uomo supera di continuo se stesso nella direzione dell'eternità. Se è vero che «è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta», è anche vero che il tesoro della coscienza, il deposito del bene e del male, l'uomo lo porta attraverso la frontiera della morte, affinché, al cospetto di colui che è la santità stessa, trovi l'ultima e definitiva verità su tutta la sua vita: «Dopo di che viene il giudizio» (He 9,27).

Così appunto avviene nella coscienza: nella verità interiore dei nostri atti, in un certo senso, è costantemente presente la dimensione della vita eterna. E contemporaneamente la stessa coscienza, mediante i valori morali, imprime il più espressivo sigillo nella vita delle generazioni, nella storia e nella cultura degli ambienti umani, delle società, delle nazioni e dell'intera umanità.

Quanto in questo campo dipende da ciascuna e da ciascuno di voi!

«Gesù, fissatolo, lo amò»

7 Continuando nell'esame del colloquio di Cristo col giovane, entriamo ora in un'altra fase. Essa è nuova e decisiva. Il giovane ha ricevuto la risposta essenziale e fondamentale alla domanda: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?», e questa risposta coincide con tutta la strada della sua vita, finora percorsa: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Quanto ardentemente auguro a ciascuno di voi che la strada della vostra vita, finora percorsa, coincida similmente con la risposta di Cristo! Auguro, anzi, che la giovinezza vi fornisca una robusta base di sani principi, che la vostra coscienza raggiunga già in questi anni della giovinezza quella trasparenza matura che nella vita permetterà a ciascuno di voi di rimanere sempre «persona di coscienza», «persona di principi», «persona che ispira fiducia», cioè che è credibile. La personalità morale, così formata, costituisce insieme il più importante contributo che voi potete portare nella vita comunitaria, nella famiglia, nella società, nell'attività professionale e anche nell'attività culturale o politica e, finalmente, nella comunità stessa della Chiesa, con la quale già siete o sarete un giorno legati.

Si tratta qui insieme di una piena e profonda autenticità dell'umanità e di un'eguale autenticità dello sviluppo della personalità umana, femminile o maschile, con tutte le caratteristiche che costituiscono il tratto irripetibile di questa personalità e, al tempo stesso, provocano una molteplice risonanza nella vita della comunità e degli ambienti, iniziando già dalla famiglia. Ognuno di voi deve in qualche modo contribuire alla ricchezza di queste comunità, prima di tutto, per mezzo di ciò che è. Non si chiude in questa direzione quella giovinezza, che è la ricchezza «personale» di ciascuno di voi? L'uomo legge se stesso, la propria umanità sia come il proprio mondo interiore, sia come il terreno specifico dell'essere «con gli altri», «per gli altri».

Proprio qui assumono un significato decisivo i comandamenti del Decalogo e del Vangelo, specialmente il comandamento della carità, che apre l'uomo verso Dio e verso il prossimo. La carità, infatti, è «il vincolo della perfezione» (
Col 3,14). Per mezzo di essa maturano più pienamente l'uomo e la fratellanza inter-umana. Perciò, la carità è più grande (cfr. 1Co 13,13), è il primo tra tutti i comandamenti, come insegna il Cristo (cfr. Mt 22,38); in esso anche tutti gli altri si racchiudono e si unificano.

Vi auguro, dunque, che le strade della vostra giovinezza si incontrino col Cristo, affinché possiate confermare davanti a lui, con la testimonianza della coscienza, questo codice evangelico della morale, ai cui valori, nel corso delle generazioni, si sono avvicinati in qualche modo tanti uomini grandi di spirito.

Non è qui il luogo di citare le conferme che percorrono l'intera storia dell'umanità. Certo è che fin dai tempi più antichi il dettame della coscienza indirizza ogni soggetto umano verso una norma morale oggettiva, che trova espressione concreta nel rispetto della persona dell'altro e nel principio di non fare a lui quello che non si vuole sia fatto a sé.

In questo vediamo già emergere chiaramente quella morale oggettiva, della quale san Paolo afferma che è «scritta nei cuori» e riceve la «testimonianza della coscienza» (cfr. Rm Rm 2,15). Il cristiano vi scorge facilmente un raggio del Verbo creatore che illumina ogni uomo (cfr. Gv Jn 1,9 Nostra Aetate, NAE 2), e proprio perché di questo Verbo, fatto carne, è seguace, si eleva alla legge superiore del Vangelo che positivamente gli impone - col comandamento della carità - di fare al prossimo tutto quel bene che vuole sia fatto a sé. Egli sigilla così l'intima voce della sua coscienza con l'adesione assoluta a Cristo ed alla sua parola.

Vi auguro anche di sperimentare, dopo il discernimento dei problemi essenziali ed importanti per la vostra giovinezza, per il progetto di tutta la vita che è davanti a voi, ciò di cui parla il Vangelo: «Gesù, fissatolo, lo amò». Vi auguro di sperimentare una sguardo così! Vi auguro di sperimentare la verità che egli, il Cristo, vi guarda con amore!

Egli guarda con amore ogni uomo. Il Vangelo lo conferma ad ogni passo. Si può anche dire che in questo «sguardo amorevole» di Cristo sia contenuto quasi il riassunto e la sintesi di tutta la Buona Novella. Se cerchiamo l'inizio di questo sguardo, occorre che torniamo indietro al Libro della Genesi, a quell'istante in cui, dopo la creazione dell'uomo «maschio e femmina», Dio vide che «era cosa molto buona» (Gn 1,31). Questo primissimo sguardo del Creatore si rispecchia nello sguardo di Cristo, che accompagna la conversazione col giovane del Vangelo.

Sappiamo che Cristo confermerà e sigillerà questo sguardo col sacrificio redentivo della Croce, poiché proprio per mezzo di questo sacrificio quello «sguardo» raggiunse una particolare profondità di amore. In esso è contenuta una tale affermazione dell'uomo e dell'umanità, della quale solo egli è capace, solo Cristo Redentore e Sposo. Egli solo «sa quello che c'è in ogni uomo» (cfr. Gv Jn 2,25): conosce la sua debolezza, ma conosce anche e soprattutto la sua dignità.

Auguro a ciascuno e a ciascuna di voi di scoprire questo sguardo di Cristo e di sperimentarlo fino in fondo. Non so in quale momento della vita. Penso che ciò avverrà quando ce ne sarà più bisogno: forse nella sofferenza, forse insieme con la testimonianza di una coscienza pura, come nel caso di quel giovane del Vangelo, o forse proprio in una situazione opposta: insieme col senso di colpa, col rimorso di coscienza. Cristo, infatti, guardò anche Pietro nell'ora della sua caduta, quando egli ebbe rinnegato tre volte il suo Maestro (cfr. Lc Lc 22,61).

E' necessario all'uomo questo sguardo amorevole: è a lui necessaria la consapevolezza di essere amato, di essere amato eternamente e scelto dall'eternità (cfr. Ef Ep 1,4). Al tempo stesso, questo eterno amore di elezione divina accompagna l'uomo durante la vita come lo sguardo d'amore di Cristo. E forse massimamente nel momento della prova, dell'umiliazione, della persecuzione, della sconfitta, allorché la nostra umanità viene quasi cancellata agli occhi degli uomini, oltraggiata e calpestata: allora la consapevolezza che il Padre ci ha da sempre amati nel suo Figlio, che il Cristo ama ognuno e sempre, diventa un fermo punto di sostegno per tutta la nostra esistenza umana. Quando tutto si pronuncia in favore del dubbio su se stessi e sul senso della propria vita, allora questo sguardo di Cristo, cioè la consapevolezza dell'amore che in lui si è dimostrato più potente di ogni male e di ogni distruzione, questa consapevolezza ci permette di sopravvivere.

Vi auguro, dunque, di sperimentare ciò che sperimentò il giovane del Vangelo: «Gesù, fissatolo, lo amò».


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