GP2 Discorsi 1999 14


AGLI OFFICIALI E AGLI AVVOCATI DEL


TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA


Giovedì, 21 gennaio 1999




1. La solenne inaugurazione dell’attività giudiziaria del Tribunale della Rota Romana mi offre la gioia di riceverne i componenti, per esprimere loro la considerazione e la gratitudine con cui la Santa Sede ne segue ed incoraggia il lavoro.

Saluto e ringrazio Monsignor Decano, che ha degnamente interpretato i sentimenti di tutti voi qui presenti, dando espressione appassionata e profonda agli intendimenti pastorali che ispirano la vostra quotidiana fatica.

Saluto il Collegio dei Prelati Uditori in servizio ed emeriti, gli Officiali maggiori e minori del Tribunale, gli Avvocati Rotali e gli Alunni dello Studio Rotale con i rispettivi familiari. A tutti un augurio cordiale per l’anno da poco iniziato.

2. Monsignor Decano si è soffermato sul significato pastorale del vostro lavoro, mostrandone la grande rilevanza nella quotidiana vita della Chiesa. Condivido una simile visione e vi incoraggio a coltivare in ogni vostro intervento questa prospettiva, che vi pone in piena sintonia con la finalità suprema dell’attività della Chiesa. Già altra volta ho avuto occasione di accennare a questo aspetto del vostro ufficio giudiziario, con particolare riferimento a questioni processuali. Anche oggi vi esorto a dare prevalenza, nella soluzione dei casi, alla ricerca della verità, facendo uso delle formalità giuridiche soltanto come mezzo per tale fine. L’argomento su cui intendo soffermarmi nell’odierno incontro è l’analisi della natura del matrimonio e delle sue essenziali connotazioni alla luce della legge naturale.

15 È ben noto l’apporto che la giurisprudenza del vostro Tribunale ha dato alla conoscenza dell’istituto matrimoniale, offrendo un validissimo punto di riferimento dottrinale agli altri Tribunali ecclesiastici. Ciò ha consentito di focalizzare sempre meglio il contenuto essenziale del coniugio sulla base di una più adeguata conoscenza dell’uomo.

All’orizzonte del mondo contemporaneo, tuttavia, si profila un diffuso deterioramento del senso naturale e religioso delle nozze, con riflessi preoccupanti sia nella sfera personale che in quella pubblica. Come tutti sanno, oggi non si mettono in discussione soltanto le proprietà e le finalità del matrimonio, ma il valore e l’utilità stessa dell’istituto. Pur escludendo indebite generalizzazioni, non è possibile ignorare, al riguardo, il fenomeno crescente delle semplici unioni di fatto, e le insistenti campagne d’opinione volte ad ottenere dignità coniugale ad unioni anche fra persone appartenenti allo stesso sesso.

Non è mio intendimento in una sede come questa, ove è prevalente il progetto correttivo e redentivo di situazioni dolorose e spesso drammatiche, insistere nella deplorazione e nella condanna. Desidero piuttosto richiamare, non soltanto a coloro che fanno parte della Chiesa di Cristo Signore, ma altresì a tutte le persone sollecite del vero progresso umano, la gravita e l’insostituibilità di alcuni principi, che sono basilari per l’umana convivenza, ed ancor prima per la salvaguardia della dignità di ogni persona.

3. Nucleo centrale ed elemento portante di tali principi è l’autentico concetto di amore coniugale fra due persone di pari dignità, ma distinte e complementari nella loro sessualità.

L’affermazione, ovviamente, deve essere intesa in modo corretto, senza cadere nel facile equivoco, per cui talora si confonde un vago sentimento od anche una forte attrazione psico-fisica con l’amore effettivo dell’altro, sostanziato di sincero desiderio del suo bene, che si traduce in impegno concreto per realizzarlo. Questa è la chiara dottrina espressa dal Concilio Vaticano II, ma è altresì una delle ragioni per le quali proprio i due Codici di Diritto Canonico, latino e orientale, da me promulgati, hanno dichiarato e posto come naturale finalità del connubio anche il bonum coniugum. Il semplice sentimento è legato alla mutevolezza dell’animo umano; la sola reciproca attrazione poi, spesso derivante soprattutto da spinte irrazionali e talora aberranti, non può avere stabilità ed è quindi facilmente, se non fatalmente, esposta ad estinguersi.

L’amor coniugalis, pertanto, non è solo né soprattutto sentimento; è invece essenzialmente un impegno verso l’altra persona, impegno che si assume con un preciso atto di volontà. Proprio questo qualifica tale amor rendendolo coniugalis.Una volta dato ed accettato l’impegno per mezzo del consenso, l’amore diviene coniugale, e mai perde questo carattere. Qui entra in gioco la fedeltà dell’amore, che ha la sua radice nell’obbligo liberamente assunto. Il mio Predecessore, il papa Paolo VI, in un suo incontro con la Rota, sinteticamente affermava: « Ex ultroneo affectus sensu, amor fit officium devinciens ».

Già di fronte alla cultura giuridica dell’antica Roma, gli autori cristiani si sentirono spinti dal dettato evangelico a superare il noto principio per cui tanto sta il vincolo coniugale quanto perdura l’affectio maritalis. A questa concezione, che conteneva in se il germe del divorzio, essi contrapposero la visione cristiana, che riportava il matrimonio alle sue origini di unità e di indissolubilità.

4. Sorge qui talora l’equivoco secondo il quale il matrimonio è identificato o comunque confuso col rito formale ed esterno che lo accompagna. Certamente, la forma giuridica delle nozze rappresenta una conquista di civiltà poiché conferisce ad esse rilevanza ed insieme efficacia dinanzi alla società, che conseguentemente ne assume la tutela. Ma a voi, giuristi, non sfugge il principio per cui il matrimonio consiste essenzialmente, necessariamente ed unicamente nel consenso mutuo espresso dai nubendi. Tale consenso altro non è che l’assunzione cosciente e responsabile di un impegno mediante un atto giuridico col quale, nella donazione reciproca, gli sposi si promettono amore totale e definitivo. Liberi essi sono di celebrare il matrimonio, dopo essersi vicendevolmente scelti in modo altrettanto libero, ma nel momento in cui pongono questo atto essi instaurano uno stato personale in cui l’amore diviene qualcosa di dovuto, con valenze di carattere anche giuridico.

La vostra esperienza giudiziaria vi fa toccare con mano come detti principi siano radicati nella realtà esistenziale della persona umana. In definitiva, la simulazione del consenso, per portare un esempio, altro non significa che dare al rito matrimoniale un valore puramente esteriore, senza che ad esso corrisponda la volontà di una donazione reciproca di amore, o di amore esclusivo, o di amore indissolubile o di amore fecondo. Come meravigliarsi che un simile matrimonio sia votato al naufragio? Una volta cessato il sentimento o l’attrazione, esso risulta privo di ogni elemento di coesione interna. Manca, infatti, quel reciproco impegno oblativo che, solo, potrebbe assicurarne il perdurare.

Qualcosa di simile vale anche per i casi in cui dolosamente qualcuno è stato indotto al matrimonio, ovvero quando una costrizione esterna grave ha tolto la libertà che è il presupposto di ogni volontaria dedizione amorosa.

5. Alla luce di questi principi può, essere stabilita e compresa l’essenziale differenza esistente fra una mera unione di fatto - che pur si pretenda originata da amore - e il matrimonio, in cui l’amore si traduce in impegno non soltanto morale, ma rigorosamente giuridico. Il vincolo, che reciprocamente s’assume, sviluppa di rimando un’efficacia corroborante nei confronti dell’amore da cui nasce, favorendone il perdurare a vantaggio della comparte, della prole e della stessa società.

16 È alla luce dei menzionati principi che si rivela anche quanto sia incongrua la pretesa di attribuire una realtà «coniugale» all’unione fra persone dello stesso sesso. Vi si oppone, innanzitutto, l’oggettiva impossibilità di far fruttificare il connubio mediante la trasmissione della vita, secondo il progetto inscritto da Dio nella stessa struttura dell’essere umano. È di ostacolo, inoltre, l’assenza dei presupposti per quella complementarità interpersonale che il Creatore ha voluto, tanto sul piano fisico-biologico quanto su quello eminentemente psicologico, tra il maschio e la femmina. È soltanto nell’unione fra due persone sessualmente diverse che può attuarsi il perfezionamento del singolo, in una sintesi di unità e di mutuo completamento psico-fisico. In questa prospettiva, l’amore non è fine a se stesso, e non si riduce all’incontro corporale fra due esseri, ma è una relazione interpersonale profonda, che raggiunge il suo coronamento nella donazione reciproca piena e nella cooperazione con Dio Creatore, sorgente ultima di ogni nuova esistenza umana.

6. Com’è noto, queste deviazioni dalla legge naturale, inscritta da Dio nella natura della persona, vorrebbero trovare la loro giustificazione nella libertà che è prerogativa dell’essere umano. In realtà, si tratta di giustificazione pretestuosa. Ogni credente sa che la liberta è - come dice Dante - « lo maggior don che Dio per sua larghezza / fêsse creando ed alla sua bontade / più conformato », ma è dono che va bene inteso per non trasformarsi in occasione di inciampo per l’umana dignità. Concepire la libertà come liceità morale od anche giuridica di infrangere la legge significa travisarne la vera natura. Questa, infatti, consiste nella possibilità che l’essere umano ha di uniformarsi responsabilmente, cioè con scelta personale, al volere divino espresso nella legge, per diventare così sempre più somigliante al suo Creatore.

Scrivevo già nell’Enciclica Veritatis splendor: « L’uomo è certamente libero, dal momento che può comprendere ed accogliere i comandi di Dio. Ed è in possesso d’una libertà quanto mai ampia, perché può, mangiare “di tutti gli alberi del giardino”. Ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all”albero della conoscenza del bene e del male”, essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all’uomo. In realtà, proprio in questa accettazione la libertà dell’uomo trova la sua vera e piena realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò, che è buono per l’uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei comandamenti ».

La cronaca quotidiana reca, purtroppo, ampie conferme circa i miserevoli frutti che tali aberrazioni dalla norma divino-naturale finiscono per produrre. Sembra quasi che si ripeta ai nostri giorni la situazione di cui Paolo Apostolo parla nella lettera ai Romani « Sicut non probaverunt Deum, habere in notitia, tradidit eos Deus in reprobum sensum, ut faciant quae non conveniunt ».

7. L’accenno doveroso ai problemi dell’ora presente non deve indurre allo scoraggiamento né alla rassegnazione. Deve anzi stimolare ad un impegno più deciso e più mirato. La Chiesa e, conseguentemente, la legge canonica riconoscono ad ogni uomo la facoltà di contrarre matrimonio; una facoltà, tuttavia, che può, essere esercitata soltanto da coloro « qui iure non prohibentur ». Tali sono, in primo luogo, coloro che hanno una sufficiente maturità psichica nella duplice componente intellettiva e volitiva, insieme con la capacità di adempiere gli oneri essenziali dell’istituto matrimoniale. In proposito, non posso non richiamare ancora una volta quanto ebbi a dire, proprio dinanzi a questo Tribunale, nei discorsi degli anni 1987 e 1988: una indebita dilatazione di dette esigenze personali, riconosciute dalla legge della Chiesa, finirebbe per infliggere un gravissimo vulnus a quel diritto al matrimonio che è inalienabile e sottratto a qualsiasi potestà umana.

Non mi soffermo qui sulle altre condizioni poste dalla normativa canonica per un valido consenso matrimoniale. Mi limito a sottolineare la grave responsabilità che incombe ai Pastori della Chiesa di Dio di curare una adeguata e seria preparazione dei nubendi al matrimonio: solo così, infatti, si possono suscitare nell’animo di coloro che si apprestano a celebrare le nozze le condizioni intellettuali, morali e spirituali, necessarie per realizzare la realtà naturale e sacramentale del matrimonio.

Queste riflessioni, carissimi Prelati ed Officiali affido alle vostre menti e ai vostri cuori, ben conoscendo lo spirito di fedeltà che anima il vostro lavoro, mediante il quale intendete dare attuazione piena alle norme della Chiesa, nella ricerca del vero bene del Popolo di Dio.

A conforto della vostra fatica imparto con affetto a tutti voi qui presenti, ed a quanti sono in qualche modo collegati al Tribunale della Rota Romana, la Benedizione Apostolica.

VIAGGIO APOSTOLICO A CITTÀ DEL MESSICO

E A SAINT LOUIS (22-28 GENNAIO 1999)

CERIMONIA DI BENVENUTO


Aeroporto Internazionale di Città del Messico - Venerdì, 22 gennaio 1999

Signor Presidente della Repubblica,

Signori Cardinali e Fratelli nell'Episcopato,
17 Amatissimi fratelli e sorelle del Messico;

1. Come vent'anni fa, giungo oggi in Messico ed è per me motivo di immensa gioia trovarmi nuovamente in questa terra benedetta, dove Santa Maria di Guadalupe è venerata come Madre amata. Come allora e nelle due visite successive, vengo come Apostolo di Gesù Cristo e Successore di San Pietro a confermare i miei fratelli nella fede, annunciando il Vangelo a tutti gli uomini e le donne. In questa occasione, inoltre, la Capitale sarà sede di un incontro privilegiato ed eccezionale per un appuntamento storico: insieme ai Vescovi di tutto il Continente americano domani presenterò nella Basilica di Guadalupe i frutti del Sinodo che si è svolto un anno fa a Roma.

I Vescovi d'America hanno in quell'occasione tracciato le linee fondamentali dell'azione pastorale del futuro che, a partire dalla fede che condividiamo, desideriamo risponda pienamente al piano salvifico di Dio e alla dignità dell'essere umano nel quadro di società giuste, riconciliate e aperte a un progresso tecnico che sia in sintonia con il necessario progresso morale. Tale è la speranza dei Vescovi e dei fedeli che esprimono la loro fede cattolica in spagnolo, inglese, portoghese, francese e nelle molteplici lingue proprie delle culture indigene, che rappresentano le radici di questo Continente della speranza.

Questo pomeriggio, nella sede della Nunziatura, avrò la gioia di firmare l'Esortazione Apostolica dove ho raccolto le idee e le proposte espresse dall'Episcopato d'America. Attraverso la nuova evangelizzazione la Chiesa vuole rivelare meglio la sua identità: essere più vicina a Cristo e alla sua Parola; mostrarsi autentica e libera da condizionamenti mondani; essere meglio al servizio dell'uomo in una prospettiva evangelica; essere fermento di unità e non di divisione dell'umanità che si apre a nuovi, ampliati e ancora non ben definiti orizzonti.

2. Sono lieto di salutare ora il Dottor Ernesto Zedillo Ponce de León, Presidente degli Stati Uniti del Messico, e di ringraziarlo per le cordiali parole che ha voluto rivolgermi per darmi il benvenuto. Attraverso di lei, signor Presidente, saluto tutto il popolo messicano, questo nobile e amato popolo che lavora, prega e cammina alla ricerca di un futuro sempre migliore nelle vaste pianure di Sonora o di Chihuahua, nelle foreste tropicali di Veracruz o del Chiapas, negli operosi centri industriali di Nuevo León o di Coahuila, alle pendici dei grandi vulcani che s'innalzano nelle serene valli di Puebla e di Città del Messico, negli accoglienti porti dell'Atlantico e del Pacifico. Saluto anche i milioni di messicani che vivono e lavorano al di là delle frontiere nazionali. Essendo questo un viaggio con un carattere continentale, saluto anche tutti coloro che in un modo o nell'altro stanno seguendo questi eventi.

Saluto affettuosamente i miei Fratelli nell'Episcopato, in particolare, il Signor Cardinale Norberto Rivera Carrera, Arcivescovo Primate di México, il Presidente e i membri della Conferenza dell'Episcopato Messicano, così come gli altri Vescovi che sono venuti da altri Paesi per partecipare agli eventi di questa Visita pastorale e in tal modo rinnovare e rafforzare gli stretti vincoli di comunione e di affetto fra tutte le Chiese particolari del continente americano. In questo saluto il mio cuore si apre anche con grande affetto agli amati sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi, alle religiose, ai catechisti e ai fedeli, ai quali mi dono nel Signore. Voglia Dio che questa visita che inizia oggi serva da incoraggiamento a tutti nel generoso sforzo di annunciare Gesù Cristo con rinnovato ardore in vista del nuovo millennio che si avvicina.

3. Il popolo messicano, da quando mi accolse vent'anni fa con le braccia aperte e pieno di speranza, mi ha accompagnato in molti dei cammini percorsi. Ho incontrato messicani nelle udienze generali del mercoledì e nei grandi eventi che la Chiesa ha celebrato a Roma e in altri luoghi dell'America e del mondo. Ancora riecheggiano nelle mie orecchie i saluti con i quali sempre mi accolgono: Messico sempre fedele e sempre presente!

Giungo in un Paese dove la fede cattolica servì da fondamento al meticciato che trasformò l'antica pluralità etnica e antagonistica in unità fraterna e di destino. Non è quindi possibile comprendere il Messico senza la fede portata dalla Spagna a queste terre dai dodici primi francescani e consolidata in seguito dai domenicani, dai gesuiti, dagli agostiniani e da altri predicatori della Parola salvifica di Cristo. Oltre all'opera evangelizzatrice, che fa del cattolicesimo parte integrante e fondamentale dell'anima della Nazione, i missionari lasciarono profonde tracce culturali e prodigiose espressioni d'arte che sono oggi motivo di legittimo orgoglio per tutti i messicani e ricca espressione della loro civiltà.

Giungo in un Paese la cui storia è percorsa, come fiumi talvolta occulti e sempre copiosi, da tre realtà che a volte si incontrano e altre rivelano le loro differenze complementari, senza mai confondersi del tutto: l'antica e ricca sensibilità dei popoli indigeni che amarono Juan de Zumárraga e Vasco de Quiroga, che molti di questi popoli continuano a chiamare padri, il cristianesimo radicato nell'anima dei messicani e la moderna razionalità, di taglio europeo, che tanto ha voluto esaltare l'indipendenza e la libertà. So che non sono poche le menti lungimiranti che si sforzano affinché queste correnti di pensiero e di cultura riescano a coniugare meglio i loro flussi abbondanti mediante il dialogo, lo sviluppo socio-culturale e la volontà di costruire un futuro migliore.

Vengo da voi, messicani di tutte le classi e condizioni sociali e da voi, fratelli del continente americano, per salutarvi in nome di Cristo: il Dio che si fece uomo affinché tutti gli uomini potessero prendere coscienza della loro chiamata alla filiazione divina in Cristo. Insieme ai miei fratelli Vescovi del Messico e di tutta l'America, vengo a prostrarmi dinanzi al mantello del Beato Juan Diego. Chiederò a Santa Maria di Guadalupe, alla fine di un millennio fecondo e tormentato, che il prossimo sia un millennio in cui in Messico, in America e nel mondo intero si aprano cammini sicuri di fraternità e di pace. Fraternità e pace che in Gesù Cristo possono trovare basi sicure e spaziose vie di progresso. Con la pace di Cristo, auguro ai messicani di avere successo nella ricerca della concordia fra tutti, poiché costituiscono una grande Nazione che li rende fratelli.

4. Sentendomi già prostrato di fronte alla Morenita del Tepeyac, Regina del Messico e Imperatrice d'America, da questo momento affido alla sua materna sollecitudine il destino di questa Nazione e di tutto il Continente. Che il nuovo secolo e il nuovo millennio favoriscano una rinascita generale sotto lo sguardo di Cristo, vita e speranza nostra, che ci offre sempre vie di fraternità e di sana convivenza umana! Che Santa Maria di Guadalupe aiuti il Messico e l'America a camminare uniti lungo questi sentieri sicuri e pieni di luce!

VIAGGIO APOSTOLICO A CITTÀ DEL MESSICO

E A SAINT LOUIS (22-28 GENNAIO 1999)


AI MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO


ACCREDITATO IN MESSICO


18
Residenza Presidenziale di «Los Pinos» (Città del Messico)

Sabato, 23 gennaio 1999

Signor Presidente della Repubblica,

Eccellentissimi Ambasciatori e Capi di Missione,
Illustri Signore e Signori;

1. Sono molto grato al Signor Presidente, Dottor Ernesto Zedillo Ponce de León, per le cortesi parole con cui mi ha introdotto ai Capi di Missione diplomatica accreditati in Messico. Il fatto di presentarli al Papa in questa sua residenza ufficiale di Los Pinos è un gesto deferente che apprezzo molto cordialmente.

Nel quadro di questa visita pastorale, sono molto lieto di incontrarmi con voi che siete responsabili delle relazioni dei vostri rispettivi Stati con il Messico e le rafforzate attraverso il dialogo e la cooperazione, e che al contempo attestate l'importanza di questa Nazione nel mondo. Inoltre rappresentate la comunità internazionale con la quale la Santa Sede mantiene antiche e salde relazioni, che confermano una tradizione secolare che ogni giorno acquista nuovo vigore.

2. Viviamo in un mondo che si presenta complesso e insieme unitario; le diverse comunità che lo compongono si avvicinano sempre più e i sistemi finanziari ed economici dai quali dipende lo sviluppo integrale dell'umanità sono più estesi e rapidi. Questa crescente interdipendenza conduce a nuove fasi di progresso, ma comporta anche il pericolo di limitare seriamente la libertà personale e comunitaria, propria di qualsiasi vita democratica. Per questo è necessario favorire un sistema sociale che permetta a tutti i popoli di partecipare attivamente alla promozione di un progresso integrale; in caso contrario non pochi popoli potrebbero vedersi impossibilitati a raggiungerlo.

Il progresso attuale, che non ha paragoni nel passato, deve permettere a tutti gli esseri umani di vedere garantita la loro dignità e offrire loro una maggiore consapevolezza della grandezza del proprio destino. Tuttavia esso al contempo espone l'uomo - sia quello più potente sia quello socialmente e politicamente più fragile - al pericolo di trasformarsi in un numero o in un mero fattore economico (cfr Centesimus annus
CA 49). In tal caso, l'essere umano potrebbe progressivamente perdere la consapevolezza del suo valore trascendente. È questa consapevolezza - a volte chiara, a volte implicita - a rendere l'uomo diverso da tutti gli altri esseri della natura.

3. La Chiesa, fedele alla missione ricevuta dal suo Fondatore, proclama instancabilmente che la persona umana deve essere al centro di ogni ordine civile e sociale e di qualsiasi sistema di sviluppo tecnico ed economico. La storia umana non può andare contro l'uomo. Ciò equivarrebbe ad andare contro Dio, la cui immagine vivente è l'uomo, anche quando viene deformata dall'errore o dalla prevaricazione.

È questa la convinzione che la Chiesa vuole porre sul tavolo delle Nazioni Unite o nel dialogo amichevole che mantiene con Voi, membri del Corpo Diplomatico, e con le autorità che rappresentate nei diversi luoghi del mondo. Da questi principi si deducono importanti valori morali e civili che i Vescovi d'America riuniti a Roma nel Sinodo del 1997 hanno messo in risalto.

19 4. Fra questi valori si distinguono la conversione delle menti e la solidarietà effettiva fra i diversi gruppi umani come elementi fondamentali per l'attuale vita sociale a livello nazionale e internazionale. La vita internazionale esige come base alcuni valori morali comuni e alcune regole comuni di collaborazione. È indubbio che la Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo, il cui 50° anniversario abbiamo celebrato lo scorso anno, così come altri documenti di valore universale, offrono elementi importanti nella ricerca di questa base morale, comune a tutti i Paesi o, quanto meno, a un gran numero di essi.

Se osserviamo il panorama mondiale, vediamo che esistono alcune situazioni facilmente contestabili. Il potere dei Paesi industrializzati diviene ogni giorno più gravoso rispetto a quelli in via di sviluppo. Nelle relazioni internazionali a volte si dà la priorità all'economia invece che ai valori umani; la libertà e la democrazia risentono del loro indebolimento. D'altro canto, la corsa agli armamenti ci fa vedere che, se in molti casi le armi sono destinate alla difesa, in altri sono strumenti realmente offensivi, usati in nome di ideologie non sempre rispettose della dignità umana. Il fenomeno della corruzione purtroppo ha invaso grandi spazi del tessuto sociale di alcuni popoli, senza che coloro che ne subiscono le conseguenze abbiano sempre la possibilità di esigere giustizia e di chiarire le responsabilità. L'individualismo permea anche la vita internazionale, di modo che i popoli potenti possano esserlo ogni giorno di più e i popoli deboli siano ogni giorno più dipendenti.

5. Di fronte a questo panorama, s'impongono con urgenza un'adeguata conversione delle menti e una solidarietà effettiva, e non solo teorica, fra le persone e i gruppi umani. È ciò che, insieme al Papa, l'Episcopato latinoamericano propone da decenni. È ciò che hanno chiesto i Vescovi del Continente americano nel Sinodo. A tale proposito, sono da segnalare le numerose iniziative di aiuto alle popolazioni del vicino Centroamerica colpite dall'uragano Mitch, alle quali il Messico ha partecipato generosamente insieme ad altre nazioni, dando così prova di un comune sentimento di fraternità e di solidarietà.

L'America è un continente che riunisce popoli grandi e tecnicamente avanzati e altri relativamente piccoli, con indici di sviluppo molto diversi. Anche all'interno di uno stesso Paese, come nel caso del Messico, coesistono situazioni sociali e umane molto diverse, che è necessario affrontare sempre con grande rispetto e giustizia, utilizzando instancabilmente le risorse del dialogo e la concertazione.

L'America costituisce un'unità umana e geografica che va dal Polo Nord al Polo Sud. Sebbene il suo passato affondi le radici in culture ancestrali - come quelle maya, olmeca, azteca o inca - stando a contatto da oltre cinque secoli con il vecchio continente e anche con il cristianesimo, si è trasformata in un'unità di destino, singolare nel mondo. L'America è di per sé uno spazio particolarmente appropriato per promuovere valori comuni capaci di garantire un'efficace conversione delle menti, in particolare di coloro che hanno responsabilità nazionali e internazionali.

6. Questo Continente potrebbe essere il «Continente della Speranza» se le comunità umane che lo compongono, così come le loro classi dirigenti, assumessero una base etica comune. La Chiesa cattolica e le altre grandi confessioni religiose presenti in America possono apportare a questa etica comune elementi specifici che permettano alle coscienze di non vedersi limitate da idee sorte da meri consensi circostanziali. L'America e l'umanità intera hanno bisogno di punti di riferimento essenziali per tutti i cittadini e i responsabili politici. «Non uccidere», «non dire falsa testimonianza» «non rubare e non desiderare la roba d'altri» «rispettare la dignità fondamentale della persona umana» nelle sue dimensioni fisiche e morali sono principi intangibili, sanciti nel Decalogo comune a ebrei, cristiani e musulmani, e vicini alle norme di altre grandi religioni. Si tratta di principi che obbligano sia la singola persona umana sia le diverse società.

Questi principi ed altri simili devono costituire un argine contro ogni attentato alla vita, dal suo inizio fino al suo termine naturale; contro le guerre di espansione e l'uso delle armi come strumenti di distruzione; contro la corruzione che erode ampie fasce della società, a volte con dimensioni transnazionali, contro l'indebita invasione della sfera privata da parte di poteri che approvano sterilizzazioni forzate o leggi che limitano il diritto alla vita; contro campagne pubblicitarie fallaci che condizionano la verità e determinano lo stile di vita di interi popoli; contro monopoli che cercano di annullare sane iniziative e di limitare la crescita di intere società; contro la diffusione dell'uso di droghe che minano la forza dei giovani e possono persino ucciderli.

7. Molto è stato fatto in tal senso. Abbondano le convenzioni internazionali che hanno come fine quello di porre un limite ad alcuni di questi abusi. Gruppi di nazioni si associano per creare spazi economici dove la vita politica, economica e sociale sia debitamente orientata e meglio tutelata da principi più giusti e conformi ai diritti di ogni cittadino, di ogni popolo e di ogni cultura.

Vi è però ancora molto da fare. Siamo alla fine di un secolo e di un millennio che, nonostante le grandi conquiste ottenute dalla scienza e dalla tecnica, lasciano dietro di loro evidenti cicatrici che ricordano, in modo a volte tragico, la scarsa attenzione prestata ai suddetti principi morali. Invece di vederli ulteriormente violati, è necessario che nel nuovo secolo e nel nuovo millennio la loro forza etica, moralmente vincolante, si consolidi.

8. A rendervi partecipi di queste considerazioni non mi ha spinto altro interesse che quello di difendere la dignità dell'uomo, e nessun'altra autorità oltre a quella della Parola divina. Questa Parola non è mia, bensì di Dio che si è fatto uomo affinché l'uomo divenisse suo figlio. Estraneo agli interessi di parte, vi offro oggi queste riflessioni con la speranza che possano aiutarvi nel vostro lavoro diplomatico e anche nella vostra vita personale, desiderosi di contribuire all'edificazione di un mondo più umano e più giusto di quello che ci offrono il secolo e il millennio che stanno per concludersi.

Che nel prossimo futuro predomini il rispetto della vita, della verità, della dignità di ogni essere umano! È questo il compito urgente che ci attende. Che Dio benedica l'opera che Voi portate a termine! Che benedica il Messico e i Paesi che Voi rappresentate in questa Città privilegiata dove l'America e il mondo s'incontrano e dialogano! Grazie per la vostra attenzione.

VIAGGIO APOSTOLICO A CITTÀ DEL MESSICO

E A SAINT LOUIS (22-28 GENNAIO 1999)

MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II

AGLI AMMALATI


20
Ospedale regionale «A. López Mateos» (Città del Messico)

Domenica, 24 gennaio 1999

Cari fratelli e care sorelle:


1. Come in altri viaggi pastorali in tutto il mondo, anche in questa mia quarta visita in Messico ho voluto condividere con Voi, cari malati ricoverati in questo Centro che porta il nome del «Lic. Adolfo López Mateos» - e tramite voi con tutti gli altri malati del Paese - alcuni momenti nella preghiera e nella speranza. Desidero assicurarvi il mio affetto e, allo stesso tempo, mi associo alla vostra preghiera e a quella dei vostri cari chiedendo a Dio, per intercessione della Santissima Vergine di Guadalupe, l'opportuna salute del corpo e dell'anima, la completa identificazione delle vostre sofferenze con quelle di Cristo alla ricerca dei motivi che, fondati sulla fede, ci aiutano a comprendere il significato del dolore umano.

Mi sento molto vicino a tutti coloro che soffrono, così come ai medici e al resto del personale sanitario che con abnegazione prestano servizio ai malati. Vorrei che la mia voce oltrepassasse queste mura per portare a tutti i malati e agli operatori sanitari la voce di Cristo, e offrire così una parola di conforto nella malattia e di sprone nella missione assistenziale, ricordando in modo particolare il valore che il dolore possiede nel quadro dell'opera redentrice del Salvatore.

Stare con voi, servirvi con amore e competenza, non è soltanto un'opera umanitaria e sociale, ma anche e soprattutto un'attività eminentemente evangelica, poiché Cristo stesso ci invita ad imitare il buon samaritano, che quando incontrò sulla sua strada un uomo che soffriva non «passò oltre», ma «n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite [. . .] e si prese cura di lui» (
Lc 10,32-34). Numerose sono le pagine del Vangelo che ci descrivono l'incontro di Gesù con persone afflitte da diverse malattie. Così, san Matteo ci dice che «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si sparse per tutta la Siria a così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva» (4, 23-24). San Pietro, seguendo i passi di Cristo, presso la Porta Bella del tempio, fece camminare uno storpio (cfr Ac 3,2-5) e, quando si diffuse la voce di quanto era accaduto, «portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro» (Ibidem 5, 15-16). Fin dalle sue origini, la Chiesa, mossa dallo Spirito Santo, ha voluto seguire l'esempio di Gesù in tal senso e perciò considera un dovere e un privilegio stare accanto a colui che soffre e coltivare un amore preferenziale per i malati. Per questo, nella Lettera Apostolica Salvifici doloris, ho scritto: «La Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella croce di Cristo, è tenuta a cercare l'incontro con l'uomo in modo particolare sulla via della sua sofferenza. In un tale incontro l'uomo “diventa la via della Chiesa”, ed è, questa, una delle vie più importanti» (n. 3).

2. L'uomo è chiamato alla gioia e a una vita felice, ma sperimenta quotidianamente molte forme di dolore e la malattia è l'espressione più frequente e più comune della sofferenza umana. Dinanzi a ciò viene spontaneo chiedersi: Perché soffriamo? Per che cosa soffriamo? Ha un significato che le persone soffrano? Può essere positiva l'esperienza del dolore fisico o morale? Senza dubbio, ognuno di noi si sarà posto, più di una volta, questi interrogativi, dal letto di dolore, durante la convalescenza, prima di sottoporsi a un intervento chirurgico o quando ha visto soffrire una persona cara.

Per i cristiani non sono interrogativi senza risposta. Il dolore è un mistero, molte volte imperscrutabile alla ragione. Fa parte del mistero della persona umana, che si chiarisce solo in Gesù Cristo, che è Colui che svela all'uomo la propria identità. Solo a partire da Lui potremo scoprire il senso di tutto l'umano. La sofferenza - come ho scritto nella Lettera Apostolica Salvifici doloris - «non può essere trasformata e mutata con una grazia dall'esterno, ma dall'interno.[. . .] Non sempre, però, un tale processo interiore si svolge in modo uguale. [. . .] Cristo, infatti, non risponde direttamente e non risponde in astratto a questo interrogativo umano circa il senso della sofferenza. L'uomo ode la sua risposta salvifica man mano che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo. La risposta che giunge mediante tale partecipazione. . . è . . . una chiamata . . : “Seguimi”. . . Vieni! Prendi parte con la tua sofferenza a quest'opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia croce.» (n. 26). Perciò, davanti all'enigma del dolore, noi cristiani possiamo dire con decisione «Signore, sia fatta la tua volontà» e ripetere con Gesù: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!« (Mt 26,39).

3. La grandezza e la dignità dell'uomo consistono nell'essere figlio di Dio e nell'essere chiamato a vivere in intima unione con Cristo. Questa partecipazione alla sua vita comporta la condivisione del dolore. Il più innocente degli uomini - il Dio fattosi uomo - è stato il grande sofferente che si è fatto carico delle nostre mancanze e dei nostri peccati. Quando Egli annuncia ai suoi discepoli che il Figlio dell'Uomo dovrà soffrire molto, essere crocifisso e risorgere il terzo giorno, avverte anche che se qualcuno vuole andare dietro di Lui, deve rinnegare se stesso, prendere la propria croce e seguirLo (cfr seg.). Esiste, quindi, un'intima relazione fra la Croce di Gesù - simbolo del supremo dolore e prezzo della nostra vera libertà - e i nostri dolori, le sofferenze, le afflizioni, le pene e i tormenti che possono gravare sulla nostra anima o mettere radici nel nostro corpo. La sofferenza si trasforma e si sublima quando si è consapevoli della vicinanza e della solidarietà di Dio in quei momenti. È questa la certezza che danno la pace interiore e la gioia spirituale proprie dell'uomo che soffre con generosità e offre il proprio dolore «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1). Colui che soffre con questi sentimenti non è un peso per gli altri, ma contribuisce alla salvezza di tutti con la propria sofferenza.

Così considerati, il dolore, l'infermità e i momenti bui dell'esistenza umana acquistano una dimensione profonda e apportatrice di speranza. Non si è mai soli davanti al mistero della sofferenza: si è con Cristo, che dà senso a tutta la vita: ai momenti di gioia e di pace così come ai momenti di afflizione e di dolore. Con Cristo tutto ha senso, comprese la sofferenza e la morte; senza di Lui, niente può essere spiegato appieno, neanche i legittimi piaceri che Dio ha associato ai diversi momenti dell'esistenza umana.

4. La situazione dei malati nel mondo e nella Chiesa non è, in alcun modo, passiva. A tale proposito, desidero ricordare le parole che i Padri Sinodali rivolsero loro al termine della VII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi: «Contiamo su di voi per insegnare al mondo intero che cos'è l'amore. Faremo tutto il possibile perché troviate il posto al quale avete diritto nella società e nella Chiesa» (Per Concilii semitas ad Populum Dei Nuntius, n. 12). Come ho scritto nella mia Esortazione Apostolica Christifideles laici «A tutti e a ciascuno è rivolto l'appello del Signore: anche i malati sono mandati come operai nella sua vigna. Il peso, che affatica le membra del corpo e scuote la serenità dell'anima, lungi dal distoglierli dal lavorare nella vigna, li chiama a vivere la loro vocazione umana e cristiana ed a partecipare alla crescita del regno di Dio in modalità nuove, anche più preziose [...]molti malati possono diventare portatori della “gioia dello Spirito santo in molte tribolazioni” (1Th 1,6) ed essere testimoni della risurrezione di Gesù» (n. 53). In tal senso, è opportuno tener presente che quanti vivono in una situazione di malattia non sono solo chiamati a unire il proprio dolore alla Passione di Cristo, ma anche a partecipare attivamente all'annuncio del Vangelo, testimoniando, a partire dalla propria esperienza di fede, la forza della vita nuova e la gioia che derivano dall'incontro con il Signore risorto (cfr 2Co 4,10-11 1P 4,13 seg. ).

21 Con queste considerazioni ho voluto suscitare in ognuno di voi quei sentimenti che portano a vivere le prove attuali con un senso soprannaturale, sapendo vedere in esse un'occasione per scoprire Dio in mezzo alle tenebre e agli interrogativi e a immaginare gli ampi orizzonti che si scorgono dall'alto delle nostri croci di ogni giorno.

5. Voglio estendere il mio saluto a tutti i malati del Messico, molti dei quali stanno seguendo questa visita attraverso la radio o la televisione; ai familiari, agli amici e a quanti li aiutano in questi momenti di prova, al personale medico e sanitario che offre il contributo del proprio sapere e delle proprie attenzioni per superarli o, quanto meno, per renderli più sopportabili, alle autorità civili che si preoccupano di far progredire gli ospedali e gli altri centri assistenziali dei diversi Stati e dell'intero Paese. Desidero menzionare in modo particolare le persone consacrate che vivono il proprio carisma religioso nel campo sanitario, così come i sacerdoti e gli altri operatori pastorali che li aiutano a trovare nella fede consolazione e speranza.

Non posso non ringraziare per le preghiere e per i sacrifici che molti di voi offrono per la mia persona e per il mio ministero di Pastore della Chiesa universale.

Nel consegnare questo Messaggio a Mons. José Lizares Estrada, Vescovo ausiliare di Monterrey e Presidente della Commissione Episcopale della Pastorale Sanitaria, vi rinnovo il mio saluto e il mio affetto nel Signore e, per intercessione della Vergine di Guadalupe, che disse al Beato Juan Diego «Non sono io la tua salute?» - manifestandosi così come colei che noi cristiani invochiamo con il titolo di «Salus infirmorum», vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica.


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