GPII 1988 Insegnamenti - Ai vescovi del Canada in visita "ad limina" - Città del Vaticano (Roma)

Ai vescovi del Canada in visita "ad limina" - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: I cristiani devono essere ovunque nel mondo testimoni ed esempi di comunione e di solidarietà

Testo:

Cari fratelli Vescovi.


1. E' per me una grande gioia ricevervi a Roma per la vostra visita "ad limina Apostolorum". Queste visite hanno un profondo significato per la vita della Chiesa e per la nostra unità nel Collegio dei Vescovi. Pregando presso le tombe degli apostoli Pietro e Paolo, il cui sangue ha consacrato questa città, e facendo visita al successore di Pietro, che è "il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità" (LG 23), voi rinnovate e rafforzate la comunione ecclesiale che è il cuore della vita della Chiesa. Questa comunione si manifesta nella professione dell'unica fede, nella comune celebrazione del culto divino, soprattutto l'Eucaristia, e nella fraterna armonia della famiglia di Dio.

Il nostro scambievole incontro verifica il carattere universale del collegio episcopale e rinnova la nostra consapevolezza di quella "sollecitudine per tutta la Chiesa" (LG 23) che ciascun Vescovo deve avere nel cuore. Il nostro incontro serve anche a confermare e autenticare la vita delle vostre Chiese particolari all'interno della Chiesa universale.


2. Questo mistero di comunione è radicato in Dio stesso e nel suo lavoro di creatore. Il fatto che gli esseri umani sono creati a "immagine e somiglianza" di Dio significa non solo che ciascuno di loro possiede inalienabili diritti e dignità; significa anche che ciascuno è chiamato a vivere in rapporto con gli altri esseri umani all'interno dell'unica famiglia umana. Pertanto il Concilio Vaticano II ci ricorda: "Non possiamo invocare Dio Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni di quelli che sono creati ad immagine di Dio. L'atteggiamento dell'uomo verso Dio Padre e quello dell'uomo verso gli altri uomini suoi fratelli sono tanto connessi che la Scrittura dice: "Chi non ama, non conosce Dio" (1Jn 4,8)" (NAE 5).

Inoltre, noi sappiamo che Dio ha scelto di farci partecipare alla sua stessa vita divina. Quando l'umanità pecco in Adamo, Dio non ci abbandono ma promise di salvarci. Nella "pienezza dei tempi" mando il suo unico Figlio, perché noi potessimo ricevere il dono della vita eterna in una nuova creazione, e perché potessimo vivere in unità con Dio e gli uni con gli altri. La Chiesa è nata da questo divino desiderio di "riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (Jn 11,52), affinché "essi abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (Jn 10,10).

Come ho scritto nella lettera enciclica "Sollicitudo Rei Socialis": "Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio,... è ciò che noi cristiani designiamo con la parola "comunione". Tale comunione, specificamente cristiana, gelosamente custodita, estesa e arricchita, con l'aiuto del Signore, è l'anima della vocazione della Chiesa ad essere "sacramento"" (SRS 40).

perciò il carattere universale del disegno di amore di Dio, che si rende visibile nella Chiesa-comunione con il Padre celeste - attraverso Cristo e nello Spirito Santo -, significa anche comunione con tutti i nostri fratelli nella fede.

Questo a sua volta deve ispirare la nostra solidarietà con tutti, secondo la missione della Chiesa di essere "un sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (LG 1).


3. Cari fratelli, la comunione ecclesiale che voi e il vostro popolo testimoniate ogni giorno è un segno profetico del regno universale di Dio. La comunione ecclesiale rispetta le differenze di geografia, razza, nazione, storia e cultura - davvero così ricca da voi - ma anche trascende queste differenze in un universale "bacio della pace", in un abbraccio di unità, carità e pace. Come ci ricorda san Paolo riferendosi al Battesimo: "Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Ga 3,28). In quanto Vescovi, voi incoraggiate un autentico spirito di comunione ecclesiale tra il clero, i religiosi e i laici delle Chiese particolari a voi affidate. Come un forte senso di comunione ecclesiale non diminuisce l'importanza della Chiesa particolare, ma la spalanca all'universalità di Cristo e del Vangelo, così ogni singolo credente troverà la sua vita cristiana ampliata e approfondita, e non sminuita, da una apertura a questo mistero.


4. Questo modo di comprendere la vita della Chiesa e la sua missione risponde certo ai "segni dei tempi", cioè alle aspirazioni degli uomini di oggi di unità e fraternità, di giustizia e pace. Il mondo è ormai più piccolo per i progressi della scienza e della tecnologia, soprattutto nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, e anche per una più grande interdipendenza politica ed economica.

Ma questo sviluppo è insufficiente per assicurare l'unità morale e spirituale del genere umano. Solo eliminando la diffidenza che spesso proviamo all'entrare in rapporto con persone e culture estranee alla nostra, superando la nostra indifferenza ai bisogni di quelli che sono lontani dalle nostre preoccupazioni quotidiane, noi possiamo sperare di raggiungere una vera "unità di tutta la razza umana", radicata nella creazione e nella redenzione.

Si può anche dire che i grandi problemi del mondo di oggi hanno un carattere universale. Le loro conseguenze, nel bene come nel male, non si limitano più a un continente o a una civiltà. Sono i problemi della guerra e della pace, dell'ambiente, dello sviluppo economico, della condivisione delle "risorse", e anche quelli legati alle realtà umane più fondamentali, come la dignità e i diritti della persona umana dal concepimento fino alla morte, il matrimonio e la famiglia, il significato del lavoro. Tutti questi problemi pongono una sfida a uno sviluppo autentico dell'umanità.

In quanto membri della Chiesa, noi crediamo che questi grandi problemi hanno un carattere etico, e che non si possono risolvere, per il bene degli uomini, senza il riferimento a Dio e all'ordine morale da lui stabilito nella creazione e nella redenzione del mondo. Ma questa nostra convinzione non deve ridursi a delle parole. Noi dobbiamo anche essere testimoni ed esempi di comunione e di solidarietà, sia come individui che come comunità, in quanto Chiesa.


5. La solidarietà con tutti i figli di Dio si manifesta in diverse maniere.

Anzitutto c'è la solidarietà con quelli che hanno dei bisogni spirituali, cioè il gran numero di quelli che, tra noi o lontani, non hanno mai sentito parlare di Cristo, o non camminano più insieme a lui, per indifferenza o perché è diventato estraneo. Ci sono tanti che, nelle società opulente come la vostra, fanno l'esperienza di un vuoto spirituale e hanno fame e sete di Dio. Essere solidali spiritualmente significa anche raggiungere quelli che hanno difficoltà nella vita personale e familiare, quelli che non sono amati, i malati nel corpo e nello spirito, tutti quelli che soffrono. So che le vostre Chiese locali non sono rimaste indifferenti a queste persone. Attraverso le iniziative organizzate nelle diocesi, e attraverso la testimonianza indispensabile dei membri del clero, dei religiosi, delle religiose e dei laici, l'amore di Cristo per queste persone spiritualmente nel bisogno si è reso visibile nella vostra società. Questo tipo di solidarietà richiede un alto livello di sensibilità e impegno personale; è essenziale per ogni altra forma di solidarietà.


6. Solidarietà significa anche una condivisione dei beni materiali con gli altri, soprattutto i poveri, verso i quali dobbiamo mostrare un amore preferenziale. E' mia convinzione che "questo amore preferenziale per i poveri, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senza tetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell'esistenza di queste realtà. L'ignorarle significherebbe assimilarci al "ricco Epulone", che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori dalla sua porta (cfr. Lc 16,19-31). La nostra vita quotidiana deve essere segnata fuori da queste realtà, come pure le nostre decisioni in campo politico ed economico" (SRS 42). Un'autentica solidarietà richiede impegno per eliminare le radici della miseria umana, in patria e all'estero, anche se questo comporta del sacrificio personale da parte nostra: anche se questo viene a toccare le nostre "necessità" e non solo il nostro "superfluo". Il popolo del Canada è ben conosciuto per la generosità di risposta ai poveri del mondo e per la sua volontà di lavorare per un mondo più giusto. In quanto lievito e "anima" della società umana (cfr. GS 40), la Chiesa ha un obbligo particolare di approfondire questa generosità e preoccupazione da parte di tutti.


7. La solidarietà ha anche una dimensione profetica. L'amore per gli uomini spinge la Chiesa a dire la verità su Dio e sull'uomo, come egli è stato creato e redento.

Ella lo fa senza esitazioni o paura quando la dignità e i diritti della persona vengono minacciati nella società moderna. La sola sua paura è di non annunciare la verità con amore, o di non lavorare e pregare incessantemente che l'umanità scelga il bene e respinga il male. Vorrei ripetere quello che ho detto nella mia visita del 1984 nel vostro Paese: "Un danno incalcolabile per tutta l'umanità è oggi il numero degli aborti. Questo crimine indescrivibile contro la vita umana che rifiuta e uccide la vita dal suo inizio, prepara la premessa per il disprezzo, la negazione, l'eliminazione della vita degli adulti, nonché l'attacco alla vita della società. Se i deboli sono vulnerabili dal momento del concepimento, essi sono vulnerabili anche nella tarda età, sono vulnerabili davanti alla forza di un aggressore, e alla potenza delle armi nucleari" ("Allocutio ad iuvenes, senes infirmosque in urbe Vancuveriensi habita", 5, die 18 sept. 1984: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII, 2 [1984] 610). La Chiesa compie anche la sua missione di servizio quando difende la dignità e i diritti e doveri che riguardano il matrimonio, la famiglia, l'educazione e il lavoro.


8. Cari fratelli, dentro la comunione universale della Chiesa, i Vescovi hanno il dovere descritto in modo semplice ma eloquente dal Papa Gregorio Magno in un'omelia su Ezechiele. "Osserva - scrive - che un uomo inviato dal Signore a predicare viene chiamato "presbitero". Un "presbitero" sta sempre in una posizione elevata per vedere che cosa arriva da lontano. Chi viene scelto per essere di guardia per il popolo deve stare per tutta la vita in una posizione elevata per aiutarlo con la propria lungimiranza" ("Officium Lectionum: Memoria Sancti Gregorii Magni Papae"). Noi che siamo pastori dobbiamo impegnarci per avere questo sguardo più elevato e più ampio del panorama umano, affinché possiamo guidare gli altri a una più profonda comprensione della comunione universale della Chiesa e a una più attiva solidarietà con tutto il genere umano. Perseverate in questo ministero, così che attraverso la vostra vigilanza e saggezza la Chiesa sia davvero un "segno e strumento" del rinnovamento e della trasformazione operata da Cristo nella società umana in famiglia di Dio.

Attraverso voi invio cordiali saluti al clero, i religiosi e i laici delle vostre diocesi. Prego che anch'essi siano sempre fedeli testimoni dell'amore universale e di Dio. Come pegno della grazia e della pace nel Signore Gesù Cristo, imparto di cuore la mia apostolica benedizione.


Data: 1988-09-27 Data estesa: Martedi 27 Settembre 1988







Omelia alla santa Messa in suffragio di Paolo VI e Giovanni Paolo I - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: La Chiesa, la collegialità, l'ecumenismo: un'eredità alla quale restiamo fedeli

Testo:

"...Dove sono io, là sarà anche il mio servo. / Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Jn 12,26).


1. Queste parole Gesù pronuncia all'inizio della settimana santa, e costituiscono come il prologo della sua passione. Nell'imminenza della sua immolazione d'amore al Padre per la salvezza degli uomini, che è al tempo stesso la "glorificazione" presso il Padre, egli associa strettamente a sé i servi fedeli, che nei secoli lo seguiranno col loro amore e con la loro testimonianza. Essi saranno là, dov'è lui.

Anch'essi, come lui, saranno onorati dal Padre.

Celebrando questa liturgia eucaristica in memoria dei miei venerati e sempre cari predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo I, nel decimo anniversario della loro chiamata al cielo, sentiamo più viva e parlante sorgere nella nostra mente e nel nostro cuore la loro figura. Anche loro, soprattutto loro, sono stati i servi di Cristo; anch'essi sono stati chiamati a partecipare a quella "glorificazione", alla quale non si giunge se non attraverso la croce.

"Dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà". In questo momento, in cui stiamo per immolare la vittima divina dell'unico ed eterno sacrificio, la fede ci assicura che essi sono con Cristo, perché lo hanno servito con tutte le fibre del loro essere, sino alla immolazione finale; la fede ci assicura che, per questo, sono stati "onorati" dal Padre. Si è compiuto certamente per essi l'estremo anelito di tutta la loro esistenza: amare Dio, vedere Dio. Anche per essi, dunque, si è compiuta - e per questo li ricordiamo costantemente nella preghiera, e oggi in modo particolare - la Parola di Dio, che abbiamo udita nel fervore profetico di Giobbe: "Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, / senza la mia carne, vedro Dio. / Io lo vedro, io stesso, / e i miei occhi lo contempleranno" (Gb 19,26-27).


2. Dieci anni fa, in questo 28 settembre, il Signore chiamava a sé il mio predecessore Giovanni Paolo I, con una morte tanto inaspettata e umanamente prematura: "magis ostensus quam datus". Il Signore ce lo ha mostrato in quell'indimenticabile Pontificato di trentatre giorni, e poi subito tolto.

In così poco tempo egli esercito un fascino straordinario, con il suo "senso della Chiesa", la sua pastoralità, il suo metodo di governo, il suo tratto umile ed accattivante, il suo sorriso, il suo modo di parlare, con cui dialogava affabilmente e familiarmente con tutti, come se si trovasse a tu per tu con ciascuno. Il segreto di questa irradiazione, tuttora viva, consiste nel fatto che "Giovanni Paolo I fu sempre intimamente compreso della suprema realtà dell'amore proveniente da Dio", come volli dire ai fedeli di Vittorio Veneto nell'agosto 1979 (, II, 2 [1979] 192).

A dieci anni di distanza, continua a manifestarsi e ad estendersi il ricordo e l'influsso di quell'uomo di Dio, che dimostrava la sua profonda dedizione a Dio e ai fratelli, ispirata unicamente dall'amore.


3. Mediante questa commemorazione facciamo riferimento anche al decimo anniversario - due morti così vicine nel tempo! - della dipartita di Paolo VI, il 6 agosto, nella solennità della Trasfigurazione. In questi dieci anni dalla sua scomparsa egli ha giganteggiato sempre di più nel ricordo e nella venerazione universali.

Il Signore aveva dato a Paolo VI doti incomparabili, che egli fece stupendamente fruttificare, pur nella sua delicatissima modestia: il cuore pieno di comprensione e di longanimità; l'intelligenza acuta, lucida, sintetica; lo sguardo vivo e penetrante; la volontà adamantina senza compromessi; la forza e la bellezza della espressione parlata e scritta; i monumenti delle sue encicliche e dei suoi discorsi; l'ardimento dei suoi viaggi ch'egli inizio, primo in questo secolo, su scala internazionale, nell'assillo che urgeva nel suo intimo di proclamare la verità, di annunciare Cristo, di far amare Maria, Madre della Chiesa, di far conoscere la stessa Chiesa.

Effettivamente, come dissi a Brescia nel settembre 1982, "Paolo VI fu un dono del Signore alla Chiesa". Ma non potevo non aggiungere: "Paolo VI è stato un dono del Signore anche all'umanità. Capi l'uomo del nostro tempo, e lo amo di un amore soprannaturale, guardandolo cioè con gli occhi misericordiosi di Cristo...

La sua intelligenza e cultura gli diedero un senso acuto della grandezza e della miseria dell'uomo in una situazione contradditoria come quella della nostra generazione; ma la sua fede e carità gli ispirarono quella "civiltà dell'amore" senza la quale, oggi come non mai, l'umanità difficilmente potrà trovare la soluzione ai problemi che la turbano profondamente. Capi l'uomo perché lo guardo con gli occhi di Cristo. Aiuto l'uomo, perché l'amo con l'amore di Cristo. Servi l'uomo, perché gli indico la verità di Cristo in tutta la sua pienezza" (, V, 3 [1982] 588-589).

Anche la realtà somma e unificante del servizio di Paolo VI alla Chiesa e all'uomo è stata dunque l'amore: un amore che ha guardato con lungimiranza ai problemi laceranti dell'oggi per contribuire al "progresso dei popoli"; un amore che ha creduto, come Abramo, "in spem, contra spem" (cfr. Rm 4,18) che ha pazientato, che ha perdonato incomprensioni e offese, che ha mirabilmente portato avanti la Chiesa guidandola fermamente e dolcemente verso quella trasformazione, che il Vaticano II aveva richiesto a tutti i livelli; una trasformazione che - come dissi nel primo anniversario della morte - fu il particolare carisma, ma anche la particolare fatica della sua vita (cfr. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 98).


4. La scomparsa di due Pontefici, dieci anni fa, è stata un insieme di avvenimenti, colmi di dolore e di speranza, che hanno rappresentato un particolare "sconvolgimento". Chiesa e mondo sono stati turbati, quasi atterriti, da quelle due morti che hanno ricordato a tutti quanto fragile e provvisoria sia la vita umana, e che, si può ben dire, il Signore agisce in modo per noi incomprensibile per farci sperimentare che è lui l'autore della vita e della morte, e solo lui guida la storia.

Superare infatti la dimensione puramente "umana" di eventi come quelli, rispondere alle domande che nascono in tale dimensione, è cosa che si può fare soltanto quando, anche qui, ci lasciamo guidare dalla fede.

E dalla fede riceviamo la capacità di leggere gli eventi terreni, per decifrare in essi il messaggio che Dio vi ha inscritto.


5. In questa prospettiva, desidero oggi, dopo dieci anni, riferirmi ai contenuti fondamentali di quella "ricca eredità", che quei due recenti pontificati hanno lasciato alla Chiesa di oggi. Lo faccio seguendo a grandi cenni quanto ho più estesamente espresso nella prima enciclica "Redemptor Hominis".

Tale eredità è costituita anzitutto dalla sempre più "matura compattezza di tutto il Popolo di Dio, consapevole della sua missione salvifica" (RH 3). Tale consapevolezza, frutto dell'azione dello Spirito durante e dopo il Concilio, fu il "primo tema della... fondamentale enciclica" di Paolo VI, la "Ecclesiam Suam": "Illuminata e sorretta dallo Spirito Santo la Chiesa ha una coscienza sempre più approfondita sia riguardo al suo ministero divino, sia riguardo alla sua missione umana, sia finalmente riguardo alle stesse sue debolezze umane: ed è proprio questa coscienza che è e deve rimanere la prima sorgente dell'amore di questa Chiesa, così come l'amore, da parte sua, contribuisce a consolidare e ad approfondire la coscienza. Paolo VI ci ha lasciato la testimonianza di una tale coscienza, estremamente acuta della Chiesa" (RH 3).

Fu volontà determinata e tenacissima di Paolo VI, raccolta dall'immediato successore pur nel suo brevissimo governo, quella di manifestare l'autentico volto della Chiesa sia "al di fuori", "ad extra", con la rimarchevole conseguenza che "gran parte della famiglia umana, nei diversi ambiti della sua molteplice esistenza, è diventata... più cosciente di come sia ad essa veramente necessaria la Chiesa di Cristo, la sua missione e il suo servizio"; sia "dal di dentro", "ab intra", talora non senza dolorose tensioni ed atteggiamenti critici (cfr. RH 4).

Un'altra componente di quella eredità, ricevuta dai due pontificati, è stata poi la maggiore unità "nella comunione di servizio e nella coscienza dell'apostolato", che si esprime nel principio di collegialità, voluto da Cristo e vigorosamente propugnato dal Vaticano II. Il Concilio, infatti, "non ha soltanto ricordato questo principio di collegialità dei Vescovi, ma lo ha immensamente vivificato, tra l'altro auspicando la istituzione di un organo permanente" (RH 5) che fu il Sinodo dei Vescovi. Ma la coscienza della forza che tale principio ha per tutta la Chiesa si è manifestata non soltanto nella comune posizione ed azione dei Vescovi, ma anche nell'accrescersi e diffondersi dello "spirito di collaborazione e di corresponsabilità" sia nel clero che nel laicato (cfr. RH 5).

Devono poi essere ricordati gli sviluppi del nuovo orientamento ecumenico, impostato "con evangelica chiarezza" da Giovanni XXIII, programmato dal Concilio, proseguito con Paolo VI e Giovanni Paolo I. Su questa strada, delicata e difficile, si è camminato insieme ai rappresentanti di altre Chiese e comunità cristiane, e si sono fatti "dei vari ed importanti progressi" (RH 6). E altrettanto si è proceduto, seppure "in altro modo e con le dovute differenze", nell'attività che "tende all'avvicinamento con i rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della spiritualità umana" (RH 6).


6. Questa eredità si delinea oggi ancor più chiaramente, ed in questi dieci anni ha preso forma sempre più nitida e concreta. Abbiamo da continuare nel solco tracciatoci dai due compianti Pontefici. La vita della Chiesa "dal di dentro" esige da noi tutti la continua consapevolezza che la volontà salvifica del Padre, realizzata sulla croce da Cristo Signore con la cooperazione dello Spirito Santo, è affidata alla Chiesa, la quale deve proseguire nel mondo la stessa missione del Figlio di Dio fatto uomo per elevare l'uomo.

Questa responsabilità, che oltrepassa ogni forza e capacità umane, si è radicata sempre più profondamente, di anno in anno, con l'esercizio dell'accennato principio di collegialità, nella collaborazione generosa di tutte le forze della Chiesa, le quali hanno trovato nuovo impulso nei grandi temi trattati in questi anni dalle varie assemblee del Sinodo dei Vescovi.

Infine, la sua destinazione ed apertura al mondo - "Ecclesia in statu missionis" - chiama la Chiesa a percorrere le vie dell'evangelizzazione, della catechesi, del dialogo, "opportune, importune" (2Tm 4,2), per corrispondere al desiderio del Cristo alla vigilia e nell'ora della passione: "Ut omnes unum sint!"; "Sitio!" (Jn 17,21 Jn 19,28).


7. Paolo VI e Giovanni Paolo I hanno camminato instancabili sulla via della fede e dell'amore, in mezzo alla generazione di coloro che cercano il volto di Dio (cfr. Ps 24[23],6). Hanno guidato gli altri come pastori. Sono stati l'immagine viva del Buon Pastore tra gli uomini di questo scorcio di secolo, drammatico ed esaltante.

Preghiamo che si realizzi su di loro la promessa data da Dio a coloro che cercano mediante la fede. Essi sono stati in mezzo a noi come "i due testimoni..., i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra" (cfr. Ap 11,3 Ap 11,4).

Nella luce dell'amore e della fede i due Pontefici ci parlano, con le parole stesse dell'apostolo Paolo, che abbiamo udito nella seconda lettura di questa Eucaristia: "Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore" (Rm 14,4-8).

Si. Paolo VI e Giovanni Paolo I rimangono in benedizione perché ci hanno lasciato questo magistero, che va fino in fondo alle nostre anime: ciò che conta, è vivere per il Signore, appartenere a lui, lavorare, pregare e anche soffrire affinché gli uomini imparino questa, che è l'unica vera sapienza: l'amore. L'amore che è Dio (cfr. Jn 4,8). L'amore che ha creato il mondo, e che la Chiesa proclama a tutti gli uomini. L'amore che è la vita della Chiesa e dell'umanità.

In questo decimo anniversario raccogliamo ancora una volta questa testimonianza.

Vogliamo vivere di essa. Vogliamo tramandarla. Che essi intercedano per noi, che desideriamo restare fedeli alla loro eredità.

Così Dio ci aiuti! Amen.


Data: 1988-09-28 Data estesa: Mercoledi 28 Settembre 1988




Al Convegno della Fondazione "Giovanni Paolo II" - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Solidale corresponsabilità per i valori culturali e religiosi che costituiscono il nostro comune patrimonio e retaggio

Testo:

Cari fratelli e sorelle, amatissimi connazionali!


1. Il nostro odierno incontro rappresenta un'altra tappa nella storia di quest'opera qualè la Fondazione Vaticana Giovanni Paolo II con le sue istituzioni: la Casa Polacca ("Dom Polski"), l'Istituto Polacco di Cultura Cristiana ed il Centro di Documentazione del Pontificato. La tradizione di questi incontri risale - come è noto - al 1981 quando mi è stata consegnata la Casa Polacca come dono delle comunità polacche di tutto il mondo. Mi rallegra il nostro incontro in quanto testimonia il fatto che vi sono cari gli obiettivi ed i compiti della Fondazione e delle istituzioni ad essa subordinate, definiti nello statuto, e che li considerate come vostri.


2. Do il benvenuto e saluto cordialmente tutti i presenti. In voi e tramite voi do il benvenuto e saluto tutti i gruppi e le persone che rappresentate. Rivolgo un saluto speciale ai Vescovi qui presenti, in particolare al Cardinale Jozef Glemp, Primate della Polonia e responsabile della pastorale delle comunità polacche all'estero; a monsignor Theodore E. McCarrick di Newark, New Jersey; a monsignor Adam Maida di Green Bay, Protettore e Moderatore dei Circoli di Amici della Fondazione negli Stati Uniti e a monsignor Edward Urban Kmiec, Vescovo ausiliare di Trenton (N.J.). Saluto i presidenti dei Circoli di Amici della Fondazione convenuti qui da vari Paesi del mondo, come pure i rappresentanti delle comunità polacche sparse in tutto il mondo, di tutte le generazioni.

In modo particolare desidero dare il benvenuto e salutare quegli ospiti e benefattori i cui nomi sono stati commemorati dalla Fondazione sulla speciale targa dei fondatori.

Saluto cordialmente i membri del consiglio d'amministrazione della Fondazione guidati da monsignor Szczepan Wesoly e tutti i dipendenti delle varie istituzioni.


3. Venite a Roma come pellegrini ed amici della Fondazione. Come pellegrini desiderate rafforzare la vostra fede, ravvivare l'amore e la speranza. Come amici della Fondazione volete vedere l'opera da vicino e conoscere meglio le istituzioni ad essa subordinate, delle quali giustamente potete essere fieri. E come amici preoccupati per il futuro dell'opera, in occasione del decennio del Pontificato mi portate un nuovo dono, "il Fondo Perpetuo", il cui scopo è assicurare lo sviluppo della Fondazione. Questo dono è tanto più prezioso in quanto rappresenta il frutto del lavoro, sacrifici, generosità e sollecitudine solidale di varie persone, famiglie, comunità ecclesiali, benemerite associazioni ed organizzazioni patriottiche, caritatevoli e sociali, vari circoli, club, comitati, società, confraternite, centri ed istituti culturali, scientifici, religiosi, come pure alcuni benefattori anonimi. Questo dono comprende anche i lasciti testamentari di coloro che sono già stati chiamati alla casa del Padre.

So che un ruolo di primo piano nella istituzione del "Fondo Perpetuo" viene svolto dai già numerosi Circoli di Amici della Fondazione in vari Paesi ed i loro animatori ai quali esprimo la mia speciale stima.

Accetto il vostro dono con gratitudine. E' per me motivo di soddisfazione che la Fondazione iscriva i vostri nomi nell'elenco dei fondatori e dei benefattori. Non è possibile nominarli tutti: è stato calcolato che questo dono viene da trecentocinquantaquattro persone e novantasette organizzazioni di polacchi all'estero di sedici Paesi. Permettetemi almeno di elencare i Paesi dove vivono e lavorano i donatori - in ordine alfabetico - Argentina, Australia, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Italia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Repubblica Federale di Germania, Spagna, Stati Uniti, Svizzera, Venezuela.

Includo tutti i donatori nella preghiera di gratitudine e vi dico un cordiale: "Dio vi ricompensi"! Nella preghiera accorata raccomando a Dio i defunti benefattori della Fondazione, in particolare Klemens Zablocki, membro del Congresso degli Stati Uniti, collaboratore del consiglio d'amministrazione della Fondazione; Alojzy Mazewski, presidente del Congresso dei Polacchi in America; e tra i sacerdoti monsignor Artur Wojciech Rojek. Eterno riposo dona loro, Signore!

4. Nel settimo capitolo della costituzione dogmatica sulla Chiesa "Lumen Gentium" il Concilio Vaticano II ci ricorda la verità sul Popolo di Dio pellegrinante. Il cristiano è l'uomo la cui vita è un perenne pellegrinaggio. Sa di non avere sulla terra una dimora fissa, e di pellegrinare attraverso essa verso la casa del Padre (cfr. LG 48-51). Questa universale e religiosa dimensione del pellegrinaggio diventa particolarmente familiare soprattutto qui a Roma. E' in un certo senso più palpabile nella capitale del cristianesimo, perché legata all'eredità dei santi apostoli Pietro e Paolo, legata alla Chiesa che - secondo la espressione di sant'Ignazio di Antiochia - "presiede nella carità".

A causa del suo carattere religioso e storico Roma è diventata un punto di riferimento sia per quanto riguarda il pellegrinare escatologico della Chiesa, sia per i pellegrinaggi spirituali dei popoli e delle culture nel corso dei secoli. Non stupisce quindi se i popoli, le nazioni, le società e le culture, e quindi anche la nostra nazione e anche la nostra cultura - che da Roma hanno ricevuto il cristianesimo come religione e come cultura - desiderano in qualche senso essere presenti in questa città che costituisce un punto di riferimento, una chiave di unità nella molteplicità.

Lo capiva bene il Cardinale Stanislaw Hozjusz quando oltre quattrocento anni or sono fondava a Roma l'Ospizio di san Stanislao, Vescovo e martire, che nel corso dei secoli è diventato il simbolo del nostro pellegrinare ed il segno della nostra presenza nella città eterna.

La Casa Polacca in via Cassia e le altre istituzioni della Fondazione sono il passo successivo sulla strada intrapresa dal Cardinale Hozjusz; la tappa corrispondente alle possibilità e alle esigenze dei tempi in cui viviamo. Sono atte a servire il pellegrinare dei popoli, delle nazioni, della storia, delle culture. Permettetemi a questo punto di citare le parole che ho pronunciato sette anni fa in questa Casa, accettando il dono delle comunità polacche nel mondo: "...ho molto desiderato, e desidero che questa Fondazione, questa Casa serva non solo ai pellegrinaggi nel senso religioso, ma anche in quel senso particolare, che serva - se posso esprimermi in questo modo - al pellegrinare della nostra cultura, che definisca il suo punto di partenza, che definisca tutti i suoi punti d'arrivo, perché tracci tutti i punti d'incontro con altre culture, tradizioni, storie nell'ambito di una grande cultura cristiana, tradizione cristiana, storia della Chiesa ed anche storia dell'umanità. A ciò dovrebbe servire in modo particolare questa Casa. Penso che definendo i suoi compiti in questo modo realizziamo i desideri dei donatori. Penso che la nostra epoca, il ventesimo secolo, il tempo di un particolare pellegrinare dei polacchi ha bisogno di tale espressione e di tale utilità" (, IV, 2 [1981] 572ss).


5. Questi presupposti - per quanto ne so - vengono realizzati coerentemente.

La Casa Polacca ha accolto nel 1987, come negli anni precedenti, oltre cinquemilacinquecento persone venute in gruppi o individualmente, soprattutto dalla Polonia, ma anche dalle comunità di emigrati e dai centri missionari. La Casa ha offerto spesso l'aiuto samaritano ai ragazzi ed ai giovani in cerca di alloggio. E' aperta agli esercizi spirituali, ritiri, simposi, conferenze, università estive, corsi, concerti, dibattiti e consultazioni. Spesso vengono qui persone che desiderano visitare la Casa e conoscere il patrimonio del centro di documentazione del Pontificato. Questo centro continuamente si sviluppa e si arricchisce. Raccoglie documenti, libri, materiali audiovisivi, registrazioni musicali, materiale filatelico e numismatico ed altre testimonianze legate all'attuale Pontificato, ai viaggi papali, agli incontri con i pellegrini polacchi a Roma e fuori Roma. E' in un certo qual modo un capitolo della storia che scriviamo tutti quanti insieme. Possiamo supporre che per i posteri esso sarà non solo un punto di riferimento, ma anche una sfida storica.


6. Scrutando in occasione del nostro incontro il passato, e soprattutto guardando il futuro della Fondazione, che sostenete con tanta benevolenza attraverso il "Fondo Perpetuo", possiamo scorgere alcuni tratti che nettamente caratterizzano i suoi interessi, soprattutto nell'ambito della cultura cristiana. L'attività della Fondazione è da un lato indirizzata alla Polonia nel senso geografico ed etnico, dall'altro lato invece - nello spirito dell'universalismo cristiano - ad ogni uomo a cui sono cari i valori umani e quelli religiosi.

Meritano un riconoscimento le iniziative dell'Istituto Polacco di Cultura Cristiana atte ad approfondire a far conoscere agli altri il nostro oltre millenario patrimonio. Esse vengono realizzate attraverso gli studi sull'etica della vita familiare e sociale, sulla storia, sulla nostra letteratura ed attività artistiche, ed anche mediante una riflessione morale e l'incoraggiamento alla ricerca scientifica offerto alla giovane generazione: ne va di capire meglio la propria identità nella luce della fede e della ragione.

Questo compito si pone davanti ai connazionali che vivono sia in patria che all'estero. Perché qui entrano in gioco i grandi valori cari a noi tutti.

Bisogna quindi apprezzare e facilitare la "penetrazione" del patrimonio culturale polacco verso la comunità di polacchi che risiedono all'estero, come pure del grande patrimonio di queste comunità verso la Polonia. Perché la comunità dei polacchi che vivono fuori della Polonia acquista un'identità culturale sempre maggiore. E si tratta non solo di uno scambio tra la Polonia e le comunità all'estero, ma di un'opera di complemento di questi due elementi dell'unità nazionale e culturale nell'unico centro romano. Come è noto, le comunità di emigrati colmano quelle lacune che in patria si formano in molti campi, soprattutto nel campo della storia.

Il programma delle celebrazioni prevede un incontro d'informazione durante il quale verranno presentate più dettagliatamente le iniziative realizzate, le notizie sulle quali man mano riferisce del resto la "Kronika Rzymska". Un'attenzione particolare meritano le università ossia i corsi estivi di cultura polacca per i giovani delle comunità di emigrati. Ad essi hanno partecipato giovani venuti dagli Stati Uniti, dal Canada, dalla Gran Bretagna, dalla Polonia, dalla Svezia, dalla Svizzera, dall'Argentina e dal Belgio.


7. Non dobbiamo dimenticare anche il fatto che la nostra cultura cristiana è contrassegnata da un carattere slavo-centroeuropeo. Perché è nata in una determinata epoca, una determinata famiglia di nazioni ed in un determinato punto dell'Europa. Le esperienze di questo ambito culturale - composto di lingue, strutture sociali e politiche, costumi, stile di vita, sensibilità ed espressioni artistiche - si sono talmente integrate al messaggio evangelico che oggi si può parlare benissimo di una cultura cristiana slava a parte, che è nello stesso tempo una cultura europea. Ciò è stato testimoniato quando gli apostoli degli slavi - Cirillo e Metodio - sono stati proclamati - accanto a san Benedetto - come patroni d'Europa.

Oggi siamo più coscienti rispetto al passato del fatto che la penetrazione reciproca della cultura e della fede, della cultura polacca e delle culture dei popoli delle nazioni vicine, conduce ad un reciproco arricchimento in nuovi ed alti valori spirituali, e produce in noi un senso di solidale corresponsabilità per quei valori che sono il nostro comune patrimonio e retaggio.

Sono molto significative da questo punto di vista le iniziative dell'Istituto Polacco di Cultura Cristiana, realizzate insieme con altre istituzioni e centri: simposi di studio, ricerche e pubblicazioni atte a mostrare nel giusto modo il patrimonio cristiano dell'Europa, il legame tra il Vangelo e la cultura nell'Europa centrale, il patrimonio cristiano del Battesimo della Lituania e della Rus' di Kiev.


8. A marzo di quest'anno, nella cappella della Casa Polacca in via Cassia è stata benedetta e poi appesa una croce di legno, dono di monsignor Zdzislw Peszkowski, professore a Orchard Lake, la quale riproduce la croce della regina Edvige custodita nella cattedrale di Wawel. La croce - segno di salvezza, di vittoria della vita sulla morte della più alta elevazione dell'uomo, segno d'amore e di speranza.

Davanti a quella croce la beata regina "ascoltava la voce delle ferite di Cristo", conosceva il contenuto e il limite del suo amore, ritrovava la sua vocazione in mezzo ai popoli ed alle nazioni che doveva abbracciare con il suo cuore, intuiva i piani di Dio nei confronti della Polonia, della Lituania e delle terre russe (cfr. "Homilia in sacrosancto templo cathedrali Cracoviensi a Summo Pontifice infra Missam habita", die 10 iun. 1987: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X, 2 [1987] 2105ss).

E' bene che la copia della croce della beata Edvige sia giunta nella Casa Polacca da Wawel, luogo di una testimonianza particolare. E' molto eloquente.

Qui e da qui illumini ora e parli con la potenza dell'amore di Cristo "sino alla fine" (Jn 13,1). Parli a tutte le generazioni di pellegrini e di spiriti, divenuti l'ispirazione dell'intera attività della Fondazione e delle sue istituzioni, ispirate per i Circoli di Amici della Fondazione e per tutti i benefattori. Sia un orientamento nella realizzazione dei compiti intrapresi.


9. Vi ringrazio cordialmente dell'odierno incontro, della vostra visita e del dono prezioso. Grazie a questa generosità la nostra comune opera può svilupparsi ed attuare sempre meglio i suoi propositi. Vi ringrazio per le preghiere con le quali sostenete il mio ministero pontificale sia qui, a Roma, sia in altri Paesi del mondo, verso i quali la Provvidenza divina guida i miei passi.

Desidero che il mio ringraziamento e la mia benedizione giungano anche ai vostri cari, alle vostre famiglie, alle vostre parrocchie, alle diocesi, a tutte le comunità ed organizzazioni che rappresentate, ai singoli Circoli di Amici della Fondazione, a tutti i polacchi che risiedono all'estero, a tutti i miei connazionali che vivono in patria e fuori dei suoi confini. Nella mia preghiera raccomando tutti a Dio per intercessione della Madonna. Ella ha compreso meglio di tutti il mistero della croce e la potenza dell'amore salvifico di Cristo. Sotto la croce è divenuta la Madre di ogni uomo, di tutti noi.

Vi benedico di cuore: in nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.


Data: 1988-09-29 Data estesa: Giovedi 29 Settembre 1988





GPII 1988 Insegnamenti - Ai vescovi del Canada in visita "ad limina" - Città del Vaticano (Roma)