Discorsi Paolo VI 21664

Domenica, 21 giugno 1964: PRIMO ANNIVERSARIO DELLA ELEZIONE DI SUA SANTITÀ

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Dobbiamo oggi, fra tutti, salutare il grande Pellegrinaggio della Arcidiocesi di Milano, della Nostra sempre carissima, sempre ricordata Chiesa Ambrosiana.

Siamo lieti e commossi di vederla qui presente, in questo anniversario della Nostra elezione alla Cattedra di S. Pietro, in grande forma: ecco S. E. Mons. Giovanni Colombo, già Rettore dei Seminari milanesi e perciò Nostro grande collaboratore e sostegno nel governo pastorale dell’Arcidiocesi, e Nostro degnissimo successore in quella sede gloriosa e benedetta; eccolo alla testa del Pellegrinaggio, venuto a salutarCi con intenzione e solennità ufficiale; ecco S. E. Mons. Giuseppe Schiavini, Vicario Generale e Vescovo Ausiliare, allora e tuttora; ecco Mons. Guido Augustoni, Presidente del Collegio dei Parroci Urbani con una bella corona di Prevosti e di Parroci e di Sacerdoti; ecco la rappresentanza del Capitolo metropolitano e della veneranda Curia e della Fabbrica del Duomo; ed ecco le Autorità civili, che con tanta deferenza hanno voluto associarsi al Pellegrinaggio per recarci il saluto della Città, rappresentata da S. E. l’on. Avv. Luigi Meda, Vice-Sindaco di Milano, accompagnato da cinque Assessori, da Noi, per il nome che egli porta e per la carica che esercita, tanto apprezzato; e per recarci il saluto della Provincia di Milano, qui presente nella illustre e cara persona del Presidente del Consiglio provinciale Avv. Adrio Casati, con tre Assessori, dalla quale persona tante prove avemmo di rispettosa e affettuosa adesione e alla quale dobbiamo particolare riconoscente ricordo; partecipa altresì a quest’udienza il Dott. Ossola, Sindaco di Varese col Sig. Vice-Sindaco; così un Assessore di quella Amministrazione provinciale; così cospicue rappresentanze dei Seminari diocesani e di quello Lombardo a Roma, dell’Università Cattolica, della valorosa Azione Cattolica, del giornale cattolico «L’Italia», della Caritas Ambrosiana; poi quella cospicua dell’Ospedale Maggiore; e Prevosti e Parroci, e Gruppi Parrocchiali in grande numero.

Cari Milanesi! Tutti cordialmente vi salutiamo e vi ringraziamo di questa visita, tanto religiosa nel suo significato, tanto fedele nei suoi sentimenti, tanto consolante in quanto Ci lascia scorgere del vostro fervore e dei vostri propositi. Voi Ci portate, per rendere ancor più espressivi i vostri sentimenti, una prima pietra da benedire d’una chiesa nuova, che, dedicata ai Santi Giovanni e Paolo, vuol associare al culto di questi Santi la memoria di Papa Giovanni, Nostro compianto e venerato Predecessore e del Papa, che ora vi parla, e che fu per otto anni e mezzo vostro Pastore. Quale prova di bontà e di generosità!, quale nuovo titolo alla Nostra affezione e alla Nostra gratitudine!, e quale stimolo per Noi a ricordarvi tutti, a conservarvi nel Nostro cuore e nella Nostra preghiera!

La vostra presenza, così documentata, ravviva in Noi una domanda, che spesso sorge nel Nostro spirito, e che non Ci stanchiamo di soddisfare con lunghe interiori risposte. La domanda è questa: quali vincoli Ci uniscono ancora a Milano?

Voi comprendete come la domanda stessa dica la Nostra non sopita sensibilità d’un distacco, che Ci colse all’improvviso e che produsse uno strappo fra i più forti che l’esperienza della Nostra vita, piuttosto varia e discontinua, Ci abbia riservati. Quando infatti il 16 giugno dello scorso anno partimmo dall’aeroporto di Milano non Ci parve affatto saluto di commiato, quello che la cortesia di non poche persone ed autorità presenti Ci suggeriva, ma piuttosto di più vivo desiderio di prossimo incontro. Dobbiamo assicurarvi, cari Milanesi, che Noi avevamo fra voi posto le radici di ogni Nostro affetto. Il proposito enunciato al Nostro ingresso nella Arcidiocesi Ambrosiana, solennemente ripetuto all’inizio della Nostra Visita pastorale, e in ogni occasione poi manifestato e confermato, era quello di consacrare a Milano tutti i giorni, tutte le forze, tutti gli interessi e gli affetti della vita che ancora la Provvidenza Ci avesse concesso di chiamare nostri. Come S. Paolo, Ci sembrava di poter dire: «Voi siete nel Nostro cuore per la vita e per la morte» (
2Co 7,3). Perciò la Nostra elezione al Pontificato romano è stata per Noi un distacco molto sentito; e se tante ragioni Ci obbligano a considerare consiglio della divina Provvidenza questa Nostra destinazione al tremendo e sublime ufficio apostolico, e perciò a goderne, sia pure nella confusione e nella oppressione della loro formidabile responsabilità, le misteriose e misericordiose divine intenzioni, ciò non ostante non possiamo non sentirci mancare quanto oramai occupava tutto il Nostro cuore: voi, figli carissimi; voi, venerati fratelli della dilettissima terra ambrosiana!

Ma la domanda, che insiste nel darci coscienza dei legami spirituali, che tuttora Ci tengono a voi uniti, si consola con molte buone risposte, di cui la prima stiamo già esponendo, anzi celebrando; ed è la memoria. Sì, carissimi figli, la memoria Nostra per voi è non meno costante e cordiale della vostra per Noi. Vogliamo Noi profittare di questa occasione per annodare in reciproca promessa di scambievole memoria gli animi nostri? Anche a questo proposito S. Paolo, per quanto Ci riguarda, Ci soccorre con la sua parola: «Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, facendone menzione nelle Nostre preghiere, e non cessando mai di ricordare nel cospetto di Dio e Padre Nostro l’operosa e la costante speranza che voi avete in Gesù Cristo Nostro Signore» (1Th 1,2). Così sarà da parte Nostra, e così sia dalla vostra.

La memoria non è tuttavia il solo vincolo che a voi tuttora Ci tiene legati, anche perché essa, vi dicevamo, si esprime in riconoscenza. Noi Ci sentiamo a voi obbligati da grande riconoscenza, per la bontà con cui ci avete accolto, aiutato, sopportato, incoraggiato. Non è che il Nostro soggiorno fra voi sia stato esente da grandissima pena; la fatica pastorale è di natura sua pazienza, sofferenza, sacrificio; per le Nostre deboli spalle il peso della cura pastorale d’una Diocesi come quella Ambrosiana, per le sue dimensioni, per i suoi problemi sembrava a Noi essere ben grave e sensibile. Ma una volta di più quel peso, che Ci veniva da Cristo, fu, al tempo stesso, soave e leggero, e in gran parte per merito vostro. Ve ne ringraziamo di cuore e sempre ringrazieremo coloro che hanno aiutato l’umile Arcivescovo a portare l’immane sua croce. E perciò abbiamo ricavato da tale esercizio della cura pastorale non solo l’esperienza del cuore milanese e della virtù del Clero e del popolo ambrosiano. ma altresì quella diretta dei problemi religiosi, morali e sociali della vita moderna. Grande esperienza, grande scuola, grande fortuna è stata per Noi la permanenza fra voi; e a questo proposito una sola conclusione Noi qui vi confideremo: essere cioè codesta Chiesa, dove non invano hanno seminato insegnamenti ed esempi i due Santi Vescovi, giganti di sapienza e di santità, Ambrogio e Carlo, particolarmente benedetta e privilegiata, erede d’una tradizione spirituale d’incomparabile valore, tuttora padrona d’un magnifico patrimonio religioso e morale; e questo diciamo non tanto perché di ciò siate fieri e ambiziosi (che del resto è pur dovere esserlo, quando di tanti benefici si riconosce nella bontà di Dio la sorgente e nella sua gloria lo scopo), ma per un duplice altro motivo: che vi sentiate cioè, dapprima, responsabili di così copiosa dovizia di talenti, e li sappiate con zelo conservare e trafficare; e che poi possiate in ciò scorgere una vocazione all’esempio e alla carità verso la regione lombarda, verso la Nazione italiana, verso la Chiesa intera.

Ed ecco allora venire in evidenza altri vincoli che Ci uniscono tuttora, e più che mai, all’Arcidiocesi di Milano; e sono quelli della sua appartenenza alla Chiesa cattolica, che ha a Roma il centro della sua unità. Se prima eravamo per voi Pastore e Maestro per l’ufficio dell’Episcopato, ora lo siamo ancora, a diverso livello e con diverso esercizio, per l’ufficio del sommo Pontificato, il quale Ci obbliga ad amarvi, a servirvi con cuore e con impegno non minore di prima. Qui sarebbe da ricordare la lunga storia dei rapporti ecclesiastici fra Milano e Roma, rapporti che voi, Noi lo sappiamo, conoscete benissimo, e con mirabile fedeltà, a vostro vanto, a Nostra consolazione, voi alimentate ancor oggi; questo incontro ne è prova. La parola di Sant’Ambrogio è diventata legge per voi, la quale mentre consente e promuove l’espressione caratteristica della vostra tradizione rituale, culturale e religiosa, unisce la Chiesa ambrosiana a quella di S. Pietro in una magnifica comunione spirituale e disciplinare: «In omnibus cupio sequi Ecclesiam Romanam, . . . cuius typum in omnibus sequimur et formam»; in ogni cosa io desidero, diceva quel Santo vostro Vescovo, seguire la Chiesa Romana,... noi ne seguiamo sempre il modello e la forma (De Sacram. III, 5). Ed ecco che allora il legame non è unilaterale, a filo semplice, tra il Nostro ministero e la vostra Chiesa, ma è bilaterale, a filo doppio, tra la vostra, Ambrosiana altresì, e questa Chiesa Romana.

E poiché così è, tale legame non è soltanto storico e giuridico, ma vitale di mutua carità.

Ed è con questa carità, Fratelli e Figli carissimi, che Noi vi salutiamo specialmente quest’oggi; e comprendiamo nel Nostro beneaugurante saluto con la comunità diocesana anche quella civile, tutta la terra ambrosiana, tutte le Province che con essa in tutto o in parte coincidono: Milano, Varese, Como, Bergamo, Pavia; e al proferire il nome di queste Città, Capoluoghi di Provincia, altri illustri nomi di Città di cotesto vasto e fiorente territorio vengono alle Nostre labbra: Monza regale, e Lecco, e Rho, e Legnano, e Gallarate, e Busto Arsizio, e Magenta, e Melzo, e Abbiategrasso, e Desio, e Cantù, e Erba, e Treviglio, e Vimercate, e Saronno, e Sesto San Giovanni, e Tradate, ecc., e tant’altre vorremmo citare, come sempre abbiamo nella memoria.

Diremo terminando, ancora con S. Paolo, è giusto per Noi così pensare di tutti voi, perché vi abbiamo nel cuore! (cfr. Ph 1,7). Si, nel cuore; e dal cuore traiamo per voi tutti la Nostra Benedizione.





Domenica, 30 agosto 1964: INCONTRO CON LA DIOCESI DI ALBANO

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Il Santo Padre inizia il suo dire con un affettuoso ringraziamento, saluto ed augurio al Signor Cardinale Pizzardo, Vescovo di Albano; ed è lieto del nuovo incontro con i fedeli della diocesi per riconfermare al Porporato alta stima e considerazione e per auspicare che il Signore ricompensi con le migliori soddisfazioni le tante e così generose fatiche.

Un cordiale benvenuto è diretto al Signor Cardinale Normanno Gilroy, Arcivescovo di Sydney, anch’egli presente all’udienza.

Il saluto del Papa va, poi, al Vescovo Suffraganeo; ai parroci e a tutti i sacerdoti, segnatamente a coloro che con solerzia attendono alla cura delle anime, e al buon andamento del Seminario; ai religiosi, il cui apostolato è aiuto tanto prezioso per il clero diocesano; alle religiose ed alle molteplici istituzioni da esse promosse e dirette; alle fiorenti associazioni di Azione Cattolica ed agli altri sodalizi suscitati dalla fede e dalla carità.

Una menzione apposita per gli insegnanti, i lavoratori, gli immigrati: e, tra tutti, per i giovani, nonché per ogni categoria di fedeli. Inoltre Sua Santità vuole rivolgere speciale saluto alle autorità civili ed amministrative, rappresentate da numerosi sindaci; alle autorità e personalità del mondo politico; a coloro, in una parola, che attendono alla prosperità delle popolazioni.

Dopo il saluto, il ringraziamento: per la presenza, tanto cospicua, dei partecipanti all’incontro; per le accoglienze festose tributate al Papa; per i filiali doni annunciati. Il Padre delle anime è felice di poter assicurare, da parte sua, il continuo interessamento, l’affetto e la preghiera, nell’intento di procurare agli individui e alle famiglie benessere e gioia.


I SEGNI DEI NOSTRI TEMPI

1. - E adesso - prosegue con affabile bontà il Supremo Pastore - alcune brevi osservazioni.

Il Signore una volta ha fatto un rimprovero a quelli che lo ascoltavano, quando ha detto loro: . . . signa autem temporum non potestis scire? (
Mt 16,4): non riuscite a distinguere i segni dei tempi. Che cosa indicano i tempi? che cosa avviene intorno a noi? Anzitutto è da rilevare che l’interrogativo del Divino Maestro ha sempre il suo valore. Se io domandassi anche a voi, ragazzi: che succede intorno a noi? cosa è che ci impressiona di più? qual è il fenomeno più generale, più notevole da noi osservato con i nostri occhi?

La risposta è nei fatti d’ogni giorno. Se per esempio noi andassimo indietro venti anni e ci recassimo a percorrere la diocesi di Albano, sarebbe uguale lo stato di ieri a quello in cui oggi si trova? No: noi osserveremo che c’erano, allora, elementi oggi ritenuti antichi, e tanti particolari che risalgono ai tempi passati. Adesso, invece, numerose innovazioni, ieri impensate, ci colpiscono.


INNOVAZIONI NEI COSTUMI NEI PENSIERI NELLA SOCIETÀ

Si direbbe, quindi, che a novità è il segno più evidente dell’epoca nostra. Novità vuol dire cambiamento; molte, moltissime cose mutano intorno a noi, e continuamente - lo ha detto anche poco fa il Cardinale Pizzarda. Le parrocchie della diocesi di Albano erano diciannove; sono diventate quaranta; gli abitanti novantamila; sono saliti a più di duecentomila.

Faremo un ragionamento semplicissimo.

Andando intorno, si vede che tutto il quadro della nostra vita presente è trasformato: le strade, gli edifici, le scuole, i libri, la stampa . . . Ricordo, nei primi tempi della mia dimora in Roma, di aver visto in queste zone un pastore, uno dei pastori che si incontravano una volta per le colline laziali, intenti a far pascolare il gregge. Mi accorsi che aveva con sé strumenti di lavoro identici a quelli che si trovano scolpiti in monumenti romani di duemila anni or sono. Per duemila anni i medesimi strumenti sono stati adoperati dall’uomo dei greggi: il coltello, il carro, il vincastro, il secchio del latte ecc. Orbene: da trenta, quarant’anni a questa parte, l’intero materiale di uso comune è diverso: basterà accennare ai mezzi di trasporto, agli utensili per la vita domestica, talmente sviluppatisi che, nelle case, oggi quasi non si accende più il fuoco. Né basta: se profonda è la innovazione per la vita materiale, si pensi alle idee, alle correnti spirituali, ai movimenti di cultura, alle nuove esigenze, agli sviluppi della scienza, della tecnica. Anche in questo ambito si rimane meravigliati per l’incessante novità.

Né mutano solo le cose, ma pure i costumi, i pensieri, la società. Ed ecco una domanda: con questi cambiamenti si va verso il meglio o no? Di certo verso il meglio. Si sta meglio adesso o una volta? Possiamo affermare, ringraziando la Provvidenza e quelli che hanno il merito di assecondarla: le condizioni generali sono indubbiamente migliori per una prosperità materiale, giustamente definita «di servizi». Ma, è tutto bene questo? La vita dell’uomo è più degna di quanto non lo fosse una volta? Erano più contenti gli uomini di ieri, o lo sono maggiormente quelli di oggi? I giovani ritengono senz’altro di sì; altri, invece, tornano alle frasi consuete per esaltare il passato, per dire: tempi felici, gli antichi!


AGIRE NEL MONDO CONTEMPORANEO

2. - Diamo una sintesi della realtà. Ci sono alcune novità, all’esterno, che, senza dubbio, sono buone e utili all’uomo. Ma altre pure incombono, disordinatamente, sulla vita e la mettono in pericolo, nell’incertezza, non di rado nell’angoscia. Una volta i nostri vecchi sapevano perché vivevano. Quanti, adesso, sanno rispondere alla domanda: perché siamo in questo mondo? Non pochi rivelerebbero la propria ignoranza. E sono contenti? Gli uomini del giorno d’oggi sono più infelici nell’anima e nel cuore di quelli di ieri: giacché l’insieme delle cose importanti, dei valori della vita, è compromesso, è posto in dubbio. Al punto che, rimanendo passivi, riceveremmo grande danno proprio da tutte le novità. Si pensi alla formidabile e tragica potenza distruttrice di una guerra, incalcolabilmente più micidiale, oggi, di quelle fatte con i fucili o le frecce dei secoli andati.

L’umanità è esposta alla possibile iattura d’essere minacciata, sconfitta dal suo progresso, dal suo proprio sviluppo: ecco un argomento per indispensabile riflessione. Il mondo cambia, ma questo suo evolversi costituisce, sovente, gravissimo detrimento.

Come si fa, allora, a rendere buono il mutamento, a conservare quanto di meglio la tradizione, i secoli, la storia, la civiltà hanno a noi dato, affidandoci, in attenta custodia, i valori della vita, e, primo tra di essi, la coscienza della nostra fede? L’importante problema non può considerarsi eluso, giacché ad ogni passo, si può dire, vediamo come appunto la nostra fede, la nostra religione sia compromessa dal nuovo corso delle vicende umane.

Tanti non vanno a Messa; alcuni non credono più in Cristo, molta gente si separa dalla Chiesa. Perché? Sono stati impressionati, quasi travolti dai fenomeni del mondo esterno, che ha intristito ogni moto della loro anima.


GIAMMAI TRASCURARE IL SENSO E I VALORI DELLA VITA

Dobbiamo, perciò, vigilare attentamente. Se vogliamo che quanto è prezioso, indispensabile per la nostra esistenza rimanga e viva, di che cosa abbiamo, anzitutto, bisogno? Abbiamo bisogno di agire, ci necessita l’azione. L’essere si afferma e si conserva con l’agire. Perché, ai giorni nostri, si parla tanto di lavoro? L’Italia - dichiara la Costituzione - è una Repubblica fondata sul lavoro. Ciò perché risulta evidente che se l’uomo profonde le proprie attitudini, capacità ed energie, il mondo fiorisce, .avanza, procede verso il meglio. Se invece ci si ferma, e si cede alla pigrizia, svogliatezza, incompetenza, il mondo va male.

Evidente, poi, è il nesso esistente tra la vita materiale e quella spirituale. Se vogliamo conservare ciò che per noi è la più alta ragione di vita, - a noi sacerdoti incombe specialmente tale dovere -, e cioè la nostra fede, l’adesione a Cristo, la Chiesa, non possiamo rimanere apatici, indifferenti. Il Signore ci ha fatto nascere in un tempo in cui bisogna faticare.

Preminente è la forza del lavoro e la sua virtù trasformatrice. I nostri antenati erano portati dall’ambiente a starsene tranquilli; si accettava la vita anche monotona e grigia; si poteva riposare di più; v’era uniformità nelle mansioni esterne. Oggi l’azione - cattolica, religiosa, sociale; quella politica, industriale, scientifica ecc. - cioé il mettere in essere, in funzione, tutte le facoltà, di cui Dio ci ha arricchiti e i talenti da Lui donati, è divenuta la legge caratteristica del nostro tempo.

E allora? O noi saremo idonei a comportarci come si deve; vivendo, cioè, secondo i precetti del Signore; o noi perderemo il patrimonio più ricco che i tempi ci hanno trasmesso. Per noi - va ribadito - è tesoro inestimabile il senso della vita, di una vita cristiana; la dignità dell’uomo; la libertà; il fine ultimo della nostra esistenza, che trascende il tempo stesso in cui siamo. Bisogna agire; e quindi gli organismi che possediamo ed ammiriamo quale esempio di fervida operosità, istituiti, come sono, per contribuire al giusto rigoglio della entità religiosa e sociale, siano benedetti, perché hanno compreso i segni dei tempi.


L'UNITÀ DEI CATTOLICI FONDAMENTO ALLA LORO AZIONE

3. - Facciamo un altro passo avanti. Non basta agire: si impongono la scelta di metodi convenienti e la sicurezza di risultati migliori, più copiosi. Va, dapprima, definita e precisata la legge basilare dell’azione moderna. Vediamo immediatamente che la prima condizione per agire bene è il mantenersi uniti; il lavoro deve essere coordinato, svolto da tutti. L’azione è prospera ed efficace, se unitaria, organizzata, concorde. Una volta era sufficiente, per un singolo, lavorare nella sua botteguccia: adesso nasce l’azienda; una volta bastava una piccola, circoscritta scuola: ora le scuole giustamente si moltiplicano, diventano vasti centri di avviamento alla cultura. Una volta si chiedeva ai componenti la parrocchia di radunarsi soltanto per la Messa festiva; ora si esige di possedere, in modo permanente e in grado superiore, il senso della comunità.



L’unione è la grande legge per attività valida, aggiornata, meritoria. Chi non è unito si smarrisce; gli sforzi, i tentativi singoli vengono travolti dalla vasta marea dei flutti, sempre numerosi ed accresciuti, di potenze esterne e contrarie. Il fenomeno caratteristico, succedaneo, della nostra società è l’organizzazione. L’attività è fiorente, redditizia se è unitaria, organizzata, concorde. La fraternità si riconosce dalla disciplina e dal disinteresse. Se non siamo in questo modo animati, se non andiamo insieme, e non compiliamo accurati piani e non studiamo i problemi, saremo dei vinti, degli incapaci e rimarremo sommersi da altri che hanno avuto il destro e l’abilità di coalizzarsi, diventando più forti di noi. Il vecchio proverbio, l’unione fa la forza, è verissimo, e dovrebbe essere tenuto ben presente da molti italiani, - il Santo Padre è convinto che nessuno vorrà dispiacersi per l’amabile richiamo - poiché non è ancora in tutti profondo il senso di questo principio: l’obbligo, cioè, di essere più uniti. Si preferisce, spesso, rimanere individualisti, volubili, facilmente critici. Palese è la tendenza a separarsi, a far sorgere il gruppo, la corrente. Non risulta ancora abbastanza coltivata l’esigenza, la regola, l’ansia della comunità. Negli strati esclusivamente materiali e terreni, là dove tale presupposto è accettato, sorgono fenomeni di ampie proporzioni, che riescono persino a intimorire. Basta por mente a taluni aggruppamenti sociali, industriali ed economici.


DISCIPLINA SOLIDARIETÀ DISINTERESSE

E si pensi alle diverse, differenti ideologie. Un’idea, oggi, perché trionfa? Se tale vittoria dipendesse dalla sua verità, noi non avremmo più bisogno di lavorare. Noi che possediamo la verità, in maniera essenziale ed immediata, saremmo i vittoriosi per eccellenza, nel mondo. Ma - lo vediamo ogni giorno - le idee si affermano in proporzione del numero di chi le professa, non per il valore e la bontà che esse racchiudono in sé. È indispensabile, pertanto, fortificarsi mediante l’unione, la organizzazione, la vita societaria; e con ogni impegno, per mettere insieme numerose volontà, si da offrire ai popoli quel fulgore per cui la nostra dottrina può dovunque affermarsi e riuscire benefica, salvatrice, giacché tale è realmente la nostra fede.

Su questo, figliuoli, ognuno è invitato a meditare con profonda fermezza. Anche noi cattolici. Perché? Perché non siamo abbastanza bravi, e buoni ad andare d’accordo. La Chiesa, istituzione del Signore, ha i suoi centri, i suoi piani per conseguire perfetta conquista. Si chiamano la Gerarchia, i Pastori, i superiori. L’autorità esiste proprio per mettere insieme, per catalizzare, per fondere in unum gli elementi tutti, anche quelli disgregati, e costruire la imponente famiglia e l’unità dei molti che appartengono al corpo sociale.


RINVIGORIRE LA FEDE E L’ADESIONE A CRISTO

Ecco: noi dovremmo davvero esaminarci se siamo dei collaboratori o se, al contrario, siamo della gente pigra, che mormora, distrugge, rende difficile ogni iniziativa, si fa trascinare; ed ha bisogno di mille richiami, poiché dimentica e trascura l’onore e il vantaggio d’essere e di operare d’accordo. Non dimentichiamolo: allora soltanto vi sono problemi insolubili, quando si è divisi.

Per bene stare insieme, diciamo la grande parola che il mondo moderno non vuole quasi più udire: bisogna essere obbedienti. Ma obbedienti non per diventare macchine o numeri, che si comportano quasi automi e si lasciano trascinare. Si deve essere obbedienti per essere intelligenti, desti, alacri, nella mirabile rinascita che la Chiesa e la società cristiana sollecitano per dare nuovo volto al mondo contemporaneo. Bisogna essere più disciplinati. Così fondamentale dote va raccomandata specialmente in ordine ai problemi nuovi, che nascono sia nella comunità ecclesiastica che in quella civile. Mettetevi insieme, studiate i problemi, cercate di aiutarvi; istituite comitati, gruppi di studio, esperienze d’insieme. Non dividetevi, non opponetevi gli uni agli altri; sappiate transigere sulle cose secondarie in favore delle essenziali; abbiate convinta stima della responsabilità associata, per giungere alla unione, alla concordia, alla fusione degli animi. Arriviamo, così, al più alto, cristiano traguardo, ove è agevole ascoltare la voce di Dio: abbiate la carità.

La carità è l’amore fraterno; la carità pone gli animi volenterosi nella libertà, nella concordia, nel rispetto reciproco e nella gioia del restare insieme. Come è bella una famiglia in cui regnano l’uniformità e la pace! Ne abbiamo esempi eloquenti nelle nostre associazioni. Che gioia nel sentirsi fratelli e sorretti dall’esempio, dall’appoggio, dalla consonanza di tutti gli altri! L’azione è redditizia se unitaria, organizzata, concorde. La fraternità si riconosce dalla disciplina e dal disinteresse.

La vita sociale deve essere armonia. Può venir paragonata ad un complesso musicale, il quale allora solo risponde alla fidente attesa, se ogni componente esplica la propria parte in perfetta sincronia con gli altri. Bisogna fare concerto, bisogna operare all’unisono, compatire, perdonare, comprendere; ben distribuire le energie; saper rinunciare a tutti gli egoismi. Dobbiamo cercare la forza dell’unione, e per trovarla è insostituibile l’esercizio della virtù regina della vita cristiana: la carità.


LA CARITÀ LUCE FORZA ALIMENTO

4. - Riassumendo: per dominare i cambiamenti del nostro mondo occorre lavorare; per lavorare con rendimento prima norma è l’essere uniti; per essere uniti bisogna volersi bene. Come si fa a volersi bene? Qui risplende il segreto proprio della vita cristiana. L’animazione nostra deve essere religiosa.

Hanno voglia gli altri a ricorrere a principii sociali, economici, culturali, che sembrano adunare gli uomini: sono principii a doppio taglio. Possono, sì, in un primo tempo, agglomerare; ma ben presto, dividono. Se vogliamo, invece, che i nostri principii funzionino in una sola direzione, quella di acquisire unità, nella libertà e nel benessere di tutti, bisogna andare in fondo, attingere al segreto della vita religiosa. Se siamo uniti a Gesù Cristo, al suo Vangelo, alla sua fede, alla sua grazia, ai suoi sacramenti, alla sua dottrina, l’unione è possibile; con l’unione è la forza; con la forza il lavoro; con il lavoro la prosperità.

Allora, ecco una raccomandazione finale: cercate di dare alla vostra pratica religiosa una espressione non soltanto convenzionale, ma retta, decisa, profonda, interiore.

Anche qui il cambiamento è necessario. Non basta andare in chiesa meccanicamente. Va ricordato che la professione cristiana, se non diviene linfa dell’anima, se non è portata a un grado di pienezza intima e nuova, non resisterà. Occorre rinvigorire la nostra fede religiosa; e per questo la Chiesa ci apre oggi, con il Concilio, sorgenti e dovizie meravigliose. Ad esempio: seguiremo pienamente il nuovo orientamento didattico che la Costituzione Liturgica ci pone davanti per pregare bene, per pregare comprendendo quello che si dice, per pregare unanimiter, come Gesù Cristo ha stabilito. In tal modo, nella ricerca della sua presenza e della sua luce, la nostra divisa di cattolici non sarà più né una esigua vernice esteriore, né un peso sulle nostre spalle; non una formalità, non un’ipocrisia: sarà, invece, energia incomparabile. Sarà letizia, reale benessere durante il pellegrinaggio terreno; la promessa certa, beata, che la nostra vocazione non svanisce col tempo, ma si trasformerà in eterno gaudio trionfante.

Voi avrete la bontà di tener presenti, comprendere, spiegare, approfondire questi pensieri, rilevando la semplicità, la forza e l’impegno che li distinguono. Cercate d’essere attivi, uniti; di amarvi secondo il divino precetto della carità. Se sarete fedeli cristiani tutto andrà bene, e potrete affrontare le varie trasformazioni e le metamorfosi dell’età moderna, non solo col restare saldamente ancorati ai nostri valori ed al loro contenuto essenziale, ma godendo, anzi, del progredire, e dando impulso a questa onda di rinnovamento che anima il nostro tempo. Potremo dire, anzi, di aver ottimamente trascorsi gli anni del sacrificio e del merito, fiduciosi di ricevere dal Signore il premio assicurato al buon operaio, che ha compiuto il proprio dovere, faticando e sperando.


«LA CHIESA VI AMA E VI ASSISTE»

Il commiato del Santo Padre, al termine delle udienze, è la Benedizione.

Sua Santità tiene ad elencare i destinatari del paterno dono. Anzitutto i giovani, i fanciulli (i vari annunzi vengono sottolineati da vivaci acclamazioni). Ai piccoli il Papa vuole rivolgere la domanda che tanto di frequente essi odono, dando le più eterogenee risposte: «Quando sarai grande, che cosa vorrai fare?». Ebbene, il Padre delle anime esorta a rispondere così: «Ora e da grande io voglio essere davvero un bravo cattolico, un bravo figlio della mia patria e della Chiesa, un esemplare cittadino». Questa sarà la nota caratteristica d’ogni vita cristiana. Il Signore farà il resto e dirà quale dovrà essere la vocazione professionale e familiare di ognuno.

Ai lavoratori tutto l’affetto, la premura, l’augurio del Santo Padre. Essi sanno - e devono sempre più essere convinti - che la Chiesa sempre li segue, li ama, li protegge. E li predilige, anzi, proprio perché sono lavoratori e sono i protagonisti di quella conquista del mondo materiale tendente al profitto e alla prosperità della vita. La Chiesa è a loro vicina; ne comprende e benedice le buone aspirazioni; li segue sempre là dove c’è giustizia, ragione, possibilità. Abbiano i lavoratori, nei riguardi della Chiesa, il convincimento che Ella è Madre e Maestra, come diceva Papa Giovanni. Sempre è amica ed assiste con squisita premura e comprensione.

Agli ascritti alle Acli, che costituiscono il riflesso evidente di queste sollecitudini, il Santo Padre dice di stare uniti, sensati, di pensare bene, di essere energici, di lavorare secondo quanto è stato or ora detto. E ad ognuno l’incarico di recare a tutti e singoli i colleghi di lavoro il saluto paterno del Vicario di Gesù Cristo.

Infine, dopo un rinnovato saluto ai Signori Cardinali e ai Presuli, l’annuncio della imminente Benedizione al Clero, al Seminario, ai Religiosi e alle Religiose, alle Scuole, alle Amministrazioni Comunali, che curano il bene temporale, civile e amministrativo delle popolazioni. Come già nell’auspicio dapprima enunciato: Dio fecondi e diriga al bene le vostre fatiche; e vi ricolmi della sua grazia e dei suoi favori.





Martedì, 19 marzo 1968: SANTA MESSA PER UN PELLEGRINAGGIO REGIONALE DEL PIEMONTE

19368

Festa di San Giuseppe



«UNA CHIESA UNITA E DISCIPLINATA, MILITANTE PER IL REGNO DI DIO»

Fratelli e Figli carissimi del Pellegrinaggio Piemontese!

Noi apriamo il cuore al più devoto, al più paterno, al più cordiale saluto! Siate i benvenuti! Numero e qualità qui si dànno la mano. Non mai, Noi crediamo, un simile Pellegrinaggio, così numeroso, così cospicuo, così religioso, così rappresentativo, così promettente d’ogni buon frutto spirituale, è confluito dalla gloriosa e benedetta terra del Piemonte a Roma, per dare saggio dell’unità morale e cristiana che fa compatta e solidale la gente della celebre regione, per professare la propria fede cattolica, per venerare le tombe auguste dei due Corifei della Chiesa, i Santi Apostoli Pietro e Paolo, del martirio dei quali quest’anno celebriamo il decimonono centenario, per incontrare il Papa e ricevere la Sua Benedizione. È un epilogo cotesto Pellegrinaggio d’una secolare tradizione religiosa, della quale il Popolo Piemontese sente impresse nella sua anima e nel suo costume le magnifiche e feconde vestigia; è un prologo cotesto Pellegrinaggio, che certo può aprire una storia nuova, quella d’una non facile, ma necessaria e felice simbiosi della vita cristiana autentica e viva con la vita moderna estremamente innovatrice ed allettante. Forse perciò è un momento storico: abbiamo presente, accanto alla cattedra di San Pietro e sulla tomba di lui, sopra la pietra cioè sulla quale è fondata la Chiesa di Gesù Cristo, Noi abbiamo presente storicamente il Piemonte religioso di ieri, attualmente quello di oggi, e profeticamente quello di domani. Vorremmo, Fratelli e Figli carissimi, passarvi in rassegna, salutarvi ad uno ad uno, tanquam acies odinata, come un esercito schierato; il nostro spirito d’ordine e di fortezza Ci richiama alla mente questa immagine, quella d’una Chiesa unita e disciplinata, militante per il regno di Dio.


FERVIDO SALUTO ALLA GERARCHIA DI NOBILISSIMA REGIONE

Lasciate che la Nostra chiamata nominale, una per tutti, si rivolga al Pastore della Chiesa di Torino, il Cardinale Arcivescovo Michele Pellegrino, e che nella sua persona di direttore di questo Pellegrinaggio Noi ringraziamo lui e voi tutti di questa graditissima visita. Verrebbero alle Nostre labbra tanti meritati elogi sul presente successore di San Massimo, sulla sua spiritualità, imbevuta della sapienza e della pietà dei Padri della Chiesa, sulla sua cultura, sulla sua autorità di docente universitario, sul suo zelo di maestro e di pastore; ma non vogliamo ora turbare la sua modestia; basti a voi sapere, Torinesi, a voi Piemontesi, che abbiamo per l’Arcivescovo di Torino grandissima stima, venerazione profonda e, se il cuore non falla, un’intima comunione spirituale.

Il Nostro riverente saluto e il Nostro augurio onomastico va pure al Signor Cardinale Giuseppe Beltrami, romano oramai ma piemontese d’origine, di Fossano, il quale ha ben voluto associarsi al Pellegrinaggio della sua regione.

E poi, ecco i Vescovi delle diciotto Diocesi piemontesi: qui è l'Arcivescovo di Vercelli, che Ci fa ricordare Eusebio e Ambrogio; qui l’Arcivescovo-Vescovo di Mondovì, che Roma ha ceduto alla bella diocesi omonima; qui è il Vescovo di Novara, che Noi avemmo confratello nella Conferenza Episcopale lombarda; qui è il Vescovo di Alessandria, che la città d’origine e una lunga consuetudine di amichevoli rapporti Ci obbligano a segnalare; qui sono i Vescovi di Casale, di Biella, di Ivrea, di Pinerolo, di Susa, di Acqui, con i quali, non da oggi, Noi avemmo occasione di frequenti ed utili incontri; e sono qui gli altri Vescovi Piemontesi, che veneriamo con non minore devota cordialità. Tutti venerati Fratelli, siate da Noi salutati, come c’insegnano Pietro (
2P 5,14) e Paolo (Rm 16,16), in osculo sancto.

Né vogliamo omettere di porgere il Nostro rispettoso saluto a quanti qui sono rivestiti d’autorità; sentiamo anzi l’obbligo di dire loro quanto apprezziamo la loro presenza a questo religioso appuntamento, e quanti voti speciali Noi per loro riserviamo. Così diciamo per le Autorità civili, e per gli Ecclesiastici rivestiti di particolare dignità, o investiti di particolari responsabilità.



I DONI DELLA FEDE ALLA NOSTRA VITA E LIBERTÀ

Ed estendiamo a tutti i cari Sacerdoti, i Religiosi, le Religiose, a tutto il Laicato cattolico Piemontese il Nostro benedicente saluto.

Ed ora, che cosa dirvi? Abbiamo l’animo riboccante di cose, che Ci darebbero temi per lunghi discorsi. Ma dobbiamo limitarci a semplicissime e brevissime parole, che vogliamo pur proferire per non perdere l’occasione della presenza d’un uditorio d’eccezione, quale voi siete. E valgano le poche parole che stiamo per dire, anche per gli altri gruppi di visitatori qui assistenti.

Vi invitiamo a concentrare la vostra riflessione sopra due domande. La prima: che cosa possiamo avere dalla fede? Che cosa ci dà? Suppone questa domanda la mentalità caratteristica del nostro tempo, la quale si svolge sopra un piano utilitarista. Si parla sempre di valori. Ciò che vale determina la nostra psicologia moderna maggiormente di ciò che esiste, e che forse, com’è nella sfera religiosa, ha sopra di noi esigenze, le quali meriterebbero per prime d’essere considerate, anche in vista dei nostri superiori interessi. A che cosa serve la fede?

Voi sapete quanto siano precipitose e negative le risposte che tanta gente oggi dà ad una simile questione. Con semplicismo disastroso si risponde da alcuni: non serve a nulla. Con raziocinio ancora più dannoso si risponde da altri (e quanti sono!): la fede, non solo non serve all’uomo moderno, ma inceppa la sua liberazione, frena la sua ricerca scientifica, obbliga a riguardi con un passato, che si vuole dimenticare e sommergere, vincola a pratiche rituali incomprensibili ed inutili, eccetera. Non è questo il modo di pensare di molti ceti di persone, sia del mondo del lavoro, che di quello della cultura, o degli affari? Pur troppo, sì. Ma è ragionevole questa mentalità? Perché non credere? Qui sorgerebbe un grave e delicatissimo problema, quello sulla natura della fede, sulla sua genesi e sul suo lato più misterioso, anche se è il più bello; e cioè: la fede è un dono di Dio; si svolge perciò nel gioco di due libertà: quella altissima di Dio, e quella nostra personale; e basta l’accenno a questo aspetto della fede per curvare umilmente la fronte ripensando alla parola di San Paolo: pur troppo «non tutti danno retta al Vangelo» (Rm 10,16).



LA NOSTRA RISPOSTA AL MOMENTO DEL BATTESIMO

La fede sarebbe per tutti, ma non tutti l’accolgono. Ma tenuto conto di questa possibilità tristissima, che la fede sia respinta, possiamo francamente sostenere un giudizio di valore su la fede: a che cosa serve la fede, che cosa ci dà? Ricordate, Fratelli e Figli carissimi, la risposta che ciascuno di noi, appressandoci al santo battesimo, ha dato al ministro che appunto ci domandava: «La fede, che cosa ti dà?». «La vita eterna», questa fu la risposta. E se questa risposta è vera, come lo è, quale bene maggiore, quale bene più desiderabile, può essere promesso alla fede? Qui gli apologisti dovrebbero parlare, e dirci quale somma di beni, non solo nella vita eterna, ma nella vita terrena altresì, ci sono elargiti con la fede, dalla fede. Lasciamo al vostro studio questo bilancio. Basti dire che la fede assicura all’uomo quella fiducia nel pensiero, nella verità, che la mente umana, lasciata a se stessa, dopo d’aver accusato la fede d’illogicità, non trova più in se stessa. La fede è la luce della vita, e se non è suo compito risolvere i problemi della speculazione scientifica e filosofica, non ne intralcia tuttavia la soluzione razionale, la conforta bensì con la certezza dei suoi superiori insegnamenti. La fede è il conforto della vita; e quale sarebbe l’atteggiamento dell’uomo davanti ai sommi quesiti del nostro destino, se la fede non ci trattenesse dalla follia o dalla disperazione?


PROSEGUIRE CON LE OPERE UNA SPLENDIDA APOLOGIA

Riaccendiamo, Fratelli e Figli carissimi, qui, sulla tomba dell’Apostolo, la lampada languente o spenta della nostra fede, sicuri finalmente del rapporto stabilito da Cristo fra la sua parola e la vita: chi crede, vivrà (cfr. Jn 6,47).

E riflettete ora sopra la seconda domanda: che cosa possiamo noi dare alla fede? Avere e dare: il nostro bilancio sulla fede si fonda su questi termini. Ma quali termini immensi! Se non ci è possibile fare il calcolo dei benefici che dalla fede riceviamo, ci è difficile fare il calcolo dei doveri che alla fede ci obbligano. Fortunatamente voi li conoscete e già li adempite. Si riassumono nella notissima sentenza dell’Apostolo Paolo: «L’uomo giusto vive di fede» (Ga 3,11). Notate: di fede, non semplicemente con la fede. Cioè il credente deve derivare dalla sua fede i principi ispiratori della sua vita.

La fede bisogna quindi conoscerla ed assorbirla in un processo di continua osmosi spirituale; essa deve imprimere alla personalità che la possiede un’autenticità caratteristica, quella appunto del fedele, che dopo essersi imbevuto della certezza, della bellezza, della profondità, della forza normativa della fede, la esprime, la professa, la testimonia, la difende, la vive.

Come sembra consona a Noi questa lezione per voi, Piemontesi, che alla fede, specialmente nell’ultimo secolo, avete dato l’apologia meravigliosa dei vostri Santi, delle vostre istituzioni sociali e caritative, della serietà, della positività, vorremmo dire, del vostro peculiare carattere! Non resta altro a Noi da dire, se non questo: continuate Piemontesi, nella illustrazione della vostra fede con la sincerità dei vostri animi e con la bontà delle vostre opere. Solo ancora vi diremo che occorre oggi, per perseverare, uno sforzo, personale e comunitario; e che di questo vostro sforzo morale e spirituale ha bisogno la nostra terra fortunata, ha bisogno l’Italia, ha bisogno la Chiesa. Noi ve lo chiediamo nella letizia di questo incontro, nella fiducia che la vostra bontà non ce lo lascerà mancare, e lo incoraggiamo e lo premiamo con la Nostra Benedizione Apostolica.






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