GPII 1979 Insegnamenti - Significato del celibato

Significato del celibato


8. Permettete che qui tocchi il problema del celibato sacerdotale. Lo trattero sinteticamente, perché è stato già preso in considerazione in modo profondo e completo durante il Concilio e, in seguito, nell'Enciclica "Sacerdotalis Caelibatus", e ancora durante la sessione ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1971. Tale riflessione si è dimostrata necessaria sia per presentare il problema in modo ancor più maturo, sia per motivare ancor più profondamente il senso della decisione, che la Chiesa Latina ha assunto da tanti secoli e alla quale ha cercato di essere fedele, desiderando mantenere anche nel futuro questa fedeltà.

L'importanza del problema in questione è così grave e il suo legame col linguaggio dello stesso Vangelo così stretto, che non possiamo in questo caso pensare con categorie diverse da quelle di cui si sono serviti il Concilio, il Sinodo dei Vescovi e lo stesso grande Papa Paolo VI. Possiamo soltanto cercare di comprendere questo problema più profondamente e di rispondervi in modo più maturo, liberandoci sia dalle varie obiezioni, che sempre - come avviene anche oggi - sono state sollevate contro il celibato sacerdotale, sia dalle diverse interpretazioni che si riferiscono a criteri estranei al Vangelo, alla Tradizione e al Magistero della Chiesa; criteri, aggiungiamo, la cui esattezza e fondatezza "antropologica" si rivelano molto dubbie e di valore relativo.

Non dobbiamo, del resto, meravigliarci troppo di tutte queste obiezioni e critiche che, nel periodo postconciliare, si sono intensificate e che qua e là sembra si vadano oggi attenuando. Gesù Cristo, dopo aver presentato ai discepoli la questione della rinuncia al matrimonio "per il regno dei cieli", non ha forse aggiunto quelle parole significative: "Chi può intendere, intenda" (Mt 19,12)? La Chiesa Latina ha voluto e continua a volere, riferendosi all'esempio dello stesso Cristo Signore, all'insegnamento apostolico e a tutta la tradizione che le è propria, che tutti coloro i quali ricevono il sacramento dell'Ordine abbraccino questa rinuncia per il regno dei cieli. Questa tradizione, pero, è unita al rispetto verso tradizioni differenti di altre Chiese. Difatti, essa costituisce una caratteristica, una peculiarità e una eredità della Chiesa cattolica Latina, alla quale questa deve molto e nella quale è decisa a perseverare, nonostante tutte le difficoltà, a cui una tale fedeltà potrebbe essere esposta, e malgrado anche i vari sintomi di debolezza e di crisi di singoli Sacerdoti. Tutti siamo coscienti che "abbiamo questo tesoro in vasi di creta" (cfr. 2Co 4,7); tuttavia, sappiamo bene che esso è appunto un tesoro.

Perché un tesoro? Vogliamo forse con ciò sminuire il valore del matrimonio e la vocazione alla vita familiare? Oppure soccombiamo al disprezzo manicheo per il corpo umano e per le sue funzioni? Vogliamo forse in qualche modo deprezzare l'amore, che conduce l'uomo e la donna al matrimonio e alla coniugale unità del corpo, per formare così "una carne sola" (Gn 2,24 Mt 19,6)? Come potremmo pensare e ragionare in tale modo, se sappiamo, crediamo e proclamiamo, seguendo san Paolo, che il matrimonio è un "mistero grande" in riferimento a Cristo e alla Chiesa? (cfr. Ep 5,32). Nessuno, pero, dei motivi con cui alle volte si cerca di "convincerci" circa l'inopportunità del celibato corrisponde alla verità, che la Chiesa proclama e che cerca di realizzare nella vita mediante l'impegno, a cui si obbligano i Sacerdoti prima della sacra Ordinazione. Il motivo, invece, essenziale, proprio e adeguato è racchiuso nella verità che Cristo ha dichiarato, parlando della rinuncia al matrimonio per il regno dei cieli, e che san Paolo proclamava, scrivendo che ognuno nella Chiesa ha il suo proprio dono (cfr. 1Co 7,7). Il celibato è appunto "dono dello Spirito". Un simile, benché diverso, dono è contenuto nella vocazione al vero e fedele amore coniugale, diretto alla procreazione secondo la carne, nel contesto così grande del sacramento del matrimonio. E' noto come questo dono sia fondamentale per costruire la grande comunità della Chiesa, Popolo di Dio. Se pero questa comunità vorrà rispondere pienamente alla sua vocazione in Gesù Cristo, sarà necessario che in essa si realizzi, in proporzione adeguata, anche quell'altro "dono", il dono del celibato "per il regno dei cieli" (Mt 19,12).

Per quale ragione la Chiesa cattolica Latina collega questo dono non soltanto alla vita delle persone che accettano lo stretto programma dei consigli evangelici negli Istituti Religiosi, ma anche alla vocazione al sacerdozio insieme gerarchico e ministeriale? Lo fa perché il celibato "per il regno" non è soltanto un segno escatologico, ma ha anche un grande significato sociale, nella vita presente, per il servizio al Popolo di Dio. Il Sacerdote, attraverso il suo celibato, diventa l'"uomo per gli altri", in modo diverso da come lo diventa uno che, legandosi in unità coniugale con la donna, diventa anch'egli, come sposo e padre, "uomo per gli altri" soprattutto nel raggio della propria famiglia: per la sua sposa, e insieme con essa per i figli, ai quali dà la vita. Il Sacerdote, rinunciando a questa paternità ch'è propria degli sposi, cerca un'altra paternità e quasi addirittura un'altra maternità, ricordando le parole dell'Apostolo circa i figli, che egli genera nel dolore (cfr. 1Co 4,15 Ga 4,19). Sono essi figli del suo spirito, uomini affidati dal buon Pastore alla sua sollecitudine. Questi uomini sono molti, più numerosi di quanti ne possa abbracciare una semplice famiglia umana. La vocazione pastorale dei Sacerdoti è grande e il Concilio insegna che è universale: essa è diretta verso tutta la Chiesa (cfr. PO 3 PO 6 PO 10 PO 12) e, quindi, è anche missionaria.

Normalmente, essa è legata al servizio di una determinata comunità del Popolo di Dio, in cui ognuno si aspetta attenzione, premura, amore. Il cuore del Sacerdote, per essere disponibile a tale servizio, a tale sollecitudine e amore, deve essere libero. Il celibato è segno di una libertà, che è per il servizio. In virtù di questo segno il sacerdozio gerarchico, ossia "ministeriale", è - secondo la tradizione della nostra Chiesa - più strettamente "ordinato" al sacerdozio comune dei fedeli.

Prova e responsabilità


9. Frutto di equivoco - se non proprio di malafede - è l'opinione spesso diffusa, secondo cui il celibato sacerdotale nella Chiesa cattolica sarebbe semplicemente un'istituzione imposta per legge a coloro che ricevono il sacramento dell'Ordine.

Tutti sappiamo che non è così. Ogni cristiano che riceve il sacramento dell'Ordine s'impegna al celibato con piena coscienza e libertà, dopo una preparazione pluriennale, una profonda riflessione e una assidua preghiera. Egli prende la decisione per la vita nel celibato solo dopo esser giunto alla ferma convinzione che Cristo gli concede questo "dono" per il bene della Chiesa e per il servizio degli altri. Solo allora s'impegna ad osservarlo per tutta la vita. E' ovvio che una tale decisione obbliga non soltanto in virtù della legge stabilita dalla Chiesa, ma anche in virtù della responsabilità personale. Si tratta qui di mantenere la parola data a Cristo e alla Chiesa. Il mantenimento della parola è, insieme, dovere e verifica della maturità interiore del sacerdote, è l'espressione della sua dignità personale. Ciò si manifesta in tutta la sua chiarezza, quando il mantenimento della parola data a Cristo, attraverso un consapevole e libero impegno celibatario per tutta la vita, incontra difficoltà, viene messo alla prova, oppure è esposto alla tentazione, tutte cose che non risparmiano il Sacerdote, come qualunque altro uomo e cristiano. In tale momento ciascuno deve cercare sostegno nella preghiera più fervente. Deve, mediante la preghiera, ritrovare in sé quell'atteggiamento di umiltà e di sincerità riguardo a Dio e alla propria coscienza, che è appunto la sorgente della forza per sorreggere ciò che vacilla. E' allora che nasce una fiducia simile a quella che san Paolo ha espresso con le parole: "Tutto io posso in colui che mi dà forza" (Ph 4,13). Queste verità sono confermate dall'esperienza di numerosi Sacerdoti e provate dalla realtà della vita. L'accettazione di esse costituisce la base della fedeltà alla parola data a Cristo e alla Chiesa, che è in pari tempo la verifica dell'autentica fedeltà a se stesso, alla propria coscienza, alla propria umanità e dignità. A tutto ciò bisogna pensare soprattutto nei momenti di crisi, e non già ricorrere alla dispensa, intesa quale "intervento amministrativo", come se in realtà non si trattasse, al contrario, di una profonda questione di coscienza e di una prova di umanità. Dio ha diritto a tale prova nei riguardi di ciascuno di noi, se è vero che la vita terrena è per ogni uomo un tempo di prova. Ma Dio vuole parimenti che usciamo vittoriosi da tali prove, e ce ne dà l'aiuto adeguato.

Forse, non senza ragione, occorre qui aggiungere che l'impegno della fedeltà coniugale, derivante dal sacramento del matrimonio, crea nel suo ambito obblighi analoghi, e che talvolta esso diventa un terreno di analoghe prove ed esperienze per gli sposi, mariti e mogli, i quali pure in queste "prove del fuoco" hanno modo di verificare il valore del loro amore. L'amore, infatti, in ogni sua dimensione non è soltanto chiamata, ma anche dovere. Aggiungiamo, infine, che i nostri fratelli e sorelle legati dal matrimonio hanno il diritto di aspettarsi da noi, Sacerdoti e Pastori, il buon esempio e la testimonianza della fedeltà alla vocazione fino alla morte, fedeltà alla vocazione che noi scegliamo mediante il sacramento dell'Ordine, come essi la scelgono mediante il sacramento del matrimonio. Anche in questo ambito e in questo senso dobbiamo intendere il nostro sacerdozio ministeriale come "subordinazione" al sacerdozio comune di tutti i fedeli, dei laici, specialmente di coloro che vivono nel matrimonio e formano una famiglia. In tal modo, noi serviamo "per edificare il corpo di Cristo" (Ep 4,12); altrimenti, anziché cooperare alla sua edificazione, ne indeboliamo la spirituale compagine. Con questa edificazione del corpo di Cristo è strettamente collegato l'autentico sviluppo della personalità umana di ogni cristiano - come anche di ogni Sacerdote - che si realizza secondo la misura del dono di Cristo. La disorganizzazione della compagine spirituale della Chiesa non favorisce certamente lo sviluppo della personalità umana e non costituisce la sua giusta verifica.

Ogni giorno è necessario convertirsi


10. "Che cosa dobbiamo fare?" (Lc 3,10): così sembra che domandiate, cari fratelli, come tante volte chiedevano allo stesso Cristo Signore i discepoli e coloro che lo ascoltavano. Che cosa deve fare la Chiesa, quando sembra che manchino i Sacerdoti, quando la loro carenza si fa sentire specialmente in alcuni Paesi e Regioni del mondo? In quale modo dobbiamo rispondere agli immensi bisogni di evangelizzazione, e come possiamo saziare la fame della Parola e del Corpo del Signore? La Chiesa, che s'impegna a mantenere il celibato dei Sacerdoti come dono particolare per il regno di Dio, professa la fede ed esprime la speranza verso il suo Maestro, Redentore e Sposo, ed insieme verso Colui che è "padrone della messe" e "datore del dono" (Mt 9,38 1Co 7,7). Infatti, "ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce" (Jc 1,17). Non possiamo noi indebolire questa fede e questa fiducia col nostro dubbio umano, o con la nostra pusillanimità.

Di conseguenza, tutti dobbiamo ogni giorno convertirci. Sappiamo che questa è un'esigenza fondamentale del Vangelo, rivolta a tutti gli uomini (cfr. Mt 4,17 Mc 1,15), e tanto più dobbiamo considerarla come rivolta a noi. Se abbiamo il dovere di aiutare gli altri a convertirsi, altrettanto dobbiamo fare di continuo noi stessi nella nostra vita. Convertirci significa ritornare alla grazia stessa della nostra vocazione, meditare l'infinita bontà e l'infinito amore di Cristo, che si è rivolto a ciascuno di noi e, chiamandoci per nome, ha detto: "Seguimi". Convertirci vuol dire "rendere conto" sempre del nostro servizio, del nostro zelo, della nostra fedeltà, dinanzi al Signore dei nostri cuori, perché siamo "ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio" (1Co 4,1). Convertirci vuol dire "rendere conto" anche delle nostre negligenze e peccati, della pusillanimità, della mancanza di fede e di speranza, del pensare soltanto "in un modo umano", e non "divino". Ricordiamo, a tale proposito, il monito che Cristo rivolse a Pietro stesso (cfr. Mt 16,23). Convertirci significa per noi cercare di nuovo il perdono e la forza di Dio nel sacramento della Riconciliazione, e così ricominciare sempre da capo, ed ogni giorno progredire, dominarci, fare conquiste spirituali, donare gioiosamente, perché "Dio vuol bene a chi dona con gioia" (2Co 9,7).

Convertirci vuol dire "pregare sempre, senza stancarsi" (Lc 18,1). La preghiera è in un certo modo la prima e ultima condizione della conversione, del progresso spirituale, della santità. Forse negli ultimi anni - almeno in certi ambienti - si è discusso troppo sul sacerdozio, sull'"identità" del sacerdote, sul valore della sua presenza nel mondo contemporaneo, ecc., e al contrario si è pregato troppo poco. Non c'è stato abbastanza slancio per realizzare lo stesso sacerdozio mediante la preghiera, per rendere efficace il suo autentico dinamismo evangelico, per confermare l'identità sacerdotale. E' la preghiera che indica lo stile essenziale del sacerdozio; senza di essa questo stile si deforma. La preghiera ci aiuta a ritrovare sempre la luce, che ci ha condotti fin dagli inizi della nostra vocazione sacerdotale, e che incessantemente ci conduce, anche se talvolta sembra perdersi nel buio. La preghiera ci permette di convertirci continuamente, di rimanere nello stato di tensione costante verso Dio, che è indispensabile se vogliamo condurre gli altri a lui. La preghiera ci aiuta a credere, a sperare e ad amare, anche quando la nostra debolezza umana ci ostacola.

La preghiera ci consente, inoltre, di riscoprire di continuo le dimensioni di quel regno, per la cui venuta preghiamo ogni giorno, ripetendo le parole che Cristo ci ha insegnato. Allora avvertiamo quale sia il nostro posto nella realizzazione di questa richiesta: "Venga il tuo regno", e vediamo quanto siamo necessari perché essa si realizzi. E forse, quando preghiamo, scorgeremo più facilmente quei "campi che già biondeggiano per la mietitura" (Jn 4,35) e comprenderemo quale significato abbiano le parole che Cristo pronuncio alla vista di essi: "Pregate, dunque, il padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe" (Mt 9,38).

La preghiera dobbiamo unirla ad un continuo lavoro su noi stessi: è la "formatio permanens". Come giustamente ricorda il Documento emanato circa questo tema dalla Sacra Congregazione per il Clero (cfr. "Litterae Circulares", 4 novembre 1969: AAS 62 (1970) 123ss), una tale formazione deve essere sia interiore, tendente cioè all'approfondimento della vita spirituale del sacerdote, sia pastorale e intellettuale (filosofica e teologica). Se dunque la nostra attività pastorale, l'annuncio della Parola e l'insieme del ministero sacerdotale dipendono dall'intensità della nostra vita interiore, essa deve egualmente trovare il suo sostegno in uno studio assiduo. Non basta arrestarci a ciò che abbiamo un tempo imparato in seminario, anche nel caso che si sia trattato di studi a livello universitario, verso i quali orienta risolutamente la Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica. Questo processo di formazione intellettuale deve protrarsi per tutta la vita, specialmente nei tempi odierni caratterizzati - almeno in molte Regioni del mondo - dallo sviluppo generale della pubblica istruzione e della cultura. Dinanzi agli uomini, che usufruiscono dei benefici di questo sviluppo, noi dobbiamo essere testimoni di Gesù Cristo, adeguatamente qualificati. Come maestri della verità e della morale, noi dobbiamo rendere loro conto, in modo convincente ed efficace, della speranza che ci vivifica (cfr. 1P 3,15). E ciò fa anche parte del processo della conversione quotidiana all'amore, mediante la verità.

Fratelli cari! voi che "sopportate il peso della giornata e il caldo" (cfr. Mt 20,12), che avete messo mano all'aratro e non vi volgete indietro (cfr. Lc 9,62), e forse ancor più voi che dubitate del senso della vostra vocazione, o del valore del vostro servizio! Pensate a quei luoghi, dove gli uomini attendono con ansia un Sacerdote, e dove da molti anni, sentendo la sua mancanza, non cessano di auspicare la sua presenza. E avviene, talvolta, che si riuniscono in un Santuario abbandonato, e mettono sull'altare la stola ancora conservata, e recitano tutte le preghiere della liturgia eucaristica; ed ecco, al momento che corrisponde alla transustanziazione, scende tra loro un profondo silenzio, alle volte forse interrotto da un pianto..., tanto ardentemente essi desiderano di udire le parole, che solo le labbra di un Sacerdote possono efficacemente pronunciare! Tanto vivamente desiderano la Comunione eucaristica, della quale solo in virtù del ministero sacerdotale possono diventare partecipi, come pure tanto ansiosamente attendono di sentire le parole divine del perdono: "Ego te absolvo a peccatis tuis"! Tanto profondamente risentono l'assenza di un Sacerdote in mezzo a loro!... Questi luoghi non mancano nel mondo. Se, dunque, qualcuno di voi dubita circa il senso del suo sacerdozio, se pensa che esso sia "socialmente" infruttuoso oppure inutile, rifletta su questo! Occorre convertirci ogni giorno, riscoprire ogni giorno di nuovo il dono ottenuto da Cristo stesso nel sacramento dell'Ordine, penetrando nell'importanza della missione salvifica della Chiesa e riflettendo sul grande significato della nostra vocazione alla luce di questa missione.

La Madre dei Sacerdoti

11. Cari fratelli, al principio del mio ministero tutti vi affido alla Madre di Cristo, che in modo particolare è la nostra Madre: la Madre dei Sacerdoti.

Difatti, il discepolo prediletto, che, essendo uno dei Dodici, aveva udito nel Cenacolo le parole: "Fate questo in memoria di me" (Lc 22,19), fu da Cristo, dall'alto della Croce, additato a sua Madre con le parole: "Ecco il tuo figlio" (Jn 19,26). L'uomo che il Giovedì santo aveva ricevuto la potestà di celebrare l'Eucaristia, con queste parole del Redentore agonizzante fu donato a sua Madre come "figlio". Noi tutti, quindi, che riceviamo la stessa potestà mediante l'Ordinazione sacerdotale, abbiamo in un certo senso per primi il diritto di vedere in lei la nostra Madre. Desidero, pertanto, che voi tutti, insieme con me, ritroviate in Maria la madre del sacerdozio, che abbiamo ricevuto da Cristo.

Desidero, inoltre, che a lei affidiate in modo particolare il vostro sacerdozio.

Permettete che lo faccia io stesso, affidando alla Madre di Cristo ognuno di voi - senza alcuna eccezione - in modo solenne e, nello stesso tempo, semplice e dimesso. Vi prego pure, cari fratelli, che ognuno di voi lo faccia da sé, personalmente, come glielo detta il proprio cuore, soprattutto il proprio amore verso Cristo-Sacerdote, ed anche la propria debolezza, la quale va di pari passo col desiderio del servizio e della santità. Ve ne prego.

La Chiesa d'oggi parla di se stessa soprattutto nella costituzione dogmatica "Lumen Gentium" (cfr. cap. VIII). Anche qui, nell'ultimo capitolo, essa confessa di guardare a Maria come alla Madre di Cristo, perché chiama se stessa madre e desidera di essere madre, generando per Iddio gli uomini a una nuova vita.

Oh, cari fratelli, quanto vicini voi siete a questa causa di Dio! Quanto essa è impressa nella vostra vocazione, ministero e missione. Di conseguenza, in mezzo al Popolo di Dio, che guarda a Maria con immenso amore e speranza, voi dovete guardare a lei con speranza e amore eccezionali. Difatti, voi dovete annunciare Cristo che è suo figlio: e chi vi trasmetterà meglio la verità su di lui, se non sua Madre? Voi dovete nutrire i cuori umani con Cristo: e chi può rendervi più coscienti di ciò che fate, se non Colei che lo ha nutrito? "Salve, o vero Corpo, nato dalla Vergine Maria". C'è nel nostro sacerdozio ministeriale la dimensione stupenda e penetrante della vicinanza alla Madre di Cristo. Cerchiamo, dunque, di vivere in questa dimensione. Se è lecito far qui riferimento anche alla propria esperienza, vi diro che, scrivendo a voi, mi rifaccio soprattutto alla mia esperienza personale.

Nel comunicare tutto questo a voi, agli inizi del mio servizio alla Chiesa universale, non cesso di pregare Dio perché ricolmi voi, Sacerdoti di Gesù Cristo, di ogni sua benedizione e grazia e, come pegno e conferma di tale orante comunione, vi benedico di cuore nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Ricevete questa benedizione. Ricevete le parole del nuovo successore di Pietro, di quel Pietro, al quale il Signore ordino: "E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli" (Lc 22,32). Non cessate di pregare per me insieme con tutta la Chiesa, affinché io risponda a quella esigenza di un primato d'amore, che il Signore ha messo come fondamento alla missione di Pietro, quando gli disse: "Pasci le mie pecorelle" (Jn 21,16). così sia.

Data: 1979-04-08

Data estesa: Domenica 8 Aprile 1979.

A seimila studenti di tutto il mondo - Città del Vaticano (Roma)

Testo: Carissimi fratelli e sorelle.

Attraverso le parole del Presidente del vostro Congresso universitario, mi avete tracciato un efficace riassunto delle finalità di queste giornate che state trascorrendo a Roma, e mi avete parlato delle aspirazioni e degli ideali, che ardono in voi.

Vi ringrazio sinceramente per le espressioni di affetto che avete avuto verso di me e verso il mio universale ministero di successore di Pietro.

So che siete qui in rappresentanza di ben duecentodiciassette Università di tutto il mondo, e già questo è un segno positivo dell'universalità della fede cristiana, anche se essa non sempre ha vita facile. Conosco bene, infatti, le inquietudini del mondo universitario, ma conosco anche il vostro giovanile impegno ad assumere personalmente la responsabilità che Cristo vi affida: essere suoi testimoni negli ambienti in cui, attraverso lo studio, si elaborano la scienza e la cultura.

In questi giorni, voi riflettete sugli sforzi, che nel mondo si stanno compiendo allo scopo di sviluppare l'unità e la solidarietà fra i popoli.

Giustamente vi domandate su quali valori debbano basarsi questi sforzi, per non cadere nel pericolo della retorica di parole vuote. E vi chiedete, nello stesso tempo, in nome di quali ideali sia possibile affratellare davvero culture e popoli tanto diversi come, ad esempio, quelli che vedo qui rappresentati da voi.

Già mi conforta, per questo, di scorgere nei vostri sguardi il desiderio di cercare in Cristo la rivelazione di ciò che dice all'uomo e di come l'uomo deve rispondere a Dio.

Ecco, carissimi, il punto centrale: dobbiamo guardare a Cristo, con tutta la nostra attenzione. Noi sappiamo che il disegno di Dio è di "ricapitolare in lui tutte le cose" (Ep 1,10), mediante la singolarità della sua persona e del suo destino salvifico di morte e di vita. Proprio in questi giorni, in cui riviviamo la sua beata Passione, tutto ciò diventa più evidente: Cristo ci si mostra, infatti, con fattezze ancora più simili a quelle della nostra debole natura di uomini. La Chiesa ci addita Gesù innalzato sulla Croce, "uomo dei dolori che ben conosce il patire" (Is 51,3), ma anche risuscitato dai morti, "sempre vivo per intercedere in nostro favore" (He 7,25).

Ecco, dunque, colui che il Papa vi invita a guardare: Cristo crocifisso per i nostri peccati e risorto per la nostra salvezza (cfr. Rm 4,25), il quale diventa punto di convergenza universale e irresistibile: "Quando saro elevato da terra, attirero tutti a me" (Jn 12,32).

So che voi riponete la vostra speranza in quella Croce, diventata per noi tutti "vessillo regale" (Inno della Passione: "Vexilia Regis"). Continuate ad essere ogni giorno e in ogni circostanza impregnati della sapienza e della forza, che ci provengono soltanto dalla Croce pasquale di Cristo. Cercate di trarre da questa esperienza una sempre nuova energia purificatrice. La Croce è il punto di forza, sul quale far leva per un servizio all'uomo, così da trasmettere a tantissimi altri la gioia immensa di essere cristiani.

In questi giorni, mentre contemplo Cristo innalzato e inchiodato sulla Croce, torna spesso alla mia mente l'espressione con cui sant'Agostino commenta il passo del Vangelo di Giovanni ("In Io.", 119,2) appena ricordato: "Il legno della Croce al quale erano state confitte le membra del Morente, divento la cattedra del Maestro che insegna". Pensate: quale voce, quale maestro del pensiero può fondare l'unità fra gli uomini e le nazioni, se non Colui che, dando la propria vita, ha ottenuto per tutti noi l'adozione a figli dello stesso Padre? E' proprio questa filiazione divina, conquistataci da Cristo sulla Croce e realizzata con l'invio del suo Spirito nei nostri cuori, l'unico fondamento solido e indistruttibile dell'unità di un'umanità redenta.

Figli miei, nel vostro Congresso avete rilevato le sofferenze e le contraddizioni, da cui risulta sconvolta una società quando si allontana da Dio.

La sapienza di Cristo vi rende capaci di sospingervi fino a scoprire la sorgente più profonda del male esistente nel mondo. E vi stimola anche a proclamare a tutti gli uomini, vostri compagni di studio oggi, e di lavoro domani, la verità che avete appreso dalle labbra del Maestro e cioè che il male proviene "dal cuore degli uomini" (Mc 7,21). Non bastano, dunque, le analisi sociologiche per portare la giustizia e la pace. La radice del male sta all'interno dell'uomo. Il rimedio, perciò, parte ancora dal cuore. E - mi piace ripeterlo - la porta del nostro cuore può essere aperta soltanto da quella grande e definitiva Parola dell'amore di Cristo per noi, che è la sua morte in Croce.

E' qui che il Signore ci vuole condurre: dentro di noi. Tutto questo tempo che precede la Pasqua è un costante invito alla conversione del cuore.

Questa è la vera sapienza: "initium sapientiae timor Domini" (Si 1,16).

Carissimi, abbiate dunque il coraggio del pentimento; e abbiate anche il coraggio di attingere la grazia di Dio dalla Confessione sacramentale. Questo vi farà liberi! Vi darà la forza, di cui avete bisogno per le imprese che vi attendono, nella società e nella Chiesa, al servizio degli uomini. Infatti, l'autentico servizio del cristiano si qualifica in base all'operosa presenza della grazia di Dio in lui e attraverso di lui. La pace nel cuore del cristiano, poi, è inseparabilmente unita alla gioia, che in greco ("chara") è etimologicamente affine alla grazia ("charis"). Tutto l'insegnamento di Gesù, compresa la sua Croce, ha proprio questo scopo: "perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Jn 15,11). Quando essa da un cuore cristiano si effonde negli altri uomini, vi genera speranza, ottimismo, slanci di generosità nella fatica quotidiana, contagiando tutta la società.

Figli miei, solo se avrete in voi questa grazia divina, che è gioia e pace, potrete costruire qualcosa di valido per gli uomini. Considerate, dunque, la vostra vocazione universitaria in questa magnifica prospettiva cristiana. Lo studio oggi, la professione domani, si fanno per voi cammino, nel quale trovare Dio e servire gli uomini vostri fratelli; cioè, si fanno cammino di santità, come compendiosamente si esprimeva il carissimo Cardinale Albino Luciani poco prima di essere chiamato a questa Sede di Pietro col nome di Giovanni Paolo I: "Là, nel bel mezzo della strada, in ufficio, in fabbrica, ci si fa santi, a patto che si svolga il proprio dovere con competenza, per amor di Dio e lietamente; in modo che il lavoro quotidiano diventi non "il tragico quotidiano", ma quasi il "sorriso quotidiano"" (Albino Luciani, in "Il Gazzettino", 25 luglio 1978).

Infine, raccomando a Maria santissima, "Sedes Sapientiae", che troviamo in questi giorni "iuxta crucem Iesu" (Jn 19,25), di aiutarvi a stare sempre in ascolto di questa sapienza, che darà a voi e al mondo la gioia immensa di vivere con Cristo.

E sempre, in qualunque ambiente vi troviate a vivere e a testimoniare il Vangelo, vi accompagni la mia paterna benedizione apostolica.

Data: 1979-04-10

Data estesa: Martedì 10 Aprile 1979.





Messaggio per l'Anno internazionale del Fanciullo - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: I fanciulli interrogano il mondo degli adulti

Testo: A Monsignor Simon Lourdusamy, Presidente della Pontificia Opera dell'Infanzia Missionaria.

In questo Anno internazionale dell'Infanzia mi è sembrato molto opportuno rispondere al desiderio di numerosi responsabili della Pontificia Opera dell'Infanzia Missionaria, inviando loro parole di incoraggiamento, destinate anche ai bambini di tutti i paesi che sono membri di questo movimento della Chiesa, e a tutti coloro che li educano allo spirito missionario. Come Presidente di un'opera molto cara al cuore del Papa e preziosa per il suo ministero di verità e di carità, voglia renderli tutti partecipi di questo messaggio.

La fioritura di nuovi movimenti di apostolato, sotto il ben conosciuto impulso di Papa Pio XI, ha potuto far dimenticare le associazioni più antiche, spesso più orientate verso la pietà e corrispondenti a una certa epoca e alle sue necessità. Per quanto riguarda l'Opera della "Santa Infanzia", dovuta all'intuizione e allo zelo di Monsignor de Forbin-Janson più di centotrenta anni fa, e ora chiamata "Opera dell'Infanzia Missionaria", non si può non ammirare tutto ciò che ha portato, fin dall'inizio, di realismo ed anche di modernità. Cosa voleva se non promuovere, attraverso gli stessi bambini, la salvezza spirituale e corporale dei bambini nati in paesi pochissimo evangelizzati e pochissimo toccati dallo sviluppo tecnico di cui cominciano oggi a beneficiare? Si, la preoccupazione del battesimo di bambini in pericolo di morte, la protezione e a volte il riscatto dei bambini in grado di sopravvivere, l'adozione di questi stessi bambini da parte di famiglie cristiane, le attenzioni rivolte alla loro istruzione, costituirono una reale rete di solidarietà umana e spirituale tra i bambini dei vecchi continenti e quelli dei nuovi. Ora - ed è proprio il paradosso della nostra epoca - i bisogni materiali e ancor più i bisogni morali e religiosi, continuano ad aumentare. L'Infanzia Missionaria e i suoi giovani operatori apostolici, di cui troviamo, per un certo verso, il prototipo nel Vangelo, hanno sempre il loro posto nell'annuncio della Buona Novella (cfr. Paolo VI, EN 72).

Il fondatore di questa Opera Pontificia ha meditato quella che potremmo chiamare "la pastorale di Gesù", che comportava un tipo di pastorale dell'infanzia. Cristo vuole che si lasci che i fanciulli vadano a lui. Egli ammira la loro semplicità e la loro fiducia. il loro candore e la loro generosità.

L'evangelista Matteo ci racconta che Gesù chiamo uno di essi e lo pose in mezzo ai suoi apostoli che discutevano su questioni di meriti e di precedenze, per presentarlo loro come modello di quelli che vogliono entrare nel Regno dei cieli.

Ancora di più! Il Signore si identifica col mondo dei piccoli: "Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me" (Mt 18,5). E osa maledire quelli che li scandalizzano! Gesù non condiziona i bambini, non li strumentalizza, li chiama e li fa entrare nel suo piano di salvezza del mondo. Quale meraviglia! Senza dubbio è ciò che l'apostolo Giovanni ha sottolineato, riportando le parole di Andrea, fratello di Pietro, prima della moltiplicazione dei pani: "C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?" (Jn 6,9). Gesù accetto quell'umile dono e, con la sua potenza divina, gli diede delle dimensioni che il piccolo donatore non poteva prevedere. Anche oggi i piccoli cristiani, formati alla conoscenza e all'amore evangelico dei bambini della loro età privi dei beni necessari al loro sviluppo integrale, sono capaci di cooperare in questa opera di giustizia, di solidarietà, di pace, di costruzione del Regno di Dio. così facendo, non solo la loro vita battesimale e umana cresce e si personalizza, ma tali bambini interrogano ed evangelizzano il mondo degli adulti, talvolta induriti e scettici verso la necessità e l'efficacia della solidarietà e del dono di sé.

Riguardo l'attualità della Pontificia Opera dell'Infanzia Missionaria e i suoi fondamenti evangelici, vorrei infine aggiungere i miei incoraggiamenti perché adotti tutti i mezzi che la facciano progredire. Conto molto sullo zelo ben noto, accorto e perseverante, dei responsabili nazionali, regionali e diocesani.

In armonia con gli altri movimenti di apostolato dell'infanzia, veglino per migliorare continuamente i loro metodi di azione, senza dubbio differenti tra un paese e l'altro, ma certamente convergenti! Senza pretendere di essere esaustivo, si può sottolineare in primo luogo il ruolo privilegiato della preghiera dei bambini in un'ottica missionaria; bisogna qui aggiungere la cura permanente per l'informazione e la formazione dei bambini con cammini catechetici solidi e appositamente adattati, sessioni destinate agli educatori dei piccoli allo spirito missionario del tanto studiato rinnovamento delle attività educative missionarie, poi il disegno e l'espressione drammatica fino al gemellaggio di gruppi di bambini, l'organizzazione di collette intelligentemente presentate e realizzate, particolarmente per le necessità delle giovani Chiese e i loro mezzi catechetici spesso così limitati. Non bisogna più dimenticare di insegnare ai bambini a guardare e apprezzare le ricchezze culturali e religiose di coloro che vogliono aiutare, in un clima di scambio reciproco e veramente fraterno. Ma vorrei, soprattutto, che la Giornata Mondiale dell'Infanzia Missionaria, situata molto felicemente nel tempo di Natale e dell'Epifania, sia per i bambini, per i loro educatori, nel cui numero desidero vedere molti adolescenti, e anche per le loro famiglie, l'annuale rilancio di una solidarietà umana e cristiana, sempre più meditata, efficace e reciproca.

In questa ferma speranza, invoco sull'Infanzia Missionaria i doni dello Spirito Santo, e imparto al suo Presidente, ai responsabili nazionali e ai loro collaboratori, e a tutti i bambini del mondo che danno il meglio di se stessi per questa opera ecclesiale, la mia affettuosa benedizione apostolica.

Data: 1979-04-10

Data estesa: Martedì 10 Aprile 1979.










GPII 1979 Insegnamenti - Significato del celibato