Fides et ratio IT 33


33 Si può così vedere che i termini del problema vanno progressivamente completandosi. L'uomo, per natura, ricerca la verità. Questa ricerca non è destinata solo alla conquista di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene per ognuna delle sue decisioni. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita; è perciò una ricerca che non può trovare esito se non nell'assoluto.(28) Grazie alle capacità insite nel pensiero, l'uomo è in grado di incontrare e riconoscere una simile verità. In quanto vitale ed essenziale per la sua esistenza, tale verità viene raggiunta non solo per via razionale, ma anche mediante l'abbandono fiducioso ad altre persone, che possono garantire la certezza e l'autenticità della verità stessa. La capacità e la scelta di affidare se stessi e la propria vita a un'altra persona costituiscono certamente uno degli atti antropologicamente più significativi ed espressivi.

Non si dimentichi che anche la ragione ha bisogno di essere sostenuta nella sua ricerca da un dialogo fiducioso e da un'amicizia sincera. Il clima di sospetto e di diffidenza, che a volte circonda la ricerca speculativa, dimentica l'insegnamento dei filosofi antichi, i quali ponevano l'amicizia come uno dei contesti più adeguati per il retto filosofare.

Da quanto ho fin qui detto, risulta che l'uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice credenza, infatti, essa immette l'uomo in quell'ordine di grazia che gli consente di partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la conoscenza vera e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità, la fede riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità, perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia.

(28) E questa un'argomentazione che perseguo da molto tempo e che ho espresso in diverse occasioni. « Che è l'uomo e a che può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? (
Si 18,7) [...]. Queste domande sono nel cuore di ogni uomo, come ben dimostra il genio poetico di ogni tempo e di ogni popolo, che, quasi profezia dell'umanità, ripropone continuamente la domanda seria che rende l'uomo veramente tale. Esse esprimono l'urgenza di trovare un perché all'esistenza, ad ogni suo istante, alle sue tappe salienti e decisive così come ai suoi momenti più comuni. In tali questioni è testimoniata la ragionevolezza profonda dell'esistere umano, poiché l'intelligenza e la volontà dell'uomo vi sono sollecitate a cercare liberamente la soluzione capace di offrire un senso pieno alla vita. Questi interrogativi, pertanto, costituiscono l'espressione più alta della natura dell'uomo: di conseguenza la risposta ad esse misura la profondità del suo impegno con la propria esistenza. In particolare, quando il perché delle cose viene indagato con integralità alla ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti, la religiosità rappresenta l'espressione più elevata della persona umana, perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga dall'aspirazione profonda dell'uomo alla verità ed è alla base della ricerca libera e personale che egli compie del divino »: Udienza generale del 19 ottobre 1983, 1-2: Insegnamenti VI, 2 (1983), 814-815.


34 Questa verità, che Dio ci rivela in Gesù Cristo, non è in contrasto con le verità che si raggiungono filosofando. I due ordini di conoscenza conducono anzi alla verità nella sua pienezza. L'unità della verità è già un postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel principio di non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l'intelligibilità e la ragionevolezza dell'ordine naturale delle cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi,(29) è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Quest'unità della verità, naturale e rivelata, trova la sua identificazione viva e personale in Cristo, così come ricorda l'Apostolo: « La verità che è in Gesù » (Ep 4,21 cfr Col 1,15-20). Egli è la Parola eterna, in cui tutto è stato creato, ed è insieme la Parola incarnata, che in tutta la sua persona (30) rivela il Padre (cfr Jn 1,14 Jn 1,18). Ciò che la ragione umana cerca « senza conoscerlo » (cfr Ac 17,23), può essere trovato soltanto per mezzo di Cristo: ciò che in Lui si rivela, infatti, è la « piena verità » (cfr Jn 1,14-16) di ogni essere che in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui trova compimento (cfr Col 1,17).

(29) « [Galileo] ha dichiarato esplicitamente che le due verità, di fede e di scienza, non possono mai contrariarsi « procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio » come scrive nella lettera al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non diversamente, anzi con parole simili, insegna il Concilio Vaticano II: « La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede [...] secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio » (Gaudium et spes GS 36). Galileo sente nella sua ricerca scientifica la presenza del Creatore che lo stimola, che previene e aiuta le sue intuizioni, operando nel profondo del suo spirito ». Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10 novembre 1979: Insegnamenti, II, 2 (1979), 1111-1112.
(30) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, DV 4.


35 Sullo sfondo di queste considerazioni generali, è necessario ora esaminare in maniera più diretta il rapporto tra la verità rivelata e la filosofia. Questo rapporto impone una duplice considerazione, in quanto la verità che ci proviene dalla Rivelazione è, nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce della ragione. Solo in questa duplice accezione, infatti, è possibile precisare la giusta relazione della verità rivelata con il sapere filosofico. Consideriamo, pertanto, in primo luogo i rapporti tra la fede e la filosofia nel corso della storia. Da qui sarà possibile individuare alcuni principi, che costituiscono i punti di riferimento a cui rifarsi per stabilire il corretto rapporto tra i due ordini di conoscenza.



CAPITOLO IV


IL RAPPORTO


TRA LA FEDE E LA RAGIONE


Tappe significative dell'incontro tra fede e ragione

36 Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, l'annuncio cristiano venne a confronto sin dagli inizi con le correnti filosofiche del tempo. Lo stesso libro riferisce della discussione che san Paolo ebbe ad Atene con « certi filosofi epicurei e stoici » (Ac 17,18). L'analisi esegetica di quel discorso all'Areopago ha posto in evidenza le ripetute allusioni a convincimenti popolari di provenienza per lo più stoica. Certamente ciò non era casuale. Per farsi comprendere dai pagani, i primi cristiani non potevano nei loro discorsi rinviare soltanto « a Mosè e ai profeti »; dovevano anche far leva sulla conoscenza naturale di Dio e sulla voce della coscienza morale di ogni uomo (cfr Rm 1,19-21 Rm 2,14-15 Ac 14,16-17). Poiché però tale conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria (cfr Rm 1,21-32), l'Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto ai miti e ai culti misterici concetti più rispettosi della trascendenza divina.

Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura. I tentativi dell'uomo di comprendere l'origine degli dei e, in loro, dell'universo trovarono la loro prima espressione nella poesia. Le teogonie rimangono, fino ad oggi, la prima testimonianza di questa ricerca dell'uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte, purificata mediante l'analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all'annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo.


37 Nell'accennare a questo movimento di avvicinamento dei cristiani alla filosofia, è doveroso ricordare anche l'atteggiamento di cautela che in essi suscitavano altri elementi del mondo culturale pagano, quali ad esempio la gnosi. La filosofia, come saggezza pratica e scuola di vita, poteva facilmente essere confusa con una conoscenza di tipo superiore, esoterico, riservato a pochi perfetti. E senza dubbio a questo genere di speculazioni esoteriche che san Paolo pensa, quando mette in guardia i Colossesi: « Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo » (Col 2,8). Quanto mai attuali si presentano le parole dell'Apostolo, se le riferiamo alle diverse forme di esoterismo che dilagano oggi anche presso alcuni credenti, privi del dovuto senso critico. Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi secoli, in particolare sant'Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei confronti di un'impostazione culturale che pretendeva di subordinare la verità della Rivelazione all'interpretazione dei filosofi.


38 L'incontro del cristianesimo con la filosofia, dunque, non fu immediato né facile. La pratica di essa e la frequentazione delle scuole apparve ai primi cristiani più come un disturbo che come un'opportunità. Per loro, primo e urgente dovere era l'annuncio di Cristo risorto da proporre in un incontro personale capace di condurre l'interlocutore alla conversione del cuore e alla richiesta del Battesimo. Ciò non significa, comunque, che essi ignorassero il compito di approfondire l'intelligenza della fede e delle sue motivazioni. Tutt'altro. Ingiusta e pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso, che accusa i cristiani di essere gente « illetterata e rozza ».(31) La spiegazione di questo loro iniziale disinteresse va ricercata altrove. In realtà, l'incontro con il Vangelo offriva una risposta così appagante alla questione, fino a quel momento ancora non risolta, circa il senso della vita, che la frequentazione dei filosofi appariva loro come una cosa lontana e, per alcuni versi, superata.

Ciò appare oggi ancora più chiaro, se si pensa a quell'apporto del cristianesimo che consiste nell'affermazione dell'universale diritto d'accesso alla verità. Abbattute le barriere razziali, sociali e sessuali, il cristianesimo aveva annunciato fin dai suoi inizi l'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. La prima conseguenza di questa concezione si applicava al tema della verità. Veniva decisamente superato il carattere elitario che la sua ricerca aveva presso gli antichi: poiché l'accesso alla verità è un bene che permette di giungere a Dio, tutti devono essere nella condizione di poter percorrere questa strada. Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù Cristo.

Quale pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento, va ricordato san Giustino: questi, pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel cristianesimo « l'unica sicura e proficua filosofia ».(32) Similmente, Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo « la vera filosofia »,(33) e interpretava la filosofia in analogia alla legge mosaica come una istruzione propedeutica alla fede cristiana (34) e una preparazione al Vangelo.(35) Poiché « la filosofia brama quella sapienza che consiste nella rettitudine dell'anima e della parola e nella purezza della vita, essa è ben disposta verso la sapienza e fa tutto il possibile per raggiungerla. Presso di noi si dicono filosofi coloro che amano la sapienza che è creatrice e maestra di ogni cosa, cioè la conoscenza del Figlio di Dio ».(36) La filosofia greca, per l'Alessandrino, non ha come primo scopo quello di completare o rafforzare la verità cristiana; suo compito è, piuttosto, la difesa della fede: « La dottrina del Salvatore è perfetta in se stessa e non ha bisogno di appoggio, perché essa è la forza e la sapienza di Dio. La filosofia greca, col suo apporto, non rende più forte la verità, ma siccome rende impotente l'attacco della sofistica e disarma gli attacchi proditori contro la verità, la si è chiamata a ragione siepe e muro di cinta della vigna ».(37)

(31) Origene, Contro Celso, 3, 55: SC 136, 130.
(32) Dialogo con Trifone, 8,1: PG 6, 492.
(33) Stromati I, 18, 90, 1: SC 30, 115.
(34) Cfr ibid., I, 16, 80, 5: SC 30, 108.
(35) Cfr ibid., I, 5, 28, 1: SC 30, 65.
(36) Ibid., VI, 7, 55, 1-2: PG 9, 277.
(37) Ibid., I, 20, 100, 1: SC 30, 124.



39 Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l'assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l'idea di teologia come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l'immortalità dell'anima, la divinizzazione dell'uomo e l'origine del male.


40 In quest'opera di cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico, meritano particolare menzione i Padri Cappadoci, Dionigi detto l'Areopagita e soprattutto sant'Agostino. Il grande Dottore occidentale era venuto a contatto con diverse scuole filosofiche, ma tutte lo avevano deluso. Quando davanti a lui si affacciò la verità della fede cristiana, allora ebbe la forza di compiere quella radicale conversione a cui i filosofi precedentemente frequentati non erano riusciti ad indurlo. Il motivo lo racconta lui stesso: « Dal quel momento però cominciai a rendermi conto che una preferenza per l'insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose ed assurde, dato che non poteva dimostrarle ».(38) Agli stessi platonici, a cui si faceva riferimento in modo privilegiato, Agostino rimproverava che, pur avendo conosciuto il fine verso cui tendere, avevano ignorato però la via che vi conduce: il Verbo incarnato.(39) Il Vescovo di Ippona riuscì a produrre la prima grande sintesi del pensiero filosofico e teologico nella quale confluivano correnti del pensiero greco e latino. Anche in lui, la grande unità del sapere, che trovava il suo fondamento nel pensiero biblico, venne ad essere confermata e sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo. La sintesi compiuta da sant'Agostino rimarrà per secoli come la forma più alta della speculazione filosofica e teologica che l'Occidente abbia conosciuto. Forte della sua storia personale e aiutato da una mirabile santità di vita, egli fu anche in grado di introdurre nelle sue opere molteplici dati che, facendo riferimento all'esperienza, preludevano a futuri sviluppi di alcune correnti filosofiche.

(38) S. Agostino, Confessiones VI, 5, 7: CCL 27, 77-78.
(39) Cfr ibid., VII, 9, 13-14: CCL 27, 101-102.


41 Diverse, dunque, sono state le forme con cui i Padri d'Oriente e d'Occidente sono entrati in rapporto con le scuole filosofiche. Ciò non significa che essi abbiano identificato il contenuto del loro messaggio con i sistemi a cui facevano riferimento. La domanda di Tertulliano: « Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l'Accademia e la Chiesa? »,(40) è chiaro sintomo della coscienza critica con cui i pensatori cristiani, fin dalle origini, affrontarono il problema del rapporto tra la fede e la filosofia, vedendolo globalmente nei suoi aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori ingenui. Proprio perché vivevano intensamente il contenuto della fede, essi sapevano raggiungere le forme più profonde della speculazione. E pertanto ingiusto e riduttivo limitare la loro opera alla sola trasposizione delle verità di fede in categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono, infatti, a far emergere in pienezza quanto risultava ancora implicito e propedeutico nel pensiero dei grandi filosofi antichi.(41) Costoro, come ho detto, avevano avuto il compito di mostrare in quale modo la ragione, liberata dai vincoli esterni, potesse uscire dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi in modo più adeguato alla trascendenza. Una ragione purificata e retta, quindi, era in grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla percezione dell'essere, del trascendente e dell'assoluto.

Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L'incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l'una succube forse del fascino dell'altra; esso avvenne nell'intimo degli animi e fu incontro tra la creatura e il suo Creatore. Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze.

(40) De praescriptione haereticorum, VII, 9: SC 46, 98. « Quid ergo Athenis et Hierosolymis? Quid academiae et ecclesiae? ».
(41) Cfr Congregazione per l'Educazione Cattolica, Istr. sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale (10 novembre 1989), 25: AAS 82 (1990), 617-618.


42 Nella teologia scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo sotto la spinta dell'interpretazione anselmiana dell'intellectus fidei. Per il santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è competitiva con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anselmo sottolinea il fatto che l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama: più ama, più desidera conoscere. Chi vive per la verità è proteso verso una forma di conoscenza che si infiamma sempre più di amore per ciò che conosce, pur dovendo ammettere di non aver ancora fatto tutto ciò che sarebbe nel suo desiderio: « Ad te videndum factus sum; et nondum feci propter quod factus sum ».(42) Il desiderio di verità spinge, dunque, la ragione ad andare sempre oltre; essa, anzi, viene come sopraffatta dalla costatazione della sua capacità sempre più grande di ciò che raggiunge. A questo punto, però, la ragione è in grado di scoprire ove stia il compimento del suo cammino: « Penso infatti che chi investiga una cosa incomprensibile debba accontentarsi di giungere con il ragionamento a riconoscerne con somma certezza la realtà, anche se non è in grado di penetrare con l'intelletto il suo modo di essere [...]. Che cosa c'è peraltro di tanto incomprensibile ed inesprimibile quanto ciò che è al di sopra di ogni cosa? Se dunque ciò di cui finora si è disputato intorno alla somma essenza è stato stabilito su ragioni necessarie, quantunque non possa essere penetrato con l'intelletto in modo da potersi chiarire anche verbalmente, non per questo vacilla minimamente il fondamento della sua certezza. Se, infatti, una precedente riflessione ha compreso in modo razionale che è incomprensibile (rationabiliter comprehendit incomprehensibile esse) il modo in cui la sapienza superna sa ciò che ha fatto [...], chi spiegherà come essa stessa si conosce e si dice, essa di cui l'uomo nulla o pressoché nulla può sapere? ».(43)

L'armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta.

(42) S. Anselmo, Proslogion, 1: PL 158, 226.
(43) Id., Monologion, 64: PL 158, 210.


La novità perenne del pensiero di san Tommaso d'Aquino

43 Un posto tutto particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo. In un'epoca in cui i pensatori cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più direttamente aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano l'armonia che intercorre tra la ragione e la fede. La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non possono contraddirsi tra loro.(44)

Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento,(45) così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest'ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo « esercizio del pensiero »; la ragione dell'uomo non si annulla né si avvilisce dando l'assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole.(46)

E per questo motivo che, giustamente, san Tommaso è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia. Mi piace ricordare, in questo contesto, quanto ha scritto il mio Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, in occasione del settimo centenario della morte del Dottore Angelico: « Senza dubbio, Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la libertà di spirito nell'affrontare i nuovi problemi, l'onestà intellettuale di chi non ammette la contaminazione del cristianesimo con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. Perciò, egli passò alla storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo cammino della filosofia e della cultura universale. Il punto centrale e quasi il nocciolo della soluzione che egli diede al problema del nuovo confronto tra la ragione e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è stato quello della conciliazione tra la secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo, sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori, senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili esigenze dell'ordine soprannaturale ».(47)

(44) Cfr Summa contra Gentiles,
SCG 1,7.
(45) Cfr Summa Theologiae, I 1,8 ad 2: « cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat ».
(46) Cfr Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al IX Congresso Tomistico Internazionale (29 settembre 1990): Insegnamenti, XIII, 2 (1990), 770-771.
(47) Lett. ap. Lumen Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 680.


44 Tra le grandi intuizioni di san Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo che lo Spirito Santo svolge nel far maturare in sapienza la scienza umana. Fin dalle prime pagine della sua Summa Theologiae (48) l'Aquinate volle mostrare il primato di quella sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce alla conoscenza delle realtà divine. La sua teologia permette di comprendere la peculiarità della sapienza nel suo stretto legame con la fede e la conoscenza divina. Essa conosce per connaturalità, presuppone la fede e arriva a formulare il suo retto giudizio a partire dalla verità della fede stessa: « La sapienza elencata tra i doni dello Spirito Santo è distinta da quella che è posta tra le virtù intellettuali. Infatti quest'ultima si acquista con lo studio: quella invece “viene dall'alto”, come si esprime san Giacomo. Così pure è distinta dalla fede. Poiché la fede accetta la verità divina così com'è, invece è proprio del dono di sapienza giudicare secondo la verità divina ».(49)

La priorità riconosciuta a questa sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al Dottore Angelico la presenza di altre due complementari forme di sapienza: quella filosofica, che si fonda sulla capacità che l'intelletto ha, entro i limiti che gli sono connaturali, di indagare la realtà; e quella teologica, che si fonda sulla Rivelazione ed esamina i contenuti della fede, raggiungendo il mistero stesso di Dio.

Intimamente convinto che « omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est »,(50) san Tommaso amò in maniera disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare, evidenziando al massimo la sua universalità. In lui, il Magistero della Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per la verità; il suo pensiero, proprio perché si mantenne sempre nell'orizzonte della verità universale, oggettiva e trascendente, raggiunse « vette che l'intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare ».(51) Con ragione, quindi, egli può essere definito « apostolo della verità ».(52) Proprio perché alla verità mirava senza riserve, nel suo realismo egli seppe riconoscerne l'oggettività. La sua è veramente la filosofia dell'essere e non del semplice apparire.

(48) Cfr
I 1,6: « Praeterea, haec doctrina per studium acquiritur. Sapientia autem per infusionem habetur, unde inter septem dona Spiritus Sancti connumeratur ».
(49) Ibid., II-II 45,1 ad 2; cfr pure II-II 45,2.
(50) Ibid., I-II 109,1 ad 1 che riprende la nota frase dell'Ambrosiaster, In prima Cor 12,3: PL 17, 258.
(51) Leone XIII, Lett. enc. AEterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 109.
(52) Paolo VI, Lett. ap. Lumen Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 683.


Il dramma della separazione tra fede e ragione

45 Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant'Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.

Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa.


46 Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell'Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell'idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l'umanità.

Nell'ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano.

Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo.Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.



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