GPII 1986 Insegnamenti - Inaugurazione porte della Biblioteca e Archivio - Città del Vaticano (Roma)

Inaugurazione porte della Biblioteca e Archivio - Città del Vaticano (Roma)

Cultura, scienza e arte nella vocazione spirituale dell'uomo


Eminenza, signor Presidente, Signore e Signori! E' per me una gioia particolare poter ricevere personalmente, con l'inaugurazione delle due porte di bronzo, il generoso regalo che lei, signor presidente Sallinger, ha voluto porgere alla Biblioteca e all'Archivio segreto vaticano insieme con la Camera dell'Artigianato austriaca.

A lei e a tutti coloro che hanno contribuito a questa iniziativa e l'hanno poi realizzata porgo i miei più sinceri ringraziamenti ed esprimo la mia riconoscenza. Attraverso questo utile e bel regalo voi testimoniate la vostra alta stima verso la Santa Sede e particolarmente per le due importanti istituzioni culturali menzionate. Nel contempo fate onore a un grande figlio della vostra patria austriaca, il molto stimato e onorato Cardinal Alphons Stickler, che già da molti anni serba questa eredità preziosa e storica a servizio della Santa Sede, divenuta ora ancor più degna grazie a queste artistiche porte, nella quale presiede ora come cardinale bibliotecario con particolare competenza e accortezza.

Questa iniziativa fa anche onore alla vostra Camera dell'Artigianato che attraverso di essa esprime la grande attenzione e corresponsabilità verso i beni culturali i quali vengono conservati attraverso queste grandi fondazioni della Santa Sede. Nella sua lunga storia la Chiesa ha sempre dedicato una particolare attenzione ai beni culturali. Cultura, scienza e arte sono eredità ed espressione della chiamata spirituale dell'uomo che supera i bisogni e i confini dello spazio e del tempo e nella sua chiamata religiosa trova il suo pieno sviluppo. Il Vaticano è perciò per diritto contemporaneamente la città dello spirito, dell'arte e della religione. Io incoraggio lei e la Camera dell'Artigianato nel lodevole aiuto per il mantenimento e la protezione di tali beni preziosi che appartengono a tutta l'umanità. Possano queste due porte di bronzo della Biblioteca del Vaticano e dell'Archivio segreto rimanere non solo un degno ricordo, ma anche un futuro sprono e impegno per lei.

Con i miei migliori auguri personali imparto a lei, a tutti i partecipanti e a coloro che vi sono particolarmente legati la mia apostolica benedizione.

Data: 1986-04-12 Sabato 12 Aprile 1986




Ai giovani di Vallo della Lucania - Città del Vaticano (Roma)

La libertà fondata su Cristo forza per un cambiamento di mentalità


Carissimi giovani!


1. Sono felice di trovarmi in mezzo a voi, cari giovani della diocesi di Vallo della Lucania, che concludete con questa udienza la missione giovanile svoltasi quest'anno in tutto il territorio della vostra Chiesa particolare, dal 16 febbraio al 19 marzo.

Mi compiaccio vivamente con il vostro Vescovo, che ha ideato e guidato con zelo e con attenta cura questa iniziativa speciale; mi compiaccio, altresi, con tutti coloro che hanno collaborato mediante lezioni, conferenze, incontri, animazioni di qualsiasi genere. Ma è soprattutto a voi, cari giovani, che esprimo il mio plauso per la seria partecipazione a questa proposta. Essa consiste nell'invito a ricercare un rinnovato incontro con Cristo, "colui che è tra noi: forza, sogno, realtà", come dice il titolo stesso della missione. Io mi auguro che vogliate accettare da lui, il Cristo, come una singolare vocazione, il compito di dare alla vostra Chiesa una nuova giovinezza.

Voi avete voluto gettare, in questa circostanza, uno sguardo sincero anche su alcune questioni che nel vostro territorio interessano il mondo giovanile in modo particolare e sono divenute problema acuto. Mi riferisco alla disoccupazione giovanile e alla questione scolastica.

Voi pero non avete voluto fermare il vostro sguardo esclusivamente sugli aspetti negativi della situazione; ma avete, piuttosto, raccolto alcuni messaggi seriamente impegnativi per l'avvenire. Tra questi c'è il forte appello alla solidarietà produttiva nel mondo del lavoro, alla responsabilità educativa nella scuola e nella formazione professionale; il richiamo al dovere di rispondere alle domande dei giovani che chiedono di essere messi in grado di porre a frutto le proprie capacità per il bene comune. Certamente voi avete considerato il grande apporto che ha, per la formazione della vostra coscienza, l'insegnamento della religione nella vostra scuola unito al rinnovamento della catechesi. Il programma della Chiesa locale di Vallo della Lucania esprime un impegno profondo, metodico, capace di evidenziare i valori dell'annuncio cristiano nel contesto delle vostre tradizioni religiose, e vi domanda una generosa, cordiale, ampia partecipazione.


2. Questa udienza avviene nel clima festoso del tempo pasquale. La Pasqua è stata esperienza d'incontro con Cristo: in essa noi abbiamo potuto accorgerci, come gli apostoli stupiti, che il Risorto è una realtà; abbiamo capito, altresi, quale risorsa la Pasqua possa essere per l'esperienza esistenziale e per il progetto di vita di ogni giovane. In essa Gesù ci illumina sul nostro futuro e ci invita ad aprirci con fiducia alla sua chiamata. Nel Risorto ci incontriamo con quel gesto di libertà infinita, mediante il quale Dio si dona in Cristo all'uomo e lo salva.

Salva dalla distruzione, dalla morte, dalla disperazione, dal cedimento, dalla rassegnazione, dal male. Ma salva, soprattutto, riconducendo alla sua verità e alla ricchezza piena la libertà dell'uomo, vincolata dall'alienazione radicale del peccato. Cristo è divenuto il fondamento di una libertà muova, e il giovane che ha conosciuto Cristo è chiamato a vivere generosamente questa libertà donata dal Signore. Il giovane, perciò, non rimarrà indifferente ai grandi valori sui quali si gioca il destino dell'umanità; non sarà abulico rispetto alla società che lo circonda, né sarà remissivo con se stesso, perché essere liberi è un dono che responsabilizza e stimola a dare un vero senso al proprio agire. La libertà non è un bene che si può gettare, né un valore di consumo, ma una forza di radicale impegno; essa è il segno della verità dell'uomo ed è la regola fondamentale del suo agire. Sappiate dunque impegnarvi per superare tutto quello che può costituire oggi motivo di fondamentale disagio per la vostra coscienza e vogliate agire senza mai cedere al compromesso e allo scetticismo.

Abbiate il coraggio di assumervi serie responsabilità nei vari ambienti sociali che vi riguardano, per operare un cambiamento di mentalità affinché, specialmente nel mondo del lavoro, si evolva una nuova cultura, quella della fratellanza, della solidarietà e della partecipazione. Voi dovete cercare di introdurre in un contesto umano, forse colpito e mortificato da tradizioni arroganti e violente, atteggiamenti profetici che aprano il cuore alla speranza, ben sapendo che la vera via della rinascita della vostra terra avverrà nella misura in cui ogni giovane saprà radicare nella sua mente scelte conformi a valori autentici.


3. Occorrerà che sappiate guardare avanti nella vita, per riproporvi costantemente di essere efficaci nella costruzione della storia della vostra comunità. Ciò vi impegnerà a un'azione sociale autentica, sana, onesta. Tocca a voi desiderare, non solo, ma raggiungere uno stile di vita, nella società terrestre, dove vi sia meno ingiustizia e maggiore pace tra gli uomini, dove l'unità prevalga sulle antiche divisioni, dove l'ordine vinca su ogni forma di egoistico arbitrio, così che il bene comune abbia successo di fronte a qualsiasi organizzazione che tende a umiliarlo, e la sofferenza, il dolore sociale che nasce da ogni forma di violenza e di sopruso, indietreggi a vantaggio di una più autentica felicità nella vita comune.

Sappiate per questo essere coerenti con la vostra fede e tenete ben presente che i grandi valori dell'esistenza, come la pace, la libertà, la vita, la giustizia, trovano nel cuore umano il grande e insostituibile mezzo che li realizza. Ci sia, dunque, nel vostro cuore, un instancabile desiderio per un mondo rinnovato.


4. Cari giovani, la missione giovanile che ora concludete deve segnare per tutti voi l'inizio di un maggiore impegno per un mondo nuovo, più giusto e più umano, come voi lo desiderate. Cristo è con voi. Egli arricchisce di contenuto, di slancio e di efficacia l'impegno che vi proponete, il grande compito che vi attende. "Cristo offre fondamenti sicuri e stabili a chiunque decida di costruire l'edificio della propria esistenza non sulle sabbie mobili, ma sulla solida roccia... non v'è anelito, necessità, speranza che, immersi nell'orbita di Cristo, Signore e Redentore, non ricevano i benefici sperati". Illuminati da Cristo voi potete affrontare i problemi della vostra terra con atteggiamento nuovo, con nuova energia, con rinnovato entusiasmo. Sostenuti da lui potete dare una nuova svolta agli eventi che affliggono la vostra comunità e mutare radicalmente questi sistemi di vita che si reggono sull'umanità di molti individui, su tradizioni superate, e che producono solo una sconcertante ingiustizia e miseria. Abbiate nel cuore il desiderio di una vita nuova per il vostro Paese, ma sappiate radicare la vostra generosa impresa in Cristo. Egli è potente in voi e parla nei vostri cuori con indicibile forza.

Sappiate che Cristo vi ama, ricordate che egli vi è vicino, tenete presente che voi siete molto importanti per lui, perché con voi egli vuole realizzare un mistero di grazia. Egli vi ha chiamati alla libertà per vincere in voi il male nella verità e nell'amore. Lasciate, dunque, che per mezzo vostro, nel "si" col quale risponderete alla sua chiamata, egli divenga la salvezza e la felicità di molti vostri fratelli.

Affido alla Vergine Madre di Cristo, modello perfetto di fede in Dio e fedele collaboratrice del piano divino di salvezza, il vostro avvenire, i vostri propositi, le speranze che tenete nel cuore, tutta la Comunità della diocesi di Vallo della Lucania, in particolare le persone che soffrono, mentre volentieri imparto a tutti la benedizione apostolica.

Data: 1986-04-12 Sabato 12 Aprile 1986




A congressisti di neuropsichiatria - Città del Vaticano (Roma)

Il progresso della medicina va integrato nella più ampia verità della persona



1. Sono particolarmente felice di avere l'opportunità di darvi il benvenuto, illustri signori e signore della scienza medica partecipanti al Congresso Internazionale sulla disfunzione ipotalamica nei disordini neuropsichiatrici.

stendo i miei cordiali saluti a tutti voi e specialmente al dottor Goodwin dell'Istituto Nazionale di Salute Mentale, Bethesda, nel Maryland e al dottor Frajese della Facoltà di Medicina dell'Università di Roma "La Sapienza", sotto i cui auspici il vostro Congresso si sta svolgendo.

Sono stato informato che lo scopo del vostro Congresso è quello di discutere e valutare l'integrazione delle ultime scoperte nel campo della neuroendocrinologia nel trattamento clinico dei disordini neuropsichiatrici, con particolare riferimento alla disfunzione ipotalamica. Speciale oggetto della vostra ricerca è il microcosmo biochimico costituito dalla struttura e dall'azione dei neuropeptidi, specialmente nella loro mutua interazione con il sistema endocrino. E' un campo molto specifico della scienza medica nella quale si sta progredendo con un passo sempre più accelerato nel grande miglioramento degli approcci clinici ai problemi di salute mentale.


2. La Chiesa cattolica ammira e incoraggia il lavoro e l'impegno degli uomini e delle donne di scienza come esploratori dell'uomo e dell'universo. Mentre la Chiesa non pretende di avere una particolare competenza nella natura specificatamente scientifica dei vostri sforzi, gradisce sinceramente e apertamente il progresso della conoscenza ottenuto con mezzi onesti. Essa è fermamente convinta che il progresso della scienza è una speciale forma di servizio all'umanità. Desidero fare mie le parole del Concilio Vaticano II per assicurarvi che "i vostri sentieri non ci sono estranei. Noi (nella Chiesa) siamo amici della vostra vocazione di ricercatori, compagni nelle vostre fatiche, ammiratori dei vostri successi, e, se necessario, consolatori nei vostri insuccessi e scoraggiamenti" (Messaggio del Concilio Vaticano II agli uomini e donne di pensiero e di scienza). In questo senso la Chiesa apprezza enormemente i vostri sforzi per mettere a disposizione della comunità medica, una più completa comprensione dell'influenza sul comportamento umano dei meccanismi biochimici che sono stati oggetto del vostro studio e della vostra discussione durante questi giorni.


3. Lo specifico punto nel quale si incrociano i nostri cammini è la realizzazione che la Chiesa e la comunità medico-scientifica, ognuna nella propria sfera, cercano di servire il benessere degli esseri umani. Tutti sono chiamati ad andare oltre la propria realizzazione in intima comunione con gli altri e con il Creatore stesso. La scienza in generale, e la scienza medica in particolare, è giustificata e diventa uno strumento di progresso, liberazione e felicità solo nella misura in cui serve l'integrale benessere dell'uomo.

Le splendide conquiste dello spirito umano nella scoperta dei segreti della natura e della vita creata, nel costruire mezzi tecnici per fare un uso pratico della conoscenza, non devono mai diventare strumenti di distruzione e di morte né mezzi di manipolazione e schiavitù di altri esseri umani. Questo è un reale interesse di molti uomini e donne del nostro tempo e fortunatamente la comunità scientifica in generale manifesta una testimonianza della sua grande responsabilità a questo riguardo.


4. Gli scienziati sono felici quando, alla fine di un rigoroso approccio metodologico, afferrano l'oggetto della loro ricerca nella sua realtà oggettiva.

Essi vogliono che l'oggetto della loro ricerca parli loro della sua "verità". Essi non vogliono imporre un personale preconcetto ideologicamente basato sulla realtà.

In questo senso il progresso di conoscenza scientifica ha seguito l'itinerario della scoperta: la "verità" della natura e della vita è scoperto e svelato nella sua complessità, e allo stesso tempo nella sua profonda logica e ordine.

Nel vostro campo, strettamente legato all'intimo benessere degli individui, siete messi quotidianamente a confronto dal fatto che i processi biochimici che studiate devono essere integrati con una più ampia verità di ciò che significa essere una persona, essere il soggetto di inalienabili diritti, possedere la dignità di essere umano che non può mai essere perduta.


5. Uno dei maggiori compiti culturali del nostro tempo è quello di una completa conoscenza, nel senso di una sintesi, nella quale l'imponente corpo della conoscenza scientifica possa trovare il suo significato all'interno di una visione integrale dell'uomo e dell'universo, che è dell'"ordo rerum", l'"ordine delle cose". Precisamente nella costruzione di una tale sintesi, la scienza, la filosofia e la religione hanno molto da dirsi.

In questo senso la Chiesa Cattolica desidera essere in costante dialogo con il progresso della conoscenza scientifica e tecnologica. Essa e profondamente convinta di poter contribuire con qualcosa di essenziale a questo dialogo nel presentare la verità e la saggezza che il Padre eterno ha rivelato in Gesù Cristo, il Verbo fatto carne: "La via, la Verità e la Vita" (Jn 14,6).

In sostanza cari amici, le mie parole vogliono essere espressione di incoraggiamento nei vostri sforzi e nel vostro servizio a coloro che beneficeranno delle vostre capacità e della vostra dedizione. Vogliono confermare l'interesse della Chiesa per voi e il suo sostegno nei processi di guarigione che cercate di perfezionare.

Raccomando voi e il vostro lavoro all'Unico di cui le Scritture parlano dicendo che "accolse e prese a parlar loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure" (Lc 9,11).

Vi benedica Dio onnipotente.

Data: 1986-04-12 Sabato 12 Aprile 1986




Canonizzazione del Beato Fasani - Città del Vaticano (Roma)

Fedele all'integrità della dottrina, confessore instancabile



1. Nella liturgia dell'odierna domenica, che segue a breve distanza la Pasqua, risuona la breve domanda di Cristo risorto indirizzata a Simon Pietro. La domanda sull'amore: "Mi ami?... mi ami tu più di costoro?" (Jn 21,15).

Questa domanda appartiene al mistero pasquale. La risurrezione di Cristo orienta l'uomo verso ciò che "non muore", verso ciò che è più forte della morte.

Ciò che permane eternamente. Che costituisce la sostanza stessa dell'immortalità.

Che appartiene alla vita in Dio. Proprio questo è amore.

Alla domanda di Cristo sull'amore, Simon Pietro risponde: "Certo, Signore, tu lo sai che ti amo". E la terza volta: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo" (Jn 21,17).


2. Non è una domanda facile quella sull'amore. E non è facile nemmeno la risposta a questa domanda. Simon Pietro sa di amare, ma si richiama a ciò che Cristo conosce di lui, più che alla testimonianza della propria coscienza.

Non è facile per l'uomo questa domanda, e non è facile la risposta.

Eppure si tratta di una domanda fondamentale. Dalla risposta dipende in definitiva il valore della vita umana. Davanti a Dio che è "Amore", il valore di tutto viene misurato con l'amore. Davanti a Cristo, che "ci ha amato e ha dato se stesso per noi" (cfr Ep 5,2), il valore della vita umana viene misurato soprattutto con l'amore: col dono di se stessi. L'amore decide in definitiva della santità dell'uomo.


3. E' di questo amore che ha dato prova esemplare il francescano conventuale Francesco Antonio Fasani, che oggi la Chiesa annovera ufficialmente nel numero dei santi. Egli ha fatto dell'amore insegnatoci da Cristo il parametro fondamentale della sua esistenza. Il criterio basilare del suo pensiero e della sua azione. Il vertice supremo delle sue aspirazioni. Anche per lui, la "domanda sull'amore" è stata il criterio orientatore di tutta la vita, la quale pertanto non è stata altro che il risultato di una volontà ardente e tenace di rispondere affermativamente - come Pietro - a quella domanda.

Con l'atto di canonizzazione or ora compiuto, la Chiesa stessa, oggi, intende rendere testimonianza a frate Francesco Antonio Fasani, attestando che egli ha veramente e sinceramente risposto di si a quella cruciale domanda del Signore: una risposta che, prima ancora che dalle sue labbra, è venuta dalla sua vita, interamente dedicata a corrispondere, con eroica fedeltà, all'amore col quale Gesù lo aveva prevenuto dall'eternità. Un amore, quello di Gesù, che - lo abbiamo ricordato nei giorni del Triduo pasquale - non si arresto davanti al sacrificio supremo della vita. Un amore, quello di frate Francesco Antonio, di totale adesione all'esempio del Signore. Il nuovo Santo ha dimostrato con la sua vita - come gli apostoli - che sempre "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (Ac 5,29), anche al prezzo di sofferenze e di umiliazioni, che non gli mancarono, al di là della stima e dei consensi che la sua generosità seppe accattivarsi presso i contemporanei. La sua letizia, pertanto - come quella degli apostoli - era motivata dal fatto di soffrire e faticare per il Signore, quando non addirittura di "essere oltraggiato per amore del suo nome" (cfr Ac 5,41).


4. San Fasani ci si presenta in modo speciale come modello perfetto di sacerdote e pastore di anime. Per più di 35 anni, agli inizi del 1700, egli si dedico, nella sua Lucera ma con numerose puntate anche nelle zone circostanti, alle più svariate forme del ministero e dell'apostolato sacerdotale.

Vero amico del suo popolo, fu per tutti fratello e padre, eminente maestro di vita, da tutti ricercato come consigliere illuminato e prudente, guida saggia e sicura nelle vie dello Spirito, difensore e sostenitore coraggioso degli umili e dei poveri. Ne è testimonianza il riverente e affettuoso titolo col quale lo salutarono i contemporanei e che è tuttora familiare al buon popolo di Lucera: egli, allora come oggi è sempre per loro il "Padre Maestro".

Come religioso, fu un vero "ministro" nel senso francescano, vale a dire il servo di tutti i frati: caritatevole e comprensivo, ma santamente esigente per l'osservanza della Regola, e particolarmente per la pratica della povertà, dando egli stesso inappuntabile esempio di regolare osservanza e di austerità di vita.

In un'epoca caratterizzata da tanta insensibilità dei potenti nei confronti dei problemi sociali, il nostro santo si prodigo con inesausta carità per l'elevazione spirituale e materiale del suo popolo. Le sue preferenze andavano verso i ceti più trascurati e più sfruttati, soprattutto verso gli umili lavoratori dei campi, verso i malati e sofferenti, verso i carcerati. Escogito geniali iniziative, sollecitando la cooperazione delle classi più abbienti, così da realizzare forme di assistenza concreta e capillare, che parvero precorrere i tempi e preludere alle forme moderne dell'assistenza sociale.


5. "Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo alla croce" (Ac 5,30): le parole di san Pietro davanti al Sinedrio di Gerusalemme - le abbiamo ascoltate poc'anzi nella prima Lettura - possono ben applicarsi all'azione pastorale di frate Francesco Antonio Fasani. L'annuncio del mistero pasquale fu il nucleo intorno al quale ruoto tutta la sua predicazione. Non senza sfidare a volte l'ostilità di certi ambienti piuttosto refrattari ai valori della fede cristiana. Il secolo XVIII, nei cui primi decenni il novello santo visse e opero, è comunemente noto come "il secolo dei lumi", a motivo del grande onore in cui vi fu tenuta la ragione umana. Non pochi dotti dell'epoca, sulla spinta dell'entusiasmo per le possibilità conoscitive dell'uomo, erano giunti a mettere in questione l'altra sua fondamentale fonte di luce: la fede. In particolare, urtava la loro sensibilità il discorso sull'incapacità dell'uomo a salvarsi con le sole sue forze, non riuscendo di conseguenza ad ammettere la necessità di un Redentore che venisse a liberarlo dalla sua situazione di disperata impotenza.

E' chiaro che, in un simile contesto culturale, l'annuncio del mistero di un Dio incarnato, che è morto e risorto per redimere l'uomo dal peccato, poteva presentarsi particolarmente ostico e duro. La "parola della croce" poteva tornare ad apparire, come nei primi tempi del cristianesimo, una vera e propria "stoltezza" (cfr 1Co 1,18). E' pensabile che padre Fasani, indicato dal vescovo Antonio Lucci come "dotto in teologia e profondo in filosofia", sentisse vivamente questo contrasto. Nella sua Lucera, da secoli importante centro di cultura e di arte, i fermenti delle idee illuministe erano certamente presenti e operanti.

Forse anche il giovane francescano dovette affrontare l'impatto, venendo a trovarsi al centro delle sorde resistenze degli ambienti ai quali non garbava - come già un tempo ai membri del Sinedrio - che si continuasse a "insegnare nel nome di costui", cioè di Cristo (cfr Ac 5,28).

Sappiamo con certezza che egli fu predicatore impavido e instancabile.

Percorse ripetutamente il Molise e la provincia di Foggia, spargendo dappertutto il seme della parola di Dio, fino a meritare il titolo di "apostolo della Daunia".

E nella sua predicazione mai attenuo le esigenze del messaggio, nel desiderio di compiacere agli uomini. Come Pietro e gli altri apostoli, anch'egli infatti era sorretto dalla convinzione che "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (Ac 5,29).


6. Fedele all'integrità della dottrina, il novello santo fu tuttavia umanissimo verso quanti si rivolgevano a lui per rivelargli le loro debolezze. Sapeva di essere ministro di Colui che era morto e risorto "per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati" (Ac 5,31). Padre Fasani fu un autentico ministro del sacramento della Riconciliazione, un infaticabile apostolo del confessionale, nel quale sedeva per lunghe ore della giornata, accogliendo con infinita pazienza e grande benignità coloro che - di ogni ceto e condizione - venivano per cercare con cuore sincero il perdono di Dio.

Quanti furono coloro che, inginocchiati al suo confessionale, sperimentarono la verità delle parole proclamate oggi nel Salmo responsoriale: "Signore Dio mio, / a te ho gridato e mi hai guarito. / Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, / mi hai dato vita / perché non scendessi nella tomba". La gratitudine che i penitenti di padre Fasani provarono allora nel segreto del confessionale, si perpetua ora nella gioia che essi condividono con lui in cielo.


7. "L'agnello che fu immolato - abbiamo proclamato nella seconda Lettura (Ap 5,11) - è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione". Gloria di Cristo sono i santi, quegli uomini cioè che, per un amore spintosi "al di là di tutto", hanno trovato la pienezza della Vita rivelata nella risurrezione di Cristo. Con questa pienezza vivono in Dio. E pure a noi indicano le vie della Vita.

San Francesco Antonio Fasani è uno di questi. Ascoltiamo dunque il suo insegnamento. Lo ascoltino in particolare le genti della nobile terra di Puglia, che ben può gloriarsi di questo suo figlio, nel quale essa ravvisa le migliori caratteristiche, che hanno fatto grande il suo popolo: un popolo laborioso e semplice, coraggioso e tenace, un popolo saldamente ancorato ai valori del Vangelo. Ascoltino il loro illustre concittadino e pratichino ciò che egli ha praticato, per poter essere accolte un giorno con lui in cielo tra le "miriadi di miriadi" che cantano le lodi dell'Agnello "nei secoli dei secoli".

Data: 1986-04-13 Domenica 13 Aprile 1986




Recita del Regina Coeli - Città del Vaticano (Roma)

San Francesco Antonio Fasani, nuova luce sul nostro cammino



1. "Io preghero il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità...". "Non vi lascero orfani, ritornero da voi" (Jn 14,16-18).

Queste parole - riferite dall'evangelista Giovanni - le ha pronunciate Cristo alla vigilia della sua passione, durante il discorso di addio nel cenacolo.

Con tali parole Gesù preparava i discepoli alla sua dipartita, allorché il tempo della sua missione messianica su questa terra si stava avvicinando ormai al termine. Quando Cristo disse "non vi lascero orfani, ritornero da voi", queste parole erano un preannunzio dei giorni successivi alla risurrezione, quando fu dato ai discepoli di incontrarLo ancora per quaranta giorni. Nel contempo, tuttavia, queste parole si riferivano allo Spirito Santo. Cristo risorto non lascia i discepoli "orfani" - non lascia "orfana" la Chiesa - perché le "dona" lo Spirito Santo: "Ricevete lo Spirito Santo".


2. E' lo Spirito-Paraclito. Cristo lo chiama "un altro Consolatore", perché egli porta - in modo diverso da Cristo - la stessa buona novella della salvezza e della grazia: la novella gioiosa. Ciò che Cristo ha manifestato con la parola del Vangelo - dopo essere stato crocifisso - ha riconfermato con la risurrezione; la stessa cosa egli, lo Spirito di Verità, manifesterà con un'azione interiore. Egli rimarrà per sempre con la Chiesa come il Soffio salvifico del Padre e del Figlio, come Dono dall'alto, come "dolce ospite delle anime umane".

Il Concilio Vaticano II ha manifestato in molti modi questa azione del Paraclito attraverso tutta la storia della Chiesa, e anche nell'epoca contemporanea. I suoi frutti sono verità, amore e luce, che si sviluppano negli uomini sotto il soffio dello Spirito Santo.


3. La giornata odierna, in modo particolare, ci rende consapevoli della presenza di questo Divino Consolatore, che indica alla Chiesa, nel corso dei tempi, il cammino della Verità. Lo indica, tra l'altro, presentandoci come modello da seguire l'esempio di fratelli e sorelle che in modo speciale sono il riflesso vivo di nostro Signore Gesù Cristo.

Oggi lo Spirito Santo ci ha donato una nuova luce sul nostro cammino: la testimonianza di san Francesco Antonio Fasani, canonizzato questa mattina. Il nuovo santo costituisce un esempio particolarmente fulgido per i pastori di anime e per tutti coloro che si dedicano all'apostolato. In questo campo, così importante, abbiamo una nuova guida, un nuovo maestro che ci fa comprendere meglio l'esempio unico e insuperabile di Gesù buon Pastore.

Per la Giornata dell'Università Cattolica Oggi ricorre la Giornata dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, che ha per tema: "Una cultura ispirata dal Vangelo per camminare da cristiani nelle vicende del Paese": un argomento che riassume, si può dire, il fine stesso dell'Università Cattolica. Colgo l'occasione per ricordare a tutti i Cattolici italiani l'importanza di questo loro Istituto culturale, che deve svolgere un ruolo di grande rilievo nell'operare quella sintesi tra fede e cultura, tra fede e civiltà, che è una delle mire essenziali della vita cristiana; ed è garanzia di vera promozione umana.

Data: 1986-04-13 Domenica 13 Aprile 1986




Incontro con la comunità ebraica della città - Sinagoga (Roma)

Ringraziano il Signore per la ritrovata fratellanza


Signor Rabbino capo della comunità israelitica di Roma, signora Presidente dell'Unione delle comunità israelitiche italiane, signor presidente delle comunità di Roma, signori rabbini, cari amici e fratelli ebrei e cristiani, che prendete parte a questa storica celebrazione


1. Vorrei prima di tutto, insieme con voi, ringraziare e lodare il Signore che ha "disteso il cielo e fondato la terra" (cfr Is 51,16) e che ha scelto Abramo per farlo padre di una moltitudine di figli, numerosa "come le stelle in cielo" e "come la sabbia che è sul lido del mare" (Gn 22,17, cfr. 15,5), perché ha voluto nel mistero della sua provvidenza, che questa sera si incontrassero in questo vostro "Tempio maggiore" la comunità ebraica che vive in questa città, fin dal tempo dei romani antichi, e il Vescovo di Roma e Pastore universale della Chiesa cattolica.

Sento poi il dovere di ringraziare il Rabbino capo, prof. Elio Toaff, che ha accolto con gioia, fin dal primo momento, il progetto di questa visita e che ora mi riceve con grande apertura di cuore e con vivo senso di ospitalità; e con lui ringrazio tutti coloro che, nella comunità ebraica romana, hanno reso possibile questo incontro e si sono in tanti modi impegnati affinché esso fosse nel contempo una realtà e un simbolo.

Grazie quindi a tutti voi. "Todà rabbà" (grazie tante).


2. Alla luce della parola di Dio testé proclamata e che "vive in eterno" (cfr Is 30,8), vorrei che riflettessimo insieme, alla presenza del Santo, benedetto Egli sia! (come si dice nella vostra liturgia), sul fatto e sul significato di questo incontro tra il Vescovo di Roma, il Papa, e la comunità ebraica che abita e opera in questa città, a voi e a me tanto cara.

E' da tempo che pensavo a questa visita. In verità, il Rabbino capo ha avuto la gentilezza di venire ad incontrarmi, nel febbraio 1981, quando mi recai in visita pastorale alla vicina parrocchia di San Carlo ai Catinari. Inoltre, alcuni di voi sono venuti più di una volta in Vaticano, sia in occasione delle numerose udienze che ho potuto avere con rappresentanti dell'Ebraismo italiano e mondiale, sia ancor prima, al tempo dei miei predecessori, Paolo VI, Giovanni XXIII e Pio XII. Mi è poi ben noto che il Rabbino capo, nella notte che ha preceduto la morte di Papa Giovanni, non ha esitato ad andare a Piazza san Pietro, accompagnato da un gruppo di fedeli ebrei, per pregare e vegliare, mescolato tra la folla dei cattolici e di altri cristiani, quasi a rendere testimonianza, in modo silenzioso ma così efficace, alla grandezza d'animo di quel Pontefice, aperto a tutti senza distinzione, e in particolare ai fratelli ebrei.

L'eredità che vorrei adesso raccogliere è appunto quella di Papa Giovanni, il quale una volta, passando di qui - come or ora ha ricordato il Rabbino capo - fece fermare la macchina per benedire la folla di ebrei che uscivano da questo stesso Tempio. E vorrei raccoglierne l'eredità in questo momento, trovandomi non più all'esterno bensi, grazie alla vostra generosa ospitalità, all'interno della Sinagoga di Roma.


3. Questo incontro conclude, in certo modo, dopo il pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, un lungo periodo sul quale occorre non stancarsi di riflettere per trarne gli opportuni insegnamenti. Certo non si può, né si deve, dimenticare che le circostanze storiche del passato furono ben diverse da quelle che sono venute faticosamente maturando nei secoli; alla comune accettazione di una legittima pluralità sul piano sociale, civile e religioso si è pervenuti con grandi difficoltà. La considerazione dei secolari condizionamenti culturali non potrebbe tuttavia impedire di riconoscere che gli atti di discriminazione, di ingiustificata limitazione della libertà religiosa, di oppressione anche sul piano della libertà civile, nei confronti degli ebrei, sono stati oggettivamente manifestazioni gravemente deplorevoli. Si, ancora una volta, per mezzo mio, la Chiesa, con le parole del ben noto decreto "Nostra Aetate" (NAE 4), "deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli ebrei ogni tempo da chiunque"; ripeto: "da chiunque".

Una parola di esecrazione vorrei una volta ancora esprimere per il genocidio decretato durante l'ultima guerra contro il popolo ebreo e che ha portato all'olocausto di milioni di vittime innocenti. Visitando il 7 giugno 1979 il lager di Auschwitz e raccogliendomi in preghiera per le tante vittime di diverse nazioni, mi sono soffermato in particolare davanti alla lapide con l'iscrizione in lingua ebraica, manifestando così i sentimenti del mio animo.

"Questa iscrizione suscita il ricordo del popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo popolo ha la sua origine da Abramo che è padre della nostra fede come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo che ha ricevuto da Dio il comandamento "non uccidere", ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa l'uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza" ("Insegnamenti" 1979, p. 1484).

Anche la Comunità ebraica di Roma pago un alto prezzo di sangue. Ed è stato certamente un gesto significativo che, negli anni bui della persecuzione razziale, le porte dei nostri conventi, delle nostre chiese, del Seminario romano, di edifici della Santa Sede e della stessa Città del Vaticano si siano spalancate per offrire rifugio e salvezza a tanti ebrei di Roma, braccati dai persecutori.


4. L'odierna visita vuole recare un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre due comunità, sulla scia degli esempi offerti da tanti uomini e donne, che si sono impegnati e si impegnano tuttora, dall'una e dall'altra parte, perché siano superati i vecchi pregiudizi e si faccia spazio al riconoscimento sempre più pieno di quel "vincolo" e di quel "comune patrimonio spirituale" che esistono tra ebrei e cristiani. E' questo l'auspicio che già esprimeva il paragrafo n. 4, che ho ora ricordato, della dichiarazione conciliare "Nostra Aetate" sui rapporti tra la Chiesa e le religioni non cristiane NAE 4. La svolta decisiva nei rapporti della Chiesa cattolica con l'Ebraismo, e con i singoli ebrei, si è avuta con questo breve ma lapidario paragrafo.

Siamo tutti consapevoli che, tra le molte ricchezze di questo numero 4 della "Nostra Aetate", tre punti sono specialmente rilevanti NAE 4. Vorrei sottolinearli qui, davanti a voi, in questa circostanza veramente unica.

Il primo è che la Chiesa di Cristo scopre il suo "legame" con l'Ebraismo "scrutando il suo proprio mistero". La religione ebraica non ci è "estrinseca", ma in un certo qual modo, è "intrinseca" alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun'altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori. Il secondo punto rilevato dal Concilio è che agli ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò "che è stato fatto nella passione di Gesù". Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. E' quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno "secondo le proprie opere", gli ebrei come i cristiani (cfr Rm 2,6).

Il terzo punto che vorrei sottolineare nella dichiarazione conciliare è la conseguenza del secondo; non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli ebrei sono "reprobi o maledetti", come se ciò fosse insegnato, o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture, dell'Antico come del Nuovo Testamento. Anzi, aveva detto prima il Concilio, in questo stesso brano della "Nostra Aetate", ma anche nella costituzione dogmatica "Lumen gentium" (LG 6), citando san Paolo nella lettera ai Romani (Rm 11,28-29), che gli ebrei "rimangono carissimi a Dio", che li ha chiamati con una "vocazione irrevocabile".


5. Su queste convinzioni poggiano i nostri rapporti attuali. Nell'occasione di questa visita alla vostra Sinagoga, io desidero riaffermarle e proclamarle nel loro valore perenne. E' infatti questo il significato che si deve attribuire alla mia visita in mezzo a voi, ebrei di Roma.

Non è certo perché le differenze tra noi siano ormai superate che sono venuto tra voi. Sappiamo bene che così non è. Anzitutto, ciascuna delle nostre religioni, nella piena consapevolezza dei molti legami che la uniscono all'altra, e in primo luogo di quel "legame" di cui parla il Concilio, vuole essere riconosciuta e rispettata nella propria identità, al di là di ogni sincretismo e di ogni equivoca appropriazione.

Inoltre è doveroso dire che la strada intrapresa è ancora agli inizi, e che quindi ci vorrà ancora parecchio, nonostante i grandi sforzi già fatti da una parte e dall'altra, per sopprimere ogni forma seppur subdola di pregiudizio, per adeguare ogni maniera di esprimersi e quindi per presentare sempre e ovunque, a noi stessi e agli altri, il vero volto degli ebrei e dell'Ebraismo, come anche dei cristiani e del Cristianesimo, e ciò ad ogni livello di mentalità, di insegnamento e di comunicazione.

A questo riguardo, vorrei ricordare ai miei fratelli e sorelle della Chiesa cattolica, anche di Roma, il fatto che gli strumenti di applicazione del Concilio in questo campo preciso sono già a disposizione di tutti, nei due documenti pubblicati rispettivamente nel 1974 e nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo. Si tratta soltanto di studiarli con attenzione, di immedesimarsi nei loro insegnamenti e di metterli in pratica. Restano forse ancora fra di noi difficoltà di ordine pratico, che attendono di essere superate sul piano delle relazioni fraterne: esse sono frutto sia dei secoli di mutua incomprensione, sia anche di posizioni diverse e di atteggiamenti non facilmente componibili in materie complesse e importanti.

A nessuno sfugge che la divergenza fondamentale fin dalle origini è l'adesione di noi cristiani alla persona e all'insegnamento di Gesù di Nazaret, figlio del vostro popolo, dal quale sono nati anche Maria Vergine, gli apostoli, "fondamento e colonne della Chiesa", e la maggioranza dei membri della prima comunità cristiana. Ma questa adesione si pone nell'ordine della fede, cioè nell'assenso libero dell'intelligenza e del cuore guidati dallo Spirito, e non può mai essere oggetto di una pressione esteriore, in un senso o nell'altro; è questo il motivo per il quale noi siamo disposti ad approfondire il dialogo in lealtà e amicizia, nel rispetto delle intime convinzioni degli uni e degli altri, prendendo come base fondamentale gli elementi della rivelazione che abbiamo in comune, come "grande patrimonio spirituale" (cfr NAE 4).


6. Occorre dire, poi, che le vie aperte alla nostra collaborazione, alla luce della comune eredità tratta dalla Legge e dai profeti, sono varie e importanti.

Vogliamo ricordare anzitutto una collaborazione in favore dell'uomo, della sua vita dal concepimento fino alla morte naturale, della sua dignità, della sua libertà, dei suoi diritti, del suo svilupparsi in una società non ostile, ma amica e favorevole, dove regni la giustizia e dove, in questa nazione, nei continenti e nel mondo, sia la pace a imperare, lo "shalom" auspicato dai legislatori, dai profeti e dai saggi d'Israele.

Vi è, più in generale, il problema morale, il grande campo dell'etica individuale e sociale. Siamo tutti consapevoli quanto sia acuta la crisi su questo punto nel tempo in cui viviamo. In una società spesso smarrita nell'agnosticismo e nell'individualismo e che soffre le amare conseguenze dell'egoismo e della violenza, ebrei e cristiani sono depositari e testimoni di un'etica segnata dai dieci Comandamenti, nella cui osservanza l'uomo trova la sua verità e libertà.

Promuovere una comune riflessione e collaborazione su questo punto è uno dei grandi doveri dell'ora.

E finalmente vorrei rivolgere il pensiero a questa Città dove convive la comunità dei cattolici con il suo Vescovo, la comunità degli ebrei con le sue autorità e con il suo Rabbino capo. Non sia la nostra soltanto una "convivenza" di stretta misura, quasi una giustapposizione, intercalata da limitati e occasionali incontri, ma sia essa animata da amore fraterno.


7. I problemi di Roma sono tanti. Voi lo sapete bene. Ciascuno di noi, alla luce di quella benedetta eredità a cui prima accennavo, sa di essere tenuto a collaborare, in qualche misura almeno, alla loro soluzione. Cerchiamo, per quanto possibile, di farlo insieme; che da questa mia visita e da questa nostra raggiunta concordia e serenità sgorghi, come il fiume che Ezechiele vide sgorgare dalla porta orientale del Tempio di Gerusalemme (cfr Ez 47,1ss), una sorgente fresca e benefica che aiuti a sanare le piaghe di cui Roma soffre.

Nel far ciò, mi permetto di dire, saremo fedeli ai nostri rispettivi impegni più sacri, ma anche a quel che più profondamente ci unisce e ci raduna: la fede in un solo Dio che "ama gli stranieri" e "rende giustizia all'orfano e alla vedova" (cfr Dt 10,18), impegnando anche noi ad amarli e a soccorrerli (cfr Lv 19,18 Lv 19,34). I cristiani hanno imparato questa volontà del Signore dalla Torah, che voi qui venerate, e da Gesù che ha portato fino alle estreme conseguenze l'amore domandato dalla Torah.


8. Non mi rimane adesso che rivolgere, come all'inizio di questa mia allocuzione, gli occhi e la mente al Signore, per ringraziarlo e lodarlo per questo felice incontro e per i beni che da esso già scaturiscono, per la ritrovata fratellanza e per la nuova più profonda intesa tra di noi qui a Roma, e tra la Chiesa e l'Ebraismo dappertutto, in ogni Paese, a beneficio di tutti. perciò vorrei dire con il salmista, nella sua lingua originale che è anche la vostra ereditaria: "Celebrate il Signore, perché è buono: perché eterna è la sua misericordia. / Dica Israele che egli è buono: / eterna è la sua misericordia. / Lo dica chi teme Dio: / eterna è la sua misericordia (Ps 118,1-2 Ps 118,4). Amen.

Data: 1986-04-13 Domenica 13 Aprile 1986










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