Evangelium vitae 33

"Chiamati... ad essere conformi all'immagine del Figlio suo": la gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo

(Rm 8,28-29)
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34. La vita è sempre un bene. E, questa, una intuizione o addirittura un dato di esperienza, di cui l'uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda.

Perché la vita è un bene? L'interrogativo attraversa tutta la Bibbia e fin dalle sue prime pagine trova una risposta efficace e mirabile. La vita che Dio dona all'uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente, in quanto egli, pur imparentato con la polvere della terra (
Gn 2,7 Gn 3,19 Gb Gn 34,15 Sal 103/102, Gn 14 104/103, Gn 29), è nel mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria (Gn 1,26-27 Sal Gn 8,6). E quanto ha voluto sottolineare anche sant'Ireneo di Lione con la sua celebre definizione: "l'uomo che vive è la gloria di Dio".23 All'uomo è donata un'altissima dignità, che ha le sue radici nell'intimo legame che lo unisce al suo Creatore: nell'uomo risplende un riflesso della stessa realtà di Dio.

Lo afferma il libro della Genesi nel primo racconto delle origini, ponendo l'uomo al vertice dell'attività creatrice di Dio, come suo coronamento, al termine di un processo che dall'indistinto caos porta alla creatura più perfetta. Tutto nel creato è ordinato all'uomo e tutto è a lui sottomesso: "Riempite la terra; soggiogatela e dominate... su ogni essere vivente" (1, 28), comanda Dio all'uomo e alla donna. Un messaggio simile viene anche dall'altro racconto delle origini: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gn 2,15). Si riafferma così il primato dell'uomo sulle cose: esse sono finalizzate a lui e affidate alla sua responsabilità, mentre per nessuna ragione egli può essere asservito ai suoi simili e quasi ridotto al rango di cosa.

Nella narrazione biblica la distinzione dell'uomo dalle altre creature è evidenziata soprattutto dal fatto che solo la sua creazione è presentata come frutto di una speciale decisione da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello stabilire un legame particolare e specifico con il Creatore: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza" (Gn 1,26). La vita che Dio offre all'uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura.

Israele si interrogherà a lungo sul senso di questo legame particolare e specifico dell'uomo con Dio. Anche il libro del Siracide riconosce che Dio nel creare gli uomini "secondo la sua natura li rivesti di forza, e a sua immagine li formo" (17, 3). A ciò l'autore sacro riconduce non solo il loro dominio sul mondo, ma anche le facoltà spirituali più proprie dell'uomo, come la ragione, il discernimento del bene e del male, la volontà libera: "Li riempi di dottrina e d'intelligenza, e indico loro anche il bene e il male" (Si 17,6). La capacità di attingere la verità e la libertà sono prerogative dell'uomo in quanto creato ad immagine del suo Creatore, il Dio vero e giusto (Dt 32,4). Soltanto l'uomo, fra tutte le creature visibili, è "capa- ce di conoscere e di amare il proprio Creatore".24 La vita che Dio dona all'uomo è ben più di un esistere nel tempo. E tensione verso una pienezza di vita; è germe di una esistenza che va oltre i limiti stessi del tempo: "Si, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura" (Sg 2,23).

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35. Anche il racconto jahvista delle origini esprime la stessa convinzione. L'antica narrazione, infatti, parla di un soffio divino che viene inalato nell'uomo perché questi entri nella vita: "Il Signore Dio plasmo l'uomo con polvere del suolo e soffio nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente" (
Gn 2,7).

L'origine divina di questo spirito di vita spiega la perenne insoddisfazione che accompagna l'uomo nei suoi giorni. Fatto da Dio, portando in sé una traccia indelebile di Dio, l'uomo tende naturalmente a lui. Quando ascolta l'aspirazione profonda del suo cuore, ogni uomo non può non fare propria la parola di verità espressa da sant'Agostino: "Tu ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te".25

Quanto mai eloquente è l'insoddisfazione di cui è preda la vita dell'uomo nell'Eden fin quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale e animale (Gn 2,20). Solo l'apparizione della donna, di un essere cioè che è carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa (Gn 2,23), e in cui ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può soddisfare l'esigenza di dialogo inter-personale che è così vitale per l'esistenza umana. Nell'altro, uomo o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di ogni persona.

"Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi?", si chiede il Salmista (Ps 8,5). Di fronte all'immensità dell'universo, egli è ben piccola cosa; ma proprio questo contrasto fa emergere la sua grandezza: "Lo hai fatto poco meno degli angeli (ma si potrebbe tradurre anche: "poco meno di Dio"), di gloria e di onore lo hai coronato" (Sal 8, 6). La gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo. In lui il Creatore trova il suo riposo, come commenta stupito e commosso sant'Ambrogio: "E finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del mondo con la formazione di quel capolavoro che è l'uomo, il quale esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell'universo e la suprema bellezza di ogni essere creato. Veramente dovremmo mantenere un reverente silenzio, poiché il Signore si riposo da ogni opera del mondo. Si riposo poi nell'intimo dell'uomo, si riposo nella sua mente e nel suo pensiero; infatti aveva creato l'uomo dotato di ragione, capace d'imitarlo, emulo delle sue virtù, bramoso delle grazie celesti. In queste sue doti riposa Iddio che ha detto: "O su chi riposero, se non su chi è umile, tranquillo e teme le mie parole?" (Is 66,1-2). Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un'opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo".26

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36. Purtroppo lo stupendo progetto di Dio viene offuscato dalla irruzione del peccato nella storia. Con il peccato l'uomo si ribella al Creatore, finendo con l'idolatrare le creature: "Hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore" (
Rm 1,25). In questo modo l'essere umano non solo deturpa in se stesso l'immagine di Dio, ma è tentato di offenderla anche negli altri, sostituendo ai rapporti di comunione atteggiamenti di diffidenza, di indifferenza, di inimicizia, fino all'odio omicida. Quando non si riconosce Dio come Dio, si tradisce il senso profondo dell'uomo e si pregiudica la comunione tra gli uomini.

Nella vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a risplendere e si manifesta in tutta la sua pienezza con la venuta nella carne umana del Figlio di Dio: "Egli è immagine del Dio invisibile" (Col 1,15), "irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza" (Eb 1, 3). Egli è l'immagine perfetta del Padre.

Il progetto di vita consegnato al primo Adamo trova finalmente in Cristo il suo compimento. Mentre la disobbedienza di Adamo rovina e deturpa il disegno di Dio sulla vita dell'uomo e introduce la morte nel mondo, l'obbedienza redentrice di Cristo è fonte di grazia che si riversa sugli uomini spalancando a tutti le porte del regno della vita (Rm 5,12-21). Afferma l'apostolo Paolo: "Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita" (1Co 15,45).

A quanti accettano di porsi alla sequela di Cristo viene donata la pienezza della vita: in loro l'immagine divina viene restaurata, rinnovata e condotta alla perfezione. Questo è il disegno di Dio sugli esseri umani: che divengano "conformi all'immagine del Figlio suo" (Rm 8,29). Solo così, nello splendore di questa immagine, l'uomo può essere liberato dalla schiavitù dell'idolatria, può ricostruire la fraternità dispersa e ritrovare la sua identità.

"Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno" (Jn 11,26): il dono della vita eterna

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37. La vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo. La vita, che da sempre è "in lui" e costituisce "la luce degli uomini" (
Jn 1,4), consiste nell'essere generati da Dio e nel partecipare alla pienezza del suo amore: "A quanti l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (Jn 1,12-13).

A volte Gesù chiama questa vita, che egli è venuto a donare, semplicemente così: "la vita"; e presenta la generazione da Dio come una condizione necessaria per poter raggiungere il fine per cui Dio ha creato l'uomo: "Se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio" (Jn 3,3). Il dono di questa vita costituisce l'oggetto proprio della missione di Gesù: egli "è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo" (Jn 6,33), così che può affermare con piena verità: "Chi segue me... avrà la luce della vita" (Jn 8,12).

Altre volte Gesù parla di "vita eterna", dove l'aggettivo non richiama soltanto una prospettiva sovratemporale. "Eterna" è la vita che Gesù promette e dona, perché è pienezza di partecipazione alla vita dell' "Eterno". Chiunque crede in Gesù ed entra in comunione con lui ha la vita eterna (Jn 3,15 Jn 6,40), perché da lui ascolta le uniche parole che rivelano e infondono pienezza di vita alla sua esistenza; sono le "parole di vita eterna" che Pietro riconosce nella sua confessione di fede: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (Jn 6,68-69). In che cosa consista poi la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi al Padre nella grande preghiera sacerdotale: "Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Jn 17,3). Conoscere Dio e il suo Figlio è accogliere il mistero della comunione d'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella propria vita, che si apre già fin d'ora alla vita eterna nella partecipazione alla vita divina.

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38. La vita eterna è, dunque, la vita stessa di Dio ed insieme la vita dei figli di Dio. Stupore sempre nuovo e gratitudine senza limiti non possono non prendere il credente di fronte a questa inattesa e ineffabile verità che ci viene da Dio in Cristo. Il credente fa sue le parole dell'apostolo Giovanni: "Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!... Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo pero che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è" (
1Jn 3,1-2).

Così giunge al suo culmine la verità cristiana sulla vita. La dignità di questa non è legata solo alle sue origini, al suo venire da Dio, ma anche al suo fine, al suo destino di comunione con Dio nella conoscenza e nell'amore di Lui. E alla luce di questa verità che sant'Ireneo precisa e completa la sua esaltazione dell'uomo: "gloria di Dio" è, si, "l'uomo che vive", ma "la vita dell'uomo consiste nella visione di Dio".27

Nascono da qui immediate conseguenze per la vita umana nella sua stessa condizione terrena, nella quale è già germogliata ed è in crescita la vita eterna. Se l'uomo ama istintivamente la vita perché è un bene, tale amore trova ulteriore motivazione e forza, nuova ampiezza e profondità nelle dimensioni divine di questo bene. In simile prospettiva, l'amore che ogni essere umano ha per la vita non si riduce alla semplice ricerca di uno spazio in cui esprimere se stesso ed entrare in relazione con gli altri, ma si sviluppa nella gioiosa consapevolezza di poter fare della propria esistenza il "luogo" della manifestazione di Dio, dell'incontro e della comunione con Lui. La vita che Gesù ci dona non svaluta la nostra esistenza nel tempo, ma la assume e la conduce al suo ultimo destino: "Io sono la risurrezione e la vita...; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno" (Jn 11,25-26).

"Domandero conto ... a ognuno di suo fratello": venerazione e amore per la vita di tutti

(Gn 9,5)
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39. La vita dell'uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta, partecipazione del suo soffio vitale. Di questa vita, pertanto, Dio è l'unico signore: l'uomo non può disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè dopo il diluvio: "Domandero conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello" (
Gn 9,5). E il testo biblico si preoccupa di sottolineare come la sacralità della vita abbia il suo fondamento in Dio e nella sua azione creatrice: "Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo" (Gn 9,6).

La vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in suo potere: "Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne umana", esclama Giobbe (12, 10). "Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire" (1S 1S 2,6). Egli solo può dire: "Sono io che do la morte e faccio vivere" (Dt 32,39).

Ma questo potere Dio non lo esercita come arbitrio minaccioso, bensi come cura e sollecitudine amorosa nei riguardi delle sue creature. Se è vero che la vita dell'uomo è nelle mani di Dio, non è men vero che queste sono mani amorevoli come quelle di una madre che accoglie, nutre e si prende cura del suo bambino: "Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia" (Sal 131/130, 2; Is 49,15 Is 66,12-13 Os 11,4). così nelle vicende dei popoli e nella sorte degli individui Israele non vede il frutto di una pura casualità o di un destino cieco, ma l'esito di un disegno d'amore con il quale Dio raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le forze di morte, che nascono dal peccato: "Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza" (Sg 1,13-14).

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40. Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell'uomo, nella sua coscienza. La domanda "Che hai fatto?" (
Gn 4,10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua coscienza, egli viene sempre richiamato alla inviolabilità della vita - della sua vita e di quella degli altri -, come realtà che non gli appartiene, perché proprietà e dono di Dio Creatore e Padre.

Il comandamento relativo all'inviolabilità della vita umana risuona al centro delle "dieci parole" nell'Alleanza del Sinai (cf. Ex 34,28). Esso proibisce, anzitutto, l'omicidio: "Non uccidere" (Ex 20,13); "Non far morire l'innocente e il giusto" (Ex 23,7); ma proibisce anche - come viene esplicitato nell'ulteriore legislazione di Israele - ogni lesione inflitta all'altro (cf. Ex 21,12-27). Certo, bisogna riconoscere che nell'Antico Testamento questa sensibilità per il valore della vita, pur già così marcata, non raggiunge ancora la finezza del Discorso della Montagna, come emerge da alcuni aspetti della legislazione allora vigente, che prevedeva pene corporali non lievi e persino la pena di morte. Ma il messaggio complessivo, che spetterà al Nuovo Testamento di portare alla perfezione, è un forte appello al rispetto dell'inviolabilità della vita fisica e dell'integrità personale, ed ha il suo vertice nel comandamento positivo che obbliga a farsi carico del prossimo come di se stessi: "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (Lv 19,18).

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41. Il comandamento del "non uccidere", incluso e approfondito in quello positivo dell'amore del prossimo, viene ribadito in tutta la sua validità dal Signore Gesù. Al giovane ricco che gli chiede: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?", risponde: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" (
Mt 19,16 Mt 19,17). E cita, come primo, il "non uccidere" (v. 18). Nel Discorso della Montagna, Gesù esige dai discepoli una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei anche nel campo del rispetto della vita: "Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio" (Mt 5,21-22).

Con la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita ulteriormente le esigenze positive del comandamento circa l'inviolabilità della vita. Esse erano già presenti nell'Antico Testamento, dove la legislazione si preoccupava di garantire e salvaguardare le situazioni di vita debole e minacciata: il forestiero, la vedova, l'orfano, il malato, il povero in genere, la stessa vita prima della nascita (cf. Ex 21,22 Ex 22,20-26). Con Gesù queste esigenze positive acquistano vigore e slancio nuovi e si manifestano in tutta la loro ampiezza e profondità: vanno dal prendersi cura della vita del fratello (familiare, appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al farsi carico dell'estraneo, fino all'amare il nemico.

L'estraneo non è più tale per chi deve farsi prossimo di chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la responsabilità della sua vita, come insegna in modo eloquente e incisivo la parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37). Anche il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo (Mt 5,38-48 Lc 6,27-35) e a "fargli del bene" (Lc 6,27 Lc 6,33 Lc 6,35), venendo incontro alle necessità della sua vita con prontezza e senso di gratuità (Lc 6,34-35). Vertice di questo amore è la preghiera per il nemico, mediante la quale ci si pone in sintonia con l'amore provvidente di Dio: "Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti" (Mt 5,44-45 Lc 6,28 Lc 6,35).

Così il comandamento di Dio a salvaguardia della vita dell'uomo ha il suo aspetto più profondo nell'esigenza di venerazione e di amore nei confronti di ogni persona e della sua vita. E questo l'insegnamento che l'apostolo Paolo, facendo eco alla parola di Gesù (Mt 19,17-18), rivolge ai cristiani di Roma: "Il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore" (Rm 13,9-10).

"Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela" (Gn 1,28): le responsabilità dell'uomo verso la vita

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42. Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio affida a ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul mondo: "Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra""(
Gn 1,28).

Il testo biblico mette in luce l'ampiezza e la profondità della signoria che Dio dona all'uomo. Si tratta, anzitutto, del dominio sulla terra e su ogni essere vivente, come ricorda il libro della Sapienza: "Dio dei padri e Signore di misericordia... con la tua sapienza hai formato l'uomo, perché domini sulle creature che tu hai fatto, e governi il mondo con santità e giustizia" (9, 1.2-3). Anche il Salmista esalta il dominio dell'uomo come segno della gloria e dell'onore ricevuti dal Creatore: "Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare" (Sal 8, 7-9).

Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo (Gn 2,15), l'uomo ha una specifica responsabilità sull'ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita: in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future. E la questione ecologica - dalla preservazione degli "habitat" naturali delle diverse specie animali e delle varie forme di vita, alla "ecologia umana" propriamente detta 28 - che trova nella pagina biblica una luminosa e forte indicazione etica per una soluzione rispettosa del grande bene della vita, di ogni vita. In realtà, "il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell'albero" (Gn 2,16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire".29

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43. Una certa partecipazione dell'uomo alla signoria di Dio si manifesta anche nella specifica responsabilità che gli viene affidata nei confronti della vita propriamente umana. E responsabilità che tocca il suo vertice nella donazione della vita mediante la generazione da parte dell'uomo e della donna nel matrimonio, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: "Lo stesso Dio che disse: "non è bene che l'uomo sia solo" (
Gn 2,18) e che "creo all'inizio l'uomo maschio e femmina" (Mt 19,4), volendo comunicare all'uomo una certa speciale partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: "crescete e moltiplicatevi" (Gn 1,28)".30

Parlando di "una certa speciale partecipazione" dell'uomo e della donna all'"opera creatrice" di Dio, il Concilio intende rilevare come la generazione del figlio sia un evento profondamente umano e altamente religioso, in quanto coinvolge i coniugi che formano "una sola carne" (Gn 2,24) ed insieme Dio stesso che si fa presente. Come ho scritto nella Lettera alle Famiglie, "quando dall'unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo, questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona. Affermando che i coniugi, come genitori, sono collaboratori di Dio Creatore nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci riferiamo solo alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare piuttosto che nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente in modo diverso da come avviene in ogni altra generazione "sulla terra". Infatti soltanto da Dio può provenire quella "immagine e somiglianza" che è propria dell'essere umano, così come è avvenuto nella creazione. La generazione è la continuazione della creazione".31

E quanto insegna, con linguaggio immediato ed eloquente, il testo sacro riportando il grido gioioso della prima donna, "la madre di tutti i viventi" (Gn 3,20). Consapevole dell'intervento di Dio, Eva esclama: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (Gn 4,1). Nella generazione dunque, mediante la comunicazione della vita dai genitori al figlio, si trasmette, grazie alla creazione dell'anima immortale,32 l'immagine e la somiglianza di Dio stesso. In questo senso si esprime l'inizio del "libro della genealogia di Adamo": "Quando Dio creo l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creo, li benedisse e li chiamo uomini quando furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando genero a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamo Set" (Gn 5,1-3). Proprio in questo loro ruolo di collaboratori di Dio, che trasmette la sua immagine alla nuova creatura, sta la grandezza dei coniugi disposti "a cooperare con l'amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la Sua famiglia".33 In questa luce il Vescovo Anfilochio esaltava il "matrimonio santo, eletto ed elevato al di sopra di tutti i doni terreni" come "generatore dell'umanità, artefice di immagini di Dio".34

Così l'uomo e la donna uniti in matrimonio sono associati ad un'opera divina: mediante l'atto della generazione, il dono di Dio viene accolto e una nuova vita si apre al futuro.

Ma, al di là della missione specifica dei genitori, il compito di accogliere e servire la vita riguarda tutti e deve manifestarsi soprattutto verso la vita nelle condizioni di maggior debolezza. E Cristo stesso che ce lo ricorda, chiedendo di essere amato e servito nei fratelli provati da qualsiasi tipo di sofferenza: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati... Quanto è fatto a ciascuno di loro è fatto a Cristo stesso (Mt 25,31-46).

"Sei tu che hai creato le mie viscere": la dignità del bambino non ancora nato

(Ps 139,13/138)
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44. La vita umana viene a trovarsi in situazione di grande precarietà quando entra nel mondo e quando esce dal tempo per approdare all'eternità. Sono ben presenti nella Parola di Dio - soprattutto nei riguardi dell'esistenza insidiata dalla malattia e dalla vecchiaia - gli inviti alla cura e al rispetto. Se mancano inviti diretti ed espliciti a salvaguardare la vita umana alle sue origini, in specie la vita non ancora nata, come anche quella vicina alla sua fine, ciò si spiega facilmente per il fatto che anche la sola possibilità di offendere, aggredire o addirittura negare la vita in queste condizioni esula dall'orizzonte religioso e culturale del popolo di Dio.

Nell'Antico Testamento la sterilità è temuta come una maledizione, mentre la prole numerosa è sentita come una benedizione: "Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo" (Sal 127/126, 3; cf. Sal 128/127, 3-4). Gioca in questa convinzione anche la consapevolezza di Israele di essere il popolo dell'Alleanza, chiamato a moltiplicarsi secondo la promessa fatta ad Abramo: "Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle... tale sarà la tua discendenza" (
Gn 15,5). Ma è soprattutto operante la certezza che la vita trasmessa dai genitori ha la sua origine in Dio, come attestano le tante pagine bibliche che con rispetto e amore parlano del concepimento, del plasmarsi della vita nel grembo materno, della nascita e dello stretto legame che v'è tra il momento iniziale dell'esistenza e l'agire di Dio Creatore.

"Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato" (Ger 1, 5):l'esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è nel disegno di Dio. Giobbe, dal fondo del suo dolore, si ferma a contemplare l'opera di Dio nel miracoloso formarsi del suo corpo nel grembo della madre, traendone motivo di fiducia ed esprimendo la certezza dell'esistenza di un progetto divino sulla sua vita: "Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi? Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare. Non m'hai colato forse come latte e fatto accagliare come cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, d'ossa e di nervi mi hai intessuto. Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha custodito il mio spirito" (10, 8-12). Accenti di adorante stupore per l'intervento di Dio sulla vita in formazione nel grembo materno risuonano anche nei Salmi.35

Come pensare che anche un solo momento di questo meraviglioso processo dello sgorgare della vita possa essere sottratto all'opera sapiente e amorosa del Creatore e lasciato in balia dell'arbitrio dell'uomo? Non lo pensa certo la madre dei sette fratelli, che professa la sua fede in Dio, principio e garanzia della vita fin dal suo concepimento, e al tempo stesso fondamento della speranza della nuova vita oltre la morte: "Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all'origine l'uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per le sue leggi non vi curate di voi stessi" (2 Mac 7, 22-23).

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45. La rivelazione del Nuovo Testamento conferma l'indiscusso riconoscimento del valore della vita fin dai suoi inizi. L'esaltazione della fecondità e l'attesa premurosa della vita risuonano nelle parole con cui Elisabetta gioisce per la sua gravidanza: "Il Signore... si è degnato di togliere la mia vergogna" (
Lc 1,25). Ma ancor più il valore della persona fin dal suo concepimento è celebrato nell'incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta, e tra i due fanciulli che esse portano in grembo. Sono proprio loro, i bambini, a rivelare l'avvento dell'era messianica: nel loro incontro inizia ad operare la forza redentrice della presenza del Figlio di Dio tra gli uomini. "Subito - scrive sant'Ambrogio - si fanno sentire i benefici della venuta di Maria e della presenza del Signore... Elisabetta udi per prima la voce, ma Giovanni percepi per primo la grazia; essa udi secondo l'ordine della natura, egli esulto in virtù del mistero; essa senti l'arrivo di Maria, egli del Signore; la donna l'arrivo della donna, il bambino l'arrivo del Bambino. Esse parlano delle grazie ricevute, essi nel seno delle loro madri realizzano la grazia e il mistero della misericordia a profitto delle madri stesse: e queste per un duplice miracolo profetizzano sotto l'ispirazione dei figli che portano. Del figlio si dice che esulto, della madre che fu ricolma di Spirito Santo. Non fu prima la madre a essere ricolma dello Spirito, ma fu il figlio, ripieno di Spirito Santo, a ricolmare anche la madre".36

"Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice""(Sal 116/115, 10): la vita nella vecchiaia e nella sofferenza

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46. Anche per quanto riguarda gli ultimi istanti dell'esistenza, sarebbe anacronistico attendersi dalla rivelazione biblica un espresso riferimento all'attuale problematica del rispetto delle persone anziane e malate e un'esplicita condanna dei tentativi di anticiparne violentemente la fine: siamo infatti in un contesto culturale e religioso che non è intaccato da simile tentazione, e che anzi, per quanto riguarda l'anziano, riconosce nella sua saggezza ed esperienza una insostituibile ricchezza per la famiglia e la società.

La vecchiaia è segnata da prestigio e circondata da venerazione (cf.
2M 6,23). E il giusto non chiede di essere privato della vecchiaia e del suo peso; al contrario così egli prega: "Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza... E ora, nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbandonarmi, finché io annunzi la tua potenza, a tutte le generazioni le tue meraviglie" (Sal 71/70, 5.18). L'ideale del tempo messianico è proposto come quello in cui "non ci sarà più... un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni" (Is 65,20).

Ma, nella vecchiaia, come affrontare il declino inevitabile della vita? Come atteggiarsi di fronte alla morte? Il credente sa che la sua vita sta nelle mani di Dio: "Signore, nelle tue mani è la mia vita" (cf. Sal 16/15, 5), e da lui accetta anche il morire: "Questo è il decreto del Signore per ogni uomo; perché ribellarsi al volere dell'Altissimo?" (Si 41,4). Come della vita, così della morte l'uomo non è padrone; nella sua vita come nella sua morte, egli deve affidarsi totalmente al "volere dell'Altissimo", al suo disegno di amore.

Anche nel momento della malattia, l'uomo è chiamato a vivere lo stesso affidamento al Signore e a rinnovare la sua fondamentale fiducia in lui che "guarisce tutte le malattie" (cf. Sal 103/102, 3). Quando ogni orizzonte di salute sembra chiudersi di fronte all'uomo - tanto da indurlo a gridare: "I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba inaridisco" (Sal 102/101, 12) -, anche allora il credente è animato dalla fede incrollabile nella potenza vivificante di Dio. La malattia non lo spinge alla disperazione e alla ricerca della morte, ma all'invocazione piena di speranza: "Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice" (Sal 116/115, 10); "Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba" (Sal 30/29, 3-4).

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47. La missione di Gesù, con le numerose guarigioni operate, indica quanto Dio abbia a cuore anche la vita corporale dell'uomo. "Medico della carne e dello spirito",37 Gesù è mandato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri e a sanare i cuori affranti (
Lc 4,18 Is 61,1). Inviando poi i suoi discepoli nel mondo, egli affida loro una missione, nella quale la guarigione dei malati si accompagna all'annuncio del Vangelo: "E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni" (Mt 10,7-8 Mc 6,13 Mc 16,18).

Certo, la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, "chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8,35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita una offerta al Padre (Jn 10,17) e ai suoi (Jn 10,15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta che l'esistenza terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (Mc 6,17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. Ac 7,59-60), aprendo la strada all'innumerevole schiera di martiri, venerati dalla Chiesa fin dall'inizio.

Nessun uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale "viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (Ac 17,28).


Evangelium vitae 33