GPII 1990 Insegnamenti - Alla Messa per i due predecessori - Città del Vaticano (Roma)


1. Ci riunisce, attorno all'altare del Signore, l'annuale ricordo della pia morte dei miei venerati predecessori, i Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo I.

La testimonianza della loro vita e l'eco del loro fecondo servizio alla Chiesa non si sono spenti nella memoria di tutti noi. In particolare, vorrei sottolineare, in questa circostanza, il loro costante impegno per la pace. Della pace sono stati entrambi maestri e testimoni; della pace sono stati anche, con ogni mezzo, intrepidi difensori e attivi costruttori.

"La nostra vocazione - disse Paolo VI nel corso della sua visita alla Sede dell'ONU (1965) - è di far fraternizzare non già alcuni popoli, ma tutti i popoli"). E nell'enciclica "Populorum Progressio" (PP 84), rivolgendosi ai responsabili delle Nazioni, così si espresse: "Su voi incombe l'obbligo di mobilitare le vostre comunità ai fini di una solidarietà mondiale più efficace".

In tale prospettiva, con paterna trepidazione auspicava che il pericoloso fronteggiarsi delle forze fosse sostituito da una "collaborazione amichevole, pacifica e disinteressata per uno sviluppo solidale dell'umanità".


2. Con non minore chiarezza Giovanni Paolo I, all'inizio del suo breve pontificato, manifesto il fermo proposito di promuovere la pace e in tal senso sono ben scolpite nella nostra mente le parole del primo radiomessaggio al mondo cattolico: "Vogliamo favorire - egli affermo - tutte le iniziative lodevoli e buone che possano tutelare e incrementare la pace nel mondo turbato: chiamando alla collaborazione tutti i buoni, i giusti, gli onesti, i retti di cuore, per far argine, all'interno delle Nazioni alla violenza cieca... e, nella vita internazionale, per portare gli uomini alla mutua comprensione".


3. L'eredità spirituale di entrambi, le loro esortazioni accorate sono particolarmente attuali in questo momento in cui sembra incombere sull'umanità il rischio di una guerra e dilaga la violenza omicida. Ne siamo tutti profondamente consapevoli. E' in gioco la pacifica convivenza degli uomini; è in gioco il nostro stesso futuro.

Mentre proseguiamo nella celebrazione eucaristica dedicata al ricordo dei due grandi Pontefici, invocando per loro da Dio il premio eterno, vogliamo anche implorare per il mondo il dono della vera pace, confidando per questo anche nella loro preghiera presso il Signore, principe della pace.

Data: 1990-09-28

Venerdi 28 Settembre 1990

Al Consiglio per la Catechesi - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: La catechesi deve farsi linguaggio di carità e solidarietà

Signor cardinale, venerati fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, cari membri del Consiglio Internazionale per la catechesi!


1. Mi è grato esprimere un cordiale saluto a tutti voi: ai membri del Consiglio Internazionale per la catechesi (COINCAT) e ai superiori e officiali della Congregazione per il clero. Ringrazio in particolare il card. Antonio Innocenti per le parole ora pronunciate.


2. L'argomento, che avete cercato di approfondire in questa vostra Sessione plenaria, è quanto mai vitale: "Catechesi per vivere in un mondo pluralista e secolarizzato".

Molto opportunamente voi vi preoccupate di conoscere la società nella quale viviamo, per trovare il linguaggio più adatto a trasmettere il perenne messaggio evangelico. Da ciò, infatti, dipendono, almeno in parte, il suo accoglimento e la sua efficacia. Tra le difficoltà che oggi incontra la catechesi, voi avete sottolineato il secolarismo e il pluralismo esasperato, caratteri tipici della cultura contemporanea.

A causa, infatti, di una diffusa secolarizzazione, i cristiani possono giungere alla perdita della loro stessa identità, mentre il fenomeno del pluralismo, se non è ben compreso, attenta all'unità e all'integrità della fede e può infrangere la comunione all'interno della Chiesa.

D'altra parte, entrambi i fenomeni - secolarità e pluralismo - portano in sé un potenziale di crescita e di maturazione della fede, se spingono a meglio riflettere sul fondamentale rapporto di Dio con il mondo. Ciò avviene quando la visione religiosa della vita si accompagna a una sana secolarità, quando la relazione tra pluralità di esperienze e adesione leale e incondizionata a Cristo viene sigillata con l'appartenenza amorosa, fedele e attiva, alla sua unica Chiesa.


3. Grazie, cari fratelli, per il prezioso contributo che, attraverso il Consiglio Internazionale per la catechesi, voi offrite alla formazione dei catechisti e degli operatori pastorali, con particolare attenzione alle nuove generazioni. E permettetemi ora di sottoporre alla vostra attenzione, sia pur brevemente, alcune considerazioni: 1) La verità della fede proposta dalla Chiesa e significata dalla seminagione evangelica deve tener conto dei diversi terreni: deve badare, cioè, alle domande e alle esigenze del mondo, non mediante una meccanica sovrapposizione del messaggio religioso, ma educando gli animi e stimolando l'apertura al mistero divino.

2) A evitare pero attese illusorie e per non cedere a ingannevoli compromessi, il catechista, l'operatore pastorale e il missionario devono ripetere schiettamente con san Paolo: "Animati dallo stesso spirito di fede di cui sta scritto: ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo" (2Co 4,13). Devono essere cioè pienamente consapevoli che annunciano la Parola, perché credono di aver qualcosa di vero e di valido da comunicare e cercano di trasmetterla in termini convincenti, mossi da uno spirito di rispetto e di amore evangelico, anche se l'altro non sembra ascoltare o resta indifferente. La stessa proposta di fede porta in sé la capacità di stimolare domande e di richiamare l'interiore attenzione degli interlocutori.

3) Inoltre, il mondo pluralista e secolarizzato, stanco di molte parole e più sensibile alla testimonianza personale, sembra essere particolarmente attento al linguaggio della carità, dell'accoglienza e della solidarietà, soprattutto verso i poveri e le categorie sociali più emarginate. La catechesi non può non tenerne conto. La catechesi non può ignorare che attraverso il servizio ai poveri e l'attenzione a ogni forma di emarginazione si annuncia concretamente l'amore di Dio e si introducono i credenti nel cuore stesso del messaggio evangelico. Esso è infatti parola di misericordia e di rinnovamento per ogni essere umano, è fermento efficace di riconciliazione e di solidarietà per tutta l'umanità.


4. Fratelli carissimi, siate ripieni di fiducia nel vostro talora faticoso lavoro, poiché Iddio è sempre fedele alle sue promesse. Siate perseveranti nella preghiera; i vostri occhi guardino alla celeste Madre del Redentore; ella, "modello dei catechisti", vi protegga e vi aiuti nella delicata missione che vi è stata affidata.

Benedica il Signore largamente i risultati di questa vostra Assemblea plenaria e assista, in particolare, ognuno di voi e le comunità da cui ciascuno proviene.

Con questi sentimenti imparto a tutti la mia benedizione apostolica.

Data: 1990-09-28

Venerdi 28 Settembre 1990

Al IX Congresso tomistico - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: La dottrina filosofica, teologica, etica e politica di san Tommaso, eredità da riapprofondire nel contesto culturale di oggi

Signori cardinali, venerati fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, carissimi fratelli e sorelle.


1. Mentre vi saluto tutti cordialmente, con un particolare, grato pensiero al Signor card. Luigi Ciappi, che ha nobilmente interpretato i comuni sentimenti, desidero dirvi che sono lieto che il IX Congresso tomistico Internazionale promosso dalla Pontificia Accademia di san Tommaso, abbia assunto a tema generale dei suoi lavori la figura e il valore di san Tommaso come "Doctor Humanitatis", quale io stesso l'ho definito nel discorso a conclusione del precedente Congresso del 1980.

In realtà, san Tommaso merita questo titolo per più ragioni, che si possono cogliere nel programma ampio e articolato del Congresso e alle quali è stato dato rilievo nelle vostre relazioni e comunicazioni: esse sono, particolarmente, l'affermazione della dignità della natura umana, così netta nel Dottore Angelico; la sua concezione dell'avvenuto risanamento ed elevazione dell'uomo a un superiore livello di grandezza in forza dell'incarnazione del Verbo; l'esatta formulazione del carattere perfettivo della grazia, come principio-chiave della visione del mondo e dell'etica dei valori umani, così sviluppata nella "Summa"; l'importanza attribuita dall'Angelico alla ragione umana nella conoscenza della verità e nella trattazione delle questioni morali ed etico-sociali.


2. Queste sono le componenti più nobili della vera "humanitas", nel significato culturale e insieme spirituale della parola, ben al di sopra delle pur rispettabili "humanae litterae", che qualche cultore dell'Umanesimo postmedievale tento poi di contrapporre alle "litterae divinae".

Ma una tale contrapposizione non ha ragion d'essere, se fin dai tempi patristici, i dotti scrittori convertiti al cristianesimo avevano mostrato tutto il loro apprezzamento per le culture ellenica e latina, che avevano cercato di conciliare con i libri sacri nei loro studi, nella loro predicazione, nei loro commenti alla Bibbia.

San Tommaso, erede della tradizione dei Padri, era senza dubbio un "Doctor Divinitatis", come veniva chiamata la teologia, in quanto scienza di Dio o, secondo la denominazione tomasiana, "sacra dottrina". Ma, per la sua concezione dell'uomo e della natura umana come entità sostanziale di anima e corpo, per l'ampio spazio dato alle questioni "De homine" nella "Summa" e in altre opere, per l'approfondimento e la chiarificazione spesso decisiva di tali questioni, ben gli si può attribuire anche la qualifica di "Doctor Humanitatis", in stretto collegamento e con un'essenziale relazione alle fondamentali premesse e alla stessa struttura della "Scienza di Dio". Egli infatti inserisce la sua trattazione "De Homine" nel "De Deo Creatore", in quanto l'uomo è opera delle mani di Dio, porta in sé l'immagine di Dio e tende per natura a una sempre più piena somiglianza con Dio.

Secondo questa dimensione teologica e teocentrica dell'antropologia, san Tommaso inquadra nella II parte della "Summa" anche tutta l'etica e la teologia morale, in quanto considerazione e regolazione del "motus rationalis creaturae in Deum" a livello di azione libera e di scelta consapevole. Di qui il carattere sapienziale sia della sua metafisica e della sua teologia, che della sua etica come scienza direttiva degli atti umani in ordine alle "ragioni eterne".

E' il carattere che manca all'etica secolarizzata, legata com'essa è a principi filosofici volutamente areligiosi o irreligiosi, nel quadro di una concezione della vita, del dovere e dello stesso destino dell'uomo, che oggi si suol dire laica. Qualifica, questa, di significato quanto meno ambiguo, che è alla radice di tanti malintesi ed equivoci sui rapporti tra la religione, da una parte, e il pensiero, l'etica, le moderne scienze dell'uomo e del mondo, dall'altra. Una simile concezione pecca già a livello del concetto di natura, giacché questa, di per sé, in quanto creata da Dio, tende al suo Principio. Proprio su questo punto cruciale - che a livello cristiano si traduce nel rapporto tra ragione e fede - ha gettato e può ancora gettare una luce decisiva l'antropologia tomasiana.


3. E' noto che san Tommaso sottolinea il valore soprannaturale della fede: essa trascende l'intelligenza naturale come "lume infuso da Dio" per la conoscenza di verità, che oltrepassano le possibilità e le esigenze della pura ragione. E tuttavia non si tratta di un atto irrazionale, ma di una sintesi vitale, nella quale il fattore principale è senza dubbio quello divino, che muove la volontà ad aderire alla verità rivelata da Dio, sovrano dell'intelligenza, assolutamente infallibile e santo.

Ma l'atto di fede include anche una sua ragionevolezza, sia per il riferimento del credente all'evidenza storica del fatto rivelativo, sia per la giusta valutazione del presupposto metafisico e teologico che Dio né s'inganna, né può ingannare gli uomini. La fede comporta, altresi, una propria razionalità o intellettualità, in quanto è atto dell'intelligenza umana ed è, a suo modo, un esercizio di pensiero, sia nella ricerca che nell'assenso.

L'atto di fede nasce così dalla libera elezione dell'uomo ragionevole e consapevole come un rationabile obsequium (Rm 12,1), che si fonda su di un motivo di massimo rigore persuasivo, cioè l'autorità stessa di Dio come Verità, Bene, Santità, coincidente col suo Essere sussistente. L'ultima ragione della fede, che fonda tutta l'antropologia e l'etica cristiana, è la "summa et prima Veritas", Dio come infinito Essere, del quale la Verità non è che l'altro nome. perciò la ragione umana non si annulla né si avvilisce con l'atto di fede, ma attua la sua suprema grandezza intellettuale nell'umiltà con cui riconosce e accetta l'infinita grandezza di Dio.


4. Se oggi esiste - come esiste - una crisi dell'etica, ciò dipende dall'indebolimento del senso della verità nelle intelligenze e nelle coscienze, che hanno perduto il riferimento alla fondazione ultima della verità stessa. E' vano tentare di mascherare la realtà o cercare scappatoie da questo nodo centrale della crisi: senza Dio non c'è fondamento per il creato, senza la Verità prima si oscura la ragione ultima delle verità umane e quindi si compromette la validità della cultura, che, pur ricca di acquisizioni filosofiche, scientifiche, letterarie, ecc., non rispecchia, non aiuta, non appaga tutto l'uomo. Dal momento poi che, storicamente, il riferimento alla Verità prima si attua nella fede con cui si accoglie la rivelazione divina, il rifiuto di quest'ultima espone l'uomo a pericolosi abbagli ed errori sull'esistenza stessa di Dio, alla quale la ragione naturale può di per se stessa giungere.

Nella condizione presente dell'umanità, che porta in sé le conseguenze del peccato originale, sia nell'ordine conoscitivo sia in quello pratico la grazia è di fatto necessaria, per raggiungere pienamente, da una parte, ciò che di Dio la ragione può attingere e per adeguare coerentemente, dall'altra, la propria condotta ai dettami della legge naturale (cfr. DS 3004-3005). La conseguenza di ciò è che i vari aspetti della vita umana trovano il più solido fondamento e la più sicura garanzia di autenticità nell'ordine soprannaturale: in particolare l'amore e l'amicizia, la socialità e la solidarietà, il diritto e l'ordinamento giuridico-politico, e in cima a tutto la libertà che non è reale in nessun campo, se non si fonda sulla verità.


5. E' dunque da auspicare e da favorire in tutti i modi lo studio costante e approfondito della dottrina filosofica, teologica, etica e politica che san Tommaso ha lasciato in eredità alle scuole cattoliche e che la Chiesa non ha esitato a far propria, specialmente per ciò che riguarda la natura, la capacità, la perfettibilità, la vocazione, la responsabilità dell'uomo nella sfera sia personale che sociale, come si rileva anche dalle direttive del Concilio Vaticano II (cfr. OT 16; GE 9 e note).

Il fatto che nei testi conciliari e postconciliari non si sia insistito sull'aspetto vincolante delle disposizioni circa la sequela di san Tommaso come "guida degli studi" - come ebbe a chiamarlo Pio XI nell'enciclica "Studiorum Ducem" - è stato da non pochi interpretato come facoltà di disertare la cattedra dell'antico Maestro per aprirsi ai criteri del relativismo e del soggettivismo nei vari campi della "dottrina sacra". Senza dubbio il Concilio volle incoraggiare lo sviluppo degli studi teologici e riconoscere ai loro cultori un legittimo pluralismo e una sana libertà di ricerca, ma a condizione di mantenersi fedeli alla verità rivelata, contenuta nella Sacra Scrittura, trasmessa nella tradizione cristiana, interpretata autorevolmente dal magistero della Chiesa e teologicamente approfondita dai padri e dai dottori, soprattutto da san Tommaso.

Quanto alla sua funzione di guida negli studi, la Chiesa, nel ribadirla, ha preferito far leva, più che su direttive di indole giuridica, sulla maturità e saggezza di coloro che intendono accostarsi alla parola di Dio con sincero desiderio di scoprire e conoscere sempre più a fondo il suo contenuto, comunicarlo agli altri, specialmente ai giovani affidati al loro insegnamento.


6. A questo proposito, è bene ricordare un aspetto del metodo e del comportamento di san Tommaso, messo in risalto dal mio predecessore Benedetto XIV, quando, nella costituzione apostolica "Sollicita ac Provida" del 10 luglio 1753, scriveva che "il Principe Angelico delle Scuole... ha necessariamente urtato le opinioni dei filosofi e dei teologi, che egli era spinto a confutare in nome della verità, ma ciò che completa mirabilmente i meriti di un si grande dottore è che non lo si è mai visto disprezzare, ferire o umiliare alcun avversario, ma al contrario li ha trattati tutti con molta bontà e rispetto. In effetti, se le loro parole contenevano qualcosa di duro, di ambiguo, di oscuro, egli l'addolciva e spiegava con una interpretazione indulgente e benevola. Che se la causa della religione e della fede gli imponeva di respingere le loro idee, egli lo faceva con una tale modestia che lo rendeva non meno degno di elogio nel separarsi da essi che nell'affermare la verità cattolica. Coloro che si gloriano di ricorrere a un maestro così eminente - e noi ci rallegriamo che siano molto numerosi, a causa del nostro interesse e della nostra particolarissima venerazione per lui - si propongano come modello la moderazione di espressione di un tale dottore e il suo modo caritatevole di comportarsi nelle discussioni con gli avversari. Quanto a coloro che non appartengono alla sua scuola, si sforzino di conformarsi anch'essi a questo metodo..." (Benedetto XIV, "Sollicita ac Provida", 24).


7. Faccio mie quelle sagge raccomandazioni di Papa Benedetto XIV e le estendo a tutta l'ampia area, che si direbbe planetaria, delle relazioni con le culture e le religioni stesse, nell'impegno - oggi quanto mai urgente - dell'evangelizzazione del mondo. Certamente essa deve effettuarsi secondo il mandato dello stesso Gesù Cristo. Il Concilio dapprima e poi il mio predecessore Paolo VI, nell'esortazione apostolica "Evangelii Nuntiandi", hanno spiegato in quale rapporto con le culture si colloca la predicazione del Vangelo, e io stesso, fin dalla mia prima enciclica "Redemptor Hominis", ho insistito sulla necessità della penetrazione nell'ambito delle culture e, si può dire, nell'anima stessa dei popoli. Nasce così il problema di quella che si suol chiamare l'"inculturazione" della missione evangelizzatrice, problema del quale, senza dubbio, si sperimenta ogni giorno la complessità e la difficoltà, ma anche l'ineludibile urgenza.

Esso può ricevere luce proprio dal metodo tomista, per l'approccio alle filosofie e alle culture, per la cernita e l'assimilazione dei loro valori, e l'adattamento della catechesi e predicazione cristiana alle loro caratteristiche, ai loro ritmi, ai loro modi storici di accostarsi alla realtà, cercandone le cause profonde, le ragioni supreme.


8. San Tommaso non poteva certo prevedere un mondo culturale e religioso così vasto, complesso e articolato quale noi oggi conosciamo, né quindi poteva dettare soluzioni concrete all'immane congerie di problemi specifici, che noi oggi dobbiamo affrontare. Ma poiché la sua massima cura fu quella di collocarsi e mantenersi dalla parte della verità universale, oggettiva e trascendente, di servirla disinteressatamente, di cercarla dovunque se ne trovasse anche solo un riflesso, convinto com'era che, "omne verum a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est", ha tracciato un metodo di lavoro missionario che oggi è sostanzialmente valido anche sul piano dei rapporti ecumenici e interreligiosi, oltre che nel confronto con tutte le culture antiche e nuove.

Il riferimento così esplicito e pertinente, che il Dottore Angelico fa allo Spirito Santo anche su questo tema ecclesiologico e missionario, è di grande attualità. Più volte l'ho voluto richiamare in vari miei documenti. Sono convinto che la Chiesa, animata dallo Spirito Santo, è in cammino verso una fase nuova e più ricca di rapporti con tutti i gruppi umani, a tutti i livelli, e specialmente a quelli spirituali e religiosi, in questo scenario di un'età che Paolo VI diceva "tremenda e meravigliosa".

E' un fatto, comunque, che essa, consapevole delle possibilità e dei rischi che un simile cammino comporta, continua a raccomandare ai suoi figli con materna insistenza quell'umile e grande "guida degli studi" che è stato nei secoli san Tommaso d'Aquino.

A tutti la mia affettuosa benedizione.

Data: 1990-09-29

Sabato 29 Settembre 1990

A vescovi brasiliani della regione "Nord-Est 3" in visita "ad limina" - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Le comunità ecclesiali di base diventano motivo di speranza quando vivono veramente in unione con la Chiesa universale

Cari fratelli dell'Episcopato,


1. Siate i benvenuti in questo incontro fraterno, per me motivo di gioia. Nel ricevere voi, Vescovi della Chiesa delle province ecclesiastiche degli Stati di Sergipe e Bahia, che compongono il Regionale Nordeste 3 della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile, nella vostra visita "ad limina", rendo grazie a Dio nostro Padre e fonte di ogni consolazione (cfr. 2Co 1,3) per l'occasione che mi offre di potermi esprimere da questa Sede di Pietro. E' un momento di vicinanza e comunione che ci unisce nella fede e nella carità come Pastori di un'unica Chiesa, santa, cattolica e apostolica.

Nel salutarvi, il mio pensiero si rivolge con affetto alle Diocesi che voi rappresentate, mentre allo stesso tempo saluto i vostri sacerdoti, ie religiose e i religiosi e tutti i fedeli.


2. Durante i colloqui personali, ho potuto constatare non solo la disponibilità che vi anima, ma anche la vitalità spirituale che le vostre Chiese mantengono con la Cattedra di San Pietro. E' appunto all'interno del quadro dell'unità ecclesiale e della corrispondente comunione del popolo fedele con i suoi Pastori, desidero esprimere alcune considerazioni che servano anche da incentivo e luce per tutte le altre Chiese del nostro amato Brasile.

E' necessario in concreto vedere in questa prospettiva, come la Chiesa, intimamente unita nel mistero di Cristo per il compimento della Redenzione, unisca a sua volta, in certo modo, ad ogni uomo (cfr. GS 22); questo significa che, come dicevo nella Enciclica Redemptor Hominis, "la Chiesa non ha altra vita di quella che le dona il suo Sposo e Signore. Difatti, proprio perché Cristo nel mistero della sua redenzione si è unito ad essa, la Chiesa deve essere saldamente unita con ciascun uomo" (n. 18). Questo insegnamento dalle profonde radici evangeliche ricorda a tutti la allegoria della vite: "lo sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me ed io in lui, dà molto frutto, perché senza di me non potete far nulla" (Jn 15,5).

E' per questo che la dottrina paolina sull'unità suona come una esortazione piena di affetto, ma, nello stesso tempo, di stimolo per rafforzare lo spirito insegnato da Cristo: "Vi esorto a conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito... un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che e al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti" (cfr. Ep 4,5-6). La continuità dei valori della fede, cristallizzata nel Magistero ecclesiastico ci porta, sempre più a capire che l'unione con Cristo è un'unione con la Chiesa.


3. Sulle basi di questa premessa, si comprende allora che il Concilio Vaticano Secondo presenti la Chiesa come popolo messianico, cioè la comunità dei battezzati che ha ricevuto la missione di portare a compimento la pienezza del Regno di Dio.

Per compiere la sua missione salvifica, la Chiesa è stata gerarchicamente costituita con una divisione di funzioni tra i suoi componenti sotto la guida dei suoi Pastori. Questa realtà è chiamata a realizzarsi nello spazio e nel tempo sotto l'impulso dello Spirito Santo e mediante l'azione apostolica di tutti i suoi membri secondo le loro vocazioni e capacità. Cristo si serve di ciò per ampliare il suo Regno e invia il Popolo di Dio in tutto il mondo come sale e luce della terra.

La Chiesa diventa così Popolo sacerdotale (cfr. LG 10 AA 2). La condizione sacerdotale dei suoi membri deriva dalla configurazione ontologica con il sacerdozio che ha la sua origine nel Battesimo. Il sacerdozio reale è la base comune che abilita tutti i fedeli a portare a termine la missione unica della Chiesa, e che permette loro di parlare di un'unica responsabilità di tutti nel conseguimento del medesimo compito.

Sulla base del sacerdozio comune si stabilisce il principio della uguaglianza, invitando tutti i fedeli a cercare di realizzare il fine della Chiesa, ma esiste allo stesso tempo un principio di varietà che consente ad ogni battezzato forme specificamente diverse per portarlo a termine.

Così accade che per il sacramento dell'Ordine i battezzati che conseguono il sacerdozio ministeriale, assumono specificamente la missione ufficiale di santificare e governare il popolo agendo nella persona dello stesso Cristo, Capo e unico mediatore della grazia (cfr. PO 2).

Da parte sua il popolo fedele, nella sua qualità di christifideles - senza una particolare connotazione ministeriale - partecipa al sacerdozio di Cristo con la libertà propria dei figli di Dio unendosi ai Pastori nell'edificazione dell'unico Corpo di Cristo.

Esiste così una cooperazione organica tra gerarchia e popolo fedele.

Evidentemente questa cooperazione non consiste nel fatto che il laico prenda il posto del sacerdote per effettuare funzioni clericali, né che il sacerdote prenda il posto del laico per adempiere a funzioni laiche; essa esige invece che l'uno e l'altro collaborino tra loro per realizzare la funzione universale della Chiesa.

Si noti pero, che in questi termini, tale "cooperazione" non presuppone alcuna funzione di supplenza: ogni fedele realizza la missione che specificatamente gli compete: ogni cristiano, aiutato dalla fede e mosso dalla carità, cercherà personalmente (attraverso le strutture proprie dell'ordine temporale) di agire con giustizia, che per lui diventerà spesso un grave dovere morale. E' ben vero che nella struttura di una comunità ecclesiale esistono compiti di carattere suppletivo previsti dal Magistero ecclesiastico (cfr. LG 35), ma con questo essi non stanno adempiendo in modo sussidiano a una funzione gerarchica ma solamente esercitando il loro sacerdozio reale, che li rende corresponsabili nei compiti propri del sacerdozio ministeriale; si pensi, per esempio, alla gestione ed alla consulenza, attraverso canali istituzionalizzati, quali i Consigli Pastorali (cfr. CIC 512 CIC 536); o di Problemi Economici (cfr. CIC 537), per un più agile ed efficace svolgimento della vita parrocchiale. Questi principi trasmessi da tutta la tradizione ecclesiale ed espressi solamente nella dottrina del Concilio Vaticano Secondo, costituiscono la struttura fondamentale della convivenza del gregge di Gesù, e sono il segno della comunione nell'unico Corpo di Cristo che vive nella sua Chiesa come Sacerdote, Profeta e Re.

Ritengo opportuno, in questo contesto, ricordare le parole del mio Predecessore, Papa Paolo VI, di venerata memoria, che parlando degli innegabili valori che si scoprono nelle Comunità Ecclesiali di Base disse: "Esse nascono dal bisogno di vivere ancora più intensamente la vita della chiesa (...) e dalla ricerca di una dimensione più umana, che comunità ecclesiali più vaste possono difficilmente offrire" (EN 58). Per esempio si può parlare del valido aiuto che offrono nella celebrazione della Parola di Dio, nell'approfondimento della fede, nella preparazione ai sacramenti, nel vivere la carità fraterna. Pero le buone intenzioni non porteranno al fine desiderato, se non saranno osservati i principi costitutivi della comunione ecclesiale di cui abbiamo parlato all'inizio. Paolo VI metteva in rilievo anche il fatto che qualche Comunità si costituisce "in uno spirito di critica acerba nei confronti della Chiesa, che essi stigmatizzano volentieri come "istituzionale"" e "contestavano radicalmente questa Chiesa" (cfr. lbidem), presentandosi in maniera esclusiva come un nuovo modo di essere Chiesa.

Solamente vivendo un autentico amore per la Chiesa, popolo messianico costituito Corpo Mistico di Cristo Redentore, eviteremo di chiuderci in un falso orizzontalismo che porta la comunità a perdere di vista la propria dimensione soprannaturale.


4. Come realizzare questo amore per la Chiesa, come vivere questa ecclesialità? "La ecclesialità - dicevo nel luglio 1980, parlando ai Capi delle Comunità di Base, nel corso del mio viaggio in Brasile - si concretizza in un sincero e leale vincolo della comunità con i legittimi Pastori, ed in una fedele adesione agli obbiettivi della Chiesa, in una totale apertura alle altre comunità ed alla grande comunità della Chiesa Universale..." (Manaus, 10 luglio 1980).

E come giungere a queste mete? La risposta, già ben conosciuta, sta nell'adesione incondizionata alla Parola di Dio, nella celebrazione frequente della Eucaristia, nel costante ricorso al Sacramento della Penitenza e nella comunione, affettiva ed effettiva con i Pastori della Chiesa, in comunione con la Sede di Pietro.

In altre parole, le Comunità Ecclesiali di Base, in un intenso e ardente impegno apostolico saranno motivo di grande speranza - come molte già ora lo sono! - per la Chiesa, nella misura in cui vivranno veramente in unione con la Chiesa locale e la Chiesa Universale. Questa unione si concretizza anche nel rispetto per le direttive emanate dai Pastori, nell'osservanza fedele delle norme liturgiche, che non sono limitazioni alla spontaneità, ma espressioni della comunione ecclesiale. Ancor più, le Comunità "saranno fedeli alla loro missione nella misura in cui si preoccuperanno di educare i loro membri all'integrità della fede cristiana, mediante l'ascolto della Parola di Dio, la fedeltà all'insegnamento del Magistero, all'ordine gerarchico della Chiesa ed alla vita sacramentale" (Congr.

per la Dottrina della Fede, Istruzione "Libertatis Conscientia" 22-3-1986, n. 69).

La Chiesa non ignora gli inquietanti problemi che affliggono la società contemporanea, sottoposta a innumerevoli pressioni di carattere sociale, economico e politico. Ma la sua missione continuerà sempre come l'opera di Gesù Cristo: condurre gli uomini al loro destino soprannaturale ed eterno. La giusta e dovuta preoccupazione della Chiesa per i problemi sociali deriva dalla missione spirituale e si mantiene nei limiti di tale missione.


5. Nel concludere queste riflessioni, invoco Dio Onnipotente affinché mandi lo Spirito Santo consolatore e illumini le nostre menti ed i nostri cuori, perché tutti, fedeli e Pastori, continuino il cammino in vista della edificazione del Regno di Dio, Regno di verità, di santità, di giustizia, di pace e di fraternità.

Eleviamo anche, Fratelli carissimi, le nostre preghiere al Cuore Immacolato di Maria Vergine, perché interceda per tutti i membri delle vostre comunità, ansiose di trovare il sostegno sempre sollecito dei loro Pastori, e invochiamola per tutti i più bisognosi: per quelli che soffrono ogni tipo di dolore fisico o morale; per i giovani e gli anziani; per i sacerdoti, vostri fedeli collaboratori, ed anche per tutte le religiose e i religiosi che contribuiscono efficacemente, con la consacrazione delle loro vite, all'edificazione morale e spirituale del vostro popolo.

Per tutti invoco l'Altissimo affinché si degni di inviare abbondantissime grazie di incoraggiamento e di conforto, e quale segno di stima paterna, imparto la mia più estesa Benedizione Apostolica.

(Traduzione dallo spagnolo)

Data: 1990-09-29

Sabato 29 Settembre 1990


GPII 1990 Insegnamenti - Alla Messa per i due predecessori - Città del Vaticano (Roma)