GPII 1986 Insegnamenti - Udienza generale - Città del Vaticano (Roma)

Udienza generale - Città del Vaticano (Roma)

L'universalità del peccato nella storia dell'uomo



1. Possiamo riassumere il contenuto della catechesi precedente con queste parole del Concilio Vaticano II: "Costituito da Dio in uno stato di santità, l'uomo pero, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abuso della libertà sua, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio" (GS 13). E' così ridotta, all'essenziale, l'analisi del primo peccato nella storia dell'umanità, che abbiamo fatta in base al Libro della Genesi (cap. 3). Si tratta del peccato dei progenitori. Ma ad esso si ricollega una condizione di peccato che si estende a tutta l'umanità e che si chiama peccato originale. Che cosa significa questa denominazione? A dire il vero il termine non appare neanche una volta nella Sacra Scrittura. La Bibbia invece, sullo sfondo del racconto di Gn 3, descrive nei successivi capitoli, e anche in altri libri, un'autentica "invasione" del peccato, che inonda il mondo, in conseguenza del peccato di Adamo, contagiando con una sorta di infezione universale l'umanità intera.


2. Già in Gn 4 leggiamo ciò che avvenne tra i due primi figli di Adamo e di Eva: il fratricidio compiuto da Caino su Abele, fratello minore di lui. E già nel capitolo sesto si parla dell'universale corruzione a causa del peccato: "II Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male" (Gn 6,5). E in seguito: "Dio guardo la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra" (Gn 6,12). Il Libro della Genesi non esita a dire in questo con Testo:

"E il Signore si penti di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addoloro in cuor suo" (Gn 6,6). Sempre secondo questo Libro, la conseguenza di quell'universale corruzione a causa del peccato è il diluvio ai tempi di Noè (Gn 7-9). Nella Genesi (Gn 11,1-9) viene menzionata anche la costruzione della torre di Babele, che divento - contro le intenzioni dei costruttori - occasione di dispersione degli uomini e di confusione delle lingue. Ciò significa che nessun segno esterno, e analogamente nessuna convenzione puramente terrena, basta a realizzare l'unione tra gli uomini, se manca il radicamento in Dio. A questo proposito dobbiamo osservare che, nel corso della storia, il peccato si manifesta non solo come un'azione chiaramente rivolta "contro" Dio; a volte esso è anche un agire "senza Dio", come se Dio non esistesse; è un pretendere di ignorarlo, di fare a meno di lui, per esaltare invece il potere dell'uomo, del quale si presume oltre ogni limite. In questo senso la "torre di Babele" può essere un ammonimento anche per gli uomini di oggi. Anche per questo l'ho ricordata nell'esortazione apostolica "Reconciliatio et Paenitentia" (RP 13-15).


3. La testimonianza sulla generale peccaminosità degli uomini, così chiara già nella Genesi, ritorna in vari modi in altri testi della Bibbia. In ogni caso questa condizione universale di peccato viene messa in relazione col fatto che l'uomo volge le spalle a Dio. San Paolo, nella Lettera ai Romani, parla con particolare eloquenza di questo tema: "Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia di una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia... poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che si addiceva al loro traviamento... E, pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle ma, anche approvano chi le fa" (Rm 1,28-31 Rm 1,25-28 Rm 1,32). Si può dire che questa è una descrizione lapidaria della "situazione di peccato" ai tempi in cui è nata la Chiesa, ai tempi in cui san Paolo scriveva e operava con gli altri apostoli. Non mancavano certo valori apprezzabili in quel mondo, ma essi erano largamente inquinati dalle molteplici infiltrazioni del peccato. Il cristianesimo affronto quella situazione con coraggio e fermezza, riuscendo ad ottenere dai suoi seguaci un cambiamento radicale di costumi, frutto della conversione del cuore, che in seguito diede un'impronta caratteristica alle culture e civiltà che si sono formate e sviluppate sotto il suo influsso. In larghi strati della popolazione, specialmente in certe nazioni, se ne gode l'eredità ancora oggi.


4. Ma nei tempi in cui viviamo è sintomatico che una descrizione simile a quella di san Paolo nella Lettera ai Romani si trovi nella costituzione "Gaudium et Spes" (GS 27) del Concilio Vaticano II: "...tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni disumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose, e mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non coloro che subiscono l'ingiuria, e ledono grandemente l'onore del Creatore". Non è questo il momento di fare un'analisi storica o un computo statistico per stabilire in quale misura questo testo conciliare - tra tante denunce dei pastori della Chiesa, ma anche di studiosi e maestri cattolici e non cattolici - rappresenti una descrizione della "situazione del peccato" nel mondo d'oggi. E' certo, pero, che oltre la sua dimensione quantitativa, la presenza di questi fatti è una dolorosa e tremenda riprova di quella "infezione" della natura umana, quale ci risulta dalla Bibbia ed è insegnata dal magistero della Chiesa, come vedremo nella prossima catechesi.


5. Qui facciamo, per ora, due constatazioni. La prima è che la rivelazione divina e il magistero della Chiesa, che ne è l'interprete autentica, parlano immutabilmente e sistematicamente della presenza e dell'universalità del peccato nella storia dell'uomo. La seconda è che questa situazione di peccato, che si ripete di generazione in generazione, è percettibile "dall'esterno" nella storia per i gravi fenomeni di patologia etica osservabili nella vita personale e sociale; ma diventa forse anche più riconoscibile e impressionante se ci si volge verso "l'interno" dell'uomo. Difatti lo stesso documento del Concilio Vaticano II dice in un altro luogo: "Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina, concorda con la stessa esperienza. Infatti se l'uomo guarda dentro al suo cuore si scopre anche inclinato al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore che è buono. Spesso rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l'uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo ultimo fine, e al tempo stesso tutto il suo orientamento sia verso se stesso, sia verso gli altri uomini e verso tutte le cose create" (GS 13).


6. Queste affermazioni del magistero della Chiesa dei nostri giorni contengono in sé non solo i dati dell'esperienza storica e spirituale, ma anche e soprattutto un fedele riflesso dell'insegnamento che si ripete in molti libri nella Bibbia, a cominciare da quella descrizione di Gn 3, che abbiamo precedentemente sottoposto ad analisi, come testimonianza del primo peccato nella storia dell'uomo sulla terra. Qui ricorderemo soltanto le sofferte domande di Giobbe: "può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l'uomo davanti al suo Creatore?" (). "Chi può trarre il puro dall'immondo?" (). "Che cos'è l'uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato di donna?" (). E l'altra analoga domanda del Libro dei Proverbi: "Chi può dire: "Ho purificato il cuore, sono mondo dal mio peccato?"" (Pr 20,9). Nei Salmi risuona lo stesso grido: "Non chiamare (o Dio) in giudizio il tuo servo: nessun vivente davanti a te e giusto" (Ps 142,2). "Sono traviati gli empi fin dal seno materno, si pervertono fin dal grembo gli operatori di menzogna" (Ps 57,4). "Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre" (Ps 50,7). Tutti questi testi indicano una continuità di sentimento e di pensiero nell'Antico Testamento e, quanto meno, pongono l'arduo problema dell'origine della condizione universale di peccato.


7. La Sacra Scrittura ci spinge a cercare la radice del peccato nell'intimo dell'uomo, nella sua coscienza, nel suo cuore. Ma nello stesso tempo presenta il peccato come un male ereditario. Questo pensiero sembra espresso nel Salmo 50, secondo il quale l'uomo "concepito" nel peccato grida a Dio: "Crea in me, o Dio, un cuore puro". Sia l'universalità del peccato sia il suo carattere ereditario, per cui in un certo senso è "congenito" alla natura umana, sono affermazioni che si ripetono spesso nel Libro sacro. così nel Salmo 13: "Tutti hanno tradito, sono tutti corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno".


8. In questo contesto biblico si possono intendere le parole di Gesù sulla "durezza nei cuori" (cfr Mt 19,8). San Paolo concepisce questa "durezza del cuore" principalmente come debolezza morale, anzi, come una specie di incapacità di fare il bene. Ecco le sue parole: "...io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto". C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo..." (Rm 18). "Quando voglio fare il bene, il male è accanto a me" (Rm 7,14-15 Rm 7,21). Parole legate da una interessante analogia, come più volte è stato notato, a quelle altre del poeta pagano: "Video meliora proboque, deteriora sequor" (Ovidio, "Metamorph." 7,20). In entrambi i casi (ma anche in tanti altri della spiritualità e della letteratura universale) si ravvisa l'emergere di uno degli aspetti più sconcertanti dell'esperienza umana, sul quale solo la rivelazione del peccato originale getta un po' di luce.


9. L'insegnamento della Chiesa dei nostri tempi, espresso in modo particolare nel Concilio Vaticano II, riflette puntualmente questa verità rivelata quando parla del "mondo... creato e conservato in esistenza dall'amore del Creatore... posto sotto la schiavitù del peccato" (GS 2). Leggiamo nella stessa costituzione pastorale: "Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre, lotta cominciata fin dall'origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all'ultimo giorno. Inserito in questa battaglia l'uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l'aiuto della grazia di Dio" (GS 37).

Data: 1986-09-17 Mercoledi 17 Settembre 1986




A Congressisti su sant'Agostino - "Augustinianum" (Roma)

Agostino: padre comune e maestro della civiltà cristiana


Illustri professori


1. Un saluto cordiale a voi tutti che siete convenuti da varie parti del mondo per questo Congresso Internazionale, al fine di approfondire e illustrare l'esperienza, il pensiero, l'eredità di sant'Agostino nel XVI centenario della sua conversione. Sono molto lieto di essere potuto venire in mezzo a voi. Desidero esprimere le mie congratulazioni innanzitutto all'Ordine di sant'Agostino per aver chiamato a raccolta tanti studiosi in questa straordinaria circostanza, e poi a tutti voi che vi siete qui raccolti per portare il contributo della vostra dottrina e per attingere nuovi stimoli al vostro impegno di ricerca e di divulgazione. Ho sentito con piacere dal padre Trapé che sono qui rappresentate oltre cento università; saluto cordialmente i singoli professori e, mediante le loro persone, saluto le istituzioni universitarie a cui appartengono, alle quali vanno il mio pensiero affettuoso e l'espressione della mia stima. Mi compiaccio per il vasto e articolato programma che state svolgendo. Era opportuno associare al tema della conversione l'esame degli aspetti filologici, storici, filosofici, teologici e spirituali dell'immensa produzione letteraria di questo infaticabile e sommo dottore, e trattare poi dell'influenza da lui esercitata lungo i secoli nella Chiesa e nella civiltà occidentale. Soffermandovi sul passato, voi avete prospettato il futuro: dalla storia alla profezia il passo è breve. La Chiesa è ormai alla soglia del terzo millennio della sua storia. Per muoversi con sicurezza verso il futuro, deve tener fisso lo sguardo al passato, all'esempio e all'insegnamento dei suoi padri e dei suoi dottori. Tra essi, in posizione eminente, deve annoverarsi sant'Agostino. Questo eccelso dottore in tutto il secondo millennio e in gran parte del primo: dobbiamo auspicare che lo accompagni anche nel terzo. Tale è uno degli intenti della mia recente lettera apostolica "Augustinum Hipponensem", nella quale, rievocando la figura e il pensiero del vescovo d'Ippona, ho esortato a studiarne le opere, nelle quali, come scrive il primo biografo, l'amico Possidio "semper vivere a fidelibus invenitur" (Possidio, "Vita di sant'Agostino", 31,8). Il programma nel vostro Congresso suggerisce alcune riflessioni che proiettano il pensiero di Agostino nel futuro, affinché egli resti per noi, come è stato nel passato, un grande maestro e, diciamo pure, il padre comune nella nostra civiltà cristiana.


2. Sant'Agostino fu e resto sempre il grande convertito. Grande per i mirabili effetti che la conversione opero nella sua vita, per l'atteggiamento costante di umile adesione a Dio, per la fiducia illimitata nella grazia divina. Il suo animo di convertito si esprimeva in quella celebre preghiera tante volte da lui ripetuta: "Da quod iubes et iube quod vis" ("Confessiones", X, 29,40).

La conversione, secondo il vescovo d'Ippona, raggiunge le profondità stesse del nostro essere. "Se l'uomo vuol essere qualcosa (ut homo sit aliquid) - scrive il nostro dottore - deve convertirsi a Colui dal quale è stato creato...

Così custodirà davvero la somiglianza e l'immagine secondo la quale è stato creato" ("Enarr. in Ps.", 7). Egli osserva poi che questo cammino di conversione, che importa l'azione di Dio nell'uomo e la permanenza costante dell'uomo in Dio, dev'essere senza soluzione di continuità. "Dobbiamo esser sempre fatti da lui, sempre perfezionati, aderire a lui e restare in quella conversione che a lui ci conduce... Infatti siamo sua creazione non solo in quanto uomini, ma anche in quanto uomini buoni". La necessità di questa conversione continua deriva non solo dalla nostra condizione di creature, ma anche dalla natura nella nostra perfezione qui in terra, che è sempre limitata e mutabile, mai piena. Per questo, guidato dalla fede e dall'esperienza, Agostino si oppone decisamente alla tesi pelagiana della perfezione assoluta, cui sostituisce quella della perfezione sempre perfettibile, sempre bisognosa di ripetere il "dimitte nobis debita nostra". Anzi scrive risolutamente che il modo perfetto di tendere alla perfezione consiste nel sapere di essere imperfetti. Quest'idea della conversione continua come ritorno dell'uomo in se stesso e a Dio, per cui noi siamo strappati dalla fugacità del tempo e dalla mutabilità incessante delle cose, per essere inseriti nella stabilità dell'essere ("ut et tu sis"), esclama energicamente il nostro dottore, "transcende tempus", costituisce il messaggio prezioso che Agostino, studioso del tempo quanto avido d'eternità, trasmette agli uomini di tutti i tempi, a noi in particolare e agli uomini del terzo millennio cristiano.


3. Consentitemi di raccogliere un altro frutto della conversione di Agostino: il suo servizio indefesso, umile e totale alla verità, che egli amo appassionatamente: la considero la luce della mente, il bene supremo dell'uomo, la fonte della libertà. Non c'è bisogno di citare molti testi agostiniani. Scrive: "La nostra mente, che è l'occhio dell'anima, se non viene irradiata dalla luce della verità e non viene mirabilmente rischiarata da Colui che illumina senza dover essere illuminato, non potrà pervenire né alla sapienza né alla giustizia".

Ora la sapienza non è che la verità "nella quale si percepisce e si possiede il sommo bene" ("De libero arbitrio", II, 9,26). Nella percezione e nel possesso di questa verità consiste la nostra libertà, poiché "l'uomo non può godere di nessuna cosa con libertà se non ne gode con sicurezza...". Il regno di Dio è quello, per definizione, nel quale trionfa la verità: "in quo victoria veritas" o, per usare un'altra celebre espressione agostiniana: "di cui regina è la verità, legge la carità, misura l'eternità" ("Ep. 138", 3,17). Ma in Agostino l'amore diventa servizio, che implica un'indagine continua, una scrutazione profonda, una contemplazione assidua. Dalla conversione in poi non attese che a questo: approfondire, diffondere, difendere la verità. Chi volesse, potrebbe dividere le sue innumerevoli opere in tre gruppi secondo che domini in esse l'uno o l'altro di questi intenti. Molte infatti sono destinate a rispondere ai quesiti che la sua alta mente si poneva o gli venivano proposti da altri, e quindi destinate ad approfondire la verità. Tra queste deve ricordarsi in primo luogo la grande opera su "La Trinità", profonda per la speculazione filosofica, teologica e mistica. Altre sono destinate a comunicare la verità ai fedeli o ai catecumeni, come i discorsi, che sono moltissimi. Infine vi sono le molte opere polemiche che Agostino scrisse per smascherare gli errori serpeggianti tra i fedeli e per riaffermare la verità cattolica. Egli fu un polemista forte, indefesso, abilissimo, ma nel cuore porto sempre l'amore, un grande amore per gli erranti. "Non vincit - diceva - nisi veritas". Non dunque l'uomo su l'uomo, ma la verità sull'errore; aggiungeva pero subito: "victoria veritatis est caritas" ("Serm. 358", 11). Dei donatisti, che gli furono avversari feroci fino a tendergli insidie per ucciderlo, diceva ai fedeli cattolici: "Diligamus illos et nolentes". perciò egli voleva che per le questioni riguardanti la fede si restasse uniti nella Chiesa e in essa si discutesse pure sulle verità non ancora manifeste; si discutesse senza fumo d'orgoglio, senza testardaggine d'arroganza, senza spirito di contraddizione o d'invidia, ma - continua - "cum sancta humilitate, cum pace catholica, cum caritate christiana" ("De bapt.", 2, 3,4).


4. In questa linea di umile e coraggioso servizio alla verità, il vescovo d'Ippona servi l'uomo, servi la sua sublime grandezza, la sua natura autentica, i suoi destini eterni. Egli si trovo a vivere in un tempo nel quale il concetto dell'uomo veniva gravemente deformato da molti pensatori, compresi quei neoplatonici che rappresentavano la filosofia dominante del tempo. Da alcuni di costoro, penso ai manichei, Agostino si era lasciato influenzare. Liberatosene modello il concetto dell'uomo che sta alla base della nuova cultura, quella cristiana, che egli contribui in modo impareggiabile a illustrare e perfezionare. Dell'uomo difese la sostanziale bontà contro i manichei; l'unità profonda tra l'anima e il corpo, contro i platonici; l'interiorità come suo punto focale, poiché nell'intimo dell'uomo dimora la verità e si accoglie impressa nella natura immortale dello spirito, l'immagine di Dio; l'originalità nei riguardi dell'universo materiale, nel quale nulla è più alto dell'uomo, nulla è più vicino a Dio; la libertà, che lo rende degno di merito e di demerito; la beatitudine che non può essere vera se non è eterna; il bisogno costituzionale di giungere a Dio che solo costituisce il nostro riposo. Ma pur intento a scrutare la grandezza dell'uomo, Agostino non ne dimentico la condizione terrena, le miserie, i mali, specialmente la mortalità, la debolezza morale, la lotta tra la carne e lo spirito. A causa di questa condizione l'uomo diventa un grande problema, un problema inestricabile alla ragione, un enigma. Il vescovo d'Ippona lo studio a fondo e ne trovo la soluzione in un solo nome: Cristo. La conclusione della sua antropologia, così vasta e profonda, può essere la seguente: come non s'intende la natura dell'uomo senza il riferimento a Dio, che ne è la spiegazione, così non s'intende la sua condizione di fatto in questa terra senza il ricorso a Cristo, che ne è la liberazione e la salvezza.


5. Consentitemi un altro breve pensiero. Agostino ebbe profondo il senso della storia. Ne è monumento l'opera immortale della "Città di Dio". In questo capolavoro infatti la dottrina viene esposta nell'arco della storia che va dalla creazione fino ai suoi termini escatologici. La dottrina agostiniana, che s'incarna, per così dire, nel dinamismo storico dell'umanità in cammino verso la salvezza, è qui dominata da tre grandi idee: la Provvidenza, la giustizia, la pace. La Provvidenza guida la storia non solo degli individui, ma anche delle società e degli imperi; la giustizia, impressa come ideale da Dio nel cuore dell'uomo, deve stare a fondamento d'ogni regno umano - sono sue queste forti espressioni: "remota iustitia, quid sunt regna, nisi mala latrocinia?" ("De civitate Dei", 4,4) - e sta alla base di ogni vera legge - sono sue parimenti queste altre non meno forti parole: "mihi lex esse non videtur quae iusta non fuerit" ("De lib. arb." 1, 5,11) -. Con la giustizia sorge la pace: pace terrena che lo Stato deve promuovere e difendere, possibilmente, attraverso la pace, non attraverso la guerra: "pacem pace non bello"; e la pace celeste, che è propria della "Città di Dio" (19, 13); cioè "la concordissima e ordinatissima società di coloro che godono di Dio e l'un dell'altro in Dio".


6. Vorrei concludere ricordando le parole del mio venerato predecessore Paolo VI, che fu un grande ammiratore del vescovo d'Ippona: "Agostino, diceva, è un maestro impareggiabile di vita spirituale" (Udienza del 14 dicembre 1966). Aveva ragione.

In realtà egli fu anche un grande mistico e maestro di spiritualità. Per convincersene basta leggere alcune pagine delle "Confessioni", quelle soprattutto che parlano delle ascensioni spirituali e della contemplazione (VII, 17,23; IX, 10,23-25; X, 40,65). Egli fondo queste ascensioni sulla "delectatio veritatis", felice espressione che indica insieme le due grandi forze dello spirito: verità e amore; due forze che sono radicate profondamente nell'animo umano e che lo Spirito Santo suscita in noi diffondendo nei cuori l'amore (Rm 5,5). Di questo amore che lo Spirito Santo diffonde nei cuori Agostino mette in rilievo il dinamismo inesauribile, la radicalità intransigente, il disinteresse totale, l'ardore progressivo, il fondamento nell'umiltà, l'alimento nella grazia. Sull'azione dello Spirito Santo nella Chiesa mi sono intrattenuto a lungo nella mia recente enciclica "Dominum et Vivificantem". Seguire il Maestro ipponense nelle vie dello spirito giova a tutti. Lo raccomando in particolare alle Famiglie che a lui s'ispirano, cioè agli Agostiniani e alle Agostiniane, specialmente alle Comunità dedicate alla contemplazione: ne trarranno incalcolabili vantaggi per sé e per la Chiesa! Ecco alcuni pensieri raccolti dall'immenso panorama dell'insegnamento agostiniano: essi vogliono manifestare la mia stima per i vostri studi e confermarvi in essi, affinché il magistero agostiniano continui, anche per opera vostra, nel futuro, e in auspicio di ciò su tutti invoco la costante assistenza del Signore, mentre di cuore vi benedico.

Data: 1986-09-17 Mercoledi 17 Settembre 1986




Alla Comunità di Sant'Egidio - Castel Gandolfo (Roma)

Essere cristianamente solidali con i poveri



1. Devo dire che vi pensavo ancora con i criteri dell'anno 1979, quando siete venuti qui per la prima volta. Mi sembra che fosse una domenica delle vacanze del 1979 e si fece un incontro simile nel giardino. Quando verso le 6 si cominciavano a sentire le voci dei canti, ho pensato così: "Se alle 6 cominciano a cantare, verso le 8 non sapranno più farlo, saranno esausti". Invece la situazione è cambiata, quando sono entrato qui in questo cortile e ho visto voi seduti sul pavimento e tutte queste installazioni. Ho capito subito che non siamo più nel 1979. Si deve pensare la Comunità di Sant'Egidio con altri criteri. Ora abbiamo visto come sono andate avanti le cose in questi anni, dal 1979 al 1986.

Questo incontro ci voleva, perché il Papa sapesse come le cose della Comunità di Sant'Egidio si sono sviluppate. Ma in questo progresso rimane sempre lo stesso principio: l'opzione per i poveri vissuta, praticata con una tipicità romana, perché voi rappresentate questo nella Chiesa di Roma. Non siete i soli che operano tra i poveri; ma certamente siete fra coloro che lo fanno in modo molto chiaro, cosciente, consapevole. Questa opzione per i poveri è certamente fondamentale: è un'opzione evangelica. Si parla molto di questa opzione soprattutto in America Latina. Ma se ne parla certamente anche nella dimensione della Chiesa universale, come ha confermato l'ultimo Sinodo straordinario dei vescovi. Naturalmente non è una novità. Ma oggi questa opzione è detta e confermata in un nuovo contesto. L'opzione per i poveri è autentica quando è opzione del Vangelo, opzione di Cristo e per Cristo in favore dell'uomo, in qualsiasi secolo, in qualsiasi situazione, in qualsiasi paese, in qualsiasi epoca. Lo sappiamo bene. Allora, qui incontriamo ciò che costituisce la vera caratteristica della vostra Comunità di Sant'Egidio nella sua dimensione romana, così come io l'ho conosciuta dall'inizio, dai primi mesi del mio pontificato, dai primi incontri - nel 1979 - e poi dagli altri incontri negli anni seguenti, in diverse circostanze, in diverse parrocchie di Roma, e anche in diverse città. Ho cominciato a capire che voi, pur essendo una significativa parte della Comunità ecclesiale di Roma, ormai siete anche oltre i suoi confini diocesani. Oggi ho conosciuto questo: dove siete andati partendo da Roma, dove avete posto i vostri piedi, dove avete messo le vostre radici, dove la Comunità di Sant'Egidio ha altre Comunità sorelle, dove ci sono le altre Comunità di Sant'Egidio, c'è sempre una fisionomia romana. Questo è bello e mi tocca il cuore, come Vescovo di Roma, che deve sempre pensare, non solamente a Roma, ma a tutto il mondo. Di conseguenza, in questa prospettiva universale, che è quella del Vescovo di Roma, successore di Pietro, poiché voi siete già andati in Europa, abbastanza verso il Nord, naturalmente nel Mediterraneo, in Spagna. Ci sarebbe ancora bisogno di fare un salto e di entrare nei Paesi Scandinavi. Poi bisognerebbe andare verso l'Est. Avete fatto bene a intraprendere tutte quelle esperienze, che ho potuto ascoltare questa sera da alcuni di voi che vivono in Germania, in Spagna, in Belgio e in Olanda. E poi ho pensato a questo salto verso la Scandinavia! Speriamo! Pensare la Comunità di Sant'Egidio con un criterio da 1986 non è lo stesso che pensarla con il criterio del 1979. E' un altro criterio! Grazie a Dio che siete venuti e mi avete informato, trasformando questo criterio che, prima, avevo ormai in modo insufficiente. E' una cosa molto bella che siate andati in diversi Paesi del mondo, in Africa, e soprattutto in Medio Oriente, perché là c'è la chiamata - possiamo dire - delle sorgenti. Avete parlato di Abramo - lo avete anche cantato. Sappiamo bene che queste sorgenti sono molto antiche, quelle di Abramo e poi altre, soprattutto quella per noi fondamentale che è Cristo Gesù: la sua terra e la città, dove lui ha compiuto il suo sacrificio e ha fondato la nuova ed eterna alleanza. Allora questa possiamo dire è la patria di tutti noi, di tutti i cristiani, la prima patria: il cenacolo di Gerusalemme e poi questi Paesi, anche se non sono più cristiani. E' mio desiderio incontrare i nostri fratelli musulmani, che vivono in quelle terre del Medio Oriente e anche incontrare, come fate voi, i nostri fratelli cristiani. Quelle Comunità cristiane hanno bisogno di essere confermate, di essere visitate perché vivono in una profonda angoscia dappertutto, sia perché sono minoritarie, sia perché soffrono a causa di tragiche situazioni.

Quel che voi fate non è solamente seguire il Vaticano II nel senso della "Nostra Aetate", ma è seguire la vostra opzione per i poveri. Questi sono i poveri, i nostri poveri, i nostri fratelli poveri cristiani che ci aspettano.

Allora, avete ben indovinato l'indirizzo dei vostri viaggi. così vi ringrazio per la visita di questa sera a Castel Gandolfo, e per quanto mi avete raccontato. Vi ringrazio di questa vostra identità - Comunità di Sant'Egidio - nella sua opzione preferenziale per i poveri. Tramite questa Comunità di Sant'Egidio, la Chiesa di Roma vive la sua opzione per i poveri, sia nella sua dimensione locale, qui a Roma, che io conosco da vicino perché faccio incontri in tante parrocchie e in tanti quartieri, sia in quella universale, che è legata alla missione del Vescovo di Roma e alla sua Chiesa, che - in un certo senso - partecipa del ministero petrino. Ringrazio lo Spirito di Cristo che vi guida, che vi orienta, che mette nei vostri cuori l'amore. Questo amore è l'unica forza che deve vincere i mali del mondo, alla fine e definitivamente. Solo questo amore, che Cristo ci ha insegnato e soprattutto ci ha lasciato! Allora sono grato allo Spirito di Cristo che vi guida, io che sono il vostro Vescovo. Come vi ho detto all'inizio, vi pensavo con i criteri del 1979, che pure erano molto belli. Quelli del 1986 sono ancora maggiori e migliori, ma sempre nella stessa linea. Ripeto che ringrazio lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù che vi guida e vi mostra la strada. In questa strada voi incontrate gli altri, ma in pari modo e in pari misura incontrate anche voi stessi. Come ha detto il Vaticano II, l'uomo, essendo l'unica creatura che Dio ha voluto per se stesso - ed è la sua originalità - non può salvarsi, se non donandosi agli altri. Voi fate così. In questo modo cercate di realizzare la vocazione personale di ciascuno e di ciascuna di voi. così cercate di realizzare anche la vocazione comunitaria, perché la vostra vocazione personale si realizza nella Comunità e la Comunità si chiama Sant'Egidio. Infine, allora, voglio ringraziare sant'Egidio per aver voluto suscitare questa Comunità a Roma. Sant'Egidio lo ha fatto nel modo proprio di questa Comunità, ha scelto di essere cristianamente solidale coi poveri, aprendo la vostra vita dentro la Chiesa, dove la vostra Comunità cresce. Io ringrazio la Chiesa e ringrazio sant'Egidio per questa vostra Comunità e vi benedico di cuore.

Data: 1986-09-17 Mercoledi 17 Settembre 1986




A un gruppo internazionale - Castel Gandolfo (Roma)

Diplomatici al servizio del dialogo e della pace


Vostre eccellenze, signore e signori.


1. Sono molto lieto di avere l'opportunità di salutarvi in occasione del 14° incontro dei direttori delle Accademie diplomatiche e degli Istituti di relazioni internazionali, che quest'anno ha luogo a Roma su invito della Società Italiana per l'Organizzazione internazionale. Siete cordialmente benvenuti. Il crescente consenso da parte delle Accademie e degli Istituti di Diplomazia a questo impegno che inizio nel 1913 a Vienna e alla Scuola di Servizio con l'estero dell'università di Georgetown a Washington, testimonia l'utilità dei vostri incontri, nei quali scambiate informazioni e idee riguardanti i programmi d'insegnamento, i metodi per la formazione dei giovani diplomatici. Sono particolarmente felice che anche il presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica vi partecipi. Uno dei temi sui quali avete rivolto la vostra attenzione quest'anno è "Diplomazia e relazioni culturali". Questo tema è particolarmente in sintonia con lo scopo delle vostre assemblee che costituiscono esse stesse degli scambi culturali. Lo avete reso giustamente oggetto di riflessione dal momento che la Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961 indica tra le funzioni delle missioni diplomatiche quella di sviluppare le relazioni culturali tra gli stati accreditanti e quelli accreditati (Art. 3, e). L'argomento delle relazioni culturali è un tema al quale la Santa Sede è particolarmente interessata, data la sua universale responsabilità nella Chiesa Cattolica. "Vivendo in varie circostanze durante il corso del tempo, anche la Chiesa ha usato nella sua predicazione le scoperte delle differenti culture per diffondere e spiegare il messaggio di Cristo a tutte le nazioni; può entrare in comunione con varie mode culturali, per il proprio e per il loro arricchimento" (GS 58).

Questi sono i termini usati dal Concilio Vaticano II che nei suoi documenti sulla Chiesa del mondo moderno dedico un capitolo carico di suggerimenti e incentivi per "la promozione del progresso della cultura". Io stesso ho sentito il bisogno di istituire come un nuovo corpo della Curia Romana il Consiglio Pontificio per la cultura, che persegue lo scopo generale di favorire il dialogo tra la Chiesa e la cultura, anche attraverso la collaborazione con organizzazioni internazionali nei vari campi della cultura.


2. L'evoluzione della civiltà moderna; la velocità dei trasporti e dei nuovi mezzi di comunicazione hanno cambiato e stanno cambiando ulteriormente, con crescente rapidità, la struttura delle relazioni tra popoli differenti. L'informazione può attraversare le frontiere in pochi secondi e l'opinione pubblica in un Paese reagisce anche per un fatto accaduto in regimi estremamente distanti. Gli scambi e l'interdipendenza stanno aumentando. In tali relazioni strette e intense la consapevolezza dell'unità e del comune destino della razza umana diventa sempre più acuta, ma allo stesso tempo c'è una più chiara realizzazione dell'importanza di riconoscere e salvaguardare, insieme alla propria autonomia politica, l'identità culturale delle differenti nazioni.


3. In questo nuovo contesto uno vede chiaramente l'importanza di un ruolo specifico della diplomazia degli scambi culturali tra i diversi Paesi. Gli scambi culturali infatti aiutano la gente a condividere grandi esperienze e aspirazioni spirituali, per comprendere i valori che li animano, e per scoprire la loro comune umanità. Dove il dialogo tra cultura è insufficiente ha luogo la reciproca incomprensione; la differenza è portata ad essere un elemento di giudizio negativo; l'alienazione spirituale e talvolta le controversie che diventano conflitti, sono conseguenze dolorose. D'altro lato, dove il dialogo delle culture può svilupparsi liberamente ed è incoraggiato, i tesori propri di ogni cultura sono condivisi; c'è un aumento di rispetto per le qualità particolari, spesso piene di genio, di ogni popolo; si aprono nuovi orizzonti di conoscenza, come fresche opportunità per la collaborazione internazionale; si favorisce lo sviluppo di nuove forme di cultura: e ciò non solo per il beneficio di alcuni popoli privilegiati, ma per la società in generale. I diplomatici come uomini di cultura essi stessi, devono saper guardare con sensibile comprensione le realtà culturali della nazione nella quale sono mandati, un'attitudine capace di ammirazione ma anche mediata dal giudizio. Tale attitudine non sarà dimentica alla presenza di valori religiosi, o al ruolo particolare che la religione può avere nello sfondo culturale di un popolo. Per esempio, come può uno non notare il ruolo talvolta decisivo che la religione ha rappresentato nella formazione dell'unità di alcuni Paesi? O l'influenza di Chiese e movimenti religiosi sull'opinione pubblica nelle grandi cause per i diritti umani, lo sviluppo dei popoli e la pace? Sull'effetto che il dialogo ecumenico tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese o Comunioni cristiane può avere sullo scambio di idee e talvolta sulla stessa scena sociale e politica, sia in alcuni Paesi che sullo scenario internazionale? Ai diplomatici oggi è richiesto di lavorare, dove è necessario per aiutare a preparare la nazione nella quale sono ospiti per l'arrivo di figure e fattori culturali della propria nazione, e quando sorge l'opportunità, incoraggiare e facilitare tale presenza. Essi devono essere in grado di scoprire favorevoli possibilità per sviluppi positivi, e prendere ogni opportunità che loro si presenta per dare a queste relazioni una struttura istituzionale attraverso accordi formali per la cooperazione culturale; spesso si sentiranno chiamati a dare una discreta assistenza diplomatica, o semplicemente a prestare la propria presenza, per assicurare il successo a degli incontri o iniziative culturali.

Questi sono compiti nuovi e provocatori, e molte ambasciate hanno uno speciale addetto culturale che assiste l'ambasciatore in questo campo specifico.

Il ruolo esige la possibilità di facili contatti con gli ambienti della nazione ospite, inoltre presuppone una conoscenza, vivace sensibilità ed entusiasmo per i valori umani e le loro espressioni culturali da parte del diplomatico e al tempo stesso il possesso di specifici metodi di operazione. Ai responsabili della formazione dei futuri diplomatici, il valore del vostro contributo in questo particolare campo della loro futura attività non può essere sopravvalutato. Con la formazione culturale che date, non fornite solo una tecnica professionale ma date loro un prezioso patrimonio di umanità, valido per la loro vita personale, che richiede periodi di richiesta di servizio in difficili aree geografiche o situazioni di stress psicologico. Da parte mia desidero assicurarvi che guardo con grande rispetto e ammirazione il vostro compito e soprattutto la vostra missione varia e provocatoria di istruttori di diplomazia e quali responsabili della formazione dei popoli al dialogo e alla pace. Sulle vostre attività, sulle vostre persone e sui vostri cari invoco di cuore le benedizioni di Dio.

Data: 1986-09-18 Giovedi 18 Settembre 1986





GPII 1986 Insegnamenti - Udienza generale - Città del Vaticano (Roma)