GP2 Discorsi 1998 135

135 4. Lo stretto legame che esiste tra Adsum e Adsumus invita a riflettere sui modi concreti in cui esprimere la comunione nei nostri giorni. Come ogni comunità deve fare spazio allo sviluppo del singolo, così all'interno dell'Adsumus anche il non delegabile Adsum ha il proprio diritto e il proprio posto. Nella comunità ci vuole profondo rispetto anche per la vocazione e la missione propria di ciascuno. Nell'ambito di ciò che è comune a tutti, il singolo Vescovo deve aver la possibilità di esprimere se stesso e di esercitare la propria responsabilità pastorale. A prescindere dalle differenze di capacità e di carattere che i singoli Vescovi possiedono, essi sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti "sovrintendenti delle popolazioni" che governano (cfr Lumen gentium LG 27). Questa autorità esercitata personalmente a nome di Cristo, non è tuttavia diretta a dominare, ma si configura ad immagine del buon Pastore che è venuto non per essere servito, ma per servire (cfr Mt 20,28). A ciascun Vescovo è rivolta la parola di San Pietro: "Non spadroneggiate sulle persone a voi affidate, fatevi modelli del gregge" (cfr 1P 5,3).

L'Adsumus, che concede conveniente spazio all'Adsum del singolo, deve manifestarsi anche nello sforzo comune di tutti a rimanere uniti. Altrimenti l’unico magistero di Cristo si sgretola in molte voci singole. In luogo dell'armonia si fa spazio alla confusione rumorosa. Questo non si addice a persone che si trovano insieme nella lunga fila della successione apostolica, la cui origine risale al Signore della Chiesa stessa. L'intima unione di ciascuno con Cristo significa responsabilità reciproca di tutti. Perciò, l'azione episcopale comprende anche l’assistenza reciproca, il sostegno nel servizio pastorale, nello scambio fraterno, nella vita pubblica e, non per ultimo, nella preghiera reciproca. A ciascuno fa bene sapere di non essere solo. Un aiuto valido è rappresentato dalla Conferenza Episcopale, che, come dice il Concilio Vaticano Secondo, deve promuovere "una santa armonia di forze per il bene comune delle Chiese" (Christus Dominus, CD 37) attraverso uno scambio di cognizioni e di esperienze e attraverso la consultazione reciproca tra i Vescovi. Come Pastori dei greggi a voi affidati, vi trovate insieme al cospetto di Dio, legati l'uno all'altro nella comunione collegiale, nella quale ciascuno porta inevitabilmente se stesso. Una valida conferma della concorde guida da parte vostra del popolo di Dio peregrinante in Austria potrebbe aversi, ad esempio, nel prender parte insieme a forme di ritiro o di esercizi spirituali.

5. L'Adsumus del Concilio non era solo preghiera, ma anche un programma. Quando i Vescovi come comunità in preghiera si riunivano in Concilio, si mettevano anche come comunità in dialogo sotto la protezione e l'assistenza dello Spirito Santo. Non stupisce, quindi, che il rapporto di Dio Uno e Trino con l'uomo venga descritto come un dialogo (cfr Gaudium et spes GS 19 Dei Verbum DV 8 Dei Verbum DV 12 Dei Verbum DV 25). Alla luce del mistero della salvezza, la missione della Chiesa si svolge in forma dialogica. In Cristo unico mediatore tra Dio e l'uomo, la Chiesa, suo mistico Corpo, si pone come sacramento universale della salvezza del mondo (Lumen gentium LG 1 Lumen gentium LG 9 Lumen gentium LG 48 Lumen gentium LG 59 Gaudium et spes GS 42 Gaudium et spes GS 45 Ad gentes AGD 15 Sacrosanctum Concilium SC 5 Sacrosanctum Concilium SC 26).

Compito della Chiesa, pertanto, è di svolgere un "dialogo di salvezza" al proprio interno come all'esterno, perché tutti possano scorgere in essa “le imperscrutabili ricchezze di Cristo” (Ep 3,8). Per questo dialogo mi sono impegnato fin dall'inizio del mio pontificato, cercando di contribuirvi con il mio ministero che dura ormai da quasi vent'anni (cfr Redemptor hominis RH 4). A questo proposito, mi piace ricordare il mio predecessore di venerata memoria Papa Paolo VI, il quale ha dedicato la sua prima Enciclica Ecclesiam suam al tema del dialogo sincero, istituendo allo stesso tempo durante il suo pontificato competenti ed efficaci organismi per il dialogo. Ho cercato in questi anni di servirmi di tali organismi per promuovere il dialogo soprattutto in quei settori nei quali esso ha conosciuto maggiori difficoltà (cfr. ultimamente l'Enciclica Ut unum sint UUS 28-29).

Con vivo apprezzamento guardo alle numerose strutture, che in molti ambienti sono venute formandosi per dare forma concreta al dialogo della Chiesa verso l'interno e verso l'esterno e renderlo così fruttuoso. Anche voi, cari Fratelli, nell'ambito della vostra Conferenza episcopale, avete intrapreso una iniziativa volta a stimolare e ad approfondire il dialogo. Con il Dialog für Österreich intendete promuovere il confronto tra le Chiese locali, delle quali siete a capo, e tra gli Ordini e Famiglie religiose, le comunità spirituali, i vari gruppi e movimenti. A questo scopo avete allargato il cerchio dei possibili interlocutori e vi siete rivolti ai Consigli parrocchiali e ai "gruppi apostolici", ad enti e associazioni pubbliche, come pure alle persone singole e alle comunità (cfr Grundtext zum "Dialog für Österreich", p. 3).

6. Con questa iniziativa di dialogo, dalla quale non intendete escludere nessuno, voi non volete soltanto facilitare un modo di rapportarsi oggi in voga o promuovere un metodo neutro per far incontrare tra loro diverse persone. Il raggio delle forme di dialogo è largo. Ci sono scambi amichevoli di pensiero, considerazioni obiettive, dibattiti scientifici oppure processi formativi del consenso sociale. Anche se negli ultimi decenni l'espressione "dialogo" ha subìto qualche malinteso e deformazione, non deve essere per questo screditata. Il dialogo condotto dalla Chiesa, e al quale essa invita, non è mai una pura forma di apertura verso il mondo e neppure una forma di adattamento superficiale. E' inteso, invece, come un parlare e agire sorretto dall'azione di Dio e segnato dalla fede della Chiesa. In questo senso il Dialog für Österreich deve diventare un "dialogo di salvezza". Esso risulterebbe troppo appiattito, qualora si svolgesse secondo una dimensione esclusivamente orizzontale, limitandosi ad uno scambio di punti di vista o solo ad un confronto stimolante. Esso, invece, deve aprirsi ad una dimensione verticale, che lo conduca verso il Salvatore del mondo e il Signore della storia, Colui che ci riconcilia fra noi e con Dio (cfr Enciclica Ut unum sint UUS 35).

7. Un tale dialogo rappresenta una sfida per tutti gli interlocutori, una vera forma di esperienza spirituale. Si tratta di ascoltare l'altro e di aprire se stesso nella testimonianza personale, ma di imparare anche a rischiare lasciando a Dio l'esito del dialogo. Il dialogo, a differenza di un colloquio superficiale, ha come obiettivo la scoperta e il riconoscimento comune della verità. Quante volte voi, Pastori, avete tentato e tuttora tentate pazientemente di condurre sui sentieri della verità i sacerdoti e i laici a voi affidati per mezzo di un dialogo intessuto d'amore. Sapete, per esperienza, che un dialogo felicemente concluso può mettere fine ad un problema oppure ad una controversia che prima era aperta. Allo stesso tempo, però, conoscete a volte anche il fallimento doloroso dei vostri sforzi: invece di portare alla verità e all'intesa, il dialogo non va oltre un discorso senza sostanza che, alla fine, si disinteressa della verità.

Una tale forma non corrisponde al dialogo della salvezza. Questo si colloca sempre per tutti gli interlocutori sotto la luce della parola di Dio. Esso presuppone, pertanto, un minimo di accordo e di unione di base. È la fede viva trasmessa dalla Chiesa universale che rappresenta la base del dialogo per tutte le parti. Colui che abbandona questa base comune toglie ad ogni dialogo nella Chiesa la possibilità di diventare dialogo di salvezza. Perciò è importante sapere se un certo dissenso non sia eventualmente da ricondurre a differenze di fondo. Se questo è il caso, tali differenze devono essere previamente risolte. Se non ci si riesce, il dialogo rischia di appiattirsi nel disimpegno oppure di ridursi a sottigliezze marginali. In ogni modo, nessuno può sinceramente svolgere un ruolo in un processo dialogico, se non è disposto ad esporsi alla verità e a crescere in essa.

L'apertura alla verità significa disposizione alla conversione. Infatti, il dialogo porterà alla verità solo quando venga svolto, oltre che con cognizione di causa, con sincerità e franchezza, con l'accoglienza e l'ascolto della verità e con la volontà di correggere se stessi. Senza la disponibilità a farsi convertire alla verità, ogni dialogo si esaurisce. Scendere a un compromesso sarebbe una beffa. Perciò si deve garantire che il consenso delle parti non sia soltanto finto e neppure conseguito con l'inganno, ma nasca invece dal cuore. In questo contesto a voi, Pastori, tocca il compito del discernimento, grazie al quale "cooperate alla diffusione della verità" (3Jn 8).

8. Il dialogo della salvezza è un impresa spirituale. Approfondisce nella comunità ecclesiale la conoscenza delle ricchezze misteriose della fede. Apre a coloro che si impegnano sinceramente uno spazio di comunicazione nella verità. Gli interlocutori l'esperimentano come uno "scambio di doni" (cfr Lumen gentium LG 13). Se il dialogo si svolge all'interno della comunità in modo convincente, non manca l'effetto verso l'esterno. Il dialogo, quindi, è uno strumento pastorale e serve all'evangelizzazione. Infatti, ad un dialogo autentico non mancherà la forza irradiatrice. Ovviamente, esso dovrà essere svolto con onestà. Per quanto si voglia essere aperti, la professione della fede ecclesiale deve conservare la sua chiarezza e fermezza. Interlocutori con profili netti hanno molta probabilità di farsi capire e di suscitare sincero rispetto, anche se circa una questione particolare il dialogo potrà risultare duro e faticoso e la parte avversa non apparire disposta, almeno per quel momento, ad accettare il punto di vista proposto.

9. E' chiaro, tuttavia, che incoraggiando il dialogo non intendo semplicemente dire che si debba parlare di più. Nel nostro tempo si parla tanto, ma questo non facilita necessariamente la reciproca intesa. Purtroppo, il dialogo può anche fallire. Perciò, vorrei sottolineare in particolare due pericoli che, certo, a voi non sono sconosciuti.

136 Il primo pericolo consiste nella pretesa di avere sempre ragione. E' il caso di interlocutori che non si fanno guidare dall'intenzione di comprendere, ma esigono solo per se stessi tutto lo spazio del dialogo. In questa linea, presto non esiste più uno scambio sincero. La diversità che arricchisce diventa opposizione combattiva in cerca dello scenario per presentare il proprio monologo. Tra gli interlocutori si erge un muro freddo che separa mondi chiusi in se stessi. Alla sincera ricerca comune della verità si sostituiscono pretese, minacce e imposizioni. Questo contrasta con il senso del dialogo di salvezza, che esige nel credente la prontezza a rispondere a chiunque gli domandi ragione della sua speranza nel ricordo dell'ammonimento dell'apostolo Pietro: "Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto (cfr 1P 3,15 s.).

Un altro pericolo consiste nelle interferenze dell'opinione pubblica mentre il dialogo è in svolgimento. La Chiesa del nostro tempo si sforza di diventare sempre di più una "casa di vetro", trasparente e credibile. E questo è bene. Ma come ogni casa possiede stanze particolari, che all'inizio non sono aperte a tutti gli ospiti, così anche per il dialogo all'interno della Chiesa servono stanze per colloqui da svolgere con la dovuta riservatezza. Ciò non ha niente a che vedere con la segretezza, bensì con il rispetto reciproco a vantaggio della questione che è all’esame. La riuscita del dialogo, infatti, è in pericolo se esso si svolge davanti ad un pubblico non abbastanza qualificato o preparato e con l'impiego non sempre imparziale dei mass-media. Un precipitoso o inadeguato coinvolgimento dell'opinione pubblica può disturbare sensibilmente un processo dialogico in sé promettente.

Di fronte a questi pericoli sarà vostra premura di continuare i vostri dialoghi di salvezza con sensibilità comprensiva e profondo rispetto. La Chiesa in Austria deve diventare sempre di più "segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo. Ciò esige che innanzitutto nella Chiesa stessa siano promossi il rispetto, la mutua stima e la concordia, riconoscendo ogni legittima diversità, per stabilire un dialogo sempre più fecondo tra tutti coloro che formano l'unico popolo di Dio, sia che si tratti dei Pastori che degli altri fedeli cristiani. Sono più forti infatti le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono; ci sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità" (Gaudium et spes GS 92).

10. Cari Fratelli nell'Episcopato! Dopo avervi aperto oggi il mio cuore e dopo avervi confidato i miei pensieri e le mie sollecitudini riguardo alla Chiesa nel vostro amato Paese, voglio concludere esortandovi: Fate spazio allo Spirito Santo in voi! Imitiamo la Vergine Maria, la cui intera vita è stata un dialogo di salvezza. Nello Spirito Santo Ella ha concepito il Verbo affinché si facesse carne. Impariamo da Colei che è stata silenziosa fino all'ultimo sotto la croce, quando egli ha dato il Suo Spirito per noi uomini. Rivolgiamo il nostro sguardo a Colei che stava in preghiera insieme agli apostoli, quando essi imploravano la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa nascente. La Vergine Maria non è soltanto colei che intercede per noi; essa è anche il nostro modello di vita nello Spirito Santo, colei da cui imparare come si coopera alla salvezza del mondo. Così diventeremo collaboratori della gioia e della verità. Come la Vergine Maria si è definita "serva del Signore" (Lc 1,38), così anche noi dobbiamo sempre sentirci umili "ministri di Cristo" e fedeli "amministratori dei misteri di Dio" (1Co 4,1).

Vi raccomando: Non abbandonate il dialogo! Vi sarò vicino con la mia preghiera anche in futuro. Che tutti siano una cosa sola, in modo che l'Austria creda! Con questo augurio vi imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.

VIAGGIO APOSTOLICO

DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II

IN AUSTRIA (19-21 GIUGNO 1998)

VISITA DI GIOVANNI PAOLO II

AGLI INFERMI NELL'OSPIZIO


DELLA "CARITAS SOCIALIS"


Domenica, 21 giugno 1998



Agli amati fratelli e sorelle
dell'Ospizio Rennweg della Caritas Socialis
e a tutti coloro che vivono e operano nel mondo della sofferenza e del dolore!

1. Nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, che "si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori" (Is 53,4), vi saluto con grande affetto. Alla mia visita pastorale in Austria sarebbe mancata una sosta importante, se non avessi avuto la possibilità di un incontro con voi, malati e sofferenti. Nel rivolgermi a voi con questo Messaggio, colgo l'occasione per esprimere a tutti coloro che lavorano a tempo pieno o parziale negli ospedali, nelle cliniche, nelle case di riposo e negli ospizi, il mio più vivo apprezzamento per la loro dedizione a questo servizio che richiede tanti sacrifici. La mia presenza e la mia parola siano sostegno per il loro impegno e per la loro testimonianza.

Oggi, giorno in cui mi viene offerta la possibilità di visitare l'Ospizio Caritas Socialis, desidero ribadire che l'incontro con il dolore umano racchiude in sé un lieto annuncio. Il "Vangelo del dolore" (Lettera Apostolica Salvifici doloris, 25), infatti, non è scritto solamente nelle Sacre Scritture, ma viene riscritto giorno per giorno in luoghi come questo.

137 2. Viviamo in una società in cui si cerca di cancellare il dolore, la sofferenza, la malattia, la morte vengono cancellati dalla memoria personale e pubblica, anche se la loro presenza finisce poi per imporsi in tanti modi nella stampa, nella televisione e nelle conferenze. La rimozione della morte si manifesta anche nel fatto che molte persone malate muoiono negli ospedali o in altre strutture, cioè fuori dal loro consueto ambiente.

In realtà, la maggior parte delle persone desidera di poter chiudere gli occhi a casa propria, in mezzo ai familiari e ad amici fedeli, ma tante famiglie non si sentono in grado né psichicamente né fisicamente di soddisfare tale desiderio. Inoltre vi sono molte persone sole, che non hanno nessuno che possa stare loro vicino alla fine del cammino terreno. Pur morendo "sotto" un tetto il loro cuore è rimasto "senza" tetto.

Per venire incontro a queste situazioni negli anni passati varie iniziative ecclesiali, comunali e private sono state intraprese per migliorare sia l'assistenza domiciliare, che quella ospedaliera e medica, come pure per assicurare la cura pastorale dei moribondi e l'aiuto ai familiari. Una di queste iniziative importanti è il "Movimento dell'ospizio", che nella sede della Caritas Socialis in Rennweg ha realizzato un opera esemplare. In essa le Sorelle si sono ispirate al progetto della loro fondatrice Hildegard Burjan, la quale volle essere presente nei punti focali della sofferenza umana come "l'annunciatrice carismatica dell'amore sociale".

Chi può visitare questo ospizio, non torna a casa scoraggiato. Al contrario, si rende conto di non aver compiuto semplicemente una visita, ma di aver vissuto un incontro. Con la loro semplice esistenza le persone malate, sofferenti e moribonde qui presenti invitano il visitatore che le incontra a non nascondere a se stesso la realtà della sofferenza e della morte. Egli viene incoraggiato a rendersi conto dei limiti della propria esistenza e ad affrontarli apertamente. L'ospizio fa capire che morire significa vivere prima della morte, perché anche l'ultima tappa della vita terrestre può essere vissuta consapevolmente e organizzata individualmente. Lungi dall'essere una "casa dei moribondi", questo luogo diventa una soglia della speranza, che conduce oltre la sofferenza e la morte.

3. La maggior parte delle persone malate, dopo aver saputo l'esito degli esami e la diagnosi infausta, vive nella paura del progresso della malattia. Alle sofferenze momentanee si aggiunge la paura dell'ulteriore peggioramento, e così molti perdono il senso della loro vita. Hanno paura di dover affrontare un cammino segnato da dolori insostenibili. Il futuro pieno di angosce peggiora la qualità della vita. Chi ha avuto una lunga vita piena di soddisfazioni forse può attendere la morte con una certa calma e accettare di morire "sazio di giorni" (
Gn 25,8). Ma per la maggiore parte delle persone la morte giunge troppo presto. Tanti nostri contemporanei anche molto anziani si augurano una morte rapida e indolore, altri chiedono un po' di tempo per congedarsi. Ma le paure, gli interrogativi, i dubbi e i desideri sono sempre presenti nell'ultima tappa della vita. Anche i cristiani non vengono risparmiati dalla paura della morte che è l'ultimo nemico, come dice la Sacra Scrittura (cfr. 1Co 15,26 Ap 20,14).

4. La fine della vita pone l'uomo davanti ai grandi interrogativi: Come sarà la mia morte? Sarò solo o potrò avere accanto le persone care? Che cosa mi aspetta dopo la morte? Sarò accolto dalla misericordia divina?

Affrontare queste domande con delicatezza e sensibilità - ecco il compito di quanti operano negli ospedali e ospizi. È importante parlare della sofferenza e della morte in maniera tale da attenuare la paura. Infatti, anche morire fa parte della vita. Nella nostra epoca c'è un urgente bisogno di persone che facciano nuovamente risvegliare questa consapevolezza. Mentre nel Medioevo si conosceva "l'arte di morire", oggi si esita anche tra i cristiani a parlare della morte e a prepararsi per affrontarla adeguatamente. Si preferisce immergersi nel presente cercando di distrarsi con il lavoro, la ricerca dell'affermazione professionale, il divertimento. Ciò nonostante, o forse proprio a causa dell'odierna corsa al consumismo, tra i contemporanei sta aumentando la sete di trascendenza. Anche se i concetti concreti di una vita nell'al di là possono essere molto vaghi, il numero delle persone convinte che oltre la morte la vita continua è vastissimo.

5. La morte nasconde anche al cristiano la visione diretta di ciò che deve venire, ma il credente può fidarsi della parola del Signore: "Io vivo e voi vivrete" (Jn 14,19). Le parole di Gesù e la testimonianza degli Apostoli ci illustrano con un linguaggio suggestivo il nuovo mondo della resurrezione ed esprimono la speranza: "Quindi saremo sempre con il Signore" (1Th 4,17). Per facilitare ai malati terminali e ai moribondi l'accettazione di questo messaggio è necessario che quanti li avvicinano mostrino con la loro stessa condotta di prendere sul serio le parole del Vangelo. La cura e l'assistenza delle persone vicine alla morte fanno parte delle più significative manifestazioni della credibilità ecclesiale. Coloro che nell'ultima tappa della vita si sentono sostenuti da persone sinceramente credenti possono più facilmente confidare che Cristo li attenda veramente nella nuova vita dopo la morte. Il dolore e la sofferenza del presente possono così essere illuminati dal lieto annuncio: "Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!" (1Co 13,13). Perché più forte della morte è l'amore (cfr Ct 8,6).

6. Come la consapevolezza di essere amati fa diminuire la paura della sofferenza, così il rispetto della dignità del malato lo aiuta in questa difficile e gravosa tappa della sua vita a scoprire un tesoro di potenziale maturazione umana e cristiana. In passato, l'uomo sapeva che la sofferenza è parte della vita e l'accettava. Oggi, invece, egli tende piuttosto ad evitare in ogni modo la sofferenza, come dimostrano gli innumerevoli farmaci sedativi in commercio. Pur riconoscendo la funzione utile che in molti casi essi svolgono, occorre però rilevare che la eliminazione prematura della sofferenza può impedire il confronto con essa e la acquisizione, per suo mezzo, di una più grande maturità umana. In questo cammino di crescita è però fondamentale l'accompagnamento da parte di persone esperte in umanità. Per aiutare l'altro in modo concreto ci vuole il rispetto della sua sofferenza specifica, nel riconoscimento della dignità che egli conserva nonostante la devastazione che la malattia a volte porta con sé.

7. Da questa convinzione è scaturita l'Opera dell'Ospizio, la cui azione si ispira a questa finalità: rispettare la dignità degli anziani, malati e moribondi, aiutandoli a comprendere la propria sofferenza come un processo di maturazione e di perfezionamento della propria vita. Così quanto affermavo nell'Enciclica Redemptor hominis, che cioè l'uomo è via della Chiesa (n. 5), trova una sua attuazione nell'Opera dell'Ospizio. L'obiettivo non sono le moderne tecniche della medicina, ma l'uomo nella sua inalienabile dignità.

La disposizione ad accettare i limiti posti dalla nascita e dalla morte, imparando a dire "sì" alla passività crescente del declino non comporta alienazione. E' piuttosto l'assunzione della propria umanità nella sua verità piena con le ricchezze proprie di ogni fase della sua vicenda terrena. Anche nella fragilità dell'ultima ora la vita umana non è mai "senza senso" oppure "inutile". Proprio dai pazienti gravemente malati e moribondi scaturisce una fondamentale lezione per la nostra società tentata dai moderni miti quali il vitalismo, l'efficientismo e il consumismo. Essi ci ricordano che nessuno può determinare il valore o il non valore della vita di un altro uomo e nemmeno della vita propria. Dono di Dio, la vita è un bene di cui solo Lui può formulare il giudizio definitivo.

138 8. In tale prospettiva la scelta dell'uccisione attiva di un essere umano costituisce sempre un arbitrio, anche quando la si vuole presentare come un gesto di solidarietà e di compassione. Il malato attende da chi gli è accanto l'aiuto a vivere fino in fondo la propria vicenda e a concluderla, quando Dio voglia, in modo degno. Sia il prolungamento artificioso della vita umana sia l'accelerazione della morte, pur nascendo da principi diversi, nascondono un medesimo presupposto: la convinzione che la vita e la morte siano realtà affidate alla libera disponibilità umana. E' necessario superare questa falsa visione, ricuperando la nozione di vita come dono da gestire responsabilmente sotto gli occhi di Dio. Scaturisce di qui l'impegno di accompagnamento umano e cristiano dei moribondi, così come ci si sforza di attuarlo nell'Ospizio. Partendo da diverse posizioni, i medici, gli infermieri, i pastori, le suore, i familiari e gli amici si sforzano di rendere i malati e i moribondi capaci di organizzare personalmente l'ultima tappa della loro vita, secondo le possibilità delle loro forze fisiche e psichiche. Ciò costituisce un impegno di grande valore umano e cristiano, orientato a far scoprire Dio come "amante della vita" (Sg 11,26) ed a percepire, al di là del dolore e della morte, il lieto annuncio: "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Jn 10,10).

9. Questo volto di Dio amante della vita e dell'uomo, noi lo incontriamo soprattutto in Gesù di Nazaret. Una delle illustrazioni più suggestive di questo Vangelo è la parabola del Buon Samaritano. Il sofferente al margine della strada suscita la compassione del Samaritano: "Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, poi caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui" (Lc 33 ss.). Alla locanda del Buon Samaritano è legata l'iniziativa cristiana dell'Ospizio. Proprio lungo i sentieri medioevali del pellegrino gli ospizi offrivano ristoro e riposo a coloro che erano in cammino. Per gli affaticati e gli esausti essi rappresentavano pronto soccorso e sollievo, e per i malati e moribondi diventavano luoghi di assistenza fisica e spirituale. Fino ai nostri giorni l'Opera dell'Ospizio conserva questo patrimonio. Come il Buon Samaritano si fermò accanto all'uomo sofferente, così si raccomanda a coloro che accompagnano i moribondi di fermarsi per accogliere i desideri, i bisogni e le sollecitudini dei pazienti. Da questa sensibilità possono scaturire molteplici iniziative spirituali, come l'ascolto della Parola di Dio e la preghiera insieme, ed umane come la conversazione, la presenza silente ma colma di affetto, le mille premure che fanno sentire il calore dell'amore. Come il Buon Samaritano versò olio e vino sulle ferite del sofferente, così anche la Chiesa non deve privare coloro che lo desiderano del sacramento dell'Unzione degli infermi. Offrire con fervore questo segno permanente dell'amore divino fa parte dei doveri della vera cura delle anime. All'assistenza palliativa occorre un elemento spirituale che dia al moribondo la sensazione di un "pallium", cioè di un "mantello" nel quale può rifugiarsi nel momento estremo.

Come la sofferenza dell'uomo ferito suscitò la compassione del Samaritano così l'incontro con il mondo del dolore nell'Ospizio possa far scaturire in tutti coloro che accompagnano un paziente nell'ultima tappa della sua vita i sentimenti caldi e delicati della vera carità cristiana. Solo coloro che sanno piangere possono asciugare le lacrime altrui. Un ruolo speciale in questa casa spetta alle sorelle della Caritas Socialis, alle quali la Fondatrice rivolgeva le seguenti parole: "Nella persona del malato possiamo sempre curare il nostro Salvatore sofferente unendoci a Lui" (Hildegard Burjan, Lettere, 31). Qui risuona il lieto annuncio: "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40).

10. A tutti coloro che si prodigano instancabilmente nel Movimento dell'Ospizio va il mio apprezzamento più sentito. Esso si estende a quanti prestano servizio negli ospedali e nelle case di cura. come pure a coloro che non abbandonano i loro familiari gravemente malati e moribondi. Ringrazio in particolare i malati e moribondi che sono di esempio per noi per farci capire meglio il Vangelo del dolore. Credo in vitam. Credo nella vita. La parola di Cristo ci sostiene quando il nostro cuore si inquieta di fronte all'ultima sfida da affrontare su questa terra: "Non sia turbato il vostro cuore... Nella casa del Padre mio vi sono molti posti" (Jn 14,1 s.).

Vi benedico di tutto cuore.

VIAGGIO APOSTOLICO

DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II

IN AUSTRIA (19-21 GIUGNO 1998)

CERIMONIA DI CONGEDO

Domenica, 21 giugno 1998



Signor Presidente!
Cari Fratelli nell'Episcopato!
Signore e Signori!

1. La mia terza visita pastorale in questa bella terra austriaca sta per finire. È giunta l'ora del congedo. Con commossa gratitudine ripercorro con la memoria i giorni passati in mezzo a voi. Sono venuto come pellegrino nella fede, come collaboratore della vostra gioia e come cooperatore della verità. Gratificato in molti modi e portando con me nell'animo tante belle impressioni, faccio adesso ritorno alla mia sede vescovile di Roma.

2. Il momento del commiato mi offre la possibilità di dire a tutti un sincero: "Grazie! Dio ve ne renda merito". Il mio grazie va innanzitutto a Dio, datore di ogni bene, per i giorni passati con voi, per l'intenso incontro spirituale, per le celebrazioni liturgiche e i momenti di riflessione comune per un nuovo risveglio della Chiesa in Austria.

139 Un ringraziamento particolare rivolgo ai miei amati Fratelli nell'Episcopato che in questi tempi alquanto difficili non cessano di dedicarsi con tutte le loro forze al servizio dell'unità nella verità e nell'amore. L'invito per questa visita pastorale e l'incontro con la Conferenza episcopale, che ho potuto sperimentare nei giorni passati, sono stati per me motivo di consolazione e di incoraggiamento, perché mi confermano che i Vescovi, in comunione tra loro e con il Successore di Pietro, sono fermamente decisi a costruire insieme ai sacerdoti, diaconi, religiosi e fedeli laici il futuro della Chiesa in Austria.

Il mio vivo ringraziamento va anche a Lei, Signor Presidente Federale, e quindi alle Pubbliche Autorità e a tutti gli abitanti, uomini e donne, di questo amato Paese. Anche questa volta mi avete dato ospitalità in modo veramente generoso. Qui non posso fare a meno di menzionare i numerosi volontari che da molte settimane si sono prodigati con grande entusiasmo per garantire a questa visita un andamento senza intralci, lavorando anche più del solito.

A questo punto meritano di essere ricordati con grande riconoscenza coloro che hanno contribuito nel silenzio alla buona riuscita della mia visita: il servizio di ordine e di sicurezza, il servizio del Pronto Soccorso e i numerosi uomini e donne che hanno operato nel nascondimento.

3. Con la mia visita ho voluto manifestare alla Repubblica Austriaca e alla Chiesa di questo Paese la mia stima e il mio apprezzamento, indicando allo stesso tempo alcune prospettive per il cammino futuro. Mentre a Salisburgo ci siamo dedicati al tema missione, a Sankt Pölten abbiamo riflettuto sulla questione delle vocazioni. Nella vostra terra, infine, mi è stato concesso di poter annoverare i nomi di tre servi di Dio nel libro dei Beati. Nel corso della celebrazione suggestiva nella "Heldenplatz" ho potuto constatare ancora una volta che "l'eroismo della Chiesa" è la sua santità.Gli "eroi della Chiesa" non sono necessariamente coloro che hanno scritto pagine significative della storia universale secondo criteri umani, ma donne e uomini che forse davanti agli occhi di molti sono sembrati piccoli; ma che in realtà sono grandi agli occhi di Dio. Nelle file dei potenti li cerchiamo invano, mentre nel Libro della vita i loro nomi restano inscritti con lettere maiuscole.

4. Le biografie dei beati e dei santi sono documenti credibili che anche la gente di oggi può leggere e comprendere. Di fronte all'apertura storica e geografica del vostro paese questa riflessione è di particolare significato. Le fondamenta dell'Austria sono state costruite dai martiri e confessori dell'epoca dell'impero romano in declino. Poi giunsero qui i monaci irlandesi e i missionari scozzesi dell'occidente cristiano. I Santi Cirillo e Metodio, apostoli degli Slavi, estesero la loro opera evangelizzatrice fino alle terre vicine a Vienna. Quindi era opportuno che durante la mia visita nel vostro paese e nel luogo dove il Danubio unisce l'occidente con l'oriente - due mondi che prima erano separati - parlassi anche della futura Europa. Dopo "la rivoluzione di velluto" e dopo il crollo della cortina di ferro, l'Europa ci è stata ridonata.

Questo dono è una sfida ed un impegno. L'Europa ha bisogno di un volto spirituale. Con tutti i programmi politici e i piani economici che occupano al presente i dibattiti non si deve dimenticare che l'Europa è molto obbligata al cristianesimo. Ma anche il cristianesimo ha molti motivi per ringraziare l'Europa. Dall'Europa infatti è stato portato in tante altre parti del mondo. Anche oggi l'Europa non può e non deve dimenticare la sua responsabilità spirituale. Per questo ci vuole il ritorno alle origini cristiane. Ecco la sfida che dovranno affrontare i cristiani della futura Europa.

5. Riassumo tutti i pensieri e i sentimenti che in questo momento occupano il mio animo in un'espressione di ringraziamento che mi viene dal cuore: "Grazie! Dio ve ne renda merito". Con l'augurio a tutti: Che Dio vi benedica.

Le buone intenzioni nella riflessione e programmazione: Dio le benedica!

Le buone parole negli incontri e nei dialoghi: Dio le benedica!

L'impegno per realizzare le idee ed i propositi: Dio lo benedica!

Dio benedica tutto il bene nel vostro Paese. Egli benedica il bene che la Chiesa opera in Austria.

140 Dio benedica voi tutti e ciascuno singolarmente.

"Grazie! Che Dio ve ne renda merito".


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