Discorsi Paolo VI 8364

Domenica, 8 marzo 1964: NEL IV CENTENARIO DEL CONCILIO ECUMENICO DI TRENTO

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Venerabili Fratelli e diletti Figli!

Trento! Dobbiamo salutare presente a questo sacro rito il pellegrinaggio dell’arcidiocesi di Trento: promosso per commemorare anche a Roma, e precisamente in questa Basilica Vaticana, in unione col Papa, il quarto centenario dell’avvenimento che fa celebre nei secoli e nel mondo il nome della nobile alpestre città, sede del grande Concilio ecumenico che appunto da Trento prende il suo nome; e lo salutiamo con paterna letizia sapendolo qua guidato dallo zelante e valente Pastore di quella illustre ed a Noi carissima Chiesa tridentina, accompagnato anche da alte Autorità civili della Regione e della Città, composto da egregi rappresentanti sia del Clero che dei fedeli dei tre gruppi etnici dell’Arcidiocesi stessa, e desideroso di porgere omaggio filiale alla Cattedra di San Pietro e di averne conforto di guida e di benedizione per i giorni presenti e per quelli futuri.

Trento! Tante sono le memorie e le emozioni, che questo nome glorioso e benedetto solleva nel Nostro spirito, che Ce ne dobbiamo, in certo senso, ora difendere, per non esserne piuttosto distratti e sopraffatti, che illuminati ed aiutati a celebrare l’evento a cui dobbiamo questo sacro incontro. Sentiamo quasi aleggiare intorno a Noi l’eco maestosa e profonda dei vostri canti alpini, cari figli delle montagne e delle valli tridentine; si profilano al Nostro sguardo interiore le linee caratteristiche dei vostri immensi paesaggi, vediamo le vostre belle borgate montane con i loro vigilanti campanili; arriva al Nostro ricordo il nome venerato del nostro S. Virgilio, a cui S. Ambrogio, fino a ieri Nostro predecessore, patrono e maestro, fu largo di amicizia e di consiglio; arrivano quelli dei Martiri dell’Anaunia e di San Romedio, e appare nella severa ed elegante sua forma la mole gotico-romanica del vostro bellissimo Duomo, ne vediamo e veneriamo il celebre Crocifisso, mentre silenziosamente, dalle loro tombe, ci vengono incontro personaggi famosi della vostra storia, Cardinali e Vescovi di grande statura, e ci conducono fuori a guardare lontano sullo sfondo la massiccia parete della Paganella, e poi il Castello del Buonconsiglio, che caratterizza il panorama della Città, e più giù, il monumento, pieno di serenità e di dignità, di padre Dante, che tutti invita alla fratellanza nella giustizia.

Ma non questo quadro, dicevamo, adesso Ci deve trattenere e quasi incantare; preferiamo andare in cerca dell’antica Pieve di Santa Maria, e ripensarvi lì riunite e disputanti alcune di quelle congregazioni generali - che poi nel Duomo avranno le loro solenni conclusioni -del grande Concilio di Trento, di quel Concilio del quale voi avete, e Noi stessi, nella persona del Nostro Cardinale Legato il Patriarca di Venezia, abbiamo commemorato l’anniversario della sua felice conclusione. E qui stesso, in questa Basilica, come sapete, il medesimo Cardinale Urbani, ha solennemente e sapientemente rievocato, presenti i Padri del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, la fausta centenaria ricorrenza; così che nulla vi sarebbe da aggiungere a così copiose e significative celebrazioni, se la venuta di cotesto Pellegrinaggio non Ci obbligasse a rinnovarne le gaudiose espressioni e a ricercarne le nuove significative impressioni.

Vi dobbiamo infatti il Nostro ringraziamento ed il Nostro plauso, venerati Fratelli e Figli carissimi, per l’onore, di cui voi circondate la memoria del vostro storico Concilio, per la fedeltà di sentimenti e di costumi, con cui ne prolungate e ne attualizzate la salutare efficacia, e per la felice intenzione, con cui voi collegate spiritualmente la vostra Città a questa Urbe fatidica, il vostro Concilio di Trento a quello che la medesima Chiesa cattolica sta ora celebrando a Roma. Non mai, crediamo, tale collegamento si è fatto più evidente e più vivo.

Meravigliosa visione quella che così voi offrite al Nostro sguardo, la visione della coerenza storica, con cui è tessuta la vita della Chiesa, che da Cristo trae la sua origine e da Pietro la sua successione; l’avvertenza d’un’identica vitalità, che corre nelle vene del Corpo mistico e storico di Cristo, cioè la Chiesa, e che nelle più disparate e remote vicende eguale si manifesta, suggerendo questa meravigliosa osservazione che ci mostra come il corso secolare del tempo, generatore dapprima, divoratore poi dei grandi fenomeni umani, non sappia dare proporzionata ragione del nascere e del vigoreggiare della Chiesa, né riesca a dissolverla nel suo flusso, tremendamente trasformatore e disgregatore, mentre anzi la trovi, ad ogni svolta della storia, non solo sempre la stessa, ma sempre in via di perfezionamento e quasi di ringiovanimento; e ciò non già, di solito, per l’ausilio temporale di eventi propizi o di fattori esteriori, ma per una sua risorgente capacità di trarre da se stessa, come corpo che si risveglia dal sonno, più fresche e vivaci energie.

Fa meraviglia ad alcuni e reca noia e diffidenza che la Chiesa cattolica rimanga sempre la stessa, e non si pieghi né all’usura, né alla moda del tempo; fa meraviglia ad altri ed è motivo di scandalo che la Chiesa cattolica si arricchisca, nella sua lunga meditazione e nella sua fiera difesa del suo primitivo patrimonio dottrinale, di nuovi dogmi e di nuovi ordinamenti, dai quali si vorrebbe alterata e soffocata la sua nativa evangelica semplicità. A noi invece torna di conforto ravvisare nella grande opera del Concilio di Trento, come nella perenne disciplina dottrinale della Chiesa cattolica, ciò che Bossuet diceva, in corrispondenza con un grande pensatore del suo tempo, pur troppo sfavorevolmente prevenuto nei confronti del cattolicesimo: «Bisogna dunque, signore, - scrive il Bossuet -, tener per certo che noi non ammettiamo alcuna nuova rivelazione, e che è la fede espressa dal Concilio di Trento che ogni verità rivelata da Dio è venuta di mano in mano fino a noi; ciò che pure ha dato luogo a quell’espressione, che domina tutto il Concilio, che il dogma ch’esso stabilisce è stato sempre inteso come esso lo espone: «sicut Ecclesia catholica semper intellexit». Secondo questa regola si deve tenere per certo che i Concili ecumenici, quando si pronunciano su qualche verità, non propongono nuovi dogmi, ma non fanno che dichiarare quelli che sono sempre stati creduti, ed esplicarli soltanto in termini più chiari e più precisi» (Oeuvres, Paris, 1846, p. 716, lett. 32, a Leibnitz).

Codesta commemorazione del vostro Concilio e codesta presenza nell’aula del Concilio Vaticano Secondo, o carissimi figli dell’arcidiocesi tridentina, ci fanno ripensare, ci fanno rivivere il fatto stupendo, il mistero della fedeltà della Chiesa cattolica a Cristo suo fondatore e suo maestro; e ci recano un conforto, di cui l’ora presente ha particolare bisogno: quello della sicurezza nell’essenza e nella guida della santa Chiesa; quello della certezza che il suo insegnamento è oggi valido, come ieri e come lo sarà domani; quello della fiducia che l’aderenza alla sua dottrina e alla disciplina non isterilisce il pensiero, non lo sequestra dalla comprensione e dalla acquisizione di quanto la cultura moderna produce e possiede, non lo costringe a ripetersi in espressioni puramente formali, ma gli assicura piuttosto un’intima strutturazione logica e vitale, e gli fornisce temi e ragioni per intrecciare con le correnti intellettuali e spirituali del nostro tempo i più leali e fecondi dialoghi, e lo stimola a riversare in espressioni sempre nuove, perché sempre sincere e vissute, l’inesauribile ricchezza della verità, che la fede ci garantisce nel campo divino e religioso e di riflesso in quello terreno e scientifico.

Conforto formidabile e provvidenziale codesto, che ci fa ricordare l’elogio che il Concilio ecumenico Vaticano primo faceva del Tridentino, aggiungendo all’encomio della sicurezza nell’insegnamento della Chiesa cattolica altri meriti del Tridentino, a cui Ci piace accennare, perché anche a questi, voi, figli ed eredi della tradizione cattolica della vostra Città, date testimonianza. Lasciateci leggere il brano magnifico della Costituzione dogmatica «Dei Filius» del Vaticano primo, brano che Ci sembra da voi degnamente celebrato. Dice quel solenne documento: «La Provvidenza che il Signore dispiega per il bene della sua Chiesa . . . si è manifestata luminosamente nei grandissimi benefici, che il mondo cristiano ha ricavati dalla celebrazione dei Concili ecumenici, e specialmente dal Concilio di Trento, quantunque esso si sia svolto in templi difficili. Grazie a questo Concilio i dogmi santissimi della religione sono stati definiti con maggior precisione e più ampiamente esposti; gli errori sono stati condannati e fermati; la disciplina ecclesiastica è stata restituita e confermata; l’amore della scienza e della pietà è stato promosso nel clero; sono stati istituiti seminari per formare dei giovani alla santa milizia; si sono restaurati i costumi del popolo cristiano, mediante una più accurata istruzione e una maggiore frequenza ai sacramenti. Inoltre i vincoli, che uniscono i membri della Chiesa al loro capo visibile, sono stati riannodati, e un novello vigore è stato infuso a tutto il corpo mistico di Cristo . . .» (Con. Oecum. Decreta, Herder, 1962, p. 780).

Questo elogio che un Concilio fa ad un altro, non è forse riferibile, a vostra lode, anche alla tradizione religiosa e morale di Trento, che veramente può fare suo vanto e suo impegno il motto, onde il suo popolo va fiero: Trento, città cattolica? E vorrebbe essere questo il frutto di codesta centenaria celebrazione: ricordare, conservare, rivivere lo spirito del grande Concilio. Voi, diletti figli, dovete tenere acceso questo spirito, come una fiaccola; come uno dei fuochi che voi accendete di notte sui vostri monti e circondate con le vostre canzoni. Perché lo spirito del Concilio di Trento è la luce religiosa non solo per il lontano secolo decimosesto, ma lo è altresì per il nostro; perché lo spirito del Concilio di Trento riaccende e rianima quello del presente Concilio Vaticano, che a quello si collega e da quello prende le mosse per affrontare i vecchi ed i nuovi problemi rimasti allora insoluti, o insorti nel volgere dei tempi nuovi. E questa derivazione del Concilio, che oggi la Chiesa sta celebrando, da quello commemorato, è più chiara e più viva in una grande e difficile questione, che al Concilio di Trento diede origine, ma che a Trento purtroppo non trovò soluzione: quella della ricomposizione nella medesima fede e nella medesima carità con i cristiani, che la riforma protestante separò da questo centro, da questo cuore dell’unità. La città di Trento era stata scelta per facilitare l’incontro, per fare da ponte, per offrire l’abbraccio della riconciliazione e dell’amicizia. Trento non ebbe questa gioia e questa gloria. Essa dovrà averne, come Noi, come tutto il mondo cattolico, sempre il desiderio. Essa dovrà assurgere a simbolo di questo desiderio, oggi ancora, oggi più che mai, vivo, implorante, paziente, pregante. Essa dovrà con la fermezza della sua fede cattolica non costituire un confine, ma aprire una porta; non chiudere un dialogo, ma tenerlo aperto; non rinfacciare errori, ma ricercare virtù; non attendere chi da quattro secoli non è venuto, ma andarlo fraternamente a cercare. È ciò che il Concilio nuovo, continuando l’antico, con l’aiuto di Dio, vuol fare; ed è ciò che voi, più di ogni altro, nella Chiesa di Dio, dovete capire, e tuttora, come la Provvidenza suggerirà, assecondare.

È in questa visione del passato e del presente, e in questo presagio del futuro che Noi mandiamo alla insigne e diletta Chiesa Tridentina la Nostra benedizione, che a voi qui presenti, perché ne siate a tutta la vostra terra latori, di gran cuore impartiamo.

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(Ai pellegrini di lingua tedesca dell’arcidiocesi di Trento)

Ein herzliches Grußwort gilt sodann den Pilgern deutscher Sprache aus der Erzdiözese Trient.

Ihr seid nach hier gekommen, um dem Nachfolger des heiligen Petrus zu begegnen. Der Herr selbst nannte ihn den Felsenmann. Der Fels bedeutet Fundament und Stärke. Wo aber Petrus, da ist zugleich die Kirche. So wird euer Besuch hier zugleich zu einer Begegnung mit der Kirche, deren Fundament, deren Kraft und Stütze der Fels Petri ist.

Dieser Kirche gehört ihr an. Ihr gehört ihr mit Stolz an und mit tiefer Treue. Ihr trachtet danach, ganz aus eurem Glauben zu leben. Dafür schenkt die Kirche euch übernatürliche Gnaden, die eure Seele bereichern und ihr eure Seele bereichern und ihr tiefinnern Frieden und damit echte Freude bringen.

Aus diesem Reichtum lebten eure Väter und schenkten der Kirche aus der Zahl ihrer Kinder Priester und Ordensleute. Voll Anerkennung gedenken Wir der zahlreichen Missionare, die aus euren Reihen hervorgegangen sind. Bleibt dieser echt katholischen Haltung treu: Jeder von euch ist mitverantwortlich dafür, dass der Kirche immer neue Priester, Ausspender der Gnaden Christi, er stehen und das katholische Volk reich bleibe an Gnade und übernatürlichem Leben. Dies aber ist nur möglich, wenn ihr in Liebe zueinander steht. Der heilige Paulus ruft uns zu: «Bleibet einander nichts schuldig, es sei denn die gegenseitige Liebe. Denn wer den andern liebt, hat das Gesetz erfüllt (Röm 13, 8). Da, wo die Liebe Christi die Menschen beseelt, da dürft ihr, geliebte Söhne und Töchter, gewiss sein, stehen sie einander in Sanftmut und Geduld gegenüber und ertragen einander in Liebe (
Ep 4,2).

Als Unterpfand dessen und als Zeichen Unseres väterlichen Wohlwollens erteilen Wir euch wie euren Lieben von ganzem Herzen den Apostolischen Segen.

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(Saluto agli Uomini Cattolici di Milano e agli altri fedeli)

Sono presenti al sacro rito altri gruppi di Pellegrini e di Fedeli; a tutti porgiamo il Nostro affettuoso saluto, che oggi si esprime in un augurio di sincera ed intima letizia cristiana. Suggerisce questo augurio non solo la fortunata occasione che Ci fa incontrare davanti al Signore tutti voi, carissimi Figli, ma altresì la parola con cui apersi questa Messa della IV Domenica di Quaresima: «Laetare!» Rallegratevi! La Chiesa offre e promette oggi la sua letizia a quanti seguono il suo austero e saliente itinerario spirituale nella Quaresima, quasi a confortare i nostri passi, così facilmente stanchi ed incerti, nella pratica coraggiosa della vita cristiana. Rallegratevi! è questo appunto l’augurio che Noi pure presentiamo a coloro che assistono e partecipano alla celebrazione di questo santo Sacrificio; a tutti auguriamo che possano sperimentare non solo le difficoltà inerenti alla sequela di Cristo, ma la gioia altresì dello spirito, premio fin d’ora e promessa di piena beatitudine, che il Signore concede a chi gli è veramente fedele.

Un saluto particolare Ci è doveroso ai Membri del Consiglio diocesano dell’Unione degli Uomini di Azione Cattolica di Milano, che sappiamo presenti e che sono venuti per riconfermarci la loro devozione e la loro buona volontà, ben note a Noi per le tante prove che essi Ce ne hanno date negli anni del Nostro ministero pastorale nella Arcidiocesi Ambrosiana. Accogliamo volentieri cotesto nuovo attestato di filiale fedeltà e confortiamo con i Nostri voti i loro propositi di sempre intensa e sagace attività per la causa cattolica, pregandoli insieme di portare a tutti i Soci della loro Unione ed ai loro bravi Assistenti l’assicurazione della Nostra sempre memore e viva affezione.

A tutti poi, alla fine della Santa Messa, daremo di cuore la Nostra Benedizione Apostolica.

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VISITA ALLO «STUDIUM URBIS»

Sabato, 14 marzo 1964

Nell’aula d’onore dell’Ateneo

Il Santo Padre risponde all’omaggio del Rettore Magnifico salutando, con il Prof. Papi, i chiarissimi docenti, ed esprimendo la propria gratitudine per l’accoglienza ricevuta.

L’Augusto Pontefice vuole manifestare i sentimenti che allietano il suo cuore, per la visita che - come ha detto l’on. Rettore - è la prima che un Papa compie alla Università di Roma, dopo che la città è divenuta capitale d’Italia. La visita pone in evidenza alcuni aspetti particolari: è il mondo del pensiero, dello studio a incontrarsi con il Papa, che rappresenta il Magistero di Cristo. Ecco la caratteristica dell’avvenimento; in questo domicilio del sapere si incontrano la cultura religiosa e quella umana.

Esprimendo la letizia di essere ospite del glorioso Ateneo, il Santo Padre può veramente dire di trovarsi benissimo, quasi in casa propria, perché è stato, qualche tempo, alunno dell’Università per la quale conserva sincera stima, amicizia e simpatia.

L’Università attuale deriva dall’antico Studium Urbis fondato oltre seicento anni or sono da Bonifacio VIII è quindi sull’asse di una tradizione rettilinea, che porta il nome di Roma.

L’Augusto Pontefice, rivolgendosi quindi ai professori, nota che unico è il suo ed il loro intento, comune lo sforzo nel campo del pensiero, poiché mentre essi cercano la verità, Egli la vive; e, sia pure con strumenti e metodi diversi, si percorre una sola via che deve risolversi in unica consonanza, sì che anche il loro ufficio può considerarsi, in qualche modo, un sacerdozio, poiché i docenti si dedicano alla scienza ed alla educazione delle anime giovanili.

Graditissima, perciò, la visita. Il Papa è venuto per onorare l’Università di Roma che il professor Papi da anni presiede così degnamente; coloro che vi svolgono con tanta competenza il magistero; e per dire ad essi la sua gratitudine e la venerazione che sente per l’alta attività, giacché la loro non è una semplice, per quanto nobile professione, ma una vera missione.

Essi cercano di cogliere le parole segrete che l’universo, per divina disposizione, porta con sé; sono ricercatori e scienziati, e il Papa auspica che il loro numero sia decuplicato e siano tutti arricchiti dei doni dello Spirito Santo affinché la loro parola possa essere ancora più splendida, alata e piena di luce.

Sua Santità vuole infine augurare che il loro cammino sia sempre più glorioso e proficuo, affinché le nuove generazioni fioriscano più belle ed elette, pari alle nuove necessità, per poter dare all’Italia gli uomini di pensiero, di guida, di governo dei quali avrà sempre bisogno.

Ecco pertanto l’auspicio paterno all’Università: vivat, crescat, floreat! con quella sicurezza di pensieri e di propositi aperta all’incontro ineffabile con la luce di Dio, che ci proviene dal di fuori e dall’alto. Possa questa luce risplendere ognora sull’Università, per dare, sorreggere, nutrire la speranza, la sicurezza, la gioia della verità e della vita.

Questo il voto del Papa: con tali intenti Egli dà la Benedizione Apostolica.

Nella chiesa dedicata all’Eterna Sapienza

Ai chiarissimi Professori, ai carissimi Studenti il più cordiale saluto del Santo Padre, lietissimo di trovarsi fra loro. Già alunno dello Studium Urbis, e poi Assistente Ecclesiastico degli Universitari, con tutta la somma di ricordi derivanti da quel ministero, i titoli sono tali da potersi considerare antico collega ed amico. È quindi più agevole scambiare con i giovani d’oggi le molte speranze che nell’Università sorgono e fioriscono, nella comune stima per il domicilio del sapere e di spiritualità. Alla Università di Roma, perciò, uno speciale augurio del Papa, interprete sicuro dei sentimenti degli alunni, maestri, assistenti, affinché il glorioso centro di studi sia sempre più ricco di sapienza, fecondo di opere insigni.

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«EGO SUM LUX MUNDI»

Ma non è tutto. L’antico alunno ed amico viene oggi con nuovi e più responsabili titoli. È il Vescovo, il Pastore, il responsabile, l’incaricato di ogni anima. Il Vescovo, inoltre; che possiede prerogativa unica: di essere il Papa, il Capo visibile della Chiesa, l’erede della misteriosa successione da Pietro sino a noi. È dunque in nome di Cristo che Egli si presenta ai diletti figli, si che ciascuno di loro può dire: ho incontrato Gesù, ed Egli mi parla.

Ecco il Salvatore ripetere, nel brano del Vangelo testé letto: «Ego sum lux mundi»: Io sono la luce del mondo. Giungendo tra i giovani, il Papa ha aperto il mantello della sua alta rappresentanza e la lampada, che reca con Sé, effonde il suo improvviso, incomparabile fulgore sopra l’intera assemblea.

Logico, oltreché mirabile, sarebbe il tema per una istruzione di sapienza e verità: ma il Santo Padre, più che soffermarsi a parlare di questa luce ineffabile, e piuttosto che diffonderla con eloquio manifesto, preferisce cogliere il riverbero che del medesimo splendore illumina le menti e i cuori adunati intorno a Lui.

Sua Santità sente vivissima gioia nel vedere sia i professori che i discepoli, festosi per aver Egli accolto il loro invito, offrirgli un’accoglienza fervente, una adesione completa. È, questo, certamente, uno dei momenti più belli della vita del Papa, e proprio anzi del suo Pontificato. Gli sembra, perciò, di poter cogliere dagli attenti volti degli ascoltatori una triplice risposta al dono di Dio.

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SIATE FORTI, SIATE FEDELI!

La prima, la più cara, è degli studenti adunati nella chiesa. Essi credono, accettano questa luce del Vangelo. Sono studenti cattolici che vogliono davvero compiere la ineffabile simbiosi del sapere religioso col sapere scientifico, della fede con la scienza divina. Intendono godere la sublime esperienza dell’incontro tra la scienza che studia e la fede che accetta. Sono due luci fatte per convergere e dare allo spirito una speranza, una gioia, una certezza che altrove non potranno mai trovarsi. Ebbene, a questi privilegiati, come chiamando ognuno per nome, il Santo Padre dice: siate forti, siate fedeli, vivete in pienezza tanto privilegio e sentite la responsabilità del dono inestimabile, unico, di possedere la fede. Gli altri, perciò, la devono leggere nelle. vostre anime. Specialmente coloro, che non sono ancora partecipi di tale fortuna, hanno il diritto di interrogare vostri cuori: crede egli veramente? vive la sua fede? E voi, dimostrate che questa testimonianza non è sottratta a chiunque voglia scrutarvi e che; di conseguenza, tutti potranno vedere come l’armonioso prodigio di luci convergenti sulla vostra vita sia costante e sempre si rinnovi.

NECESSARIA ONESTÀ NELLA RICERCA DEL VERO

Complesso, però, e multiforme è l’ambiente universitario. Non tutti accolgono la grande luce; alcuni, alla sua presenza, rimangono reticenti, manifestano dubbi o incertezze. Il fenomeno è assai vasto e, si direbbe, tipico della vita universitaria. Si tratta di individui che credono di essere onesti quando dubitano: ritengono, anzi, di aver raggiunta una certa qual aristocrazia spirituale ponendo in forse l’origine, lo sviluppo, i benefici della verità. Per costoro il Papa ha sempre una parola luminosa e benefica. E dapprima: carissimi, non temete, prolungate sino al convincimento la vostra vigilia, ma siate onesti, sempre. Se così sarà, non vi terrete paghi di uno stato di languida pigrizia, ma spingerete il vostro dubbio sino alle estreme conseguenze. I grandi maestri vi aiutano con quanto hanno esperimentato e detto: e, un giorno, anche le vostre esitazioni saranno benedette. «Rampolla a pie’ del dubbio il vero»: la stessa ricerca non è che un dubbio sistematico. Pascal esclama: «Non mi cercheresti, se già non mi avessi trovato». Così la ricerca è già implicita conquista, e la verità conseguita appare di eccezionale valore. Siete nell’attesa, dunque, nella speranza. C’è, forse già al prossimo crocicchio, Uno che vi aspetta. È il Signore: e il suo giorno può essere vicino, imminente.

CRISTO RISPONDE ALL'UOMO E ALLA SOCIETÀ

Né mancano purtroppo - aggiunge Sua Santità - coloro che tengono a mantenere gli occhi chiusi, l’animo diffidente, talvolta ostile, paghi soltanto d’un repertorio di obiezioni, di luoghi comuni, di toni polemici per cui quasi ci si fossilizza in un atteggiamento oppositorio, in un «no» assoluto, ostinato. Anche a questi il Santo Padre, in un momento quanto mai prezioso, intende rivolgere una parola buona, amichevole, confidente.

Egli certo non forzerà, ora, il loro raziocinio chiuso, non pensa affatto di scardinare le porte che gli impediscono di entrare. Si limiterà a bussare all’uscio come il Signore Gesù: «Ecce sto ad ostium, et pulso». E dirà, nel contempo: studia, capisci te stesso; leggi nella tua anima; guarda l’esperienza autentica che il nostro tempo sta vivendo proprio nella negazione dei valori religiosi e delle verità trascendenti; e troverai, in così diffuso tormento, un numero ingente di paurose rovine, a cominciare dalla più ampia e desolata: la disperazione, l’assurdo, l’arido nulla.

E si potrebbe continuare: se anche solo all’umano vuoi pervenire, ti dico che siamo già amici e che ci possiamo incontrare. Per chiunque cerchi di dare all’uomo una fisionomia, la risposta è pronta e completa. C’è il Cristo, Gesù - «Ipse enim sciebat quid esset in homine» - che sempre da se stesso conosce ciò che è nell’uomo e all’uomo dà vera definizione e insuperabile psicologia. Si vuole dare alla vita umana un senso sociale? Ci si troverà di fronte a Cristo, il quale appunto ha portato nel mondo tutti gli elementi per un’intesa e una comunione perfetta fra i redenti.

Le negazioni poggiano dunque su basi fragili, su malintesi od equivoci. Certuni si credono lontani ed hanno dinanzi un orizzonte cosparso di ombre, mentre la luce è vicina; è dietro le spalle. Dal diaframma opposto a tanta luce insorgono i fantasmi della paura, della negazione e sovente pure della cattiveria. «Voltatevi»: questo l’energico invito del Padre: voltatevi e guardate in faccia Colui che andate cercando, forse senza saperlo. Ed ora, anche voi, ricevete il saluto affabile, amoroso, amico del Papa. Egli vorrebbe che non si considerasse il suo magistero come una macina, da porre al collo, col peso di dogmi incomprensibili, ma sì come l’offerta, con la premura paterna e con tutto il candore, dell’intera verità, della luce e della carità del Salvatore. Si richiede, perciò, la cortesia di pensarci su e si noterà come non c’è affatto inganno, o fallimento, o menzogna. «Qui sequitur me, non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitae»: Chi mi segue non camminerà al buio, ma avrà luce di vita.


IL DONO PIÙ ALTO: IL VANGELO

Il discorso potrebbe assumere proporzioni imponenti. Ma esiste una sintesi ineguagliabile: il Vangelo. Ebbene, una degna ed artistica edizione del sacro Testo dei quattro Evangelisti il Santo Padre è lieto di lasciare, come suo dono speciale, alla chiesa della Università, accompagnando questo gesto con tutto il suo pensiero, l’intenso affetto, la più sentita benevolenza. Tutto ciò conforti i diletti giovani ad ulteriori sane conquiste nel sapere, verso l’età e i destini che li aspettano, verso un avvenire sorretto in ogni ora da Dio, e quindi allietato di luce, speranza, benedizione.




Giovedì, 9 aprile 1964: VISITA ALLA CASA DI PENA «REGINA COELI»

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Saluto alle Autorità

Il Santo Padre vuole innanzitutto ringraziare l’Ecc.mo Signor Ministro e le altre Personalità per la deferente e cordiale accoglienza, e per avergli reso possibile l’odierna visita, aprendo le porte di questo Istituto per un affabile contatto tra la sua persona e il suo sacro ministero con quanti dimorano in questa casa.

Ancor più sensibile è la sua gratitudine, tenendo conto che la presenza delle Autorità fa assurgere questo gradito incontro del Papa con i detenuti alla sua piena espressione e al suo alto valore significativo e simbolico: si tratta, cioè, dell’opera del ministero sacerdotale di fronte a un mandato che la società deve compiere in rapporto ad una funzione coercitiva verso coloro che ne sono disgraziatamente l’oggetto. Avvicinare ora queste anime è atto di graditissimo impegno e pregio, e quindi il Papa ringrazia il Ministro ed i suoi collaboratori per aver spianato la strada e reso possibile l’imminente colloquio spirituale.

Tutti sanno che la visita del Successore di Pietro non è polemica, non è contraria alla funzione che qui si esplica e, come ha detto testé il Ministro, è così necessaria, delicata e difficile. Certo è un compito ingrato quello del cittadino che si erige a giudice del suo concittadino, e deve talvolta usare anche la forza per ricondurre l’ordine là dove è stato violato e in chi l’ha violato. Si vorrebbe quasi, infatti, essere esonerati da così increscioso dovere, specie oggi, quando i concetti di umanità, di libertà, di rispetto della persona umana sono, per fortuna, tanto diffusi e benefici. Questo compito di repressione non tocca al Papa: però è riconosciuto anche dal suo Ministero sacerdotale, poiché esso serve e attua la giustizia. S. Paolo dichiara, parlando della superiore potestà promanante da Dio, che «non enim sine causa gladium portat», non può quindi essere trascurato il dovere per la tutela dell’ordine e il rispetto del cittadino. Questa realtà richiama alla mente di tutti la esistenza e la presenza operante di un ordine divino, di una premessa suprema di giustizia. Si tratta di una incombenza provvidenziale; ed è giusto che il Sommo Pontefice la onori, e quindi saluti tutte le Autorità che concorrono ad attuarla.

Dopo aver ricordato al Ministro qualche precedente incontro con lui, avendo avuto modo di apprezzare gli alti suoi sentimenti civili ed umani, il Santo Padre dà vivo riconoscimento a quanti fanno capo alla autorità del Ministro stesso: alla Magistratura, all’Ordine Forense, ai Cappellani delle carceri e ai loro Confratelli tutti d’Italia e del mondo, che attendono con zelo a una mansione tanto preziosa di carità, pietà, ammonimento e consolazione presso tante anime. Il saluto paterno è pure diretto alle altre persone che svolgono la loro opera nelle Case di pena, a cominciare dagli Agenti di Custodia, ai quali è commesso un ufficio di pronta vigilanza e severità, che però sempre deve essere congiunta a grande comprensione, umanità e misura; infine a tutti gli altri che il Santo Padre ricorderà anche, tra poco, durante il Divin Sacrificio.

Intanto il Santo Padre vuole confortare così elevata funzione proprio sulle direttive che sembrano marcate in segni evidenti dall’arte di mantenere l’ordine, di proclamare la giustizia nella società moderna. Quanto è bella! Essa cerca di scoprire l’uomo nei suoi aspetti più complessi; forse alcune volte si attarda; forse talora il nerbo dell’ordine s’indebolisce in questa riflessione: ma è tanto bello questo indirizzo, che va considerando più profondamente l’uomo non soltanto per assicurargli l’ordine esteriore e presidiarlo con la forza e col castigo, ma per scoprire qualche possibilità, qualche aspirazione nascosta che noi concittadini, noi fratelli, noi cristiani dobbiamo incoraggiare e dobbiamo confortare.

La giustizia, il diritto, la giurisprudenza, tutte queste discipline delle Case di pena, se avvolte ed animate da luce superiore, dànno motivo non di indebolire ciò che deve essere giusto e fermo e severo anche, ma di assurgere proprio all’idea, alla legge di Dio, Sommo Bene, per cui si deve a qualunque costo evitare il male, e per cui è resa agevole, facile anche l’applicazione della legge positiva. Ora il pensiero del Sommo Pontefice si effonde nel desiderio che tale legge sia sempre umana, buona, secondo un’alta parola che la Chiesa ci offre nella Sacra Scrittura: «de forti dulcedo», dalla fortezza può nascere la bontà.

L’augurio paterno è quindi che quanti lo ascoltano sappiano applicare questo binomio nella loro missione di amministratori della giustizia, di giudici, di studiosi del diritto e di applicatori della forza perché la giustizia trionfi nella nostra società. Dalla bontà la forza e dalla forza la bontà! L’Augusto Pontefice conclude assicurando che Egli conserverà il più caro ricordo per l’incontro, ed annunciando la Benedizione Apostolica per i presenti e le loro famiglie.

Affettuoso incontro con i detenuti

Signori, io rinnovo anche da questa sede il mio rispettoso saluto ed il ringraziamento per avermi reso possibile la visita a questa casa. E ora, è a voi, figliuoli carissimi, che io voglio parlare un momento, per salutarvi con paterno affetto.

Vorrei che ciascuno di voi si sentisse destinatario di questo mio saluto. Esso non vuol costituire un gesto convenzionale e senza significato. Vuol essere, invece, davvero un incontro, un istante di colloquio e di intimità con ciascuno di voi.


«VI SALUTO E VI RINGRAZIO»

Se mi fosse dato di parlare ad uno ad uno, che cosa direi? Direi appunto, a ciascuno di voi, che sono venuto a salutarvi e a manifestarvi la mia simpatia, il mio affetto; a portarvi la mia benedizione. Inoltre vi ringrazio; poiché le vostre persone mi dicono già la vostra cortesia, e mi parlano di un’accoglienza di cui sono molto riconoscente. Questa vostra presenza, in una congiuntura religiosa inerente al mio Ministero, mi è carissima; e perciò vi sono molto obbligato anche per le parole che uno di voi mi ha poc’anzi indirizzate a nome vostro: parole belle, alte, nobili e anche tanto affettuose. Siate sicuri che io le ricorderò, poiché le accolgo realmente quale espressione sincera dei vostri animi. Non resteranno vane e come lanciate al vento; sono arrivate al mio cuore, e io le custodirò come parole di figli, mentre vi ringrazio anche per averle documentate con i vostri doni, indicibilmente preziosi. Sono i preferiti soprattutto per il loro significato. Fatti dalle vostre mani e presentati da voi, racchiudono un valore singolarissimo.

Voi sentite - prosegue con voce commossa il Santo Padre, e un primo applauso si leva dai circostanti - voi sentite che io faccio fatica a parlare perché mi pare che in questo momento le parole servano poco. Non vorrei nascondere con delle frasi la mia grande pena. Sapete quale è? Che non posso far niente per voi. Voi desiderate la libertà: non tocca a me, non posso io certo concedervela. Voi desiderate l’onore, reintegrare la vostra persona, il vostro nome, la vostra famiglia. Che posso fare io? Cercate il benessere, e molte cose vantaggiose, utili. So che ciascuna delle vostre anime è ricolma di attese e sottoposta ad assillo cocente. Questa è la pena più acuta, il non poter avere ciò a cui si anela. Ed ecco quanto maggiormente mi affligge, poiché non spetta a me il portarvi questi benefici, ardentemente auspicati.


NEL NOME DEL SIGNORE

Né dovete credere che io sia venuto comunque, quasi per abitudine. Vi fece visita alla fine del 1958 - ma voi non c’eravate allora - il mio veneratissimo Predecessore, il Papa Giovanni. È stato il primo dei Papi in questo secolo, vero? Non vorrei che questo mio ritorno desse come l’impressione di avvenimento abituale: perderebbe tanto del suo contenuto, mentre nulla vuol togliere alla bellezza incomparabile di quel primo gesto.

Sapete perché sono venuto? Perché sono mandato. Inviato da chi? Bisogna risalire molto indietro, e troveremo che se Gesù Cristo non avesse detto un giorno a quelli che per primi l’ascoltavano: andate, cercate i poveri, visitate i miseri, per aiutarli e consolarli, andate ai peccatori, portatevi ovunque c’è un dolore da mitigare, io non sarei qui. Non avrei nessun titolo e forse, nella mia pochezza, non sentirei nemmeno il desiderio. E invece! Sono felice di essere qui, mandato da Nostro Signore Gesù Cristo. Questo comando divino, questa spinta che parte dal Vangelo, questa attualità della nostra fede rendono non solo facile e bello, ma doveroso e pieno di gaudio l’incontro con voi.

Voglio anzi spiegarvi perché il Signore che mi guida, mi dà degli occhi, che arrivano sin nell’intimo delle anime, e vedono più profondo di quanto non riescano a fare tutti gli occhi sapienti e analitici della dottrina umana. Mi lascia, direi, vedere in trasparenza i cuori, le esistenze, le vicende. Vedo forse ciò che voi stessi tante volte non riuscite più a distinguere nel vostro intimo. Vedo che siete più retti di quanto apparite, e che ciascuno di voi conserva dentro di sé - sia che gema nel pianto, si risollevi nel pentimento e sospiri silenzioso senza sapersi esprimere, oppure sia soffocato da un senso di collera e di rancore, - un cuore, un cuore umano. Basta questo ad annunciare un tesoro: la sorgente, la capacità di un bene immenso, il ravvicinamento a Dio, la somiglianza con Lui, la speranza in Lui. Prendo in mano - Sua Santità accenna ad efficace similitudine - la candela accesa sull’altare, collocata accanto al, Messale. Se fosse spenta, che cosa sarebbe? Sarebbe un cero, ma senza luce. Qui può scorgersi adeguata analogia del nostro essere. Talvolta siamo dei ceri spenti, con possibilità non attuate, non ardenti. Ebbene io sono venuto per accendere in ciascuno di voi una fiamma, se fosse spenta; per dire a ciascuno che voi, ripeto, avete ancora delle possibilità di bene, grandi, nuove, forse rese anche maggiori e più consistenti dalla vostra stessa sventura, Ad ogni modo, sappiate che io sono venuto perché vi voglio bene, che ho per voi illimitata simpatia. Se mai vi cogliesse la tristezza di pensare: nessuno mi vuol bene, tutti mi guardano con occhi che umiliano e mortificano, la società intera che qui m’ha relegato mi condanna; forse perfino le persone care mi guardano con insistente rimprovero: che cosa hai fatto?, ebbene ricordate che io, venendo qui, vi guardo con profonda comprensione e grande stima.


IN OGNI ANIMA L’IMMAGINE DI CRISTO

Vi voglio bene, non per sentimento romantico, non per moto di compassione umanitaria; ma vi amo davvero perché scopro tuttora in voi l’immagine di Dio, la somiglianza di Cristo, l’uomo ideale che voi ancora siete e potete essere. Scopro dentro di voi questi meriti, che voi forse non sapete nemmeno bene riconoscere. Osservo dentro di voi - faccio fatica; ma ci riesco, sapete! - l’immagine che vado cercando, che è tutto il segreto del mio ministero, della mia autorità, della mia missione e che spero un giorno in paradiso di poter contemplare con questi stessi occhi, ora aperti sopra di voi.

Vado cercando in voi l’immagine di Cristo. E adesso vi dico una cosa, che forse già sapete; ma a riudirla da me non vi può far dispiacere. È un paradosso. Che cosa vuol dire paradosso? Una verità che non sembra vera. Or dunque il Signore Gesù, il Divino Maestro ci ha insegnato che proprio la vostra sventura, la vostra ferita, questa vostra umanità lacerata e manchevole costituisce il titolo perché io venga tra voi, ad amarvi, ad assistervi, a consolarvi e a dirvi che voi siete l’immagine di Cristo, che voi riproducete davanti a me questo Crocifisso, al quale adesso rivolgeremo la nostra preghiera e offriremo il nostro rito sacrificale. Voi mi rappresentate il Signore. Per questo io sono venuto; e, direi, per cadere in ginocchio dinanzi a voi e per dire a ciascuno che siete degni di essere assistiti, amati e salvati; per ricordarvi - non stiamo celebrando la Pasqua? - la legge di Dio. Essa, come il cero acceso, diffonde la sua luce sulla coscienza. Per tale luce si rilevano le debolezze, le miserie, i peccati, le sciagurate deviazioni.

La legge di Dio ci dice che bisogna essere leali e buoni, che non si deve mai violare la giustizia, pur se mancassero i carabinieri e i codici penali. Tutti dobbiamo portare nel cuore questa giustizia, anzi noi dobbiamo crearla con le nostre azioni e con la forza morale. E perché quella medesima legge superi in noi ogni incertezza nell’attuarla, ecco che si integra con un altro miracolo. Quel Signore che ci dà i suoi Comandamenti e ne esige l’osservanza, è l’amico che si accompagna a noi per rincorarci: coraggio, coraggio; son qui a darti una mano, un aiuto; sono con te per renderti possibile ciò che ti comando.


CON GESÙ È AGEVOLE OGNI DURO CAMMINO

La legge umana è scritta e ad ognuno viene intimato: osservatela! La legge cristiana è pure scritta, precisa, chiara, salvatrice: e il Divino Maestro proclama: osservatela, ma con me. È Lui a dare la forza adeguata per poterla attuare. Viene, o carissimi, a infondere vigore dal di dentro: questo è il miracolo: e lo conferma l’esperienza di ogni cristiano, specie quando celebra la sua Pasqua. È dunque Cristo che viene nel nostro essere per ripeterci: vieni; vieni che operiamo insieme; sono il tuo Cireneo; ti sorreggo io, cambio le cose davanti a te. Ciò che tu credevi disonore, può essere la tua salute, ciò che consideravi la rottura della tua vita può essere la ripresa, la stessa dimora in questo Istituto può avviare la tua rinascita. Tutto sta, figliuoli miei, a convertire il cuore. Se noi mutiamo i nostri pensieri e li allineiamo e li compaginiamo con quelli di Cristo, la vita ci offre un altro orizzonte.

Si compie, allora, un vero prodigio. Vi dicevo in principio di non poter far niente per voi. Adesso invece guardate come io sono audace e direi temerario. Io vi dichiaro che da questo vostro osservatorio chiuso, voi potete guardare la vita con occhi nuovi e potrete un giorno affermare: ho cominciato là a essere veramente uomo, a essere veramente cristiano. Ho capito il valore della mia esistenza quando ero come schiacciato da quella sofferenza. Sono stato crocifisso anch’io, ho compreso donde veniva la sorgente della mia salvezza.


UNA INESTINGUIBILE LUCE: LA SPERANZA

Adunque - conclude Sua Santità - eccoci a riassumere tutto in una sola frase: io vorrei immettere nel vostro cuore la capacità di buoni intenti, di pensare, si, ma con serenità e anche con letizia. C’è una parola molto densa e ricca nel linguaggio religioso e cristiano; una parola anche ricorrente nel linguaggio profano, ma che qui assurge davvero a bellezza e forza solare: è la speranza. Abbiatela sempre nel cuore, figliuoli miei. Direi che un solo peccato potete commettere qui: la disperazione. Togliete dalla vostra anima questa catena, questa vera prigionia e lasciate che il vostro cuore, invece, si dilati e ritrovi - anche nella presente costrizione che vi toglie la libertà fisica, esteriore, - i motivi della speranza. Io vi apro i cieli di questa speranza, che sono quelli della vostra restituita dignità, della vostra risollevata umanità, del vostro avvenire, non più chiuso ed oscuro, del vostro dirigervi al destino superiore a cui il Salvatore vi chiama e vi incammina. Imparate in questa dura scuola di «Regina Coeli» a sperare, a sperare nel nome di Cristo.

E lasciate che, mentre guardo voi, carissimi, il mio occhio, la mia anima arrivi a tutte le case di pena del mondo e lanci da qui, dall’altare del Signore, un saluto paterno e questo medesimo invito alla grande speranza cristiana per quanti, come voi, soffrono e sono capaci di ascoltare l’eco di questa mia voce.

È la voce di Cristo, appunto, che invita ad essere buoni, a ricominciare, a riprendere vita, a risorgere; che sollecita, figliuoli miei, a sperare. E così sia.

* * *

Nel medesimo giorno il Santo Padre detta la seguente Preghiera da recitarsi dai detenuti:

Signore!

Mi dicono che io devo pregare.

Ma come posso io pregare che sono tanto infelice? come posso io parlare con Te nelle condizioni in cui mi trovo?

Sono triste, sono sdegnato, alcune volte sono disperato. Avrei voglia di imprecare, piuttosto che di pregare. Soffro profondamente: perché tutti sono contro di me e mi giudicano male; perché sono qui, lontano dai miei, tolto dalle mie occupazioni, senza libertà e senza onore. E senza pace: come posso io pregare, o Signore?

Ora guardo a Te, che fosti in croce. Anche tu, Signore, fosti nel dolore; sì, e quale dolore!

Lo so: Tu eri buono, Tu eri saggio, Tu eri innocente; e Ti hanno calunniato, Ti hanno disonorato, Ti hanno processato, Ti hanno flagellato, Ti hanno crocifisso, Ti hanno ucciso.

Ma perché? dov’è la giustizia?

E Tu sei stato capace di perdonare a chi Ti ha trattato così ingiustamente e così crudelmente? Sei stato capace di pregare per loro? Anzi, mi dicono, che Tu ti sei lasciato ammazzare a quel modo per salvare i Tuoi carnefici, per salvare noi uomini peccatori: anche per salvare me?

Se è così, Signore, è segno che si può essere buoni nel cuore anche quando pesa sulle spalle una condanna dei tribunali degli uomini. Anch’io, Signore, in fondo al mio animo mi sento migliore di quanto gli altri non credano: so anch’io che cosa è la giustizia, che cosa è l’onestà, che cosa è l’onore, che cosa è la bontà.

Davanti a Te mi sorgono dentro questi pensieri: Tu li vedi? vedi che sono disgustato delle mie miserie? vedi che avrei voglia di gridare e di piangere? Tu mi comprendi, o Signore? è questa la mia preghiera?

Sì, questa è la mia preghiera: dal fondo della mia amarezza io innalzo a Te la mia voce; non la respingere. Almeno Tu, che hai patito come me, più di me, per me, almeno Tu, o Signore, ascoltami. Ho tante cose da chiederti!

Dammi, o Signore, la pace del cuore, dammi la coscienza tranquilla; una coscienza nuova, capace di buoni pensieri.

Ebbene, o Signore, a Te lo dico: se ho mancato, perdonami! Tutti abbiamo bisogno di perdono e di misericordia: io Ti prego per me! E poi, Signore, Ti prego per i miei cari, che mi sono ancora tanto cari! Signore, assistili; Signore, consolali; Signore di’ a loro che mi ricordino, che ancora mi vogliano bene! Ho tanto bisogno di sapere che qualcuno ancora pensa a me e mi vuol bene.

Ed anche per questi compagni di sventura e di afflizione, associati in questa casa di pena, Signore, abbi misericordia.

Misericordia di tutti, sì, anche di quelli che ci fanno soffrire; di tutti; siamo tutti uomini di questo mondo infelice. Ma siamo, o Signore, Tue creature, Tuoi simili, Tuoi fratelli, o Cristo; abbi pietà di noi.

Alla nostra povera voce aggiungeremo quella dolce e innocente della Madonna; quella di Maria Santissima, che è la Tua Madre, e che è anche per noi una madre di intercessione e di consolazione.

O Signore, da’ a noi la Tua pace; da’ a noi la speranza.

E così sia.

PAULUS PP. VI




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