GPII 1980 Insegnamenti - Omelia alla chiesa di Cristo Re - Roma


2. Nell'agire divino s'incontrano, in modo meraviglioso, la fine e il principio.

Ne siamo testimoni, fra l'altro, nelle letture della santa liturgia, legata un tempo alla domenica dopo l'Ascensione del Signore.

Alla fine dell'Apocalisse, l'ultimo libro del Nuovo Testamento, il libro che illustra la fine e il termine della temporaneità, ascoltiamo un tale preannuncio: "Ecco io verro presto e portero con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo. il principio e la fine" (Ap 22,12-13).

E come un'eco di questo preannuncio risuonano, nella dimensione apostolica, le voci piene di una fervente preghiera: "Lo Spirito e la sposa dicono: "Vieni!". E chi ascolta ripeta: "Vieni!". Chi ha sete venga: chi vuole attinga gratuitamente l'acqua della vita" (Ap 22,17).

Si sente di nuovo la voce del messaggero, la voce di Cristo: "Colui che attesta queste cose dice: Si, verro presto" (Ap 22,20). E quindi l'ultima invocazione dell'apostolo e, insieme, di tutta la Chiesa, della creazione: "Amen. Vieni, Signore Gesù (Marana tha)".

Così, dunque, il termine diventa l'inizio. L'inizio nuovo. L'inizio definitivo di ogni cosa in Dio.

Dio stesso non conosce né l'inizio né il termine. Egli è al di fuori dell'inizio e al di fuori del termine. E, nello stesso tempo, è l'inizio e la fine di tutto il creato. Essendo l'inizio più perfetto per l'uomo, creato a sua immagine e somiglianza. Egli, per questo uomo che in lui, in Dio, trova il suo termine, diventa, per opera di Gesù Cristo, il nuovo inizio definitivo.

Questa è la verità che tutti noi - comunità e persone - dobbiamo meditare in modo particolare, quando pensiamo al nostro inizio: al giorno della nascita, a quell'inizio della nascita, a quell'inizio al quale corrisponde il termine, la fine nel tempo. L'uomo e la Chiesa trovano questo termine in Dio ed egli diventa il nuovo inizio definitivo, per opera di Gesù Cristo.




3. Gesù Cristo è consapevole che si avvicina il termine della sua missione terrestre: che si avvicina il momento di lasciare il mondo. Ne parla chiaramente ai suoi più vicini, agli apostoli riuniti nel cenacolo: "E' bene per voi che io me ne vada..." (Jn 16,7). E contemporaneamente dice: "Non vi lascero orfani, ritornero da voi" (Jn 14,18) "e il vostro cuore si rallegrerà" (Jn 16,22).

Dice quindi: io me ne vado... e dice: vengo da voi.

Questo andar via che si avvicina - questo termine che deve arrivare: l'andar via attraverso la passione, la croce, e la morte - è l'inizio della nuova venuta. Essa si manifesterà il terzo giorno mediante la risurrezione di Cristo, nella potenza dello Spirito Santo, e durerà sempre in tutti coloro che, accettando il mistero della risurrezione di Cristo, sottomettono i loro cuori alla potenza di questo Spirito, la cui discesa si attua costantemente.

Questa verità è importante e fondamentale sia per ciascuno di noi - uomini, battezzati - come pure per ogni comunità del Popolo di Dio nella Chiesa.

E' importante anche per la vostra parrocchia e per il vostro Vescovo, che oggi, insieme con la vostra parrocchia, torna con la memoria e il cuore all'inizio, al giorno della sua nascita. E' la verità importante e fondamentale perché in essa si delinea il pieno profilo della vita, che noi abbiamo in Gesù Cristo. Noi viviamo nel profilo del suo andare e, insieme, della sua venuta. Viviamo nella potenza dello Spirito Santo, il quale fa si che la nostra vita umana abbia il suo nuovo inizio nella risurrezione di Cristo, e il suo termine in Dio stesso, che non conosce limiti.

E perciò Stefano, diacono di Gerusalemme, primo martire, il quale, lapidato dai suoi connazionali, agonizzava con parole di perdono, nell'ultima parola ha elevato questa penetrante preghiera: "Signore Gesù, accogli il mio spirito" (Ac 7,59).

Accogliendo questa preghiera del suo martire - ma anche di ogni uomo, di ciascuno di noi - Cristo compie continuamente il suo "marana tha". In questa prospettiva vive sempre la Chiesa. In questa prospettiva ognuno di noi vive e muore in questa terra.


4. E perciò l'ultima preghiera di Gesù Cristo al suo termine che si avvicinava qui sulla terra - passione, croce, morte - è la preghiera per la continua discesa dello Spirito Santo per la Pentecoste: Prego "perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola" (Jn 17,21).

La preghiera sacerdotale di Cristo, nel giorno che ha preceduto la sua dipartita dal mondo, è orientata pienamente verso la discesa dello Spirito Santo, la Pentecoste (è necessario che tutta la Chiesa intraprenda questa preghiera soprattutto nel periodo attuale): Cristo continuamente viene a noi in lui - ed è con noi per lui. E anche noi stessi uniti in lui e per lui con Cristo costituiamo l'unità: l'unità della fede, qui sulla terra, e l'unità della gloria, nella vita futura, che prende il suo inizio dalla risurrezione di Cristo.

La fede è l'inizio della gloria.

L'unità - unione dei discepoli - è testimonianza della forza dello Spirito, la testimonianza della missione di Cristo.

La Chiesa fiduciosa nella forza dello Spirito Santo, che riceve continuamente da Cristo, non cessa di pregare per l'unione di tutti i suoi confessori, non cessa di aspirare ad essa, non cessa anche di aver fiducia nell'unione di tutti gli uomini per opera della sua croce e risurrezione.

Non cessa pure la Chiesa di avere fiducia nella salvezza di ogni uomo, non cessa di avviarsi verso la futura gloria dell'uomo in Cristo, non cessa di operare e di soffrire per questa gloria: "Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; perché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo faro conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro" (Jn 17,24-26).

Cari fratelli e sorelle! La madre di Cristo risorto e la sposa dello Spirito Santo ottenga ad ognuno di noi - e a tutta la vostra comunità - che si realizzi in noi la preghiera sacerdotale di Cristo.

Si compia in noi sempre la forza dell'amore dello Spirito Santo, mediante la quale noi ci uniamo a Dio, e tra di noi reciprocamente diventiamo fratelli.

La nostra vita maturi sempre in questa aspirazione, desiderio e invocazione: "Vieni, Signore Gesù" (Marana tha).

Tutto in noi serva a questa cosa sola.

Data: 1980-05-18 Data estesa: Domenica 18 Maggio 1980.


AI vescovi del Giappone in visita "ad limina" - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Speciale missione dei vescovi nell'incontro tra Vangelo e cultura

Cari fratelli in Nostro Signore Gesù Cristo, La vostra presenza qui oggi vicino alla tomba dell'Apostolo Pietro evoca molti pensieri nei nostri cuori.

1. E' un particolare momento di unità ecclesiale celebrare la nostra unità in Gesù Cristo e nella sua Chiesa. Venite come Pastori della Chiesa Giapponese, portando con voi le gioie e le speranze, le sfide ed i problemi dei vostri cattolici. Nello stesso tempo questo è un momento in cui la Chiesa di Roma saluta rispettosamente nelle vostre persone l'intero popolo giapponese di cui voi siete nobili ed illustri figli. Tutti voi ricordate con quale fedele attenzione, con quale grande amore Paolo VI ricevette visitatori e pellegrini giapponesi in tutti gli anni del suo pontificato. Individui e gruppi, Cristiani e non Cristiani, leader religiosi e rappresentanti di diversi modelli di vita venivano a trovarlo settimana dopo settimana, mese dopo mese. Per tutti loro aveva un gesto di cordiale saluto o una parola di stima e amicizia. Anch'io ho avuto l'onore di ricevere molte visite da vostri concittadini, e desidero affermare pubblicamente quanto la loro presenza sia apprezzata dal Vaticano.


2. Questa visita ad limina, venerabili Fratelli, è anche una celebrazione di fede: la fede di tutta la Chiesa del Giappone - la fede di cui voi, assieme al Successore di Pietro, siete guardiani e autentici maestri. Da parte mia oggi, voglio rendere omaggio a questa fede, che tramite lo sforzo dei missionari fu impiantata da Dio come suo dono nei cuori dei fedeli. Questo dono di fede fu generosamente accettato e vissuto. Divenne l'oggetto della testimonianza di Paul Miki e dei suoi compagni martiri, che andarono incontro alla morte proclamando i nomi di Gesù e Maria, e che con il loro martirio confermarono la fede come eterna eredità del Giappone. Per grazia di Dio e con l'aiuto della sua Santissima Madre, questa fede cattolica fu, inoltre, preservata da generazioni di giapponesi laici che mantennero con l'istinto della fede il loro indistruttibile affetto per il Seggio di Pietro.

E ancora oggi questa fede si esprime con le azioni, nutrita dalle preghiere e offerta liberamente a tutti quelli che desiderano abbracciare il Vangelo. Con la loro fede, manifestata dall'amore fraterno e dalla coerenza delle loro vite, i cristiani del Giappone sono chiamati a testimoniare Gesù Cristo nelle loro famiglie, fra i loro vicini e in tutti gli ambienti in cui vivono; sono chiamati a comunicare Gesù Cristo a chiunque desideri conoscerlo o abbracciare il suo messaggio di salvezza e vita.


3. Il nostro ministero episcopale di fede: un ministero che presuppone la fede e che è al servizio della fede - una fede da vivere e comunicare. Tutto quello che facciamo deve essere diretto a proclamare il mistero della fede e ad aiutare le persone che vivono profondamente la loro vocazione di fede.


4. Proprio per la dimensione centrale della fede, possiamo vedere il grande valore che la preghiera ha per la Chiesa: la fede si mantiene viva e si consolida con la preghiera. Con la preghiera, i cuori si aprono ai suggerimenti dello Spirito Santo e al messaggio e all'azione della Chiesa di Cristo. Per questo, sappiamo che la fedeltà alla preghiera è un elemento essenziale nella vita della Chiesa. Da questo punto di vista, il Giappone ha avuto il dono prezioso della vocazione contemplativa, con religiosi che continuano la lode di Cristo verso il Padre. E in questo elemento contemplativo della vita della Chiesa in Giappone non è forse un eccellente strumento di dialogo con i vostri fratelli non cristiani che nelle loro antiche tradizioni hanno dato un posto preminente alla contemplazione? Non è il desiderio di essere uniti a Dio nella purezza di cuore uno degli elementi in cui l'insegnamento del nostro Salvatore Gesù Cristo è naturalmente inculcato nella vita di molta vostra gente? 5. Fa molto onore al Giappone il modo in cui generazioni di cristiani, immersi nella loro cultura, sono stati in grado di contribuire con la loro attività allo sviluppo della società. La comunità relativamente piccola di cristiani del vostro paese ha ben servito nei campi dell'assistenza sociale, della scienza e dell'educazione. Tramite scuole ed università, il messaggio cristiano è venuto a contatto con le venerabili tradizioni del vostro popolo. Zelanti cristiani che hanno capito il bisogno di portare i valori del Vangelo nelle loro culture hanno cominciato dando un'onesta testimonianza con le loro vite. Nella loro comunità, quando i cristiani dimostrano la capacità di comprensione, quando condividono la vita ed il destino dei loro fratelli e dimostrano solidarietà con tutto ciò che è buono e nobile, e nello stesso tempo esprimono la loro fede in alti valori e la loro speranza in una vita futura in Dio - allora svolgono un ruolo di iniziale evangelizzazione nei confronti della cultura, un compito consono alla loro vocazione e i conseguenti obblighi (cfr. Pauli VI EN 21).

Quale nobile compito per i Vescovi della Chiesa sostenere tutti i membri della comunità nei loro sforzi comuni in favore del Vangelo, incoraggiandoli ad esprimere la speranza che è la loro (cfr. 1P 3,15). Secondo la Provvidenza di Dio la principale testimonianza di vita deve essere affiancata da un'esplicita proclamazione del nome, dell'insegnamento, della vita, delle promesse, del Regno e del mistero di Cristo (cfr. Pauli VI EN 22). L'incontro fra il Vangelo e al cultura può avvenire solo a condizione che la Chiesa fedelmente proclami e viva il Vangelo. Anche su questo punto i Vescovi sono chiamati ad esercitare una particolare responsabilità.


6. In questa occasione, cari Fratelli in Cristo, spero di incoraggiarvi a rimanere saldi nel vostro ministero di fede. La Chiesa universale è stata profondamente arricchita dal contributo della Chiesa in Giappone. Il pusillus grex ha fatto onore alla grazia di Cristo Salvatore, e continua a dar lode al Padre. Il futuro è nelle mani di Gesù. E' lui, Gesù, il Signore della storia; è lui che in ultima istanza decide il destino della Chiesa in ogni generazione. Durante la preparazione del Cero Pasquale il Sabato Santo proclamiamo: "A lui appartengono tutti i tempi; a lui gloria e potere in ogni tempo". La nostra risposta alla volontà del Signore Gesù per la sua Chiesa deve essere un'assoluta fiducia affiancata da un diligente lavoro, sapendo che ce ne chiederà conto.


7. Il nostro ministero di fede ha origine in Gesù Cristo, e conduce a lui e tramite suo al Padre. Nonostante tutti gli ostacoli e le difficoltà dobbiamo costantemente esortare il nostro popolo alla santità di vita che si trova solo in Cristo: Tu solus sanctus. In modo particolare, la famiglia cristiana del Giappone dovrebbe essere oggetto della nostra cura pastorale. In questa "Chiesa domestica" la catechesi dei bambini deve effettivamente cominciare, e l'evangelizzazione della società deve cominciare dalle radici. Il grande amore di Dio per il suo popolo e la fedele Alleanza di cristo con la sua Chiesa devono essere evidenti nella famiglia come comunità di amore e vita. Vi esorto, Fratelli, a compiere ogni sforzo per creare nelle famiglie quelle sane condizioni di vita cristiana che favoriscano le vocazioni. Mantenete costantemente davanti ai giovani la sfida dell'amore e della verità di cristo, incluso l'invito di prendere la croce e seguirlo.


8. La fraterna unità che nasce dalla fede in Gesù Cristo deve essere vissuta dall'intera Chiesa, ma in modo esemplare dovrebbe essere evidente nella vita del presbyterium di ogni diocesi. Il nostro ministero di fede esige la nostra stretta unione con i nostri sacerdoti, e viceversa, nel proclamare Gesù Cristo il Salvatore del mondo e nel vivere il suo messaggio di amore che redime. Tutte le forze del Vangelo si devono infatti unire per dare una credibile testimonianza alla nostra amicizia con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Concludendo, vi chiedo di riportare in Giappone, a tutti i vostri sacerdoti, religiosi, seminaristi e laici l'espressione del mio amore pastorale nel cuore di Gesù Cristo. Nelle parole di San Paolo: "Saluta tutti quelli che ci amano nella fede. La grazia sia con tutti voi" (Tt 3,15).

[Traduzione dall'inglese]

Data: 1980-05-20 Data estesa: Martedi 20 Maggio 1980.





Lettera alla conferenza episcopale tedesca - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: L'infallibilità della Chiesa è dono di Cristo e condizione indispensabile del servizio apostolico

Ai venerati confratelli della conferenza episcopale tedesca Venerabili e cari fratelli nell'episcopato.

1. L'ampia documentazione, che avete pubblicato in rapporto a certe affermazioni teologiche del professor Hans Küng, testimonia quanta premura e buona volontà sia stata adoperata per chiarire questo importante e difficile problema. Anche le recenti pubblicazioni, sia la lettera pastorale letta nelle chiese il 13 gennaio 1980, sia la dettagliata "Erklärung", pubblicata contemporaneamente, esprimono la responsabilità pastorale e magisteriale conforme al carattere del vostro ufficio e della vostra missione episcopale.

Desidero, in attesa della vicina festa di Pentecoste, confermarvi nella vostra missione di pastori nello Spirito dell'amore e della verità divina e anche ringraziarvi per tutte le sollecitudini avute, da anni, in merito al suddetto problema, in collaborazione con la sede apostolica, in particolare con la sacra congregazione per la dottrina della fede, il cui compito - sempre essenziale per la vita della Chiesa - sembra essere nei nostri tempi particolarmente carico di responsabilità e di difficoltà. Il motu proprio "Integrae Servandae", che già durante il Concilio Vaticano II ha precisato i compiti e la procedura della sunnominata congregazione, sottolinea la necessità della collaborazione con l'episcopato e ciò corrisponde esattamente al principio di collegialità riaffermato dal Concilio stesso. Una tale collaborazione, nel caso in questione, è stata praticata in maniera particolarmente intensa. Vi sono molte ragioni per cui la Chiesa del nostro tempo deve mostrarsi più che mai Chiesa di consapevole ed effettiva collegialità tra i suoi Vescovi e pastori. In tale Chiesa può anche verificarsi più pienamente ciò che sant'Ireneo disse a proposito della sede romana di Pietro, indicandola quale centro della comunità ecclesiale, che deve adunare ed unificare le singole Chiese locali e tutti i fedeli (cfr. S.Irenaei "Adversus haereses": PG 7,848).

Ugualmente la Chiesa contemporanea deve essere - più che mai - Chiesa di autentico dialogo, quale Paolo VI ha prospettato nella fondamentale enciclica di inizio del suo pontificato "Ecclesiam Suam". L'interscambio, che questo comporta, deve condurre all'incontro nella verità e nella giustizia. Nel dialogo la Chiesa cerca di capire meglio l'uomo e con ciò anche la propria missione. Apporta ad esso la conoscenza e la verità che le sono state comunicate nella fede. Non contraddice perciò all'essenza di questo dialogo che la Chiesa in ciò non sia soltanto quella che cerca e riceve, ma pure quella che dà in base ad una certezza, la quale in tale colloquio viene ancora aumentata ed approfondita, mai pero tolta. Al contrario: sarebbe in contrasto con l'essenza del dialogo, se la Chiesa volesse in questo dialogo sospendere la sua convinzione e ritornare indietro nella conoscenza che le è già stata donata. Inoltre quel dialogo, che i Vescovi conducono con un teologo, che in nome della Chiesa e per suo incarico insegna la fede della Chiesa, ha ancora un carattere particolare. Questo soggiace ad altre condizioni, nei confronti di quello che viene condotto con uomini di diverse convinzioni, nella comune ricerca di uno spazio di intesa. Qui è prima di tutto da chiarire se colui che insegna per incarico della Chiesa corrisponda anche di fatto e voglia ancora corrispondere a questo incarico.

Riguardo all'incarico d'insegnamento del professor Küng, si dovevano porre le seguenti domande: Un teologo, che non accetta integralmente la dottrina della Chiesa, ha ancora il diritto di insegnare in nome della Chiesa e in base ad una missione speciale da essa ricevuta? può egli stesso ancora volere far ciò, se alcuni dogmi della Chiesa sono in contrasto con le sue convinzioni personali? E poi, può la Chiesa - in questo caso la sua competente istanza - in tali circostanze continuare ad obbligare il teologo a farlo nonostante tutto? La decisione della congregazione per la dottrina della fede, presa in comune accordo con la conferenza episcopale tedesca, è il risultato della risposta onesta e responsabile alle suddette domande. Alla base di queste domande e della concreta risposta si trova un diritto fondamentale della persona umana, cioè il diritto alla verità che doveva essere protetto e difeso. Certo, il professor Küng ha dichiarato con insistenza di voler essere e rimanere teologo cattolico. Nelle sue opere pero manifesta chiaramente che non considera alcune dottrine autentiche della Chiesa come definitivamente decise e vincolanti per sé e per la sua teologia; e con ciò, in base alle sue convinzioni personali, non è più in grado di lavorare nel senso della missione, che aveva ricevuto dal Vescovo a nome della Chiesa.

Il teologo cattolico, come ogni scienziato, ha diritto alla libera analisi e ricerca nel proprio campo: ovviamente, nella maniera che corrisponde alla natura stessa della teologia cattolica. Quando, pero, si tratta della espressione orale o scritta dei risultati delle proprie ricerche e riflessioni, bisogna rispettare in modo particolare il principio formulato dal Sinodo dei Vescovi nel 1967 con l'espressione "paedagogia fidei".

può essere conveniente e giusto rilevare i diritti del teologo; occorre, pero, al tempo stesso, tenere nel dovuto conto anche le sue particolari responsabilità. Non si deve altrettanto dimenticare né il diritto né il dovere del magistero di decidere che cosa è conforme o non alla dottrina della Chiesa sulla fede e sulla morale. La verifica, l'approvazione o il rifiuto di una dottrina, appartiene alla missione profetica della Chiesa.


2. Alcune questioni e alcuni aspetti, connessi con la discussione con il professor Küng, sono di carattere fondamentale e di più generale importanza per l'attuale periodo della riforma post-conciliare, della quale vorrei perciò trattare in seguito un po' più ampiamente.

Nella generazione alla quale apparteniamo, la Chiesa ha fatto enormi sforzi per comprendere meglio la sua natura e la missione affidatale da Cristo nei confronti dell'uomo e del mondo, specialmente del mondo contemporaneo. Lo ha fatto mediante il servizio storico del Concilio Vaticano II. Crediamo che Cristo fu presente nell'assemblea dei Vescovi, che opero in essi per mezzo dello Spirito Santo, promesso agli apostoli alla vigilia della sua passione, quando parlo dello "Spirito di verità" che avrebbe insegnato loro ogni verità e avrebbe ricordato tutto ciò che avevano udito da Cristo stesso (cfr. Jn 15,17-26). Dal lavoro del Concilio nacque il programma del rinnovamento della Chiesa all'interno, programma a largo raggio e coraggioso, unito ad una approfondita coscienza della vera missione della Chiesa, che per sua natura è missionaria.

Benché il periodo post-conciliare non sia libero da difficoltà (come pure già accadde qualche volta nel passato della Chiesa), ciò nonostante, crediamo che in esso sia presente Cristo - lo stesso Cristo che anche gli apostoli faceva, a volte, sperimentare burrasche sul lago, che sembravano portate al naufragio.

Dopo pesche notturne, durante le quali non avevano preso nulla, egli trasformava questo insuccesso in una inattesa pesca abbondante quando gettavano le reti sulla parola del Signore (cfr. Lc 5,4-5). Se la Chiesa vuole corrispondere alla sua missione in questa tappa della sua storia indubbiamente difficile e decisiva, può farlo soltanto mettendosi in ascolto della parola di Dio, cioè ubbidendo alla "parola dello Spirito", così come essa è giunta alla Chiesa mediante la tradizione e, direttamente, attraverso il magistero dell'ultimo Concilio.

Per poter eseguire tale opera - ardua e "umanamente" molto difficile - è necessaria una particolare fedeltà a Cristo e al suo Vangelo, perché solo lui è "la via". Quindi, soltanto mantenendo la fedeltà ai segni stabiliti, conservando la continuità della via, da duemila anni seguita dalla Chiesa, possiamo essere certi che ci sorreggerà quella forza dall'alto, che Cristo stesso ha promesso agli apostoli e alla Chiesa quale prova della sua presenza "sino alla fine del mondo" (Mt 28,20).

Se c'è, quindi, qualcosa di essenziale e di fondamentale nell'odierna tappa del servizio della Chiesa, è il particolare orientamento delle anime e dei cuori verso la pienezza del mistero di Cristo, redentore dell'uomo e del mondo e, al tempo stesso, la fedeltà all'immagine della natura e della missione della Chiesa, come, dopo tante esperienze storiche, è stata presentata dal Concilio Vaticano II. Secondo l'espressa dottrina dello stesso Concilio "ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente nell'accresciuta fedeltà alla sua vocazione" (UR 6). Ogni tentativo di sostituire l'immagine della Chiesa, che proviene dalla sua natura e missione, con un'altra, ci allontanerebbe inevitabilmente dalle sorgenti della luce e della forza dello Spirito, di cui particolarmente oggi abbiamo grande bisogno. Non dobbiamo illuderci che un altro modello di Chiesa - più "laicizzato" - possa rispondere in modo più adeguato alle esigenze di una maggiore presenza della Chiesa nel mondo e alla sua maggiore sensibilità ai problemi dell'uomo. Tale può essere soltanto una Chiesa profondamente radicata in Cristo, nelle sorgenti della sua fede, speranza e carità.

La Chiesa deve essere, inoltre, molto umile e insieme sicura di rimanere nella stessa verità, nella stessa dottrina della fede e della morale che ha ricevuto da Cristo, il quale in questa sfera l'ha dotata del dono di una specifica "infallibilità". Il Vaticano II ha ereditato dal Concilio Vaticano I la dottrina della tradizione al riguardo, e l'ha confermata e presentata in un contesto più completo, cioè nel contesto della missione della Chiesa, che ha carattere profetico, grazie alla partecipazione alla missione profetica di Cristo stesso. In questo contesto ed in stretto collegamento col "senso della fede", a cui partecipano tutti i fedeli, quella "infallibilità" ha carattere di dono e di servizio.

Se qualcuno la intende diversamente, si scosta dall'autentica visione della fede e, anche se forse inconsciamente, ma in modo reale, distacca la Chiesa da colui che, come sposo, la ha "amata" e ha dato se stesso per lei. Dotando la Chiesa di tutto ciò che è indispensabile per compiere la missione che Cristo le ha affidata, poteva forse privarla del dono della certezza della verità professata e proclamata? Poteva, forse, privare di questo dono soprattutto coloro che, dopo Pietro e gli apostoli, ereditano una particolare responsabilità pastorale e magisteriale nei confronti di tutta la comunità dei credenti? Appunto perché l'uomo è fallibile, Cristo - volendo conservare la Chiesa nella verità - non poteva lasciare i suoi pastori-Vescovi e innanzitutto Pietro e i suoi successori, senza quel particolare dono, che è l'assicurazione dell'infallibilità nell'insegnamento delle verità della fede e dei principi della morale.

Professiamo dunque l'infallibilità, che è un dono di Cristo dato alla Chiesa. E non possiamo non professarla, se crediamo nell'amore con cui Cristo ha amato la sua Chiesa e incessantemente la ama.

Crediamo all'infallibilità della Chiesa, non per riguardo a qualsiasi uomo, ma per Cristo stesso. Siamo convinti, infatti, che anche per colui il quale partecipa in modo speciale all'infallibilità della Chiesa, essa è essenzialmente ed esclusivamente una condizione del servizio, che egli deve esercitare in questa Chiesa. Infatti, da nessuna parte e tanto meno nella Chiesa, il "potere" può essere inteso ed esercitato, se non come servizio. L'esempio del maestro è qui decisivo.

Dobbiamo, invece, nutrire profondo timore, se nella Chiesa stessa viene messa in dubbio la fede in questo dono di Cristo. In tal caso si taglierebbero, nello stesso tempo, le radici dalle quali spunta la certezza della verità in essa professata e proclamata. Sebbene la verità sull'infallibilità della Chiesa possa giustamente sembrare una verità meno centrale e di minore ordine nella gerarchia delle verità rivelate da Dio e professate dalla Chiesa, tuttavia essa è, in un certo modo, la chiave per la stessa certezza di professare e proclamare la fede, per la vita e il comportamento dei credenti. Indebolendo o distruggendo questa base fondamentale, cominciano subito a crollare pure le più elementari verità della nostra fede.

Si tratta, quindi, di un problema importante nella attuale tappa post-conciliare. Quando, infatti, la Chiesa deve intraprendere l'opera di rinnovamento, occorre che abbia una particolare certezza della fede, la quale, rinnovandosi secondo la dottrina del Concilio Vaticano II, permane nella stessa verità che aveva ricevuto da Cristo. Soltanto così può essere sicura che Cristo è presente nella propria barca e la dirige fermamente anche tra le burrasche più minacciose.


3. Chiunque partecipi alla storia del nostro secolo e non sia estraneo alle diverse prove che la Chiesa vive al suo interno, nell'arco di questi primi anni post-conciliari, è cosciente di quelle tempeste. La Chiesa, che deve farvi fronte, non può essere affetta da incertezza nella fede e dal relativismo della verità e della morale. Soltanto una Chiesa profondamente consolidata nella sua fede può essere Chiesa di dialogo autentico. Il dialogo esige, infatti, una particolare maturità nella verità professata e proclamata. Solo tale maturità, cioè la certezza della fede, è in grado di opporsi alle negazioni radicali del nostro tempo, anche quando esse si servono dei diversi mezzi di propaganda e di pressione. Solo una tale fede matura può diventare un efficace avvocato della vera libertà religiosa, della libertà della coscienza e di tutti i diritti delittuoso.

Il programma del Concilio Vaticano II è coraggioso; perciò, richiede nella sua attuazione un particolare affidamento allo Spirito che ha parlato (cfr. Ap 2,7) ed esige una fondamentale fiducia nella forza di Cristo. Questo affidamento e questa fiducia, a misura del nostro tempo, debbono essere grandi come erano quelli degli apostoli, i quali dopo l'ascensione di Gesù, "erano assidui e concordi nella preghiera... con Maria" (Ac 1,14) nel cenacolo di Gerusalemme.

Indubbiamente, tale fiducia nella forza di Cristo richiede anche l'opera ecumenica dell'unione dei cristiani, intrapresa dal Concilio Vaticano II, se la intendiamo così come è stata presentata dal Concilio nel decreto "Unitatis Redintegratio". E' significativo che questo documento non parla di "compromesso", ma di incontro in una ancor più matura pienezza della verità cristiana: "Il modo e il metodo di enunziare la fede cattolica non deve in alcun modo essere di ostacolo al dialogo con i fratelli. Bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutta intera la dottrina. Niente è più alieno dall'ecumenismo quanto quel falso irenismo, dal quale ne viene a soffrire la purezza della dottrina cattolica e ne viene oscurato il suo senso genuino e preciso" (UR 11; cfr. anche UR 4).

Così, dunque, dal punto di vista ecumenico dell'unione dei cristiani, non si può in alcun modo pretendere che la Chiesa rinunci a certe verità da essa professate. Ciò sarebbe in contrasto con la via, che il Concilio ha indicato. Se lo stesso Concilio, per raggiungere tale fine, afferma che "la fede cattolica deve essere spiegata con più profondità e esattezza", indica qui anche il compito dei teologi. Molto significativo è quel testo del decreto "Unitatis Redintegratio", in cui, trattando direttamente dei teologi cattolici, sottolinea che "nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri", essi debbono restare "fedeli alla dottrina della Chiesa" (UR 11). In precedenza, ho già accennato alla "gerarchia" o all'ordine delle verità della dottrina cattolica, di cui debbono ricordarsi i teologi, in particolare, "nel mettere a confronto le dottrine". Il Concilio evoca tale gerarchia, dato che è diverso "il loro (delle verità) nesso col fondamento della fede cristiana" (UR 11).

In tal modo l'ecumenismo, questa grande eredità del Concilio, può diventare una realtà sempre più matura, cioè soltanto sulla via di un grande impegno della Chiesa, ispirato dalla certezza della fede e da una fiducia nella forza di Cristo, nelle quali, fin dal principio, si sono distinti i pionieri di questa opera.


4. Venerabili e cari confratelli della conferenza episcopale tedesca! Si può amare Cristo soltanto quando si amano i fratelli: tutti e ciascuno in particolare. Perciò anche questa lettera che scrivo a voi in rapporto alle recenti vicende del professor Hans Küng è dettata dall'amore verso questo nostro fratello.

A lui desidero ancora una volta ripetere ciò che è stato espresso già in altra circostanza: continuiamo a nutrire la speranza che si possa giungere ad un tale incontro nella verità proclamata e professata dalla Chiesa, che egli possa essere chiamato di nuovo "teologo cattolico". Questo titolo presuppone necessariamente l'autentica fede della Chiesa e la prontezza di servire la sua missione, nella maniera chiaramente definita e verificata durante i secoli.

L'amore esige che noi cerchiamo l'incontro nella verità con ogni uomo.

Perciò non cessiamo di pregare Dio per un tale incontro in modo particolare con l'uomo, nostro fratello, che come teologo cattolico, quale vorrebbe essere e rimanere, deve condividere con noi una particolare responsabilità per la verità professata e proclamata dalla Chiesa. Tale preghiera è, in un certo senso, la fondamentale parola dell'amore verso l'uomo, verso il prossimo, poiché mediante essa lo ritroviamo in Dio stesso, il quale, come unica fonte dell'amore, è al tempo stesso nello Spirito Santo la luce dei nostri cuori e delle nostre coscienze. Essa è anche l'espressione prima e più profonda di quella sollecitudine della Chiesa, a cui devono partecipare tutti e in particolare i suoi pastori.

In questa comunione di preghiera e di comune sollecitudine pastorale vi imploro per l'imminente festa di Pentecoste l'abbondanza dei doni del divino Spirito e vi saluto nell'amore di Cristo con la mia particolare benedizione apostolica.

Dal Vaticano, il 15 maggio, festa dell'Ascensione di Cristo, dell'anno 1980, secondo di pontificato.

Ioannes Paulus PP. II

Data: 1980-05-22Data estesa: Giovedi 22Maggio 1980.



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