GPII 1984 Insegnamenti - Ai sacerdoti confessori - Città del Vaticano (Roma)

Ai sacerdoti confessori - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Un nuovo slancio pastorale nel ministero del perdono

Testo:

Cari fratelli nel sacerdozio.


1. Sono lieto di vedervi qui riuniti sotto la guida di monsignor Luigi Dadaglio, pro-penitenziere maggiore. Mi è veramente gradito questo incontro con voi, che durante l'Anno Giubilare avete esercitato il ministero della Riconciliazione come penitenzieri o come confessori aggiunti nelle basiliche patriarcali e in altre chiese di Roma. Esso mi offre l'occasione propizia per dire a voi e a tanti generosi sacerdoti, che si dedicano al ministero delle confessioni, alcune cose che porto nel cuore.

Anzitutto desidero ringraziarvi per l'opera veramente preziosa che avete compiuta per mesi e mesi nel silenzioso, paziente e costante adempimento di un compito che si collocava al cuore stesso dell'Anno Santo, perché attraverso di esso - e attraverso di voi - avvenne per innumerevoli pellegrini l'accesso alle fonti della divina misericordia. A questo mirava anzitutto e soprattutto l'intenzione e l'organizzazione dell'Anno Giubilare, del quale pertanto voi siete stati in certo senso i principali ministri.

Ma in voi mi piace vedere rappresentati e spiritualmente presenti tanti altri venerandi e diletti sacerdoti che nelle varie diocesi di ogni continente durante l'Anno Santo hanno svolto lo stesso ministero, assecondando senza dubbio la spinta interiore dello Spirito, che li portava a rispondere alle nuove, più intense, a volte insospettate richieste dei fedeli che volevano riprendere questa pratica sacramentale. E il mio pensiero si dilata e vorrebbe raggiungere le folte schiere di nostri confratelli, che di generazione in generazione si sono succeduti nei confessionali, in Roma e in tutte le Chiese locali del mondo, per accogliere persone di ogni età e condizione che lo stesso Spirito attirava al sacramento della purificazione e del perdono. Essi costituiscono una magnifica schiera di portatori di grazia, di insegnamenti, di consigli, di comprensione, di consolazione e d'incoraggiamento al bene, alla quale si deve, oltre la conversione e la santificazione dei singoli, la formazione, la salvaguardia e la trasmissione di quel costume cristiano che in molte nazioni è il patrimonio più ricco e importante della civiltà ispirata al Vangelo.

Sentiamoci oggi uniti e partecipi di questa "comunione santa" di sacerdoti e pastori d'anime di tutti i tempi, associati non solo nel vincolo della fraternità ecclesiale, ma anche nella continuità di un ministero che permette a tanti sacerdoti umili, buoni e sapienti di essere gli artefici del rinnovamento delle coscienze, del ringiovanimento della comunità cristiana, dell'infusione di un "supplemento d'anima" alle stesse società e istituzioni umane sempre bisognose del soffio vivificante dello Spirito.

Nella comunione ecclesiale che ci unisce come "un cuore solo e un'anima sola" (Ac 4,32), in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, oggi mi faccio interprete della Chiesa nel far giungere a tutti la sua approvazione e il suo plauso; mi faccio interprete vostro nel rendimento di grazie al Signore per tutti i doni di misericordia e di perdono che Dio ha concesso anche per mezzo di tanti umili suoi servi a innumerevoli uomini, sempre, e specialmente nell'Anno Giubilare da poco concluso.


2. Tutti siamo stati testimoni di ciò che Dio ha operato durante la celebrazione giubilare della redenzione; tutti, e voi forse anche più degli altri, possiamo dire col salmista che veramente il Signore "mirabilia fecit" (Ps 97,1).

Queste "opere mirabili" hanno avuto anche certi risalti esterni, specialmente negli ultimi mesi dell'Anno Giubilare, come per un'esigenza di espansione della carica di vita soprannaturale accumulata nell'anima dei fedeli.

Specialmente i giovani hanno fatto esplodere, si direbbe, ciò che tutta la Chiesa aveva in cuore. Ma voi sapete che le cose più stupende sono quelle avvenute per tante anime al livello della coscienza, dove il pentimento umano e il perdono divino le hanno portate alla vita nuova attraverso la grazia sacramentale. Questo cambiamento, questa conversione dell'anima sotto l'azione della grazia giustificatrice, è "l'opera più grande quanto alla grandezza dell'opera, che Dio compia nel mondo", come spiega san Tommaso d'Aquino (I-II 11,9), facendo eco a sant'Agostino che scriveva: "Maius est quod ex impio fiat iustus, quam creare coelum et terram. Coelum enim et terra transibit: praedestinatorum autem salus et iustificatio pernanebit" ("In Io. Ev.", 72: PL 35, 1823). Anzi, san Tommaso mostra come abbia ragione sant'Agostino di aggiungere: "Iudicet qui potest, utrum maius sit iustos angelos creare quam impios iustificare. Certum, si aequalis est utrumque potentiae, hoc maioris est misericordiae".

Nella Confessione, dunque, si compie e si rinnova continuamente, come nel Battesimo, quello che possiamo chiamare il miracolo della divina misericordia.

Non possiamo lasciare che si disperda questo frutto dell'Anno Santo. Se la celebrazione giubilare ha confermato l'importanza, anzi la necessità vitale, per gli uomini e per la Chiesa, del sacramento della Penitenza; se ci ha permesso di constatare che moltissimi credenti sono sensibili e docili al richiamo della Chiesa verso questo sacramento, perché esso tocca un loro bisogno interiore e in molti casi un desiderio reale anche se molte volte inespresso o forse addirittura soffocato dalle preoccupazioni e distrazioni quotidiane; se la vittoria del buon seminatore vi è stata e voi, più di ogni altro, avete potuto raccogliere tanta messe: ora occorre continuare a impegnarsi nel ministero della Riconciliazione con nuovo slancio pastorale, cioè con nuova disponibilità, con nuova generosità, con nuovo spirito di sacrificio e con nuova intelligenza della sua funzione nell'economia della salvezza come mezzo di raccordo e canale di comunicazione tra il cuore di Gesù Cristo crocifisso e i singoli uomini, tutti bisognosi di redenzione (cfr. Rm 3,23).


3. In questo incontro con voi, cari e venerati padri penitenzieri e confessori romani, desidero ribadire questo punto fondamentale di qualsiasi programma pastorale che voglia essere conforme all'istituzione, allo spirito di Cristo e alla tradizione della Chiesa.

Come successore di Pietro, il Papa sente l'obbligo di provvedere anzitutto e più direttamente alla diocesi di Roma, dove la tradizione della Chiesa ha il suo filo conduttore anche su questo punto. Ma io sono sicuro che i vescovi di tutto il mondo, partecipi anch'essi della successione apostolica, continueranno a procurare in tutti i modi possibili che il prezioso ministero delle confessioni abbia il posto che gli compete nella stima, nell'impegno, nel tempo e nella stessa ascetica personale di tutti i sacerdoti in cura d'anime.

In particolare desidero raccomandare che a tutte le chiese parrocchiali e a quelle dei religiosi sia assicurata la presenza di sacerdoti idonei per l'amministrazione del sacramento della Penitenza in sedi convenienti e con gli orari più adatti, tenendo conto delle norme disciplinari e pastorali del diritto canonico e delle legislazioni particolari. Specialmente le cattedrali e i santuari assumano sempre di più questa funzione di "luoghi della misericordia", dove è sempre possibile trovare facilmente la grazia del perdono.

Né si ometta l'antica consuetudine di indire predicazioni straordinarie - in forma di "missioni", esercizi, ritiri, eccetera, oltre alle predicazioni che solitamente si tengono nelle chiese - assicurando in tali circostanze la presenza di confessori straordinari.


4. Il ministero della Penitenza esige da noi sacerdoti non solo una donazione generosa di tempo e di fatica, ma anche uno zelo ardente e sincero per la salvezza delle anime, che si traduce nella pratica delle piccole e grandi virtù di un buon pastore: per esempio la pazienza, la puntualità, il riserbo, la finezza di tratto e di parola, la disponibilità al colloquio, la larghezza di mente e di cuore, e tutte le altre qualità e virtù necessarie per il buon adempimento di questo delicatissimo ufficio.

Solo questa ricchezza spirituale libera dal pericolo di cadere in quelle mancanze di delicatezza, di bontà, di rispetto alle coscienze, di affabilità, di dedizione, che a volte possono indisporre coloro che ricorrono al sacramento con la speranza e la fiducia di trovarvi una manifestazione concreta di colui che conoscono come "ricco di misericordia" (Ep 2,4). Noi dobbiamo essere sue immagini, suoi riflessi soprattutto in questo! Poveri di tutto, la nostra ricchezza può e deve essere la misericordia! Essa completerà anche e soprattutto in questo campo la giustizia, che pur dobbiamo praticare; essa ne attenuerà il rigore e ne addolcirà le prescrizioni.

A questo riguardo, sarà bene meditare spesso sul fatto che noi non siamo i padroni né del sacramento né delle coscienze: siamo invece e dobbiamo sforzarci di essere, in modo sempre più adeguato, degli umili "servi dei servi di Dio", dei "ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio", come dice san Paolo.

"Ora - prosegue l'apostolo - quanto si richiede, negli amministratori, è che ognuno risulti fedele" (1Co 4,1-2). Fedeli a Cristo sacerdote eterno, fedeli alla Chiesa, fedeli al sacramento, fedeli alle anime che vengono a chiederci l'elargizione della divina misericordia!


5. A questo scopo sarà sempre utile e necessario possedere una pedagogia pastorale, maturata nella preghiera e nell'esperienza. Essa presuppone certe doti di intuizione, di finezza, di bontà, ma si rassoda e perfeziona col prudente esercizio del ministero e con i carismi concessi dallo Spirito Santo a chi si fa suo docile strumento: soprattutto il dono del consiglio, destinato specialmente ai pastori e direttori di coscienza, i quali, se sono fedeli, possono giungere a meritare il titolo che veniva attribuito a sant'Antonino di Firenze, cioè di "vir consiliorum". Anche nel nostro tempo abbiamo dinanzi agli occhi figure mirabili di confessori, come san Leopoldo Mandic, che ho avuto la gioia di canonizzare. In lui la Chiesa ha voluto onorare anche tanti altri, noti e ignoti, che si trovano si può dire in ogni diocesi, in ogni famiglia religiosa, e sono punti di riferimento per i fedeli e per gli stessi sacerdoti. Quante volte, cari confratelli, ci è stato concesso il dono di incontrare e di ricevere da qualcuno di questi venerandi uomini di Dio l'indicazione di cui avevamo bisogno, e che sentivamo provenire dall'alto! Ecco: al confessore occorre una luce che viene dall'alto, e quindi una pedagogia della fede che tutto vede e aiuta a vedere in quella luce, tutto cioè nel riferimento a Dio supremo legislatore, amico, padre di misericordia infinita.

Una pedagogia della fede che in quella luce considera e tratta le virtù e i peccati, e soprattutto accosta i penitenti infondendo in loro, anche nel caso di qualche delicato e leale richiamo da esprimere, il senso dell'eterno amore di Dio, che rivive nel cuore del sacerdote.

A nessuno, come ai confessori, si attaglia l'esortazione di san Paolo ai Colossesi, che mi permetto di rivolgere a voi e a tutti coloro che esercitano questo salutare ministero in tutta la Chiesa, come un ricordo di questo felice incontro e di tutto l'Anno Santo: "Rivestitevi, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza... Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutti poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori!" (Col 3,12-15).

Fede, amore, misericordia e pace sono le basi spirituali indispensabili di una pastorale del sacramento della Penitenza che permette di affrontare tanti problemi e casi particolari, ma soprattutto di realizzare ciò che nelle intenzioni della Chiesa deve essere il sacro ministero, come lo è stato, grazie a Dio, nell'Anno Santo e dovrà continuare ad esserlo sempre più e sempre meglio: un'espansione della grazia redentrice, che dal cuore di Cristo crocifisso giunge a tutti coloro che su tutte le vie del mondo aspettano e cercano la "beata speranza" della salvezza.

Con questo auspicio, pieno di speranza, vi benedico di cuore.

Data: 1984-07-09 Data estesa: Lunedi 9 Luglio 1984




A un gruppo di marchigiani - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Il futuro del mondo e della Chiesa attraverso la famiglia

Testo:

Carissimi! Sono sinceramente lieto di potermi incontrare, pur per breve tempo, con voi, coniugi e fidanzati appartenenti alle diocesi di Fano, Fossombrone, Cagli e Pergola, che in questo periodo siete impegnati nel seguire un corso di teologia sulla famiglia.

Desidero anzitutto esprimere il mio vivo apprezzamento al vostro zelante pastore, monsignor Costanzo Micci, ideatore di questa provvida iniziativa diocesana, che ha posto sotto l'egida del "Pontificio istituto per la famiglia Giovanni Paolo II". Il mio apprezzamento si rivolge anche a tutti i docenti, i quali hanno messo a disposizione del corso la loro preparazione culturale; si rivolge a voi, che avete sentito e sperimentato l'esigenza di un approfondimento serio circa la concezione cristiana del matrimonio e della famiglia, sia per realizzare nella vostra vita coniugale tale illuminante e ricca prospettiva di fede, sia per essere disponibili a lavorare, sotto le direttive del vescovo, nell'ambito delicato della pastorale familiare.

Voi ben sapete come una delle sollecitudini più sentite del mio ministero di sacerdote, di vescovo e ora di Pastore della Chiesa universale sia stata indirizzata proprio alla famiglia nella convinzione - fondata sulla parola di Dio - che il matrimonio e la famiglia fin dagli inizi della rivelazione e della storia della salvezza sono presenti come voluti da Dio fin dalla creazione (cfr. Gn 1-2) e intrinsecamente ordinati a perfezionarsi in Cristo (cfr. Ep 5).

Per questo il Sinodo dei vescovi, celebratosi a Roma nel settembre-ottobre 1980, ha trattato della famiglia cristiana come della prima comunità chiamata ad annunciare il Vangelo di Cristo alla persona e portarla alla piena maturità umana e cristiana. In seguito al citato Sinodo e sulla base delle proposte presentatemi dai padri sinodali, mi sono fatto interprete di fronte all'umanità della viva sollecitudine della Chiesa per l'istituto familiare, rivolgendo a tutti i membri della Chiesa cattolica l'esortazione apostolica "Familiaris Consortio" circa i compiti della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo.

"Famiglia, diventa ciò che sei!": queste parole ho rivolto idealmente a tutte e singole le famiglie del mondo, perché scoprano la loro identità, ma anche la loro missione nel disegno di Dio creatore e redentore. Queste parole ripeto oggi a voi, carissimi fratelli e sorelle, perché impegnandovi a studiare e a riflettere sulla teologia della famiglia, possiate essere anche di valido aiuto nelle comunità diocesane per prestare la vostra opera di illuminazione, di consiglio, di orientamento, secondo le vostre individuali specializzazioni.

Se è vero che "il futuro del mondo e della Chiesa passa attraverso la famiglia" (FC 75), il vostro impegno e la vostra collaborazione in questo campo saranno certamente preziosi e meritori agli occhi di Dio, della chiesa e della stessa società civile. Occorre pertanto un grande amore per la famiglia! "Amare la famiglia - dicevo nella citata esortazione apostolica - significa saperne stimare i valori e le possibilità, promuovendoli sempre. Amare la famiglia significa individuare i pericoli e i mali che la minacciano, per poterli superare. Amare la famiglia significa adoperarsi per crearle un ambiente che favorisca il suo sviluppo" (FC 86).

Questa consegna concreta ed esigente affido oggi anche a voi, mentre a conferma e a conforto dei vostri propositi invoco dal Signore l'abbondanza dei favori celesti e vi imparto di cuore la benedizione apostolica.

Data: 1984-07-09 Data estesa: Lunedi 9 Luglio 1984




A un gruppo di ufficiali italiani - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: La cultura, espressione dell'uomo, va difesa nella libertà

Testo:

Illustrissimi signori.


1. Sono lieto di accogliervi e di manifestarvi la mia sincera gratitudine per il pensiero gentile e per i sentimenti che vi hanno portato qui. Rivolgo il mio cordiale saluto a monsignor Gaetano Bonicelli, al capo di Stato maggiore generale Capuzzo, e a voi, signori ufficiali, che avete partecipato al "Corso di scienze umanistiche nel filone della filosofia cristiana" presso l'istituto patristico Augustinianum, qui rappresentato dai suoi degni responsabili.

Ho accolto volentieri il desiderio espresso dal vostro ordinario di una speciale udienza a conclusione della suddetta interessante iniziativa, perché questo incontro mi offre l'occasione di dirvi una parola di lode e di incoraggiamento a perseverare nel nobile impegno di approfondire la vostra cultura alla luce della fede cristiana, per un servizio alla diletta nazione italiana sempre più ispirato a valori autenticamente umani, perché genuinamente cristiani.


2. Una delle dimensioni fondamentali della cultura - e insieme una delle condizioni per la sua esistenza e per il suo sviluppo - è la libertà, intesa come autodeterminazione ai valori. Infatti la cultura è l'espressione della personalità umana nel suo aspetto più profondo e più radicale e ne porta la caratteristica fondamentale: la libertà, cioè la capacità di portare autonomamente la responsabilità delle proprie scelte.

Se l'uomo è libero - e il suo essere a immagine e somiglianza di Dio dice il fondamento di questa libertà come essere ed esistere di fronte a Dio - la cultura, che è l'impresa in cui si esprime in modo significativo la personalità umana, è libera e deve essere difesa nella sua libertà. "L'autentica cultura umana è cultura della libertà che sgorga dalla profondità dello spirito, dalla lucidità del pensiero e dal generoso disinteresse dell'amore. Fuori della libertà non può esserci cultura" (Agli uomini di cultura, Rio de Janeiro, 1 luglio 1980).

E' per questo che la vera cultura di un popolo, la sua piena umanizzazione non possono svilupparsi dentro la costrizione del potere politico o economico, ma devono essere aiutate dall'uno e dall'altro in tutte quelle forme di pubblica e privata iniziativa che sono conformi al vero umanesimo, alla tradizione e allo spirito autentico di un popolo. La cultura che nasce dalla libertà deve quindi diffondersi in un regime di libertà, quale la vostra opera, la vostra dedizione, la vostra professionalità sono costantemente impegnate a tutelare.


3. Tuttavia l'uomo non può essere autenticamente libero, non può realizzare totalmente la sua umanità, se non riconosce e non vive la trascendenza del proprio essere sul mondo e il suo rapporto con Dio. All'elevazione dell'uomo appartengono non solo la promozione della sua umanità, ma anche l'apertura della sua umanità a Dio.

Fare cultura è dare all'uomo, a ogni uomo e alla comunità degli uomini, una dimensione umana e divina, "è offrire e comunicare all'uomo quell'umanità e quella divinità che sgorgano dall'uomo perfetto, dal Redentore dell'uomo, Gesù Cristo" (Agli uomini di cultura, Rio de Janeiro, 1 luglio 1980). L'opposizione fra religione e cultura è artificiosa: le ideologie che l'hanno sostenuta hanno preteso di combattere una battaglia per l'emancipazione dell'uomo dalla dimensione religiosa ma, di fatto, hanno contribuito alla nascita di sistemi ideologici, economici e politici totalitari nei quali l'uomo si è come dissolto, costretto a essere "o un frammento della materia o cittadino anonimo della città terrena" (Prolusione alla III Conferenza del Celam, Puebla, 28 gennaio 1979).

Mi è caro auspicare che, avendo voi approfondito come l'uomo sia un essere con una dignità incomparabile, perché capace di trascendenza, possiate diventare maggiormente sensibili agli insopprimibili valori dello spirito e, al tempo stesso, sempre più idonei al compito di difendere, con generosità e intelligenza, il Paese e i valori su cui esso si fonda.

Mentre invoco per voi e per le vostre famiglie da Dio, per intercessione della Vergine santissima, la continua assistenza e l'abbondanza dei celesti favori, di cuore tutti benedico.

Data: 1984-07-09 Data estesa: Lunedi 9 Luglio 1984




Al Patriarca Kasparian - Pontificio Collegio Armeno (Roma)

Titolo: In occasione del conferimento del pallio

Testo:

Fratelli carissimi.


1. La presenza di tante autorità, di un pubblico così qualificato, la splendida esecuzione di canti polifonici e le amabili parole di sua beatitudine il Patriarca, tutto questo rivela che l'odierno incontro è da iscrivere nell'albo storico delle commemorazioni più salienti della vostra e nostra Chiesa armena.

Voi comprenderete con quanta gioia io abbia accolto l'invito di partecipare in questo sacro luogo a due cerimonie di singolare importanza: l'imposizione del sacro Pallio a sua beatitudine Giovanni Pietro XVIII Kasparian e la solenne conclusione dei festeggiamenti per la ricorrenza del primo centenario del Pontificio collegio armeno in Urbe.

Le due felici circostanze, a ben riflettere, convergono entrambe in un'unica visuale: la Chiesa santa di Dio, che è, per volontà di Cristo Signore, cattolica e apostolica, si estende una e indivisa in Oriente come in Occidente.

Per questo scopo sorsero i collegi nazionali e orientali in Roma, come pure per conferma del mandato divino si protrae, fino ai giorni nostri, l'uso del conferimento del pallio.


2. Il conferimento del sacro pallio è segno di comunione con il successore di Pietro, principio e fondamento visibile dell'unità di fede in Cristo, secondo quanto è dichiarato dal Concilio Vaticano II: "Nella comunione ecclesiale vi sono legittimamente le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo pero integro il primato della Cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità (sant'Ignazio, "Ad Romanos") e tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare non solo non nuoccia all'unità ma piuttosto la serva" (LG 13).

E' con viva gioia che ho conferito a lei, venerabile fratello, l'insegna liturgica, che fin dai primi secoli il Vescovo di Roma, in segno di servizio per l'unità di fede, suole consegnare ai patriarchi e ad altri presuli di sedi illustri; a vostra beatitudine, che, eletta il 5 agosto del 1982 Patriarca della veneranda Chiesa cattolica armena, stimo urgente raggiungere subito la sua sede in Beirut, funestata ancora da eccidi di un'assurda guerra.

Era consuetudine presso i romani insignire del pallio persone eminenti per cultura, e l'usanza passo poi nei credenti della Chiesa romana, come simbolo e attestazione di saggezza e di verità, quasi partecipazioni della stessa sapienza divina. E a chi spetta meglio una distinzione piena di tanto significato se non a coloro che sono per antonomasia i depositari della divina sapienza, cioè ai reggitori della Chiesa, che è colonna e sostegno della verità? (cfr. 1Tm 3,15).

Ricavato da lana di agnelli, questo sacro indumento dice subito relazione con la dolce figura del Buon Pastore che, portando paternamente sulle spalle la pecora smarrita, sa dare di se stesso e della sua vita un segno di comunione salvifica per tutti, quale riepilogo della sua redenzione copiosa sulla croce.

Con questa cerimonia semplice e tanto suggestiva, l'appello del Maestro divino a operare con tutte le forze "Ut omnes unum sint" (Jn 17,11), pare divenga una concreta realtà, come è pure ribadito nel Concilio: "Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e l'universalità del popolo di Dio, in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l'unità del gregge di Cristo" (LG 22).

In un periodo difficile come il nostro, mentre assistiamo preoccupati a persistenti tentativi di pericolose disgregazioni ad ogni livello della scienza e della convivenza umana, la Chiesa ha, per costituzione divina, il mandato di riunire gli uomini nella comunione universale dell'autentico amore al Padre. Tale unità di fede e di carità non può non portarci a pensare a quella stima e affetto che noi riserviamo per le Chiese sorelle nella fede di Cristo, con particolare riferimento a quelle armene dei catolicosati di Eczmiazin e di Cilicia e dei patriarcati di Gerusalemme e di Costantinopoli. Ai venerandi capi di dette illustri Chiese, nostri confratelli, rivolgo il mio saluto affettuoso: "La pace del Signore Gesù sia con tutti voi!".

Vostra beatitudine è stata chiamata ad affrontare delicati e complessi problemi della gloriosa Chiesa cattolica armena: possa ella sviluppare nel suo ministero pastorale lo spirito di collaborazione e di dialogo con la gerarchia, il clero e i fedeli per l'inconcussa fedeltà alla verità rivelata, che ha sempre distinto la sua Chiesa.

Nella liturgia eucaristica, questo Pallio ricorderà la nostra costante preghiera a Dio per la pace e la serenità dei popoli sconvolti del Medio Oriente e del mondo, perché conoscano finalmente giorni migliori.


3. A questa festosa adunanza siamo convenuti perché spinti anche da un altro motivo: il primo centenario di fondazione di questo Pontificio collegio armeno.

E' un traguardo storico che reca gioia alla Chiesa cattolica armena, ma anche alle altre Chiese orientali e alla latina. L'aver voluto che questo indispensabile istituto di formazione ecclesiastica per i chierici armeni sorgesse all'ombra della Sede apostolica, sta ad indicare la fiduciosa certezza di quanti vedevano fondersi mirabilmente le istituzioni, i riti, le tradizioni ecclesiastiche e la disciplina di tutte le Chiese orientali in una con quelle della Chiesa di Roma, fondamento granitico e immutabile il cui Vescovo succede per volontà divina al beato Pietro nel primato sulla Chiesa universale.

Se l'odierna commemorazione rievoca il munifico gesto di Leone XIII, per cui il collegio è detto pure "Leonino", è vero tuttavia che l'iniziativa risale a tre secoli prima, al pontificato di Gregorio XIII che, avendo constatati i vantaggiosi risultati sugli alunni del collegio greco da lui eretto nel 1577, con la bolla "Romana Ecclesia" del 13 ottobre 1584, decretava la fondazione di un altro collegio per i giovani armeni chiamati al sacerdozio, realizzando quanto il Concilio di Trento aveva stabilito per l'autentica riforma della Chiesa in ogni campo e direzione. Il gesto profetico di quel grande Papa non ebbe tempo di tradursi in realtà: gli sopraggiunse la morte.

I chierici armeni, che frequentavano le scuole teologiche romane, ebbero in seguito generosa ospitalità presso il Collegio urbaniano. Ma i vescovi armeni, convenuti a Roma nel 1867, in particolari circostanze riguardanti la comunità cattolica armena dell'impero ottomano, rinnovarono a Pio IX pressante richiesta per erigere in Urbe un proprio collegio, che assicurasse ai loro chierici una specifica e sicura formazione armena nello studio e nella liturgia.

Spetto, invero, a Leone XIII, che fin dall'inizio del suo luminoso pontificato espresse tutta la sollecitudine e il rispetto della Santa Sede verso le Chiese d'Oriente, a dare concreta realizzazione a questo Pontificio collegio armeno col breve del 1° marzo 1883 "Benigna hominum parens" (ASS 15, 337-340), nel quale si legge fra l'altro, che "in nessun'altra località c'è tanta opportunità di formare sacerdoti idonei, come ce n'è in Roma, centro della cristianità, presso la tomba dei due grandi apostoli, sotto la paterna sollecitudine del Sommo Pontefice, che per il suo ufficio di Vicario di Cristo è padre comune delle genti e custode e interprete della fede cattolica".

Per il completamento dell'opera contribuirono principalmente la munificenza del Papa, l'abnegazione eroica del cardinale Antonio Hassun e l'abilità consumata del patriarca Stefano Azarian.

Quest'almo collegio, quindi, ebbe come scopo di infondere e rafforzare nell'animo dei futuri pastori di questa Chiesa armena lo spirito di quell'unità di fede, sempre tanto avvertita e desiderata da tutti i connazionali e che è stata sempre la finalità di ogni collegio orientale sorto in Roma, di formare cioè un clero irreprensibile e preparato per il non facile lavoro pastorale ed ecumenico delle Chiese cattoliche d'Oriente.

Fra gli alunni del collegio in questi cento anni è doveroso fare particolare menzione dei 15 sacerdoti condiscepoli, dei quali nove subirono il martirio a causa della fede e sei immolarono la propria vita, condannati per la loro fedeltà a Cristo, fiori purpurei che, da soli, fanno risaltare le alte benemerenze acquistate dall'istituto nella sua esistenza.

Pertanto, mentre dirigo il mio saluto a voi, autorità, gerarchia, superiori, alunni, clero e fedeli della Chiesa armena, direttamente partecipi a questa festa, desidero rivolgermi anche a voi, condiscepoli degli altri istituti orientali dell'Urbe, qui presenti, perché, vivendo insieme la consolante realtà della comunione ecclesiale nella verità dei vostri riti, prendiate parte attiva al ministero apostolico, inteso a realizzare l'anelito di Cristo di unificare, cioè, il popolo di Dio nella libertà dello Spirito e nella molteplicità dei suoi doni celesti, secondo quanto suggerisce il genio, l'indole e l'estro dei singoli popoli.


4. Figli carissimi, facendo mie le espressioni del grande Agostino d'Ippona, "rivolgo la mia parola a voi, eletti in Cristo, prole sempre nuova della Chiesa, grazia del padre, fecondità della madre, pio germoglio, sciame novello, fiore del nostro onore e frutto della nostra fatica, mio gaudio e mia corona, a voi tutti che siete qui saldi nel Signore" ("Discorsi" 1, 4: PL 46, 838).

Dovendo voi partecipare all'"identico e unico sacerdozio e ministero di Cristo" (PO 7), occorre che vi configuriate a lui, prima ancora che con l'ordinazione sacerdotale, con tutta la vostra vita spirituale e con la vostra formazione intellettiva. Radicati e fondati nelle virtù teologali, fede, speranza e carità, aprite il vostro animo ai doni dello Spirito Santo e cercate di acquistare quell'"habitus" dell'orazione, che proviene dalla ricchezza della vostra liturgia e dall'ascolto attento della parola di Dio, per giungere a possedere l'armonioso corredo di tutte le virtù indispensabili per un degno ministro di Cristo Signore. Con tale fedele esercizio delle varie virtù, il vostro comportamento di vita mostrerà agli altri che non siete a servizio di questo mondo se non per guidarlo a Dio: "Ex hominibus assumpti, pro hominibus constituti in his quae sunt ad Deum" (cfr. He 5,1).

Con animo pronto e aperto imparate a percepire i mutamenti dell'umana società, a interpretare i segni dei tempi, a saper unificare con la grazia di Dio la vostra vita interiore con l'azione pastorale che vi viene affidata. E' poi anche urgente la vostra formazione intellettuale mediante gli studi filosofici e teologici, come pure la conoscenza delle altre scienze e discipline, proprie ad alcuni campi pastorali a voi congeniali.

Voi siete stati chiamati ad acquisire una disponibilità pastorale del tutto specifica nella vigna del Signore: vivere il proprio ministero pastorale nel contesto e a contatto con i fratelli delle Chiese ortodosse. Esercitatevi fin d'ora a esplicare tali attitudini ecumeniche con animo generoso, con fede indefettibile e con amore illimitato a Cristo, alla Chiesa, ai fratelli.

Cari giovani, è veramente grande la missione che la Chiesa in questo tempo vi consegna: il dialogo teologico-ecumenico. Questo compito, a cui siete chiamati e per il quale dovrete esplicare gran parte del vostro ministero sacerdotale, esige una lealtà a tutta prova verso il magistero della Chiesa e verso la Sede di Pietro, depositaria della rivelazione, principio e fondamento visibile dell'unità di fede, nella comunione di carità. Questo impegno la Chiesa del Concilio Vaticano II attende da voi ancor più che da qualsiasi altro fedele.

Protagonisti al centro della nuova dinamica ecumenica, "voi giovani, che vi preparate al ministero sacerdotale, dovete essere per gli altri giovani una chiara proposta di vocazione. Chi ha percepito la chiamata di Gesù, come la più grande ricchezza della propria vita, deve avvertire la necessità di comunicare la sua scoperta agli altri. E' quanto fece l'apostolo Andrea portando a Gesù il fratello Simon Pietro (Jn 1,41). Carissimi chierici, irradiate gli ideali che muovono le vostre esistenze e siate fra i vostri coetanei i primi animatori di vocazioni" (Messaggio per la XXI giornata per le vocazioni, 1984).

L'accogliente ospitalità offertavi nella Città eterna agevola la vostra preparazione specifica per la piena maturità del vostro divenire fino al conseguimento del sacerdozio di Cristo.

Sulla strada non facile di questa vostra formazione cristiana e sacerdotale, apostolica e culturale, fulgida come stella mattutina splende l'Immacolata Madre di Dio, regina degli armeni, e san Gregorio l'Illuminatore, patrono di tutta l'Armenia e vostra guida celeste, di cui oggi abbiamo festeggiato la solennità liturgica nella Chiesa armena. Possano i vostri santi protettori implorare dal padrone delle messi che la schiera di giovani seminaristi divenga sempre più numerosa e qualificata.

E mentre ringrazio tutti per l'attestato della vostra fedeltà e per la gioia che mi avete procurato, a voi, alunni del Pontificio collegio armeno e ai giovani di tutti gli altri collegi romani, a vostra beatitudine che con i venerandi confratelli nell'episcopato formate la gerarchia cattolica armena, a quanti qui rappresentate le Chiese sorelle d'Oriente, ai superiori e officiali del sacro dicastero a servizio di dette Chiese, imparto di cuore la mia benedizione.

Data: 1984-07-09 Data estesa: Lunedi 9 Luglio 1984





GPII 1984 Insegnamenti - Ai sacerdoti confessori - Città del Vaticano (Roma)