Discorsi Paolo VI 24868

Sabato, 24 agosto 1968: PELLEGRINAGGIO APOSTOLICO A BOGOTÀ: INAUGURAZIONE DELLA II ASSEMBLEA GENERALE DEI VESCOVI DELL'AMERICA LATINA

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Venerati, cari, carissimi Confratelli!

Benedicamus Domino! Noi benediciamo e ringraziamo il Signore Che Ci concede questo incontro fraterno. Ognuno di voi è da Noi salutato con la venerazione, con l’affezione, con la profondità e la ricchezza di sentimenti, che la carità di Nostro Signore e la comune elezione al governo pastorale e al generoso servizio della Chiesa possono mettere nel cuore dell’umile successore di Pietro. E con voi salutiamo e benediciamo tutti i Vescovi e tutti gli Ordinari dell’America Latina, che voi qui rappresentate, e i sacerdoti, i religiosi e le religiose, nonché tutti i fedeli, tutta la santa Chiesa cattolica di questo grande continente.

Venerati Confratelli! Noi non vi possiamo nascondere la viva emozione che invade il Nostro spirito in questo momento. Siamo Noi stessi meravigliati di trovarci in mezzo a voi. La prima visita personale del Papa ai suoi Fratelli ed ai suoi Figli in Terra americana non è certamente un semplice e singolare fatto di cronaca; è, pare a Noi, un fatto di storia, che s’inserisce nella lunga e complessa e faticosa vicenda dell’evangelizzazione di questi immensi territori; e che con ciò stesso la riconosce, la convalida, la celebra, ed insieme la conclude nella sua prima epoca secolare; e, per una convergenza di circostanze profetiche, un altro periodo della vita ecclesiastica è qui oggi, da questa visita medesima, inaugurato. Procuriamo d’aver esatta coscienza di questa ora benedetta, che sembra essere, per divina provvidenza, conclusiva e decisiva. Vorremmo dirvi tante cose circa il vostro passato missionario e pastorale, e rendere onore a quanti hanno tracciato i solchi del Vangelo in codesti campi, tanto vasti, tanto impervii, tanto aperti e nello stesso tempo tanto difficili per la diffusione della fede e per la sua sincera vitalità religiosa e sociale. È stata piantata la croce di Cristo, è stato dato il nome cattolico, sono stati compiuti sforzi immani per evangelizzare queste terre, sono state compiute opere grandi e innumerevoli, sono stati raggiunti, con scarsità di uomini e di mezzi, risultati degni d’ammirazione, è stato insomma diffuso per l’intero continente il nome dell’unico Salvatore Gesù Cristo, è stata costituita la Chiesa, è stato diffuso uno Spirito, di cui sentiamo oggi il calore e l’impulso. Dio benedica l’opera grande! Dio benedica coloro che vi hanno speso la vita! Dio benedica voi, Fratelli carissimi, che a questa gigantesca impresa siete consacrati!

Ma l’opera, tutti sappiamo, non è finita. Anzi il lavoro compiuto denuncia i suoi limiti, rende evidenti i nuovi bisogni, esige qualche cosa di nuovo e di grande. L’avvenire reclama uno sforzo, un’audacia, un sacrificio, che mettono nella Chiesa un’ansia profonda. Siamo in un momento di riflessione totale. Entra in noi, come un’onda soverchiante, l’inquietudine caratteristica del nostro tempo, e specialmente di questi Paesi, tesi verso il loro sviluppo completo, e agitati dalla coscienza dei loro squilibri economici, sociali, politici e morali. Anche i Pastori della Chiesa - non è vero? - fanno propria l’ansia dei popoli in questa fase della storia della civiltà; ed anch’essi, le guide, i maestri, i profeti della fede e della grazia, avvertono l’instabilità, che tutti ci minaccia. Noi condividiamo la vostra pena, Fratelli, il vostro timore. Dall’alto della mistica barca della Chiesa, Noi pure, e non certo in grado minore, sentiamo la tempesta che ci avvolge e che ci assale. Ma ascoltate anche da Noi, Fratelli, voi personalmente più forti e più bravi di Noi, la parola di Gesù, con la quale Egli, comparendo tra i flutti burrascosi, in una notte piena di pericoli, gridò ai suoi discepoli naviganti: «Sono io, non abbiate paura!» (
Mt 14,27). Sì, Noi vogliamo ripetervi l’esortazione ricorrente del Maestro: «Non temete!» (Lc 12,32).

Questa per la Chiesa è un’ora di coraggio e di fiducia nel Signore. Lasciate che Noi condensiamo brevemente in alcuni paragrafi le molte cose che abbiamo nel cuore per il vostro momento presente e per il vostro prossimo avvenire. Voi non aspettate da Noi trattazioni complete; le riunioni di questa vostra seconda Assemblea Generale dell’Episcopato Latino Americano, che sappiamo preparate con tanta cura e con tanta competenza, tratteranno più a fondo i vostri problemi. Noi Ci limitiamo a indicarvi un triplice indirizzo alla vostra attività di Vescovi, successori degli Apostoli, custodi e maestri della fede e pastori del Popolo di Dio.

Un indirizzo spirituale

Un indirizzo spirituale, dapprima. Diciamo innanzi tutto un indirizzo spirituale personale. Nessuno certamente vorrà contestare che noi Vescovi, chiamati all’esercizio della perfezione e all’altrui santificazione, abbiamo un immanente e permanente dovere di cercare per noi stessi la perfezione e la santificazione. Non possiamo dimenticare le solenni esortazioni a noi rivolte nell’atto della nostra consacrazione episcopale. Non possiamo esimerci della pratica d’un’intensa vita interiore. Non possiamo annunciare la parola di Dio senza averla meditata nel silenzio dell’anima. Non possiamo essere fedeli dispensatori dei misteri divini, senza averne a noi stessi assicurata la ricchezza. Non dobbiamo dedicarci all’apostolato, se non- lo sappiamo suffragare con l’esempio delle virtù cristiane e sacerdotali. Siamo molto osservati: spectaculum facti sumus (1Co 4,9): il mondo ci osserva oggi in modo particolare in ordine alla povertà, alla semplicità della vita, al grado di fiducia che mettiamo per nostro uso nei beni temporali; ci osservano gli angeli nella trasparente purezza del nostro unico amore a Cristo, che si manifesta in modo tanto luminoso nella ferma e lieta osservanza del nostro celibato sacerdotale; e la Chiesa ci osserva sulla fedeltà alla comunione, che fa di noi unità, e alle leggi, che noi dobbiamo sempre richiamare della sua visibile e organica compagine. Benedetto questo nostro tempo tormentato e paradossale, che quasi ci obbliga alla santità corrispondente al nostro ufficio tanto rappresentativo e tanto responsabile, e che ci obbliga a recuperare nella contemplazione e nell’ascetica dei ministri dello Spirito Santo quell’intimo tesoro di personalità, da cui la dedizione estremamente impegnativa al nostro ufficio quasi ci estroflette!

Ma poi, facendo ponte fra noi e il nostro gregge, le virtù teologali assumono per la nostra singola anima e quelle del prossimo tutta la loro sovrana importanza. Noi abbiamo chiamato la Chiesa a celebrare un «Anno della Fede», in memoria e in omaggio alla ricorrenza centenaria del martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ed anche a voi è arrivata l’eco della Nostra solenne Professione di Fede. La fede è la base, è la radice, è la fonte, è la prima ragione d’essere della Chiesa, ben lo sappiamo. E sappiamo anche quanto essa è oggi insidiata dalle correnti più eversive del pensiero moderno. La diffidenza, che, anche negli ambienti cattolici, si è diffusa sulla validità dei principi fondamentali della ragione, ossia della nostra «philosophia perennis», ci ha disarmati di fronte agli assalti, spesso radicati e capziosi, di pensatori di moda; il «vacuum», lasciato nelle nostre scuole filosofiche dall’abbandono della fiducia nei grandi maestri del pensiero cristiano, è spesso invaso da una superficiale, e quasi servile, accettazione di filosofi di moda, spesso altrettanto sempliciste che astruse; e queste hanno scossa la nostra normale, umana, sapiente arte del pensare la verità; siamo tentati di storicismo, di relativismo, di soggettivismo, di neo-positivismo, che nel campo della fede inducono uno spirito di critica sovversiva ed una falsa persuasione che, per avvicinare ed evangelizzare gli uomini del nostro tempo, dobbiamo rinunciare al patrimonio dottrinale, accumulato da secoli dal magistero della Chiesa e che possiamo modellare, non tanto per migliore virtù di chiarezza espressiva, ma per alterazione del contenuto dogmatico, un cristianesimo nuovo, su misura dell’uomo, e non su misura dell’autentica parola di Dio. Purtroppo anche fra noi alcuni teologi non sono sempre sulla buona via. Noi abbiamo grande stima e grande bisogno della funzione dei buoni e bravi teologi; essi possono essere provvidenziali studiosi e valenti espositori della fede, se essi stessi si conservano intelligenti discepoli del magistero ecclesiastico, costituito da Cristo custode ed interprete, per virtù dello Spirito Paraclito, del suo messaggio di eterna verità. Ma oggi taluni ricorrono ad espressioni dottrinali ambigue, e altri si arrogano la licenza di enunciare opinioni loro proprie, alle quali conferiscono quell’autorità, che essi, più o meno copertamente, contestano a chi per diritto divino possiede tale vigilatissimo e formidabile carisma; e perfino consentono che ciascuno nella Chiesa pensi e creda ciò che vuole, ricadendo così in quel libero esame, che ha frantumato l’unità della Chiesa stessa, e confondendo la legittima libertà della coscienza morale con una malintesa libertà di pensiero, spesso aberrante per l’insufficiente conoscenza delle genuine verità religiose.

Non vi dispiaccia, veneratissimi Fratelli, voi stessi costituiti maestri e pastori del Popolo di Dio, se Noi vi ripetiamo e vi esortiamo, in virtù del mandato imposto da Cristo a Pietro di «confermare i Fratelli» (cfr. Lc 22,32), con la voce stessa di Pietro: «Resistite fortes in fide» (1P 5,9).

Voi comprendete come da questo principio scaturiscano tanti altri criteri di vitalità spirituale, con beneficio bivalente, cioè per noi e per il gregge a noi affidato; siano questi seguenti i principali. Gli Atti degli Apostoli ce li ricordano, e cioè l’orazione e il ministero della parola (Ac 6,4). Tutto voi conoscete a questo riguardo. Ma permettete che Noi vi raccomandiamo, per quanto si riferisce all’orazione, l’applicazione della riforma liturgica, nelle sue belle innovazioni e nelle norme che la disciplinano, ma soprattutto nelle sue finalità principali e nel suo spirito: purificare e autenticare il vero culto cattolico, fondato sul dogma, e cosciente del mistero pasquale ch’esso racchiude rinnova e comunica; e associare il Popolo di Dio alla celebrazione gerarchica e comunitaria dei santi riti della Chiesa, a quello della Messa, con familiare e profonda intelligenza, in atmosfera di semplicità e di bellezza (il canto, il canto sacro, liturgico e collettivo, specialmente vi raccomandiamo! ), in esercizio non solo formale, ma sincero e cordiale, di fraterna carità, E poi, circa il ministero della parola, tutto ciò che sarà compiuto per un’istruzione religiosa di tutti i fedeli, un’istruzione popolare e culturale, organica e perseverante, sarà ben fatto; non dobbiamo più avere l’«analfabetismo» religioso fra le popolazioni cattoliche. E sarà pure ben fatto ogni esercizio diretto della predicazione e dell’istruzione, che voi Vescovi, come singoli e come gruppi canonicamente costituiti, vorrete elargire al Popolo di Dio. Parlate, parlate, predicate, scrivete, prendete posizione, come si dice, in armonia di piani e di intenti a difesa e ad illustrazione delle verità della fede, sull’attualità del Vangelo, sulle questioni che interessano la vita dei fedeli e la tutela del costume cristiano, sulle vie che conducono al dialogo con i Fratelli separati, sui drammi, ora grandi e belli, ora tristi e pericolosi, della civiltà contemporanea. La Costituzione pastorale del Concilio Gaudium et spes offre insegnamenti ed incitamenti di ampia ricchezza e di alto valore.

Un indirizzo pastorale

E siamo così all’indirizzo pastorale, che Ci siamo proposti di presentare alla vostra attenzione. Siamo nel campo della carità. Valga quanto ora abbiamo già detto per tracciare le prime linee di questo indirizzo, che, di natura sua, deve svolgersi su molte linee pratiche, secondo le esigenze della carità.

Ma Ci sembra opportuno richiamare due punti dottrinali a questo riguardo: il primo è la dipendenza della carità verso il prossimo dalla carità verso Dio. Voi sapete quale assalto subisca ai nostri giorni questa dottrina di chiarissima e inoppugnabile derivazione evangelica: si vuole «secolarizzare» il cristianesimo, trascurando cioè il suo essenziale riferimento alla verità religiosa, alla comunione soprannaturale con l’ineffabile e inondante carità di Dio verso gli uomini e al dovere della risposta umana obbligata ad osare di amarlo e di chiamarlo Padre e di poter così chiamare in verità fratelli gli uomini; per liberare il cristianesimo stesso da «quella forma di nevrosi che è la religione» (Cox); per bandire ogni preoccupazione teologica e per dare al cristianesimo una nuova efficacia, tutta pragmatica, la sola che ne possa misurare la verità e che lo renda accettabile e operante nella moderna civiltà profana e tecnologica.

L’altro punto dottrinale riguarda la Chiesa così detta istituzionale, posta a confronto con un’altra presunta Chiesa così detta carismatica, quasi che la prima, comunitaria e gerarchica, visibile e responsabile, organizzata e disciplinata, apostolica e sacramentale, sia un’espressione del cristianesimo ormai superata, mentre l’altra, spontanea e spirituale, sarebbe capace di interpretare il cristianesimo per l’uomo adulto della civiltà contemporanea, e di rispondere ai problemi reali e urgenti del nostro tempo. Non abbiamo bisogno di fare a voi che «Spiritus Sanctus posuit episcopos regere ecclesiam Dei» (Ac 20,28), la apologia della Chiesa, quale Cristo fondò e quale la fedele e coerente tradizione a noi ancor oggi consegna nelle sue linee costituzionali, che descrivono il vero Corpo mistico di Cristo, vivificato dallo Spirito di Gesù. Ma ci basterà riaffermare la nostra certezza nell’autenticità e nella vitalità della nostra Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, col proposito di conformare sempre più la sua fede, la sua spiritualità, la sua attitudine ad avvicinare ed a salvare l’umanità (tanto diversa nelle sue molteplici condizioni ed ora tanto mutevole), la sua carità che tutto comprende e che tutto sopporta (cfr. 1Co 13,4), alla missione salvatrice affidatale da Cristo. E faremo, sì, uno sforzo d’intelligenza amorosa per capire quanto di buono e di ammissibile si trovi in queste forme inquiete e spesso aberranti d’interpretazione del messaggio cristiano, per purificare sempre più la nostra professione cristiana e riportare queste esperienze spirituali, si chiamino secolari le une, carismatiche le altre, nell’alveo della vera norma ecclesiale (cfr. 2Co 14,37, «Si quis videtur propheta esse aut spiritalis, cognoscat quae scribo vobis, quia Domini sunt mandata» ; ed Enc. Mystici Corporis, circa l’abusiva distinzione fra la Chiesa giuridica e la Chiesa della carità: A.A.S. 1943, pp. 223-225; Journet, L’Eglise du Verbe Incarné I, intr. XII).

Questi accenni Ci portano a raccomandare alla vostra carità pastorale alcune categorie di persone, alle quali va il Nostro appassionato pensiero. Le indichiamo appena, per debito del comune interesse apostolico, non certo per dire quanto esse meriterebbero; sappiamo che esse sono già presenti alla considerazione di questa Assemblea; e altro non facciamo che incoraggiare il vostro studio. La prima categoria è quella dei Sacerdoti. Ci sia consentito mandare loro un affettuosissimo pensiero anche da questa sede e in questo momento. I Sacerdoti sono sempre presenti nel Nostro spirito, nel Nostro ricordo. Lo sono parimente nella Nostra stima, nella Nostra fiducia. Lo sono nella visione concreta dell’attività della Chiesa: sono i primi e indispensabili vostri collaboratori, sono i più diretti e più impegnati «dispensatori dei misteri di Dio» (1Co 4,1), cioè della parola, della grazia, della carità pastorale; sono i modelli viventi dell’imitazione di Cristo, sono con voi i primi partecipi del sacrificio del Signore, sono i nostri confratelli, i nostri amici (cfr. Jn 15,15); dobbiamo amarli assai, amarli di più. Se un Vescovo concentrasse le sue cure più assidue, più intelligenti, più pazienti, più cordiali per la formazione, per l’assistenza, per l’ascoltazione, per la guida, per l’istruzione, per l’ammonimento, per il conforto del suo Clero, avrebbe bene impiegato tempo, cuore, attività. Si veda di dare ai Consigli presbiterali e pastorali la consistenza e la funzionalità, volute dal Concilio; si prevenga prudentemente e con paterna comprensione e carità, per quanto è possibile, ogni pronunciamento irregolare e indisciplinato del Clero; si veda di interessarlo alle questioni del ministero diocesano; si procuri di sostenerlo nelle sue necessità, si ponga ogni cura nel reclutamento e nella formazione degli Alunni seminaristi; si associno anche i Religiosi e le Religiose, secondo le loro attitudini e possibilità, all’attività pastorale. Cosi, concentrando sul Clero le cure migliori, Noi siamo sicuri che questo metodo darà il frutto sperato, quello d’una Chiesa viva, santa, ordinata e fiorente in tutta l’America Latina.

Poi, venerati Fratelli, segnaliamo alla vostra sapiente carità; i Giovani e gli Studenti. Il discorso non avrebbe più fine, se Noi volessimo dire qualche cosa su questo tema. Vi basti sapere che Noi lo consideriamo degno del massimo interesse e lo vediamo di grandissima attualità. Del resto, Voi tutti ne siete perfettamente consapevoli.

E questo ricordo Ci porta a raccomandarvi con non minore calore un’altra categoria di uomini, fedeli o non fedeli che siano, i lavoratori, sia rurali che industriali, o a questi assimilati.

Un indirizzo sociale

Siamo così al terzo indirizzo, che offriamo alla vostra considerazione, quello sociale. Non vi aspettate un discorso, che sarebbe anche questo interminabile, in materia sociale, specialmente nell’America Latina. Limitiamoci ad alcune affermazioni, dopo quelle da Noi già fatte nei discorsi di questi giorni.

Ricordiamo innanzi tutto che la Chiesa ha elaborato in questi ultimi anni della sua secolare animazione della civiltà una sua dottrina sociale, consegnata in documenti memorabili, che faremo bene a studiare e a divulgare. Le Encicliche sociali del Pontificato Romano e gli insegnamenti dell’Episcopato mondiale non devono essere dimenticati, né devono mancare di pratica applicazione. Non giudicate parziale la Nostra indicazione, se vi ricordiamo la più recente fra le Encicliche sociali, quella che tratta della Populorum progressio. Meriterebbero particolare menzione anche tanti vostri documenti, come la «Dichiarazione della Chiesa Boliviana» dello scorso febbraio; come quella del passato novembre 1967, emanata dall’Episcopato Brasiliano e intitolata «Missione della Gerarchia nel mondo d’oggi»; e come la conclusione del «Seminario Sacerdotale», indetto nel Cile nell’ottobre e nel novembre 1967; come la Lettera Pastorale dell’Episcopato Messicano sullo sviluppo e integrazione del Paese, emanata nel primo anniversario dell’Enciclica Populorum progressio; e ricorderemo parimente l’ampia lettera dei Padri Provinciali dei Gesuiti, riuniti a Rio de Janerio nel maggio di quest’anno, e il Documento dei Padri Salesiani di tutta l’America Latina radunati recentemente a Caracas. Le testimonianze della Chiesa alla verità nel terreno sociale non mancano: procuriamo che alle parole rispondano i fatti. Noi non siamo tecnici; siamo però dei Pastori, che devono promuovere il bene dei loro fedeli, e stimolare lo sforzo rinnovatore in atto nei Paesi, dove si svolge la nostra rispettiva missione.

Nostro primo ufficio, in questo campo, è l’affermazione dei principi, l’osservazione e la segnalazione dei bisogni, la dichiarazione dei valori prioritari, l’appoggio ai programmi sociali e tecnici veramente utili e segnati dall’impronta della giustizia nel suo divenire verso un ordine nuovo ed il bene comune, la formazione di Sacerdoti e di Laici alla conoscenza dei problemi sociali, l’avviamento di Laici bene preparati alla grande opera della loro soluzione, tutto considerando alla luce cristiana, che ci fa scorgere l’uomo al primo posto e tutti gli altri beni subordinati alla sua promozione totale nel tempo e alla sua salvezza nell’eternità.

Avremo anche Noi dei doveri da compiere. Siamo informati dei gesti generosi compiuti in alcune diocesi che hanno messo a disposizione di popolazioni bisognose le loro superstiti proprietà terriere, secondo piani bene studiati di riforma agraria, che stanno attuandosi. È un esempio che merita lode, ed anche imitazione, là dove essa sia saggia e possibile.

In ogni modo, la Chiesa oggi si trova davanti alla vocazione della Povertà di Cristo. Vi è nella Chiesa chi già ne sperimenta i disagi inerenti, per insufficienza talvolta di pane e sovente di mezzi: sia confortato, aiutato dai fratelli e dai buoni fedeli, e sia benedetto. È l’indigenza della Chiesa, con la decorosa semplicità delle sue forme, un attestato di fedeltà evangelica; è la condizione, talvolta indispensabile, per dare credito alla propria missione; è un esercizio talora sovrumano di quella libertà di spirito, rispetto ai vincoli della ricchezza, che accresce la forza alla missione dell’apostolo.

La forza? Sì, perché la nostra forza è nell’amore: l’egoismo, il calcolo amministrativo distaccato dal contesto delle finalità religiose e caritative, l’avarizia, l’ansia del possedere come fine a se stesso, il superfluo benessere sono ostacoli all’amore, sono alla fine una debolezza, sono un’inettitudine alla dedizione personale, al sacrificio. Superiamo questi ostacoli e lasciamo che l’amore governi la nostra missione confortatrice e rinnovatrice.

Se noi dobbiamo favorire ogni onesto sforzo per promuovere il rinnovamento e l’elevazione dei Poveri e di quanti vivono in condizioni d’inferiorità umana e sociale, e se noi non possiamo essere solidali con sistemi e strutture che coprono e favoriscono gravi ed opprimenti sperequazioni fra le classi e i cittadini d’un medesimo Paese, senza porre in atto un piano effettivo per rimediare alle condizioni insopportabili d’inferiorità di cui spesso soffre la popolazione meno abbiente. Noi ripetiamo ancora una volta a questo proposito: non l’odio, non la violenza sono la forza della nostra carità. Fra le diverse vie verso una giusta rigenerazione sociale, noi non possiamo scegliere né quella del marxismo ateo, né quella della rivolta sistematica, né tanto meno quella del sangue e dell’anarchia. Distinguiamo le nostre responsabilità da chi invece fa della violenza un nobile ideale, un glorioso eroismo, una compiacente teologia. Per riparare errori del passato e per guarire malanni presenti non commettiamo falli nuovi: essi sarebbero contro il Vangelo, contro lo spirito della Chiesa, contro gli stessi interessi del popolo, contro il genio felice dell’ora presente, che è quello della giustizia in cammino verso la fratellanza e la pace.

La pace, i poveri, la famiglia

La pace! Voi ricordate certamente quanto essa sta a cuore alla Chiesa, a Noi personalmente, che, con la fede, ne abbiamo fatto uno dei motivi salienti del Nostro Pontificato. Ebbene, qui, durante la celebrazione del Sacramento Eucaristico, simbolo e fonte di unità e di pace, ripetiamo il Nostro augurio per la pace; per la pace vera, che nasce dai cuori credenti e fraterni; la pace fra le classi sociali nella giustizia e nella collaborazione; la pace fra i popoli nella celebrazione d’un umanesimo illuminato dal Vangelo; la pace dell’America Latina; la vostra pace.

La trasformazione profonda e lungimirante di cui, in molte situazioni ancor oggi, ha bisogno la società, la promoveremo amando più fortemente ed insegnando ad amare, con energia, con sapienza, con perseveranza, con pratica operosità, con fiducia, negli uomini, con sicurezza nell’aiuto paterno di Dio e nell’insita forza del bene. Il Clero già Ci comprende. I giovani Ci seguiranno. I Poveri accoglieranno volentieri la buona novella. Ed è da sperare che gli operatori economici e politici, che già intravedono la giusta via, non saranno più di freno, ma di stimolo, all’avanguardia.

Abbiamo dovuto dire una grave, una buona parola in difesa dell’onestà dell’amore e della dignità del matrimonio, con la Nostra Enciclica. La grande maggioranza della Chiesa l’ha accolta con favore e con fiduciosa obbedienza, non senza comprendere che la norma da Noi riaffermata comporta un forte senso morale e un coraggioso spirito di sacrificio. Dio benedirà questo degno atteggiamento cristiano. Esso non è una corsa cieca alla sovrappopolazione; esso non diminuisce la responsabilità, né la libertà dei coniugi, a cui non vieta un’onesta e ragionevole limitazione delle nascite; non impedisce ogni legittima terapia e il progresso della ricerca scientifica. Esso è una educazione etica e spirituale coerente e profonda; esso esclude l’uso di mezzi che profanano i rapporti coniugali e che intendono risolvere i grandi problemi della popolazione con troppo facili ripieghi; esso, in fondo, è un’apologia della vita, ch’è il dono di Dio, la gloria della famiglia, la forza del popolo.

Noi vi esortiamo, Fratelli, a ben comprendere l’importanza della delicata e difficile posizione che, in omaggio alla legge di Dio, Noi abbiamo creduto doveroso riaffermare; e vi preghiamo di voler usare ogni possibile premura pastorale e sociale, affinché tale posizione sia tenuta come si conviene da gente guidata da vero senso umano; e Dio voglia che anche la vivace discussione suscitata dalla Nostra Enciclica conduca ad una migliore conoscenza della volontà di Dio, ad un modo di procedere senza riserve, e che, in queste grandi difficoltà pastorali ed umane, possiamo compiere il nostro servizio a beneficio delle anime con cuore di Buon Pastore. Per terminare: l’Episcopato dell’America Latina, nella sua seconda Assemblea Generale, al posto che gli compete, davanti ad ogni problema spirituale, pastorale e sociale, presterà il suo servizio di verità e di amore, per la costruzione d’una nuova civiltà, moderna e cristiana.




Giovedì, 1° marzo 1973: INCONTRO CON IL CLERO ROMANO

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Segue la meditazione dettata dal Santo Padre, il quale ricorda, anzitutto, che la consuetudine di questo incontro alla vigilia della Quaresima è nata come un’esortazione ai predicatori quaresimalisti, ai quali si è poi aggiunto anche il gruppo dei parroci e del clero romano per dare all’udienza una maggiore completezza. Aggiunge che il colloquio odierno avrebbe avuto una configurazione più affettiva che meditativa e dispositiva, dovendo rinviare ad ulteriori occasioni un maggiore approfondimento della visione generale dell’azione pastorale della Chiesa.

Il Papa, subito, saluta calorosamente il nuovo Vicario, Cardinale eletto Poletti, al quale è affidato il tesoro più grande e più prezioso del suo ministero, cioè il clero di Roma. Il travasare nelle mani del Vicario la sua responsabilità è per il Santo Padre motivo di sollievo e di conforto. Ma ciò non lascia vuoto il suo cuore dall’immenso amore che lo lega ai sacerdoti romani.

Paolo VI ha, poi, parole di affettuoso ricordo per il compianto Cardinale Dell’Acqua, nei confronti del quale egli nutre sentimenti di infinita stima e gratitudine. Inoltre saluta il nuovo vice gerente Monsignore Rovigatti, che fu già parroco di Roma e che perciò è accanto agli altri membri del clero come un fratello, i vescovi ausiliari e tutti i presenti, assicurando il suo aiuto e la sua solidarietà per il loro ministero affinché diventi davvero di conforto alle anime. Un particolare pensiero è per i predicatori, la cui funzione si augura che sia tanto più feconda quanto più, purtroppo, oggi è diminuita l’affluenza dei fedeli e la risonanza nell’opinione pubblica.

Riallacciandosi alla meditazione esposta l’anno scorso nell’udienza ai parroci e ai quaresimalisti di Roma, Paolo VI insiste ancora sulla necessità per i sacerdoti di approfondire il problema della loro identità in un momento di rielaborazione, di risveglio, di ristrutturazione vivace se non addirittura di crisi. Chi siamo? Perché siamo chiamati preti? Che cosa vuol dire? A che siamo deputati? Non siamo forse superati dalla società che ci circonda? si chiede il Papa. Credevamo di lavorare - aggiunge - su un terreno solido, mentre ci siamo accorti che il terreno si muove, scompare, si scioglie sotto di noi. Abbiamo talora l’impressione di lavorare a vuoto. I sacerdoti che si sono posti con maggior chiarezza e con più incalzante severità il problema della loro identità sono quelli che più si sono trovati in mezzo al vuoto, al disinteresse, a un ambiente che li considerava superati, inutili, superflui. Accade che il sacerdote si scoraggi vedendo che i suoi tentativi di contatto con il mondo raggiungono soltanto alcuni superstiti rappresentanti di vecchie generazioni.

Purtroppo quest’anno, osserva il Santo Padre, dobbiamo notare un passo in avanti, che è poi nella realtà un passo indietro nel processo analitico che il clero fa sopra se stesso. Non solo il sacerdote sarebbe un ministro del nulla e senza efficacia, ma si costaterebbe che è tutto sbagliato. E questo non soltanto da parte dei soliti irrequieti, ma anche da voci solitamente attente e autorevoli. È necessario - dicono - ristrutturare tutta la Chiesa perché così come è attualmente non è coordinata con il mondo che la circonda. Il rapporto Chiesa-mondo è il problema centrale, ma - si fa notare - questo rapporto oggi non è efficace, non è quello che dovrebbe essere, o almeno quello che critici e studiosi si immaginano di aver individuato. Dal dubbio sull’identità, cioè, abbiamo fatto un passo indietro verso l’affermazione dell’inutilità, sconfessando ancora più radicalmente la Chiesa costituita com’è, lasciando al libero sbandamento tutti gli istinti spirituali, anche quelli buoni. Siamo in un momento in cui è necessario riprendere la riflessione su noi stessi per rimettere in piedi qualcosa dentro di noi. Anche se voi non avete bisogno di così cruda meditazione - dichiara il Papa riferendosi ai presenti - dobbiamo ugualmente affrontarla. È questa, come suol dirsi, l’ora della verità.

Che cosa dobbiamo pensare di noi, che concetto dobbiamo avere del prete, del pastore, dell’incarico che ci ha investito, del nostro destino, della nostra professione, del nostro dovere, del mondo in cui veniamo a vivere come ministri del Vangelo, coordinati a Cristo come suoi rappresentanti, suoi ministri, come canali della sua parola, della sua grazia, dei suoi esempi, della realizzazione del suo Vangelo? Chiesa-mondo: contatto, compenetrazione, assimilazione, secolarizzazione. Fin dove è arrivata questa idea di secolarizzazione nel nostro ambiente? Si sente dire che il prete è un uomo e deve essere un uomo come gli altri. Deve essere un uomo completo. E si introduce nella pianificazione spirituale tutta una serie di problemi sul modo di vivere, di concepire la nostra esistenza che davvero sconvolge, altera e sfigura, quando addirittura non tradisce, l’impronta che Cristo ha impresso sopra la nostra anima. L’espressione «Tu sarai un altro Cristo» viene sbiadita e stravolta. Se il prete è un uomo, la sua cultura deve essere quella profana. Ed ecco l’invasione di giornali, riviste, libri, pubblicazioni di cui si nutre la cultura media profana. Si dice che, se il prete è un uomo, allora deve avere tutte le esperienze che ha un uomo. E per esperienze di solito, purtroppo, si intendono quelle negative. Si dice che se il prete non conosce queste cose resta un ignaro, si fa un’immagine falsa, artefatta, ingenua, infantile della vita. Bisogna che conosca. Ma che cosa? il male, le tentazioni, le cadute, le esperienze cattive. Bisogna - si dice - che abbia qualche cognizione diretta e vissuta della vita, altrimenti resta un diminuito. E ciò, quasi che un uomo ferito, deformato nella sua figura morale, nella sua intangibilità spirituale come uomo battezzato figlio di Dio, abbia di che guadagnare ad aver subito di queste sciabolate, di queste ferite. Nel quadro di questa concezione, per esempio, che resta dell’abito ecclesiastico? Senza soffermarsi a lungo su questo aspetto, comunque marginale, il Papa ha definito come una ipocrisia l’atteggiamento del prete che si assimila tanto al profano da non farsi più distinguere. L’assimilazione al profano è una tesi che va diffondendosi e va secolarizzando colui che ha l’investitura dell’Ordine Sacro e la missione di rappresentare e di vivere Cristo in sé.

Paolo VI tiene a ribadire che il sacerdote è anzitutto ministro di Cristo, prima ancora di essere un uomo. Se così non fosse, anche il celibato non avrebbe più i titoli sufficienti per essere conservato nella sua pienezza, nella sua integrità, nel suo splendore angelico e trasfigurante che lo rende tale da essere ancora oggi rivendicato dal clero latino. Essere ministro di Cristo è essere seguace di Cristo. Il seguire Cristo comporta un distacco. Gli apostoli lasciarono le reti, le loro cose, le loro occupazioni, il loro paese, le loro famiglie. Così il sacerdote è come un derubato, uno spogliato da Cristo stesso, il quale non ha chiesto soltanto la rinunzia alle cose che danno una configurazione sensibile alla persona, ma alla persona stessa. Ha detto: colui che ama la propria vita non è degno di me. Chi cerca la propria vita la perderà.

Siamo messi di fronte a questo bivio: per seguire Cristo dobbiamo abbandonare una quantità di cose. Dobbiamo essere spogliati, poveri non solo economicamente, ma anche culturalmente e socialmente. Senza questi distacchi, non siamo servi fedeli, non siamo ministri coerenti, né capaci, perché la capacità di essere Ministri è nel distacco. Si parla tanto di liberazione, ha fatto notare il Papa. ma la liberazione che Cristo ci chiede consiste proprio nel lasciare a casa tutte le cose inutili, salvo quelle che possono servire per l’annuncio, per la celebrazione dell’Eucaristia e per il servizio di ministero delle anime. Dobbiamo essere dei distaccati. E questo produce effetti spiacevoli. Di fronte al mondo si può perfino apparire ridicoli. E nessuna cosa è più intollerabile per uomini intelligenti e sensibili. Ebbene, noi accettiamo di essere tali, di portare vesti e di compiere gesti speciali. Il mondo demitizza quello che per noi è il sacrificio fondamentale della nostra vita: Ti seguirò senza voltarmi indietro. San Paolo dice di sé «segregatus in evangelium Dei». Oggi si userebbe la parola «emarginato». Dobbiamo aver coscienza di essere ridotti in questa condizione dalla nostra fedeltà, dal nostro impegno, per rendere efficace, credibile la nostra missione sacerdotale. Bisogna stare attenti a un fenomeno che si ripete perché siamo pur sempre figli di Adamo. Accade cioè che il ministero stesso ci porti a un recupero di ciò che abbiamo lasciato, al desiderio di un ritorno in altre forme a ciò di cui il Signore ci voleva spogliare. I privilegi, per esempio, legati ad ogni tipo di autorità. Siamo portati a distinguerci, a riacquistare indirettamente quel che avevamo perduto e soffocato. Per un certo fenomeno di gravitazione morale, insensibile e fatale, torniamo quelli di prima, e alcune volte diventiamo addirittura peggiori di quelli di prima quanto all’adesione al mondo da cui volevamo essere liberati. Il Signore invece ci dice: devi essere povero, umile, puro, un uomo singolare, un uomo che si riconosce a vista che è un prete, un uomo fuori dal giro degli interessi degli altri, delle amicizie, degli affari: un isolato.

Abbiamo giurato fedeltà a questa condizione, umanamente oggi tanto deprezzata se non disprezzata. E dobbiamo rimanere fedeli e coerenti sulla Croce. Se non portiamo la nostra croce non siamo degni di Cristo. Abbiamo perduto tutto, ma Cristo ci è rimasto. Abbiamo scelto Lui, È il nostro maestro, il nostro amico, il nostro amore. Per noi Cristo è Dio che ci viene regalato; Egli rimane il nostro tutto. Abbiamo assolutizzato Cristo. Per noi è tutto: Deus meus et omnia. Così risultano giustificati tutti gli altri sacrifici subalterni.

Seguendo invece la psicologia della liberazione dal mondo - tosi dice il Santo Padre - noi deformiamo, se addirittura non tradiamo, il nostro impegno fondamentale. Noi siamo usciti dal mondo. Non siamo come gli altri non perché abbiamo di più, ma perché abbiamo di meno, non abbiamo quello che hanno gli altri. Ma siamo di Cristo. La pienezza di questa persuasione ci rende meno gravi i sacrifici che siamo chiamati a fare e che arrivano fino all’immolazione di noi stessi. Ma se siamo fuori dal mondo come siamo capaci di comprenderlo? Dovevamo essere suoi medici, maestri, assistenti, e invece? Ecco il bel paradosso della vita ecclesiastica: essere da una parte distaccati e dall’altra immersi nel mondo. Essere pastori, essere amici della società che si è lasciata. Ciò sembra inconciliabile. Eppure il sacerdozio si realizza proprio in questa fusione della carità che ci immerge nel prossimo con l’altra carità che ci porta in alto, distaccandosi dal mondo in Cristo. Quanto al modo di realizzare questa situazione apparentemente paradossale, il Papa si è limitato a una similitudine. Il sacerdote, osserva, è come il medico, che vive in mezzo ai malati ma nello stesso tempo si protegge dal male con le disinfezioni e altre forme di autodifesa.

Vi accorgerete - conclude il Papa - che siete tanto più idonei ad avvicinare gli altri, a capirli, a convivere con loro, a servirli, a consolarli, a diventare loro amici, compagni indispensabili, padri spirituali, quanto più siete personalmente liberi e distaccati da quel mondo che andate perseguendo per sanarlo e farlo fiorire nelle sue virtù.

«Age quod agis» - aggiunge -. Bisogna far bene ciò che dobbiamo fare, nel quadro del programma complesso del ministero pastorale del tempo nostro. Bisogna far bene la catechesi, promuovere bene l’azione cattolica, far bene il servizio liturgico, lasciare lo spazio necessario alla meditazione: «Ci sia qualche momento di assoluto silenzio nelle nostre giornate; troviamo sempre un angolo per il nostro colloquio solitario con il Signore; facciamo sì che gli altri, quando si prega, ci sentano in uno stato diverso».

Sua Santità termina la sua esposizione esprimendo al clero romano la sua riconoscenza, assicurando ogni possibile cura per mettere i sacerdoti in grado di svolgere adeguatamente la loro missione. Sappiate che, indipendentemente dai risultati e dallo stile della vostra azione pastorale, vi segue una grande affezione e venerazione, una comunione di anime, di preghiere, di speranze e di benedizioni.





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