GPII 1993 Insegnamenti - Ai partecipanti al Simposio di Diritto Canonico - Città del Vaticano (Roma)


1. Sono lieto di accogliervi in speciale Udienza a coronamento del Simposio Internazionale, col quale s'è voluto opportunamente celebrare il decimo anniversario della promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico. Saluto ciascuno di voi con viva cordialità e ringrazio Mons. Vincenzo Fagiolo per i pensieri ed i sentimenti manifestati a nome di tutti. Desidero esprimere cordiale apprezzamento ad organizzatori e relatori del Simposio per l'apporto che con questa iniziativa essi arrecano alla riflessione sull'incidenza che il Codice di Diritto Canonico sviluppa nella vita e nella missione della Chiesa.


2. In questa luce, è doveroso innanzitutto ricordare quanti hanno impegnato le loro energie per promuovere il rinnovamento della legislazione canonica, accogliendo le istanze, le indicazioni e le sollecitazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II. Primo fra tutti, il Sommo Pontefice Giovanni XXIII di venerata memoria, che nel medesimo giorno 25 gennaio 1959, in cui annunciava il Concilio Ecumenico rese altresi noto l'intento di riformare l'allora vigente corpus delle leggi canoniche, che era stato promulgato nella solennità di Pentecoste dell'anno 1917; ed in seguito, il 29 marzo 1963, istitui la Commissione per la revisione del Codex Iuris Canonici, alla quale diede poi grande impulso il mio Predecessore Paolo VI di f.m. Insieme è doveroso ricordare e ringraziare i Signori Cardinali, che furono Presidenti della Commissione, i validi Segretari della medesima con i loro collaboratori, i Padri delle Congregazioni Plenarie, gli esperti e i Consultori. Lo spirito squisitamente collegiale, con il quale i lavori furono condotti e portati a termine, si rivelo prezioso e particolarmente fecondo con la consultazione dell'intero episcopato, dei Dicasteri della Curia Romana, delle Università e delle Facoltà ecclesiastiche e delle Unioni dei Superiori Maggiori.

Come già dissi dieci anni or sono promulgando il nuovo Codice, desidero ancor oggi manifestare a tutti e pubblicamente i sentimenti della mia viva riconoscenza, mentre raccomando alla bontà del Signore quanti ci hanno lasciato dopo un servizio fedele e generoso alla Chiesa.


3. La gioia ed il conforto di ieri trovano conferma e si ripetono oggi con la felice ricorrenza del decimo anniversario della promulgazione del nuovo Codice, resa particolarmente solenne con la celebrazione di questo Symposium internazionale, al quale la scelta dei temi, la ben nota dottrina dei Relatori, la partecipazione numerosa e qualificata di tanti studiosi conferiscono, con la dimensione dell'universalità che le varie scuole esprimono, la rilevanza di un avvenimento altamente ecclesiale e di indubbio valore scientifico. Non si è voluto celebrare un atto puramente accademico, né si è andati alla ricerca di prestigiosi traguardi che conferissero lustro, fosse pure a questa Sede Apostolica. Ma, come apparve chiaro fin dal primo momento, quando fu avanzata e presentata la proposta, il Symposium ha inteso finalizzare il suo impegno nel cogliere gli elementi portanti e la struttura essenziale del Codice, quale novità fondamentale del Concilio Vaticano II, in linea di continuità con la tradizione legislativa della Chiesa, per quanto concerne soprattutto l'ecclesiologia (Cfr. Const. Apost. Sacrae disciplinae leges, 25 ian. 1983: AAS 75 [1983] Pars II, XI). Da qui la trattazione approfondita dei temi che caratterizzano e qualificano il nuovo Codice, quali soprattutto la communio nella dimensione della Chiesa universale ed in quella della Chiesa particolare, con il relativo raffronto tra ius universale e ius particulare e del sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune, con riferimento specifico alla pastorale sacramentale e al ministero ecclesiastico. E sono lieto che, nel quadro di questo Simposio, si sia trovato spazio anche per il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, che ho avuto la gioia di promulgare nel 1990.

Infatti, tale attenzione corrisponde ai miei auspici, spesso ripetuti, che tutta la Chiesa respiri con due polmoni. Testimonianza operativa di ciò offre il Pontificio Consiglio per l'interpretazione dei testi legislativi, che segue fedelmente quanto ho scritto nella Costituzione Apostolica "Sacri Canones": il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium non solo "veluti novum complementum magisterii a Concilio Vaticano II propositi habendus est, quo universae Ecclesiae ordinatio canonica tandem expletur" (Cost. Apost. Sacri Canones, 18 oct. 1990: AAS 87 [1990] 1038), ma costituisce, insieme al Codex Iuris Canonici e alla Costituzione Apostolica sulla Curia Romana "Pastor Bonus", una delle tre componenti dell'unico "Corpus iuris Canonici" della Chiesa universale. La conoscenza di questo intero Corpus, come ho sottolineato il 25 ottobre 1990, nell'ultimo Sinodo dei Vescovi, deve essere opportunamente promossa nella formazione sacerdotale, e, in primo luogo, in tutte le Facoltà di Diritto canonico. Infatti, la conoscenza non potrà che arricchire gli studiosi e far si che la scienza canonica, praticata negli Atenei, sia "plene respondens titulis studiorum, quos hae Facultates conferunt" (All., 25 oct. 1990, 8: AAS 83 [1991] 490).


4. Al fine scientifico il Symposium ha unito quello pastorale, sia con la scelta dei temi e dei Relatori, tra i quali troviamo Vescovi diocesani, sia con la visione delle esigenze inerenti alla vita e alla missione della Chiesa. Donde l'auspicio, che condivido, di uno studio più diffuso ed accurato del nuovo Codice di Diritto Canonico, che coinvolga non solo i centri accademici e gli operatori del diritto, ma diventi impegno concreto di ogni comunità ecclesiale, perché avverta l'esigenza di una verifica, a dieci anni dalla promulgazione del Codice che traduce in esperienza di vita le indicazioni del Concilio. Le comunità s'interroghino anzitutto sull'applicazione e l'osservanza delle norme che il Codex ha sancite per l'attuazione delle decisioni e direttive del Concilio Ecumenico Vaticano II. E vedano ed esaminino inoltre se l'incidenza del nuovo Codice nella loro vita e nella missione che svolgono nella Chiesa corrisponda allo sviluppo ed agli intenti dello stesso Concilio.


5. Il vostro Simposio avrà così contribuito ad accrescere la stima e la fiducia nel Codice, quale strumento che ben corrisponde alla natura della Chiesa. "Anzi - come dicevo dieci anni or sono - in un certo senso, questo nuovo Codice potrebbe intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico... la ecclesiologia conciliare" (Cfr. Cost. Apost. Sacrae disciplinae leges, 25 ian.1983: AAS 75 [1983] Pars II, XI). In esso, infatti, si riflettono ed assumono struttura e forma giuridica i chiari insegnamenti conciliari sulla Chiesa, quale popolo di Dio che vive ed opera nella comunione organica di tutti i suoi membri sotto la tutela e la guida dell'autorità gerarchica, che perpetua nella comunità ecclesiale il servizio del Buon Pastore per la salvezza integrale del gregge.

Queste verità, per la fonte da cui promanano, per i contenuti cristologici ed ecclesiologici che le qualificano e per le finalità salvifiche che comportano, emergono oggi anche dalla normativa e sistematica del nuovo Codice, al quale deve perciò riconoscersi di aver svolto un servizio proficuo alla comunità ecclesiale.

Voi avete messo un luce l'esigenza, anzi la necessità, di una communio disciplinae che sostenga la vita e la missione della Chiesa, sottolineando quanto sia essenziale alla struttura carismatica quella istituzionale, in modo da operare congiuntamente al conseguimento di quella salus in cui trovano ragion d'essere tutte le realtà, sia teologiche e liturgiche sia pastorali e giuridiche della Chiesa. "Nella vita della Chiesa - dichiarava il mio predecessore Paolo VI di f.m. - vediamo che la funzione del diritto non rimane estranea al mysterium salutis; ...ma entra nella dinamica del disegno salvifico; ...così entra a far parte del mistero della salvezza il patrimonio delle realtà giuridiche, alla giustizia e alla persona umana inscindibilmente legate" (Cfr. All., 25 maii 1968: AAS 60 [1968] 338).


6. Il Diritto Canonico si rivela così connesso con l'essenza stessa della Chiesa; fa corpo con essa per il retto esercizio del munus pastorale nella triplice accezione di munus docendi, sanctificandi, regendi. Nella Chiesa di Cristo - ci ha ripetuto il Concilio - accanto all'aspetto spirituale ed eterno, c'è quello visibile ed esterno. La chiara affermazione del §1 del CIC 375, in base al quale i Vescovi "pastores constituuntur, ut sint ipsi doctrinae magistri, sacri cultus sacerdotes et gubernationis ministri" (Cfr. LG 20), vista alla luce di tutta la tradizione canonista e in quella del magistero del Vaticano II, mentre ci ribadisce l'intrinseca pastoralità del diritto canonico, sta insieme a dirci che non sono pastorali soltanto i munera docendi e sanctificandi, ma con essi e non meno di essi è ugualmente pastorale il munus regendi, che il Concilio più volentieri chiama pascendi, ricollegandolo al testo giovanneo che riporta il conferimento del primato di Pietro (Cfr. Jn 21,17 LG 18 LG 331). L'ossequio all'ordinamento canonico, espresso nella osservanza delle sue norme, contribuisce alla crescita della comunione ecclesiale. Questa raggiunge infatti la sua pienezza quando i battezzati sono congiunti con Cristo "mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico" (LG 14 LG 205). Quest'ultimo, infatti, mediante il corpo delle leggi canoniche, regola la vita e la missione della Chiesa, i doveri e i diritti dei suoi membri e quanto è necessario ed utile alla sua compagine visibile. Nasce da qui l'esigenza, tradotta dal Codice in obbligo, che "tutti conservino sempre, anche nel loro modo di agire, la comunione con la Chiesa" (CIC 209 §1); e l'azione apostolica sia condotta sempre nella comunione con la Chiesa (Cfr. CIC 675 §3).


7. In tal modo concepito, strutturato, interpretato ed applicato, il Diritto canonico, oltre a giovare alla Chiesa nell'adempimento della sua missione, acquista una dimensione di esemplarità per le società civili, spingendole a considerare il potere ed i loro ordinamenti come un servizio alla comunità, nel supremo interesse della persona umana. Come al centro dell'ordinamento canonico c'è l'uomo redento da Cristo e divenuto con il battesimo persona nella Chiesa "con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri" (CIC 96), così le società civili sono invitate dall'esempio della Chiesa a porre la persona umana al centro dei loro ordinamenti, mai sottraendosi ai postulati del diritto naturale, per non cadere nei pericoli dell'arbitrio o di false ideologie. I postulati del diritto naturale sono infatti validi in ogni luogo e per ogni popolo, oggi e sempre, perché dettati dalla recta ratio, nella quale, come spiega S. Tommaso, sta l'essenza del diritto naturale: "omnis lex humanitus posita intantum habet de ratione legis, inquantum a lege naturae derivatur" (I-II 95,2). L'aveva già compreso il pensiero classico, che Cicerone così esprimeva: "Est quidem vera lex recta ratio, naturae congruens, diffusa in omnibus, constans, sempiterna, quae vocet ad officium iubendo, vetando a fraude deterreat, quae tamen neque probos frustra iubet aut vetat, nec improbos iubendo aut vetando movet" (De re Publica, 3,33: LACT. Inst., VI,8,6-9).

Nel rinnovato sforzo della Chiesa per una nuova Evangelizzazione, in vista del terzo Millennio cristiano, il Diritto Canonico, come ordinamento specifico ed indispensabile della compagine ecclesiale, non mancherà di contribuire efficacemente alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo, se tutte le componenti ecclesiali sapranno saggiamente interpretarlo e fedelmente applicarlo. Lo conceda il Signore Gesù, il quale ha voluto la Chiesa come nuovo Israele, in cammino nel secolo presente verso la città futura e permanente, sotto la guida dei pastori, che Egli stesso ha posto a reggere il suo popolo, munendoli dei mezzi adatti per tale compito (Cfr. LG 9).

Accompagno questo auspicio con una speciale Benedizione, che imparto a voi qui presenti ed a quanti, nei vari campi connessi col Diritto Canonico, recano il proprio contributo all'adempimento della missione della Chiesa nel mondo.

Data: 1993-04-23 Data estesa: Venerdi 23 Aprile 1993

Alla Pontificia Commissione Biblica - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: L'interpretazione autentica della Sacra Scrittura è di una importanza capitale per la fede cristiana e per la vita della Chiesa

Signori Cardinali, Signori Capi delle Missioni Diplomatiche, Signori Membri della Pontificia Commissione Biblica, Signori Professori del Pontificio Istituto Biblico,


1. Ringrazio di tutto cuore il Cardinale Ratzinger dei sentimenti che ha appena espresso presentandomi il documento elaborato dalla Pontificia Commissione Biblica sull'intepretazione della Bibbia nella Chiesa. Con gioia, accolgo questo documento, frutto di un lavoro collegiale intrapreso per vostra iniziativa, Signor Cardinale, e portato avanti con perseveranza per diversi anni. Esso risponde a una preoccupazione che mi sta a cuore, poiché l'interpretazione della Sacra Scrittura è di una importanza capitale per la fede cristiana e per la vita della Chiesa.

"Nei libri sacri, infatti - come ci ha così ben ricordato il Concilio -, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell'anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale" (DV 21). Il modo di interpretare i testi biblici per gli uomini e le donne di oggi ha delle conseguenze dirette sul loro rapporto personale e comunitario con Dio, ed è anche strettamente legato alla missione della Chiesa.

Si tratta di un problema vitale che meritava tutta la vostra attenzione.


2. Il vostro lavoro si conclude in un momento molto opportuno, perché mi offre l'occasione di celebrare con voi due anniversari ricchi di significato: il centenario dell'Enciclica Providentissimus Deus, e il cinquantenario dell'Enciclica Divino afflante Spiritu, entrambe consacrate alle questioni bibliche. Il 18 novembre 1893, Papa Leone XIII, molto attento ai problemi intellettuali, pubblicava la sua enciclica sugli studi della Sacra Scrittura, al fine, scriveva, "di stimolarli e raccomandarli" e anche di "orientarli in una maniera che corrisponda meglio ai bisogni dei tempi" (Enchiridion Biblicum, n.82). Cinquant'anni dopo, Papa Pio XII offriva agli esegeti cattolici, nella sua enciclica Divino afflante Spiritu, nuovi incoraggiamenti e nuove direttive. Nel frattempo, il Magistero pontificio aveva manifestato la propria attenzione costante ai problemi scritturistici attraverso numerosi interventi. Nel 1902, Leone XIII creava la Commissione Biblica; nel 1909, Pio X fondava l'Istituto Biblico. Nel 1920, Benedetto XV celebrava il 1500 anniversario della morte di San Girolamo con un'enciclica sull'interpretazione della Bibbia. Il vivo impulso dato così agli studi biblici ha trovato piena conferma nel Concilio Vaticano II, cosicché tutta la Chiesa ne ha tratto beneficio. La Costituzione Dogmatica Dei Verbum illumina l'opera degli esegeti cattolici e invita i Pastori e i fedeli a alimentarsi più assiduamente della parola di Dio contenuta nelle Scritture.

Desidero oggi mettere in risalto alcuni aspetti dell'insegnamento di queste due encicliche e la validità permanente del loro orientamento attraverso circostanze mutevoli al fine di poter meglio beneficiare del loro contributo.

I. Dalla "Providentissimus Deus" alla "Divino afflante Spiritu"


3. In primo luogo, si nota fra questi due documenti un'importante differenza. Si tratta della parte polemica - o, più precisamente, apologetica - delle due encicliche. Infatti, l'una e l'altra manifestano la preoccupazione di rispondere agli attacchi contro l'interpretazione cattolica della Bibbia, ma questi attacchi non andavano nella stessa direzione. La Providentissimus Deus, da una parte, vuole soprattutto proteggere l'interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi della scienza razionalista; dall'altra, la Divino afflante Spiritu si preoccupa piuttosto di difendere l'interpretazione cattolica dagli attacchi che si oppongono all'utilizzazione della scienza da parte degli esegeti e che vogliono imporre un'interpretazione non scientifica, cosiddetta "spirituale", delle Sacre Scritture. Questo cambiamento radicale della prospettiva era dovuto, evidentemente, alle circostanze. La Providentissimus Deus fu pubblicata in un'epoca segnata da forti polemiche contro la fede della Chiesa. L'esegesi liberale forniva a queste polemiche un sostegno importante, poiché essa utilizzava tutte le risorse delle scienze, dalla critica testuale alla geologia, passando per la filologia, la critica letteraria, la storia delle religioni, l'archeologia e altre discipline ancora. Al contrario, la Divino afflante Spiritu venne pubblicata poco tempo dopo una polemica del tutto differente, condotta, soprattutto in Italia, contro lo studio scientifico della Bibbia. Un opuscolo anonimo era stato ampiamente diffuso per mettere in guardia contro ciò che esso descriveva come un "gravissimo pericolo per la Chiesa e per le anime: il sistema critico-scientifico nello studio e nell'interpretazione della Sacra Scrittura, le sue funeste deviazioni e le sue aberrazioni".


4. Nell'uno e nell'altro caso, la reazione del Magistero fu significativa, poiché, invece di attenersi a una risposta puramente difensiva, esso andava a fondo del problema e manifestava così - notiamolo subito - la fede della Chiesa nel mistero dell'Incarnazione. Contro le offensive dell'esegesi liberale, che presentava le sue affermazioni come delle conclusioni fondate su dati acquisiti dalla scienza, si sarebbe potuto reagire lanciando un anatema sull'utilizzazione delle scienze nell'interpretazione della Bibbia e ordinando agli esegeti cattolici di attenersi a una spiegazione "spirituale" dei testi. La Providentissimus Deus non intraprende questa strada. Al contrario, l'enciclica invita insistentemente gli esegeti cattolici ad acquisire una autentica competenza scientifica in modo da superare i propri avversari sul loro stesso terreno. "Il primo" modo di difesa, essa dice, "si trova nello studio delle antiche lingue dell'Oriente così come nell'esercizio della critica scientifica" (E.B., n. 118). La Chiesa non teme la critica scientifica. Essa diffida solamente delle opinioni preconcette che pretendono di fondarsi sulla scienza ma che, in realtà, fanno uscire subdolamente la scienza dal suo campo. Cinquant'anni dopo, nella Divino afflante Spiritu, Papa Pio XII può costatare la fecondità delle direttive offerte dalla Providentissimus Deus: "Grazie a una migliore conoscenza delle lingue bibliche e di tutto ciò che riguarda l'Oriente, ...un buon numero di questioni sollevate al tempo di Leone XIII contro l'autenticità, l'antichità, l'integrità e il valore storico dei Libri Sacri... si trovano oggi sciolte e risolte" (E.B., n. 546). Il lavoro degli esegeti cattolici, "che hanno fatto un uso corretto degli strumenti intellettuali utilizzati dai loro avversari" (n. 562), aveva portato i suoi frutti. Ed è proprio per questo motivo che Divino afflante Spiritu si mostra meno preoccupata che non Providentissimus Deus per le offensive contro le posizioni dell'esegesi razionalista.


5. Ma era divenuto necessario rispondere agli attacchi giunti da parte dei sostenitori di un'esegesi cosiddetta "mistica" (n. 552), che cercavano di far condannare dal Magistero gli sforzi dell'esegesi scientifica. Come risponde l'enciclica? Essa avrebbe potuto limitarsi a sottolineare l'utilità e finanche la necessità di questi sforzi per la difesa della fede, il che avrebbe favorito una sorta di dicotomia fra l'esegesi scientifica, destinata all'uso esterno, e l'interpretazione spirituale, riservata all'uso interno. Nella Divino afflante Spiritu, Pio XII ha deliberatamente evitato di procedere in questa direzione. Egli ha al contrario rivendicato la stretta unione fra i due procedimenti, da una parte sottolineando la portata "teologica" del senso letterale, metodicamente definito (E.B., n. 251), dall'altra, affermando che, per poter essere riconosciuto quale senso di un testo biblico, il senso spirituale deve presentare delle garanzie di autenticità. Una semplice ispirazione soggettiva non è sufficiente. Si deve poter dimostrare che si tratta di un senso "voluto da Dio stesso", di un significato spirituale "dato da Dio" al testo ispirato (E.B., nn. 552-553). La determinazione del senso spirituale appartiene dunque, anch'essa, al campo della scienza esegetica. Costantiamo così che, nonostante la grande diversità delle difficoltà da affrontare, le due encicliche si riuniscono perfettamente a livello più profondo. Esse rifiutano, sia l'una che l'altra, la rottura tra l'umano e il divino, tra la ricerca scientifica e lo sguardo della fede, fra il senso letterale e il senso spirituale. Esse si mostrano su quel punto pienamente in armonia con il mistero dell'Incarnazione.

II. Armonia fra l'esegesi cattolica e il mistero dell'Incarnazione


6. Lo stretto rapporto che unisce i testi biblici ispirati al mistero dell'Incarnazione è stato espresso dall'enciclica Divino afflante Spiritu nei seguenti termini: "così come la Parola sostanziale di Dio si è fatta simile agli uomini in tutti i punti, eccetto il peccato, così le parole di Dio, espresse in lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio umano in tutti i punti, eccetto l'errore" (E.B., n. 559). Ripresa quasi letteralmente dalla Costituzione conciliare Dei Verbum (DV 13), questa affermazione mette in luce un parallelismo ricco di significato. E' vero che mettere per iscritto le parole di Dio, grazie al carisma dell'ispirazione scritturale, costituiva un primo passo verso l'Incarnazione del Verbo di Dio. Queste parole scritte costituivano, infatti, un duraturo mezzo di comunicazione e di comunione fra il popolo eletto e il suo unico Signore. D'altra parte, è grazie all'aspetto profetico di queste parole che è stato possibile riconoscere il compimento del disegno di Dio, quando "il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Jn 1,14). Dopo la glorificazione celeste dell'umanità del Verbo fatto carne, è ancora grazie a delle parole scritte che il suo passaggio fra noi rimane attestato in modo duraturo. Uniti agli scritti ispirati della Prima Alleanza, gli scritti ispiritati della Nuova Alleanza costituiscono un mezzo verificabile di comunicazione e di comunione fra il popolo credente e Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo mezzo non può certamente essere separato dal fiume di vita spirituale che scaturisce dal Cuore di Gesù crocifisso e che si propaga grazie ai sacramenti della Chiesa. Esso ha nondimeno una sua propria consistenza, quella, propriamente, di un testo scritto, che fa fede.


7. Di conseguenza, le due encicliche richiedono agli esegeti cattolici di restare in piena armonia con il mistero dell'Incarnazione, mistero d'unione del divino e dell'umano in un'esistenza storica assolutamente determinata. L'esistenza terrena di Gesù non viene definita soltanto tramite luoghi e date dell'inizio del primo secolo in Giudea e in Galilea, ma anche tramite il suo radicamento nella lunga storia di un piccolo popolo del Vicino Oriente antico, con le sue debolezze e le sue grandezze, con i suoi uomini di Dio e i suoi peccatori, con la sua lenta evoluzione culturale, i suoi mutamenti politici, con le sue sconfitte e le sue vittorie, con le sue aspirazioni alla pace e al regno di Dio. La Chiesa di Cristo prende sul serio il realismo dell'Incarnazione ed è per questa ragione che essa attribuisce una grande importanza allo studio "storico-critico" della Bibbia.

Lungi dal riprovarla, come avrebbero voluto i sostenitori dell'esegesi "mistica", i miei predecessori l'hanno vigorosamente approvata. "Artis criticae disciplinam - scriveva Leone XIII -, quippe percipiendae penitus hagiographorum sententiae perutilem, Nobis vehementer probantibus, nostri (exegetae, scilicet, catholici) excolant" (Lettera apostolica Vigilantiae, per la fondazione della Commissione Biblica, 30 ottobre 1902, E.B., n. 142). La stessa "veemenza" nell'approvazione, lo stesso avverbio ("vehementer") si ritrovano nella Divino afflante Spiritu a proposito delle ricerche di critica testuale (Cfr. E.B., n. 548).


8. La Divino afflante Spiritu, come è noto, ha particolarmente raccomandato agli esegeti lo studio dei generi letterari utilizzati nei libri sacri, giungendo ad affermare che l'esegeta cattolico deve "acquisire la convinzione che questa parte del suo compito non può essere trascurata senza un grave danno per l'esegesi cattolica" (E.B., n. 560). Questa raccomandazione si basa sulla preoccupazione di comprendere il senso dei testi con tutta l'esattezza e la precisione possibili e, dunque, nel loro contesto culturale storico. Una falsa idea di Dio e dell'Incarnazione spinge un certo numero di cristiani a prendere un orientamento opposto. Essi hanno tendenza a credere che, essendo Dio l'Essere assoluto, ognuna delle sue parole abbia un valore assoluto, indipendente da tutti i condizionamenti del linguaggio umano. Non vi è quindi spazio, secondo costoro, per studiare questi condizionamenti al fine di operare delle distinzioni che relativizzerebbero la portata delle parole. Ma questo significa illudersi e rifiutare, in realtà, i misteri dell'ispirazione scritturale e dell'Incarnazione, rifacendosi ad una falsa nozione dell'Assoluto. Il Dio della Bibbia non è un Essere assoluto che, schiacciando tutto quello che tocca, sopprimerebbe tutte le differenze e tutte le sfumature. E' al contrario il Dio creatore, che ha creato la stupefacente varietà degli esseri "ognuno secondo la propria specie", come afferma e riporta il racconto della Genesi (Cfr. Gen, cap. 1). Lungi dall'annullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza (Cfr. 1Co 12,18 1Co 12,24 1Co 12,28). Quando si esprime in un linguaggio umano, egli non dà ad ogni espressione un valore uniforme, ma ne utilizza le possibili sfumature con estrema flessibilità, e ne accetta anche le limitazioni. E' questo che rende il compito degli esegeti così complesso, così necessario e così appassionante! Nessuno degli aspetti umani del linguaggio può essere trascurato. I recenti progressi delle ricerche linguistiche, letterarie ed ermeneutiche hanno portato l'esegesi biblica ad aggiungere allo studio dei generi letterari molti altri punti di vista (retorico, narrativo, strutturalista); altre scienze umane, come la psicologia e la sociologia, sono state parimenti accolte per dare il loro contributo. A tutto questo può essere applicata la consegna che Leone XIII affidava ai membri della Commissione Biblica: "Che essi non stimino estraneo alle loro competenze nulla di ciò che la ricerca industriosa dei moderni avrà trovato di nuovo; al contrario, mantengano lo spirito all'erta per adottare senza ritardi quello che ogni momento porta di utile all'esegesi biblica" (Vigilantiae, E.B., n. 140). Lo studio dei condizionamenti umani della parola di Dio deve essere perseguito con un interesse incessantemente rinnovato.


9. Tuttavia, questo studio non è sufficiente. Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa e dell'ispirazione della Scrittura, l'esegesi cattolica deve essere attenta a non attenersi agli aspetti umani dei testi biblici. Occorre che essa, anche e soprattutto, aiuti il popolo cristiano a percepire in modo più nitido la parola di Dio in questi testi, in modo di accoglierla meglio, per vivere pienamente in comunione con Dio. A tal fine è evidentemente necessario che lo stesso esegeta percepisca nei testi la parola divina, e questo non gli è possibile che nel caso in cui il suo lavoro intellettuale venga sostenuto da uno slancio di vita spirituale. In mancanza di questo sostegno, la ricerca esegetica resta incompleta; essa perde di vista la sua finalità principale e si confina in compiti secondari. Essa può anche diventare una sorta di evasione. Lo studio scientifico dei soli aspetti umani dei testi può far dimenticare che la parola di Dio invita ognuno ad uscire da se stesso per vivere nella fede e nella carità. L'enciclica Providentissimus Deus ricordava, a questo proposito, il carattere particolare dei Libri Sacri e l'esigenza che ne risulta per la loro interpretazione: "I Libri Sacri - dichiarava - non possono essere assimilati agli scritti ordinari, ma, essendo stati dettati dallo stesso Spirito Santo e avendo un contenuto di estrema gravità, misterioso e difficile sotto molti aspetti, noi abbiamo sempre bisogno, per comprenderli e spiegarli, della venuta dello stesso Spirito Santo, ovvero della sua luce e della sua grazia, che bisogna certamente domandare in un'umile preghiera e preservare attraverso una vita santificata" (E.B., n. 89). In una formula più breve, presa in prestito da S. Agostino, la Divino afflante Spiritu esprimeva la stessa esigenza: "Orent ut intellegant!" (E.B., n. 569).

Si, per arrivare ad un'interpretazione pienamente valida delle parole ispirate dallo Spirito Santo, dobbiamo noi stessi essere guidati dallo Spirito Santo, per questo, bisogna pregare, pregare molto, chiedere nella preghiera la luce interiore dello Spirito e accogliere docilmente questa luce, chiedere l'amore, che solo rende capaci di comprendere il linguaggio di Dio, che "è amore" (1Jn 4,8 1Jn 4,16). Durante lo stesso lavoro di interpretazione, occorre mantenersi il più possibile in presenza di Dio.


10. La docilità allo Spirito Santo produce e rafforza un'altra disposizione, necessaria per il giusto orientamento dell'esegesi: la fedeltà alla Chiesa.

L'esegeta cattolico non nutre l'illusione individualista che porta a credere che, al di fuori della comunità dei credenti, si possa comprendere meglio i testi biblici. E' vero invece il contrario, poiché questi testi non sono stati dati ai singoli ricercatori "per soddisfare la loro curiosità o per fornire loro degli argomenti di studio e di ricerca" (Divino afflante Spiritu, E.B., n. 566); essi sono stati affidati alla comunità dei credenti, alla Chiesa di Cristo, per alimentare la fede e guidare la vita di carità. Il rispetto di questa finalità condiziona la validità dell'interpretazione. La Providentissimus Deus ha ricordato questa verità fondamentale e ha osservato che, lungi dall'ostacolare la ricerca biblica, il rispetto di questo dato ne favorisce l'autentico progresso (Cfr. E.B., nn. 108-109). E' riconfortante constatare che dei recenti studi di filosofia ermeneutica hanno portato una conferma a questa visione delle cose, e che esegeti di diverse confessioni hanno lavorato in analoghe prospettive, sottolineando, per esempio, la necessità di interpretare ogni testo biblico come facente parte del Canone delle Scritture riconosciuto dalla Chiesa, o essendo più attenti agli apporti dell'esegesi patristica. Essere fedeli alla Chiesa, significa, infatti, situarsi risolutamente nella corrente della grande Tradizione che, sotto la guida del Magistero, assicurato di un'assistenza speciale dello Spirito Santo, ha riconosciuto gli scritti canonici come parola rivolta da Dio al suo popolo, e non ha mai cessato di meditarli e di scoprirne le inesauribili ricchezze. Il Concilio Vaticano II lo ha ribadito: "Tutto questo, infatti, che concerne il modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio" (DV 12). E non è meno vero - è ancora il Concilio che lo sostiene, riprendendo un'affermazione della Providentissimus Deus - che "è compito degli esegeti contribuire (...) alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura, affinché, con studi in qualche modo preparatori, si maturi il giudizio della Chiesa" (DV 12, Cfr. Providentissimus Deus, E.B., n. 109: "ut, quasi praeparato studio, judicium Ecclesiae maturetur").


11. Per meglio adempiere questo compito ecclesiale molto importante, gli esegeti avranno a cuore di rimanere vicini alla predicazione della parola di Dio, sia consacrando una parte del loro tempo a questo ministero, sia intrattenendo delle relazioni con coloro che lo esercitano e aiutandoli con pubblicazioni di esegesi pastorale (Cfr. Divino afflante Spiritu, E.B., n. 551). Eviteranno così di perdersi nei meandri di una ricerca scientifica astratta, che li allontanerebbe dal vero senso delle Scritture. Infatti, questo senso non è separabile dalla loro finalità, che è di mettere i credenti in rapporto personale con Dio.



GPII 1993 Insegnamenti - Ai partecipanti al Simposio di Diritto Canonico - Città del Vaticano (Roma)