Discorsi Paolo VI




Giovedì, 22 agosto 1963 - CASA DI CURA «REGINA APOSTOLORUM» DI ALBANO

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«Pax huic domui et omnibus habitantibus in ea». Con questo saluto del S. Vangelo e della Liturgia il Santo Padre inizia la sua conversazione. La pace sia a questa Casa e a quanti vi sono ospitati.

Nessuno contesterà l’odierna preferenza, così ragionevole e legittima, fra le varie visite che vorrebbero essere fatte, nel presente periodo di tempo, poiché questa dimora si distingue sulle altre dalla sofferenza che essa accoglie, e dalle cure quivi prodigate. Perciò il Sommo Pontefice saluta con speciale paterno affetto l’istituzione in questa sede, tanto adeguata; e rivolge, dapprima, il suo pensiero a chi ha il merito d’averla ideata: Don Alberione; quindi alla Superiora delle Figlie di S. Paolo e alla Comunità addetta alla Casa di cura: religiose, senza dubbio, provvide, zelanti e capaci, ben preparate a fronteggiare le molte necessità vere, urgenti, invocanti, del nostro mondo moderno.


DUPLICE OFFERTA

Altro particolare saluto Sua Santità vuol dare a coloro che, nella Casa di cura, esercitano la carità con l’arte medica, e prestano le loro attenzioni, unendo alla scienza la bontà. Visitando ospedali ed ospizi, anche nel periodo della vita pastorale in Milano, è capitato al Papa di incontrare corpi medici e sanitari molto cospicui ed organizzati, e sempre ha provato un sentimento di piena riverenza, stima, rispetto per quelli che appunto nella sollecitudine a vantaggio dei fratelli esplicano la propria attività: si direbbe, anzi, missione. Iddio conceda ogni sostegno per il cristiano ufficio di aiutare chi soffre e di curarlo, sicuramente, con affetto, diligenza e premura, sì da rendere il dolore, su cui il medico si curva, sollevato e benedetto. Il Signore ricompensi con effuse grazie tale generosità.

Ed ecco il saluto alle ospiti, alle religiose che qui vengono ad offrire a Dio una duplice consacrazione: quella permanente, della vita di perfezione; e quella, occasionale, della sofferenza.

Circa la prima è consolante rilevare come un apposito centro sanitario accoglie le religiose inferme, con aperto riconoscimento della loro qualifica. Di solito, allorché le religiose sono costrette al ricovero in altri ambienti, si cerca di celare, o quasi di far dimenticare la loro sublime e spirituale condizione: qui, al contrario, essa viene onorata e tenuta in evidenza. Chi deve soggiornare in questo edificio, trova un’accoglienza, sotto ogni riguardo, affettuosa, perfetta. È chiaro perciò come, in modo singolare, vi siano agevoli le due offerte: della vocazione e del dolore. Entrambi i doni salgono dal cuore delle degenti. Eppure, a prima vista, umanamente parlando, essi sembrerebbero in contrasto. La vocazione, infatti, vuol significare il rendere utile la propria vita, l’impiegarla alle opere di carità, alla preghiera, al servizio dei fratelli, ad un’attività, insomma, intensa, feconda di egregie iniziative. D’altro canto, la seconda offerta, quella della sofferenza, parrebbe ostacolare la prima, richiedendo una forzata e lunga sosta, una penosa inattività.


UTILITÀ DEL DOLORE

La sofferenza adunque, anche in una casa come questa, si rivela nel suo temibile aspetto, sempre dal punto di vista umano, mostrando la sua inutilità, la opposizione da essa posta ai migliori programmi di vita; i limiti a cui astringe desideri, piani, speranze, aspettative. È la mortificazione, è il dolore, che realmente colpisce e vulnera una esistenza che vorrebbe espandersi, affermarsi, esprimersi. Eppure tanta è la saggezza e così profonda la formazione cristiana in chi è soggetto alla grande prova, da comprendere egli appieno questa nuova consacrazione, questa eccezionale offerta, non già inutile, bensì immensamente preziosa.

E qui veniamo - prosegue il Santo Padre - al conforto caratteristico, recato dal linguaggio cristiano a chi soffre: quello, cioè, di svelare che il dolore è tutt’altro che vano. C’è una frase di S. Agostino, tra le più luminose lasciateci dal grande genio: quando esprime commiserazione verso coloro che sono ignari di questa sapienza del Vangelo, della sublimazione, del riscatto del dolore: «Amisistis utilitatem calamitatis; miserrimi facti estis»: avete perduto il senso della utilità del dolore, siete diventati i più miserabili. Se gli uomini perdono davvero la nozione di che cosa valgono la fatica, il dolore, le lacrime, l’angoscia e la morte umana, subiscono grave sconfitta. Questa, in tal modo, può presentare giustificato il pessimismo, col favorire l’onda della disperazione che si proietta nella psicologia dall’interrogativo: a che serve la vita se va a finire così?, a che giova, se è avvelenata da un’insidia, non eliminabile, di patimento e di infermità, nella dissoluzione degli aurei progetti della nostra sognante esistenza? Si sarebbe, dunque, degli sconfitti.

IL MISTERO DELLA REDENZIONE

Non è questo, per fortuna, il cammino delle anime di Dio. Proprio con la luce del Vangelo, la sofferenza riveste un vero e consistente significato: un pensiero, cioè, un disegno, il coordinamento ad un fine, per cui ogni angustia può sempre acquisire un valore: non vi sono, quindi, energie sciupate, non lacrime disperse, non vani sacrifici.

Il dolore! Quanto vasto orizzonte non soltanto di vita spirituale, ascetica e mistica, si prospetta davanti all’uomo che lo valuta con il discernimento cristiano e guarda al Crocifisso - la cui maestosa effigie domina su questo altare - e ne medita l’insegnamento! Quale? Proprio per le vie del dolore, del sacrificio spinto fino alla morte, il mondo è stato salvato, riscattato, redento. È qui il principio d’una fecondità, misteriosa finché si vuole, ma immensa. Anzi il Signore ha posto precisamente in questo mistero, la Redenzione: si tratta d’un mistero di superna salvezza e perciò di sicura rinascita.

Le religiose inferme sono naturalmente portate anch’esse a un prolungato interrogativo circa l’inutilità del soffrire. Quante volte sopravviene il rammarico: essere a carico delle proprie famiglie, di fastidio a tutti; essere inadatte al lavoro consueto, per il quale si intendeva spendere ogni energia. Ebbene - questo l’invito del Padre - ognuna si soffermi a meditare quanto la volontà di Dio richiede, e si offra a Lui «hostiam placentem Deo».

Vario è il comportamento nel dolore. Si può soffrire con la ribellione nel cuore. Chi non crede e non prega, soffre così, anche se tace. Quante volte, passando lungo le corsie degli ospedali, si sente, si vede questo silenzio terrificante! È gente che reprime dentro di sé un senso di disperazione, di rivolta, di dubbio, senza conforto alcuno.

C’è poi una seconda maniera di soffrire, che certamente le religiose usano: è quella della pazienza. Ed anche il semplice discernimento umano può arrivare a questo grado. Ci si adatta: che fare, altrimenti? Meglio prendere le cose con calma. La filosofia stoica ci ha fatto conoscere a quali altezze può arrivare questa rassegnazione, come dire?, fatalistica, abbandonata al . . . destino.



SOFFRIRE CON AMORE E PER AMORE

Ma c’è, infine, un altro modo di accettare il dolore: quello di chi crede in Cristo e lo segue: soffrire con amore e per amore! Non soltanto con pazienza, ma con amore.

È impresa elettissima, questa, che sempre può attuarsi, anche quando non si ha la forza di articolare preghiere, di attendere ad altri pii esercizi. Il cuore, finché vive, è capace di tale atto sovrumano, riassuntivo dell’intera nostra spiritualità: amare! - Signore, io piango, soffro, sto qui inerte, immobile; ma ti amo e soffro per amore, per Te.

Si vede cioè - legge ben conosciuta dagli esperti in discipline morali - che i nostri atti acquistano valore per il pensiero che li accompagna, per gli intenti che li nobilitano. Si può, ad esempio, dare una elemosina per togliersi d’attorno un importuno; come anche per un gesto d’umanità e cortesia. Ma rifulge un motivo immensamente superiore a qualsiasi altro; per amore di Cristo. Così in ogni circostanza: e perciò le religiose inferme accrescono le buone, sante, trasfiguranti, sublimanti intenzioni del loro soffrire, sì da rendere ricco di meriti il tempo della loro tribolazione. Inoltre, questo intervallo di umana inerzia può essere ancor più prezioso e più redditizio di qualsivoglia attivismo. Le giornate della prova sono infatti ricolme di pazienza amorosa e delle intenzioni con cui si arricchisce la umana inoperosità: Signore, io ti offro questo forzato riposo, questa degenza, questa mortificazione di farmi curare da altri per . . .

Stupenda è la litania delle intenzioni, che possono essere proposte ad anime cotanto elette, giacché, è risaputo, una intenzione non esclude l’altra, né può esservi una graduatoria esatta.


MIRABILE GAMMA DI INTENZIONI

Posso soffrire - dirà la religiosa ammalata - per obbedire alla mia regola, per dare buon esempio, per mortificarmi, per assimilarmi a Cristo; e posso anche soffrire - oh mistero ineffabile della Redenzione! - per trascendere la mia stessa spiritualità; posso varcare i confini del mio destino personale e dire: soffro per i poveri peccatori, per le Missioni, la Chiesa, la mia famiglia religiosa, per tanti che mal sopportano il dolore e potrebbero invece comprendere la nobiltà dell’ascesi cristiana.


Per di più le intenzioni possono dare campo - perché no? - a un po’ di fantasia. Vi piace - spiega Sua Santità - pregare per le vostre consorelle? Ma certo: fate benissimo. Per i bambini, le anime innocenti, la buona stampa, per il Concilio? Ecco: il Concilio e l’intero suo svolgimento raccomando in modo particolare. Vi piace pregare per il Papa? Avrete la sua paterna, vivissima gratitudine.

E in questo pensiero, il commiato. Il Santo Padre confida veramente di essere ricordato dalle religiose inferme e da loro aiutato: per il suo Ministero apostolico e per quante sollecitudini gli gravano sulle spalle e interessano la Chiesa Cattolica, in quest’ora grande e forse decisiva, sotto certi aspetti, dei destini del mondo. Le religiose sofferenti, silenziose, oranti, animate dall’amore per Iddio, possono arrecare incalcolabile vantaggio alla Chiesa, con la santificazione dei loro giorni oscuri e dolorosi.


Domenica, 8 settembre 1963: (SANTA MESSA) VISITA A PAVONA

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Rivolgendosi al Signor Cardinale Pizzardo, l’Augusto Pontefice dice che se avesse bisogno di prove della bontà e dello zelo del Porporato basterebbe questa: vedere che lo segue, lo insegue quasi, per la seconda volta nella stessa giornata con la sua presenza e la sua cortesia per incoraggiare i fedeli della sua diocesi alla parola di Dio e all’osservanza della vita cristiana.

Il Santo Padre accoglie con gratitudine tale esempio che lo incoraggia a questi passi un po’ insoliti del ministero pontificale.

Giunto a Pavona, Sua Santità deve ancora ripetere il saluto alle autorità civili presenti, a tutte le altre brave persone che vogliono bene a quella parrocchia e particolarmente ai cari Padri Artigianelli - così li chiamano lassù donde vengono - i quali assistono la parrocchia. A loro, dunque, una benedizione, un ringraziamento, un incoraggiamento e un saluto speciali.


FELICE RISULTATO DI ANTICO E PERSEVERANTE ZELO

I cari fedeli comprendono subito perché il Papa è venuto tra loro: la parrocchia di Pavona ha avuto degli inizi che hanno interessato anche il servizio che il Santo Padre compiva allora presso la Segreteria di Stato.

Dopo la guerra sorgevano le case per dare ricetto alla popolazione, la quale, però, rimaneva lontana, localmente e spiritualmente, dai centri religiosi. L’amico Dott. Emilio Bonomelli, direttore delle Ville Pontificie di Castel Gandolfo, il quale vigilava su tutte quelle vicende, fu il primo ad avvertire le nuove necessità, a far presente che occorreva provvedere per l’assistenza religiosa in quella zona, che fa parte di Castel Gandolfo, ma che era quasi autonoma nelle sue abitudini ed era lontana dalla vita della comunità parrocchiale.

Fu allora che il Cardinale Granito Pignatelli di Belmonte, Vescovo Suburbicario di Albano, si interessò invitando i Padri Artigianelli, che stavano già a Cecchina, ad assumere anche la Parrocchia di Pavona, ed allora che il Santo Padre - a quel tempo Sostituto della Segreteria di Stato - fu interessato a essere interprete della volontà del Papa dapprima, poi di quella del Vescovo che successe al Cardinale Granito, cioè del Cardinale Pizzardo, il quale accolse ed approvò molto volentieri i progetti per aiutare la popolazione di Pavona.

Vennero subito a Pavona le Suore: le Ancelle della Carità, nella Casa che fu comperata da loro qui vicino, e poi vennero anche i Padri, alunni e figli del Servo di Dio, Giovanni Battista Piamarta.



«CERCATE PRIMA IL REGNO DI DIO»

Vennero e non c’era nulla e si comprò il terreno; si fece prima il campo sportivo - a tale proposito il Santo Padre ricorda che tutte le autorità militari di Ciampino furono cortesi nell’aiutare a spianare l’area del campo sportivo - e poi finalmente la chiesa. Ma allora il futuro Pontefice, destinato all’Arcidiocesi di Milano, lasciò Roma e ora, al Suo ritorno, trova la chiesa finita, bella, e soprattutto, ed è questo che fa piacere, piena di gente, piena di cristiani che credono davvero e vogliono essere fedeli alla nuova Parrocchia.

Il Vangelo dice un altro motivo o meglio ancora il motivo per il quale è stata costruita l’assistenza parrocchiale; lo dice una parola del Signore: cercate prima di tutto il regno di Dio.

Cosa deve dire il Santo Padre? La stessa cosa che dice il Vangelo: prima di tutto compiere i doveri religiosi. Tutto il resto verrà se ai doveri religiosi si adempirà bene, con coscienza; poiché, se la vita nostra è innestata sulla Provvidenza divina, tutto il resto non manca, ma arricchisce la nostra vita con l’abbondanza di una pioggia; anche le altre questioni: temporali, materiali, civili, sociali trovano facile soluzione se questo primo, fondamentale dovere è compiuto.

Purtroppo siamo invece molto corrivi a dimenticare questo dovere: se non abbiamo le comodità che tutti aspirano ad avere, i doveri religiosi passano prima in seconda linea e poi sono dimenticati. Molti vogliono che sia la Religione ad andare in cerca di essi piuttosto che andare essi in cerca della Religione.

Il Santo Padre vuole ricordare l’esempio dei nostri vecchi: la domenica facevano chilometri e chilometri per andare ad assistere alla Messa, magari ne ascoltavano pure una seconda; si recavano poi alle Funzioni pomeridiane o alla Dottrina o alle altre azioni di culto.

Invece adesso la gente del mondo nostro sente poco la domenica religiosa.

Ed allora ecco che la Chiesa si prodiga nel rendere facile, più facile che sia possibile, l’adempimento dei doveri religiosi e viene essa incontro ai fedeli, perché molti di essi, altrimenti, non le si accosterebbero.

La carità della Chiesa, carità pastorale, si moltiplica, si prodiga, spiana le vie, elimina gli ostacoli, abbrevia il tempo, proprio per venire incontro a questa nostra pigrizia moderna, che non si interessa un gran che dei doveri religiosi.

E se guardiamo anche più addentro, nello spirito del nostro tempo più che nell’indole della vita moderna e alla maniera con la quale si esprime, vediamo che proprio questa vita moderna stenta assai a ricordarsi di Dio, della preghiera, della Chiesa.


LA CARITÀ PASTORALE DELLA CHIESA

Ed i cari fedeli ne sanno il perché: essi vedono che la gente viaggia la domenica, quando i mezzi di trasporto portano lontano la popolazione; inoltre c’è questo incantesimo della fecondità della terra, della prosperità economica, di questo benessere che nasce dal progresso, dalla tecnica, dall’economia, che quasi quasi insinua a molti la persuasione che si vive bene anche senza il Signore, senza la preghiera, senza andare in chiesa.

E c’è tutta una generazione che si smarrisce, in questa concezione profana, che è assorbita dalla intensità del lavoro materiale, temporale e si domanda a che cosa serve andare in chiesa, pensa che santificando la festa si perde un’ora di tranquillità, si interrompe una giornata, e si domanda a che serve pregare con delle parole difficili che talvolta non si comprendono.

Pertanto il dovere religioso, che è fondamentale nella vita ed è indispensabile perché la nostra esistenza sia cristiana ed umana, è manomesso, è dimenticato.

Ed ecco - il Santo Padre desidera ripeterlo, desidera insistere su questo concetto - ecco perché è stata istituita la parrocchia di Pavona, come tante e tante altre; per una necessità che, proprio in questa crisi della vita religiosa, fa nascere nel cuore della Chiesa una fecondità che non aveva conosciuto da secoli.

Forse, da dopo il Concilio di Trento, la Chiesa non ha costruito tante parrocchie e tante chiese quanto adesso, che ci troviamo in un periodo giudicato di irreligiosità e di insensibilità spirituale.

La Chiesa si prodiga: la parrocchia di Pavona è uno dei segni della carità della Chiesa, della carità spirituale e materiale del Santo Padre Pio XII che oggi deve essere ricordato con venerazione nella Santa Messa. A vantaggio dei fedeli i Vescovi di Albano e i parroci e i sacerdoti si prodigano nella cura spirituale, per rendere possibile, facile l’osservanza dei doveri religiosi e farne comprendere l’importanza, e l’urgenza; per ricordare a tutti che non si può viver bene senza Dio.

Infatti, chi cancella il Signore dalla propria vita, spegne la luce della propria esistenza e mette una tale ombra di timore, di mistero sul destino di questa esistenza da incutere paura.

Quelli che si professano con tanta sicurezza e con tanta incoscienza senza Dio, senza preghiere, senza adesione a questa salute che ci viene largita dal Cielo dovrebbero veramente temere.



LA PARROCCHIA GARANZIA DI SALVEZZA

Il Santo Padre si diffonde poi sui caratteri e sui fini della parrocchia. La Chiesa si avvicina ai fedeli mediante persone consacrate al loro bene; riaccende e riattiva la carità che va in cerca delle anime; apre scuole, asili infantili, campi di giuoco; stende le braccia alla gioventù; insegna ancora al popolo come si prega, come si canta, come si sta insieme, dà a tutti il senso di una famiglia che niuna altra forma sociale può dare.

Infatti, nessuna forma della socialità moderna, pur tanto progredita, può avvicinarsi al concetto di fratellanza, di famiglia, di unità, di fusione delle anime e dei cuori, espresso dalla vita parrocchiale.

La Chiesa lo offre ai fedeli ed il Papa si reca in mezzo ad essi proprio per vedere, con tanta gioia e con tanta soddisfazione, il frutto di così provvida attività.

Una parola ancora il Santo Padre deve dire a quei diletti fedeli: siano grati a quelli che hanno dato loro questa facilità di vita religiosa: alla santa memoria di Pio XII, ai loro Vescovi; ai loro sacerdoti siano riconoscenti di tanta premura; e corrispondano.

In che maniera? Amando la loro parrocchia. Tutti debbono essere davvero stretti attorno a quel punto di convegno, a quel centro che raccoglie tutta la popolazione e la fa divenire un cuore solo e un’anima sola; debbono imparare li a volersi bene tra di loro, perché quella è la casa del popolo, è la casa di tutti.

Le porte delle chiese sono spalancate e a tutti è rivolto l’invito: venite: questa è la casa di Dio; tutti dobbiamo elevare insieme le nostre anime nella preghiera, nell’invocazione al Signore, nel domandare a Lui questa misteriosa comunicazione delle nostre anime che è la salvezza nella grazia sua. Amando la loro parrocchia i fedeli faranno anche grande onore e daranno grande letizia al Santo Padre; soprattutto procureranno alla loro vita il dono più bello: la garanzia migliore per la salvezza.



Domenica, 2 febbraio 1964: CERIMONIA DI OFFERTA DEI CERI

20164 Festività della Presentazione di Nostro Signore Gesù Cristo al Tempio


Accogliamo con compiacenza l’offerta dei Ceri, che Ci è presentata del Clero Romano, dalle Famiglie Religiose dell’Urbe, da altre non poche venerate istituzioni della Nostra Roma pia e fedele; e mentre meditiamo il significato simbolico di questa collettiva oblazione, che Ci riporta alla storia complessa e secolare della festa odierna, ne apprezziamo l’alto valore spirituale, per il riferimento ch’essa ha con la celebrazione del mistero natalizio e con il culto a Maria Santissima, da un lato, per il segno di devozione affettuosa e filiale, dall’altro, ch’essa intende esprimere al Nostro apostolico ufficio, e per quello di augurale illuminazione al mondo delle anime, di cui vuol essere nello stesso tempo figura viva e gentile.

Lasceremo in silenzio svolgersi e prolungarsi nel Nostro cuore questa meditazione, alla quale i riti e le parole della Liturgia della Purificazione della Madonna, della Presentazione di Cristo e della benedizione dei ceri offrono grande abbondanza e singolare bellezza di temi religiosi, per limitare questa Nostra brevissima parola ad un paterno e sincero ringraziamento a quanti hanno voluto onorare l’annuale solennità recando a Noi questi splendidi ceri, meritando certamente a sé, e alle varie corporazioni così rappresentate, le grazie del Signore e la protezione di Maria Santissima, come si meritano e si avranno tosto la Nostra benedizione.

E aggiungeremo un’altra parola per far godere con Noi gli offerenti circa la destinazione, che quest’anno intendiamo dare a questi bellissimi ceri. È infatti legittima la tacita domanda, che Ci sembra poter leggere negli animi vostri: «che cosa ne fa il Papa di tutte queste monumentali candele? dove andranno a finire?». E Ci sembra saggio il proposito, che s’è venuto delineando in questi ultimi anni nella mente del Papa, di assegnare questi ceri, alcuni almeno, a particolari destinazioni, che, mentre accrescono il linguaggio simbolico dei ceri stessi, ne rendono ai destinatari più grata l’accoglienza e più significativo il valore spirituale.

Dunque: conserveremo, innanzi tutto, la destinazione abituale di parecchi di questi ceri ai Capi-Missione del nostro Corpo Diplomatico, i quali durante l’anno sono stati accreditati presso la Santa Sede. Ecco che il lume benedetto acquista già un pregio speciale ed espande, in un cerchio internazionale i suoi raggi pacifici e amichevoli.

Avranno poi la loro parte nella Nostra distribuzione alcuni santuari meritevoli del Nostro devoto e particolare ricordo, e avranno pure la parte loro alcune umili chiese, di cui intendiamo accendere la pietà onorandone la povertà.

Ma quest’anno la destinazione speciale di questi ceri benedetti sarà diretta ai Patriarchi cattolici, per primi, che Noi abbiamo incontrati nel Nostro pellegrinaggio in Terra Santa e alle chiese laggiù visitate; e poi anche ai Patriarchi «ortodossi», che Ci fu dato salutare in quella memorabile occasione; ed estenderemo il Nostro modesto, ma cordiale invio, come messaggio di cortese memoria e come auspicio di cristiana amicizia, alle diverse Comunità cristiane, le quali hanno inviato Osservatori alla seconda Sessione del Concilio ecumenico.

Ed ecco perciò che la distribuzione di questi ceri, sì, acquista significato ecumenico. È, del resto, nell’intenzione precisa della festa. I Greci la chiamano «ipapante» l’incontro; e il personaggio biblico Simeone, che la riempie della sua voce profetica, esclama, levando il fanciullo Gesù, nelle sue vecchie braccia tremanti: «Ecco la luce per illuminare le nazioni»! (
Lc 2,32).

Cristo è davvero la luce della terra, la luce della Chiesa, la luce delle anime. Ed è per dare a Noi stessi, per dare agli altri, a tutti, la gioia di fissare gli sguardi in questo unico lume di salvezza, che, lieti di riceverli dalle vostre mani devote, mandiamo nel mondo questi ceri, perché, dovunque essi siano piamente accolti, risplenda sempre più la luce benigna di Cristo.

Come dice la preghiera dell’odierna liturgia: «ut . . . Spiritus Sancti gratia illuminati atque edocti, Te (Christe) veraciter agnoscamus et fideliter diligamus».



Sabato, 8 febbraio 1964: FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA

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Pontificio Seminario Romano Maggiore


Pax huic domui et omnibus habitantibus in ea!

Vogliamo salutare, varcando le soglie di questa casa, quanti vi sono ospitati, quanti cioè vi esercitano funzioni di direzione, di amministrazione, di insegnamento, di assistenza spirituale, di servizio, e quanti vi sono alunni, Sacerdoti e Seminaristi, della Diocesi di Roma e di altre Diocesi, con la paterna premura di tutti incontrare, di tutti conoscere, di tutti esortare e confortare, di tutti benedire, come chi ha per tutti e per ciascuno un titolo di particolare interesse, un dovere di personale sollecitudine, un desiderio di confidente conversazione. Sì, a tutti il Nostro saluto nel Signore.

Più che altrove qui Ci sentiamo in casa Nostra. Se ogni Vescovo, entrando nel suo Seminario, sente il suo ministero acquistare il suo pieno senso di paternità, e diventare grave il suo senso di pastorale responsabilità, non proverà eguali sentimenti il Papa, quando egli stesso in funzione di Vescovo visita il suo Seminario, e sente il bisogno di subito effondervi la sua affezione, di subito cercare ai suoi pensieri e alle sue cure la più cordiale e pronta rispondenza?

Vi diremo subito che siamo felici d’essere fra voi. Un concerto di pensieri Ci assale, e ciascuno con una nota vivissima: di memoria e di riverenza al Nostro Cardinale Vicario, a cui le condizioni di salute non consentono la presenza fisica, ma di cui sappiamo la appassionata sollecitudine per questo Nostro e suo Seminario; di riconoscenza e di fiducia per i Superiori e per tutti gli Insegnanti di scuola ed i Maestri di spirito; di letizia e di speranza per ciascuno di voi, cari Seminaristi, che contiamo avidamente, come il Pastore conta i capi più preziosi del suo gregge: ecco, vi vorremmo molti, molti di più; ma vi sappiamo già al completo nello spazio ridotto di cui ora questa casa dispone; allora pensiamo che la qualità qui costituisce ricchezza; e potete immaginare la stima che Noi abbiamo di voi, il bene che Noi a voi desideriamo; la sicurezza con cui Noi facciamo calcoli e previsioni sul vostro avvenire, su la vostra futura collaborazione al ministero dei vostri rispettivi Vescovi e al Nostro specialmente, da parte di chi fra voi appartiene alla Nostra diletta Diocesi romana.

E i pensieri incalzano: guardiamo con intenso interesse i lavori in corso del Seminario, e ne auspichiamo con amorosa impazienza il compimento rapido e felice. Guardiamo di qui i bisogni pastorali di questa Roma, diventata troppo rapidamente immensa e variamente popolata; vorremmo da queste soglie benedette del glorioso Seminario Romano levare una voce di affettuosa chiamata a quelle anime giovanili, che non devono pur mancare nel nostro popolo, le quali cercano di dare alla loro vita un’espressione eroica e purissima, generosa e impegnata, austera e vivissima, tutta interiore in un misterioso e quasi tormentoso, ma dolcissimo colloquio con Cristo presente, urgente, e tutta esteriore, protesa in un servizio senza pari agli uomini del nostro tempo; una voce, diciamo, quasi un invito: giovani, venite con noi; amici, venite qua; figli carissimi, è vostra, è per voi questa casa, questa casa di silenzio, di studio, di preghiera e di allenamento ascetico; è il luogo, dove forse il Signore, imperioso e mansueto, vi ha dato appuntamento e vi attende; è la sede, è la fermata, dove la vostra corsa giovanile può prendere riposo e vigore, coscienza del suo cammino e lena per la grande, sublime ascensione al Sacerdozio ineffabile: sentite la divina chiamata? volete? venite?

Ma il Nostro dialogo ora si rivolge non a ipotetici e lontani interlocutori, ma a voi che Ci ascoltate, qui presenti e reali, e che già avete varcato le soglie amiche del Seminario, ed ora volete con Noi celebrare la cara festa della Madonna della fiducia, al cui titolo il Seminario stesso è particolarmente dedicato.

Onoriamo nella sua umile immagine Maria Santissima, e lasciamo che la pia e candida espressione «Mater mea, fiducia mea» circondi, come una aureola di umili raggi, la dolce effigie, mentre ciascuno che la guardi, ciascuno che la veneri pensa in Cuor suo come appropriarsi il significato, il valore, il conforto delle affettuose e ardite parole. Sembra che in esse si risolvano praticamente tante questioni di dottrina mariana; sembra che in esse trovino radice di sincerità e di efficacia tante fronde esuberanti e tanti fiori raffinati della devozione alla Vergine; e sembra infine che quelle poche sillabe contengano un segreto del cuore, per ognuno tutto intimo e particolare. Mater mea, fiducia mea: diventate il motto familiare della pietà fiorente nel Seminario romano, esse esigono di essere fissate al posto giusto nel quadro della devozione alla Madonna Santissima, e in quello più grande della spiritualità e della vita religiosa, che sono proprie della formazione cristiana in genere, e dell’educazione ecclesiastica in ispecie.

Ed è facile il farlo. Pensiamo che sia esercizio sempre ripetuto e sempre edificante per le vostre anime quello di collocare la figura della Madonna, che il piccolo quadro offre nei lineamenti più semplici e più popolari, nel grande disegno teologico che la riguarda. Non dobbiamo mai dimenticare chi è Maria all’occhio di Dio, «termine fisso d’eterno consiglio»; non indarno la liturgia e la speculazione teologica sovrappongono il delicato profilo di Maria al maestro e misterioso disegno dell’eterna Sapienza. Non dobbiamo mai dimenticare chi è Maria nella storia della salvezza: la Madre di Cristo, e perciò la Madre di Dio e, per mirabili rapporti spirituali, la Madre dei credenti e dei redenti, la «ianua caeli». La visione panoramica della teologia accentrata nell’umile «ancilla Domini» non deve mai scomparire dal nostro sguardo spirituale, se vogliamo comprendere qualche cosa di vero, di autentico, di inebriante della creatura privilegiata su cui si apre e si adagia la tra-scendenza divina e prende realtà umana il Verbo di Dio.

Pensiamo poi che sia altrettanto facile e doveroso dare alla devozione alla Madonna la sua genuina espressione cultuale: prima ancora d’invocarla dobbiamo onorarla, la Madonna santissima. La nostra pietà, alunna fedele della tradizione, deve conservare la sua piena espressione oggettiva del culto e dell’imitazione, prima di assumere quella soggettiva dell’implorazione a proprio conforto e vantaggio. Non dobbiamo privare la nostra devozione a Maria di questa prima e, diremmo, disinteressata intenzione di celebrare in Lei i misteri del Signore, di venerare le sue grandezze ed i suoi privilegi, di cantare la sua bellezza, di ammirare la sua bontà, di studiare le sue virtù ed i suoi esempi. Lo sviluppo moderno della pietà mariana deve per noi seguire questa traccia, che la tradizione più antica e autorevole della Chiesa propone alla spiritualità del popolo cristiano.

E così onorando Maria si arriva a scoprire la sua superlativa funzione nell’economia della salvezza, quella d’intercessione specialmente: ed ecco che, auspice principale San Bernardo e, dopo di lui, innumerevoli cultori della pietà mariana, veniamo a scoprire un rapporto personale fra la Madonna e le nostre singole anime; un rapporto, che ciascuna anima può mettere in salutare efficienza e che diventa altrettanto tributo d’onore e d’amore a Maria, quanto fonte di grazie d’ogni genere per l’anima, quando è bene compreso e bene coltivato. Ed è quello, pare a Noi, che questa festa della Madonna, Madre e fiducia, per chi osa felicemente chiamarla «mia Madre, mia fiducia», vuole particolarmente ravvivare.

Vogliamo credere che questa confidenza filiale e personale con Maria, questo breve e caloroso e sempre rinascente dialogo con la Madonna, questo modo di introdurre il suo ricordo, il suo pensiero, la sua immagine, il suo sguardo profondo e materno nella cella della religione personale, della pietà intima e segreta dello spirito, vi sia abituale. Questa vostra festa lo dice. E beati voi. Perché, come pur sapete, la devozione a Maria santissima, portata a questo grado di interiorità, possiede meravigliose virtù: quella certamente di ottenere la protezione della Madonna, la profusione delle sue grazie e della sua assistenza; e poi quella d’una fedeltà ferma e facile ad ogni dovere che porti il sigillo della volontà di Dio e dell’imitazione di Cristo. È perciò questa una devozione d’utilità pedagogica straordinaria: per la singolare fermezza, con cui sostiene la volontà nella scelta del meglio, nella costanza dell’impegno, nella capacità del sacrificio; e nello stesso tempo nella freschezza sentimentale, non più pericolosa ed ambigua, con cui riempie di energie interiori, di «frutti dello spirito» l’anima devota. La devozione diventa fortezza e poesia.

La qual cosa, carissimi figli, Ci sembra assai bella ed importante, proprio per la formazione ecclesiastica, la quale è e dev’essere improntata alla severità, all’austerità, alla rinuncia, di cui ci è nota la implacabile esigenza. Ma non deve mancare la formazione ecclesiastica di quella vivacità spirituale, ch’è propria della grazia, e che non solo è concessa, ma coltivata nel cuore di chi fa del mondo della grazia suo supremo e unico interesse. Ne farete la dolce esperienza, figli carissimi, se appunto darete alla vostra vocazione tutto il vostro cuore, e se al bisogno, per ciò stesso cresciuto ed acuito, di qualche sublime tenerezza, di qualche totale abbandono, di qualche indulgente perdono, di qualche invincibile speranza, darete non scarso, non vano sostegno con l’intima, affettuosa, filiale devozione sacerdotale a Maria santissima: Mater mea et fiducia mea.




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