Laborem exercens 8

8. Solidarietà degli uomini del lavoro

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Se si tratta del lavoro umano nella fondamentale dimensione del suo soggetto, cioè dell'uomo-persona che esegue un dato lavoro, si deve da questo punto di vista fare almeno una sommaria valutazione degli sviluppi, che nei novant'anni trascorsi dalla "Rerum Novarum" sono avvenuti in rapporto all'aspetto soggettivo del lavoro. Difatti, per quanto il soggetto del lavoro sia sempre lo stesso, cioè l'uomo, tuttavia nell'aspetto oggettivo si verificano notevoli variazioni. Benché si possa dire che il lavoro, a motivo del suo soggetto, è uno (uno e ogni volta irripetibile), tuttavia, considerando, le sue oggettive direzioni, bisogna costatare che esistono molti lavori: tanti diversi lavori. Lo sviluppo della civiltà umana porta in questo campo un arricchimento continuo. Al tempo stesso, pero, non si può non notare come nel processo di questo sviluppo non solo compaiono nuove forme di lavoro, ma pure che altre spariscono. Pur concedendo che in linea di massima questo sia un fenomeno normale, bisogna, tuttavia, vedere se non si infiltrino in esso, e in quale misura, certe irregolarità, che per motivi etico-sociali possono essere pericolose.

Proprio a motivo di una tale anomalia di grande portata è nata nel secolo scorso la cosiddetta questione operaia, definita a volte come "questione proletaria". Tale questione - con i problemi ad essa connessi - ha dato origine ad una giusta reazione sociale, ha fatto sorgere e quasi irrompere un grande slancio di solidarietà tra gli uomini del lavoro e, prima di tutto, tra i lavoratori dell'industria. L'appello alla solidarietà e all'azione comune, lanciato agli uomini del lavoro - soprattutto a quelli del lavoro settoriale, monotono, spersonalizzante nei complessi industriali, quando la macchina tende a dominare sull'uomo - aveva un suo importante valore e una sua eloquenza dal punto di vista dell'etica sociale. Era la reazione contro la degradazione dell'uomo come soggetto del lavoro, e contro l'inaudito, concomitante sfruttamento nel campo dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di previdenza per la persona del lavoratore. Tale reazione ha riunito il mondo operaio in una comunità caratterizzata da una grande solidarietà.

Sulle orme dell'enciclica "Rerum Novarum" e di molti documenti successivi del Magistero della Chiesa bisogna francamente riconoscere che fu giustificata, dal punto di vista della morale sociale, la reazione contro il sistema di ingiustizia e di danno, che gridava vendetta al cospetto del Cielo (cfr.
Dt 24,15 Jc 5,4 e anche Gn 4,10), e che pesava sull'uomo del lavoro in quel periodo di rapida industrializzazione. Questo stato di cose era favorito dal sistema socio-politico liberale che, secondo le sue premesse di economismo, rafforzava e assicurava l'iniziativa economica dei soli possessori del capitale, ma non si preoccupava abbastanza dei diritti dell'uomo del lavoro, affermando che il lavoro umano è soltanto uno strumento di produzione e che il capitale è il fondamento, il coefficiente e lo scopo della produzione.

Da allora, la solidarietà degli uomini del lavoro, insieme con una presa di coscienza più netta e più impegnativa circa i diritti dei lavoratori da parte degli altri, ha prodotto in molti casi cambiamenti profondi. Si sono escogitati diversi nuovi sistemi. Si sono sviluppate diverse forme di neo-capitalismo o di collettivismo. Non di rado gli uomini del lavoro possono partecipare, ed effettivamente partecipano, alla gestione ed al controllo della produttività delle imprese. Per il tramite di appropriate associazioni, essi influiscono sulle condizioni di lavoro e di rimunerazione, come anche sulla legislazione sociale. Ma nello stesso tempo vari sistemi ideologici o di potere, come anche nuove relazioni, sorte ai diversi livelli della convivenza umana, hanno lasciato persistere ingiustizie flagranti o ne hanno creato di nuove. A livello mondiale lo sviluppo della civiltà e delle comunicazioni ha reso possibile una più completa diagnosi delle condizioni di vita e di lavoro dell'uomo in tutta la terra, ma ha anche messo in luce altre modalità di ingiustizia, ben più vaste di quelle che, nel secolo scorso, stimolarono l'unione degli uomini del lavoro per una particolare solidarietà nel mondo operaio. così nei Paesi che hanno già compiuto un certo processo di rivoluzione industriale; così anche nei Paesi nei quali il cantiere primario del lavoro non cessa di essere la coltivazione della terra, o altre occupazioni ad essa consimili.

Movimenti di solidarietà nel campo del lavoro - di una solidarietà che non deve mai essere chiusura al dialogo e alla collaborazione con gli altri - possono essere necessari anche in riferimento alle condizioni di ceti sociali che prima non erano in essi compresi, ma che subiscono, nei sistemi sociali e nelle condizioni di vita che cambiano, un'effettiva "proletarizzazione", o addirittura si trovano in realtà già in una condizione di "proletariato", la quale, anche se non ancora conosciuta con questo nome, di fatto è tale da meritarlo. In questa condizione possono trovarsi alcune categorie o gruppi dell'"intellighenzia" lavorativa, specialmente quando insieme con l'accesso sempre più largo all'istruzione, col numero sempre crescente delle persone che hanno conseguito diplomi per la loro preparazione culturale, diminuisce il fabbisogno del loro lavoro. Tale disoccupazione degli intellettuali avviene o aumenta, quando l'istruzione accessibile non è orientata verso i tipi di impiego o di servizi richiesti dai veri bisogni della società o quando il lavoro, per il quale si esige l'istruzione, almeno professionale, è meno ricercato o meno pagato di un lavoro manuale. E' ovvio che l'istruzione di per se stessa costituisce sempre un valore ed un importante arricchimento della persona umana; ma ciononostante, taluni processi di "proletarizzazione" restano possibili indipendentemente da questo fatto.

Perciò, bisogna continuare a interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le condizioni in cui egli vive. Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa è vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la "Chiesa dei poveri". E i "poveri" compaiono sotto diverse specie; compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le possibilità del lavoro - cioè per la piaga della disoccupazione - sia perché vengono svalutati il lavoro e i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia.


9. Lavoro: dignità della persona

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Rimanendo ancora nella prospettiva dell'uomo come soggetto del lavoro, ci conviene toccare, almeno sinteticamente, alcuni problemi che definiscono più da vicino la dignità del lavoro umano, poiché permettono di caratterizzare più pienamente il suo specifico valore morale. Occorre far questo tenendo sempre davanti agli occhi quella vocazione biblica a "soggiogare la terra" (cfr.
Gn 1,28), nella quale si è espressa la volontà del Creatore, perché il lavoro rendesse possibile all'uomo di raggiungere quel "dominio" che gli è proprio nel mondo visibile.

La fondamentale e primordiale intenzione di Dio nei riguardi dell'uomo, che Egli "creo... a sua somiglianza, a sua immagine" (cfr. Gn 1,26), non è stata ritrattata né cancellata neppure quando l'uomo, dopo aver infranto l'originaria alleanza con Dio, udi le parole: "Col sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gn 3,19). Queste parole si riferiscono alla fatica a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano; pero, non cambiano il fatto che esso è la via sulla quale l'uomo realizza il "dominio", che gli è proprio, sul mondo visibile "soggiogando" la terra. Questa fatica è un fatto universalmente conosciuto, perché universalmente sperimentato. Lo sanno gli uomini del lavoro manuale, svolto talora in condizioni eccezionalmente gravose. Lo sanno non solo gli agricoltori, che consumano lunghe giornate nel coltivare la terra, la quale a volte "produce pruni e spine" (He 6,8 cfr. Gn 3,18), ma anche i minatori nelle miniere o nelle cave di pietra, i siderurgici accanto ai loro altiforni, gli uomini che lavorano nei cantieri edili e nel settore delle costruzioni in frequente pericolo di vita e di invalidità. Lo sanno, al tempo stesso, gli uomini legati al banco del lavoro intellettuale, lo sanno gli scienziati, lo sanno gli uomini sui quali grava la grande responsabilità di decisioni destinate ad avere vasta rilevanza sociale. Lo sanno i medici e gli infermieri, che vigilano giorno e notte accanto ai malati. Lo sanno le donne, che, talora senza adeguato riconoscimento da parte della società e degli stessi familiari, portano ogni giorno la fatica e la responsabilità della casa e dell'educazione dei figli. Lo sanno tutti gli uomini del lavoro e, poiché è vero che il lavoro è una vocazione universale, lo sanno tutti gli uomini.

Eppure, con tutta questa fatica - e forse, in un certo senso, a causa di essa - il lavoro è un bene dell'uomo. Se questo bene comporta il segno di un "bonum arduum", secondo la terminologia di san Tommaso (cfr. I-II 40,1c; I-II 34,2, ad 1), ciò non toglie che, come tale, esso sia un bene dell'uomo. Ed è non solo un bene "utile" o "da fruire", ma un bene "degno", cioè corrispondente alla dignità dell'uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce. Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un bene dell'uomo - è un bene della sua umanità -, perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, "diventa più uomo".

Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l'uomo diventa buono in quanto uomo (cfr. I-II 40,1 c; I-II 34,1). Questo fatto non cambia per nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il quale la materia viene nobilitata, l'uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità (cfr. Pio XII "Quadragesimo Anno" ASS 23 (1931) 221,222). E' noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l'uomo, che si può punire l'uomo col sistema del lavoro forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell'uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l'uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell'obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con l'ordine sociale del lavoro, che permetterà all'uomo di "diventare più uomo" nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, è inevitabile), ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie.


10. Lavoro e società: famiglia, nazione

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Confermata in questo modo la dimensione personale del lavoro umano, si deve poi arrivare al secondo cerchio di valori, che è ad esso necessariamente unito. Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell'uomo. Questi due cerchi di valori - uno congiunto al lavoro, l'altro conseguente al carattere familiare della vita umana - devono unirsi tra sé correttamente, e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l'uomo acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno "diventa uomo", fra l'altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo. Evidentemente qui entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che consente la vita ed il mantenimento della famiglia, e quello mediante il quale si realizzano gli scopi della famiglia stessa, soprattutto l'educazione. Ciononostante, questi due aspetti del lavoro sono uniti tra di loro e si completano in vari punti.

Nell'insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l'ordine socio-etico del lavoro umano. La dottrina della Chiesa ha sempre dedicato una speciale attenzione a questo problema, e nel presente documento occorrerà che ritorniamo ancora su di esso. Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo.

Il terzo cerchio di valori che emerge nella presente prospettiva - nella prospettiva del soggetto del lavoro - riguarda quella grande società, alla quale l'uomo appartiene in base a particolari legami culturali e storici. Tale società - anche quando non ha ancora assunto la forma matura di una nazione - e non soltanto la grande "educatrice" di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno assume nella famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la cultura di una data nazione), ma è anche una grande incarnazione storica e sociale del lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa si che l'uomo unisca la sua più profonda identità umana con l'appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo.

Questi tre cerchi conservano permanentemente la loro importanza per il lavoro umano nella sua dimensione soggettiva. E tale dimensione, cioè la concreta realtà dell'uomo del lavoro, ha la precedenza sulla dimensione oggettiva. Nella dimensione soggettiva si realizza, prima di tutto, quel "dominio" sul mondo della natura, al quale l'uomo è chiamato sin dall'inizio secondo le parole del Libro della Genesi. Se il processo stesso di "soggiogare la terra", cioè il lavoro sotto l'aspetto della tecnica, è segnato nel corso della storia e, specialmente, negli ultimi secoli, da uno sviluppo immenso dei mezzi produttivi, allora questo è un fenomeno vantaggioso e positivo, a condizione che la dimensione oggettiva del lavoro non prenda il sopravvento sulla dimensione soggettiva, togliendo all'uomo o diminuendo la sua dignità e i suoi inalienabili diritti.

III. Il conflitto tra lavoro e capitale nella presente fase storica

11. Dimensioni di tale conflitto

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L'abbozzo della fondamentale problematica del lavoro qual è stato delineato sopra, come si riferisce ai primi testi biblici, così costituisce, in un certo senso, la stessa struttura portante dell'insegnamento della Chiesa, che si mantiene immutato attraverso i secoli, nel contesto delle varie esperienze della storia. Tuttavia, sullo sfondo delle esperienze che hanno preceduto la pubblicazione dell'enciclica "Rerum Novarum" e che l'hanno seguita, esso acquista una particolare espressività ed un'eloquenza di viva attualità. Il lavoro appare in questa analisi come una grande realtà, che esercita un fondamentale influsso sulla formazione in senso umano del mondo affidato all'uomo dal Creatore, ed è una realtà strettamente legata all'uomo, come al proprio soggetto, ed al suo razionale operare. Questa realtà, nel corso normale delle cose, riempie la vita umana e incide fortemente sul suo valore e sul suo senso. Anche se unito con la fatica e con lo sforzo, il lavoro non cessa di essere un bene, sicché l'uomo si sviluppa mediante l'amore per il lavoro. Questo carattere del lavoro umano, del tutto positivo e creativo, educativo e meritorio, deve costituire il fondamento delle valutazioni e delle decisioni che oggi si prendono nei suoi riguardi, anche in riferimento ai diritti soggettivi dell'uomo, come attestano le Dichiarazioni internazionali ed anche i molteplici Codici del lavoro, elaborati sia dalle competenti istituzioni legislative dei singoli Paesi, sia dalle Organizzazioni che dedicano la loro attività sociale o anche scientifico-sociale alla problematica del lavoro. Un organismo che promuove a livello internazionale tali iniziative è l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, la più antica Istituzione specializzata dell'Onu.

Nella parte successiva delle presenti considerazioni ho intenzione di ritornare in modo più dettagliato su questi importanti problemi, ricordando almeno gli elementi fondamentali della dottrina della Chiesa intorno a questo tema. Prima pero conviene toccare un cerchio molto importante di problemi, tra i quali si è venuto formando questo insegnamento nell'ultima fase, cioè nel periodo, la cui data, in un certo senso simbolica, è l'anno della pubblicazione dell'enciclica "Rerum Novarum".

E' noto che in tutto questo periodo, il quale non è affatto ancora terminato, il problema del lavoro è stato posto in base al grande conflitto, che nell'epoca dello sviluppo industriale ed insieme con esso si è manifestato tra il "mondo del capitale" e il "mondo del lavoro", cioè tra il gruppo ristretto, ma molto influente, degli imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione, e la più vasta moltitudine di gente che era priva di questi mezzi, e che partecipava, invece, al processo produttivo esclusivamente mediante il lavoro.

Tale conflitto è stato originato dal fatto che i lavoratori mettevano le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo, guidato dal principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò bisogna aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la mancanza di sicurezza del lavoro ed anche di garanzie circa le condizioni di salute e di vita degli operai e delle loro famiglie.

Questo conflitto, interpretato da certuni come un conflitto socio-economico a carattere di classe, ha trovato la sua espressione nel conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, ed il marxismo, inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo, che pretende di intervenire in veste di portavoce della classe operaia, di tutto il proletariato mondiale. In questo modo il reale conflitto, che esisteva tra il mondo del lavoro ed il mondo del capitale, si è trasformato nella lotta programmata di classe, condotta con metodi non solo ideologici, ma addirittura, e prima di tutto, politici. E' nota la storia di questo conflitto, come note sono anche le richieste dell'una e dell'altra parte. Il programma marxista, basato sulla filosofia di Marx e di Engels, vede nella lotta di classe l'unica via per l'eliminazione delle ingiustizie di classe, esistenti nella società, e delle classi stesse. L'attuazione di questo programma permette la collettivizzazione dei mezzi di produzione, affinché, mediante il trasferimento di questi mezzi dai privati alla collettività, il lavoro umano venga preservato dallo sfruttamento.

A questo tende la lotta condotta con metodi non solo ideologici, ma anche politici. I raggruppamenti, ispirati dall'ideologia marxista come partiti politici, tendono, in funzione del principio della "dittatura del proletarato" ed esercitando influssi di vario tipo, compresa la pressione rivoluzionaria, al monopolio del potere nelle singole società, per introdurre in esse, mediante l'eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema collettivistico. Secondo i principali ideologi e capi di questo ampio movimento internazionale lo scopo di un tale programma di azione è quello di compiere la rivoluzione sociale e di introdurre in tutto il mondo il socialismo e, in definitiva, il sistema comunista.

Toccando questo cerchio estremamente importante di problemi, che costituiscono non solo una teoria, ma proprio un tessuto di vita socio-economica, politica e internazionale della nostra epoca, non si può e non è nemmeno necessario entrare in particolari, poiché questi sono conosciuti sia grazie ad una vasta letteratura, sia in base alle esperienze pratiche. Si deve, invece, risalire dal loro contesto al problema fondamentale del lavoro umano, al quale sono dedicate soprattutto le considerazioni contenute nel presente documento. Al tempo stesso, infatti, è evidente che questo problema capitale, sempre dal punto di vista dell'uomo - problema che costituisce una delle fondamentali dimensioni della sua esistenza terrena e della sua vocazione -, non può essere altrimenti spiegato se non tenendo conto del pieno contesto della realtà contemporanea.



12. Priorità del lavoro

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Di fronte all'odierna realtà, nella cui struttura si trovano così profondamente inscritti tanti conflitti causati dall'uomo, e nella quale i mezzi tecnici - frutto del lavoro umano - giocano un ruolo primario (si pensi qui anche alla prospettiva di un cataclisma mondiale nell'eventualità di una guerra nucleare dalle possibilità distruttive quasi inimmaginabili), si deve prima di tutto ricordare un principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della priorità del "lavoro" nei confronti del "capitale" Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il "capitale", essendo l'insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l'esperienza storica dell'uomo.

Quando nel primo capitolo della Bibbia sentiamo che l'uomo deve soggiogare la terra, noi sappiamo che queste parole si riferiscono a tutte le risorse, che il mondo visibile racchiude in sé, messe a disposizione dell'uomo.

Tuttavia tali risorse non possono servire all'uomo se non mediante il lavoro. Col lavoro rimane pure legato sin dall'inizio il problema della proprietà: infatti, per far servire a sé e agli altri le risorse nascoste nella natura, l'uomo ha come unico mezzo il suo lavoro. E per poter far fruttificare queste risorse per il tramite del suo lavoro, l'uomo si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze della natura: del sottosuolo del mare, della terra, dello spazio. Di tutto questo egli si appropria facendone il suo banco di lavoro. Se ne appropria mediante il lavoro e per un ulteriore lavoro.

Lo stesso principio si applica alle fasi successive di questo processo, nel quale la prima fase rimane sempre la relazione dell'uomo con le risorse e con le ricchezze della natura. Tutto lo sforzo conoscitivo, tendente a scoprire queste ricchezze, a individuare le varie possibilità della loro utilizzazione da parte dell'uomo e per l'uomo, ci rende consapevoli che tutto ciò che nell'intera opera di produzione economica proviene dall'uomo, sia il lavoro come pure l'insieme dei mezzi di produzione e la tecnica collegata con essi (cioè la capacità di adoperare questi mezzi nel lavoro), suppone queste ricchezze e risorse del mondo visibile, che l'uomo trova, ma non crea. Egli le trova, in un certo senso, già pronte, preparate per la scoperta conoscitiva e per la corretta utilizzazione nel processo produttivo. In ogni fase dello sviluppo del suo lavoro. l'uomo si trova di fronte al fatto della principale donazione da parte della "natura", e cioè in definitiva da parte del Creatore. All'inizio del lavoro umano sta il mistero della creazione.

Questa affermazione, già indicata come punto di partenza, costituisce il filo conduttore di questo documento, e verrà sviluppata ulteriormente nell'ultima parte delle presenti riflessioni.

La successiva considerazione dello stesso problema deve confermarci nella convinzione circa la priorità del lavoro umano in rapporto a ciò che, col passare del tempo, si è abituati a chiamare "capitale". Se infatti nell'ambito di quest'ultimo concetto rientrano, oltre che le risorse della natura messe a disposizione dell'uomo, anche quell'insieme di mezzi, mediante i quali l'uomo se ne appropria, trasformandole a misura delle sue necessità (e in questo modo, in qualche senso, "umanizzandole"), allora già qui si deve costatare che quell'insieme di mezzi è frutto del patrimonio storico del lavoro umano. Tutti i mezzi di produzione dai più primitivi fino a quelli ultramoderni, è l'uomo che li ha gradualmente elaborati: l'esperienza e l'intelletto dell'uomo. In questo modo sono sorti non solo gli strumenti più semplici che servono alla coltivazione della terra, ma anche - con un adeguato progresso della scienza e della tecnica - quelli più moderni e complessi: le macchine, le fabbriche, i laboratori e i computers.

Così, tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce - allo stato odierno della tecnica - il suo "strumento" sempre più perfezionato, è frutto del lavoro.

Questo gigantesco e potente strumento - l'insieme dei mezzi di produzione, che sono considerati, in un certo senso, come sinonimo di "capitale" -, è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano. Al presente grado di avanzamento della tecnica, l'uomo, che è il soggetto del lavoro, volendo servirsi di quest'insieme di moderni strumenti, ossia dei mezzi di produzione, deve prima assimilare sul piano della conoscenza il frutto del lavoro degli uomini che hanno scoperto quegli strumenti, che li hanno programmati, costruiti e perfezionati, e che continuano a farlo. La capacità di lavoro - cioè di partecipazione efficiente al moderno processo di produzione - esige una preparazione sempre maggiore e, prima di tutto, un'adeguata istruzione. Resta chiaro ovviamente che ogni uomo, che partecipa al processo di produzione anche nel caso che esegua solo quel tipo di lavoro, per il quale non sono necessari una particolare istruzione e speciali qualificazioni, è tuttavia in questo processo di produzione il vero soggetto efficiente, mentre l'insieme degli strumenti, anche il più perfetto in se stesso, è solo ed esclusivamente strumento subordinato al lavoro dell'uomo.

Questa verità, che appartiene al patrimonio stabile della dottrina della Chiesa, deve esser sempre sottolineata in relazione al problema del sistema di lavoro, ed anche di tutto il sistema socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto il primato dell'uomo nel processo di produzione, il primato dell'uomo di fronte alle cose. Tutto ciò che è contenuto nel concetto di "capitale" - in senso ristretto - è solamente un insieme di cose. L'uomo come soggetto del lavoro, ed indipendentemente dal lavoro che compie, l'uomo, egli solo, è una persona. Questa verità contiene in sé conseguenze importanti e decisive.



13. Economismo e materialismo

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Prima di tutto, alla luce di questa verità, si vede chiaramente che non si può separare il "capitale" dal lavoro, e che in nessun modo si può contrapporre il lavoro al capitale né il capitale al lavoro, né ancora meno - come si spiegherà più avanti - gli uomini concreti, che sono dietro a questi concetti, gli uni agli altri. Retto, cioè conforme all'essenza stessa del problema; retto, cioè intrinsecamente vero e al tempo stesso moralmente legittimo, può essere quel sistema di lavoro che alle sue stesse basi supera l'antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della sostanziale ed effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro umano e della sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e ciò indipendentemente dalla natura delle prestazioni che sono eseguite dal lavoratore.

L'antinomia tra lavoro e capitale non ha la sua sorgente nella struttura dello stesso processo di produzione, e neppure in quella del processo economico.

In generale questo processo dimostra, infatti, la reciproca compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo abituati a chiamare il capitale; dimostra il loro legame indissolubile. L'uomo, lavorando a qualsiasi banco di lavoro, sia esso relativamente primitivo oppure ultra-moderno, può rendersi conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè nel patrimonio di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste risorse, prima di tutto sviluppando la tecnica, cioè formando un insieme di strumenti di lavoro sempre più perfetti: l'uomo, lavorando, al tempo stesso "subentra nel lavoro degli altri" (cfr.
Jn 4,38). Accettiamo senza difficoltà una tale immagine del campo e del processo del lavoro umano, guidati sia dall'intelligenza sia dalla fede che attinge la luce dalla Parola di Dio. E' questa un'immagine coerente, teologica ed insieme umanistica. L'uomo è in essa il "padrone" delle creature, che sono messe a sua disposizione nel mondo visibile. Se nel processo del lavoro si scopre qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal Datore di tutte le risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da altri uomini, da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro. Di tutto ciò che nel processo di produzione costituisce un insieme di "cose", degli strumenti, del capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro dell'uomo; non possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il "soggetto" anonimo che rende dipendente l'uomo e il suo lavoro.

La rottura di questa coerente immagine, nella quale è strettamente salvaguardato il principio del primato della persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero umano, talvolta dopo un lungo periodo di incubazione nella vita pratica.

E si è compiuta in modo tale che il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto al capitale, e il capitale contrapposto al lavoro, quasi come due forze anonime, due fattori di produzione messi insieme nella stessa prospettiva "economistica". In tale impostazione del problema vi era l'errore fondamentale, che si può chiamare l'errore dell'economismo, se si considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica. Si può anche e si deve chiamare questo errore fondamentale del pensiero un errore del materialismo, in quanto l'economismo include, direttamente o indirettamente, la convinzione del primato e della superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso colloca ciò che è spirituale e personale (l'operare dell'uomo, i valori morali e simili), direttamente o indirettamente, in una posizione subordinata alla realtà materiale.

Questo non è ancora il materialismo teorico nel pieno senso della parola; pero, è già certamente materialismo pratico, il quale, non tanto in virtù delle premesse derivanti dalla teoria materialistica, quanto in virtù di un determinato modo di valutare, quindi di una certa gerarchia dei beni, basata sulla immediata e maggiore attrattiva di ciò che è materiale, è giudicato capace di appagare i bisogni dell'uomo.

L'errore di pensare secondo le categorie dell'economismo è andato di pari passo col sorgere della filosofia materialistica, con lo sviluppo di questa filosofia dalla fase più elementare e comune (chiamata anche materialismo volgare, perché pretende di ridurre la realtà spirituale ad un fenomeno superfluo) alla fase del cosiddetto materialismo dialettico. Sembra tuttavia che - nel quadro delle presenti riflessioni -, per il fondamentale problema del lavoro umano e, in particolare, per quella separazione e contrapposizione tra "lavoro" e "capitale", come tra due fattori della produzione considerati in quella stessa prospettiva "economistica", di cui sopra, l'economismo abbia avuto un'importanza decisiva ed abbia influito, proprio su tale impostazione non-umanistica di questo problema, prima del sistema filosofico materialistico. Nondimeno, è cosa evidente che il materialismo, anche nella sua forma dialettica, non è in grado di fornire alla riflessione sul lavoro umano basi sufficienti e definitive, perché il primato dell'uomo sullo strumento-capitale, il primato della persona sulle cose, possa trovare in esso un'adeguata ed irrefutabile verifica e appoggio. Anche nel materialismo dialettico l'uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e causa efficiente del processo di produzione, ma rimane inteso e trattato in dipendenza da ciò che è materiale, come una specie di "risultante" dei rapporti economici e di produzione, predominanti in una data epoca.

Evidentemente l'antinomia tra lavoro e capitale qui considerata - l'antinomia nel cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso, in un certo senso onticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del processo economico - ha inizio non solamente nella filosofia e nelle teorie economiche del secolo XVIII, ma molto più ancora in tutta la prassi economico-sociale di quel tempo, che era quello dell'industrializzazione che nasceva e si sviluppava precipitosamente, nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di moltiplicare grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva di vista il fine, cioè l'uomo, al quale questi mezzi devono servire.

Proprio questo errore di ordine pratico ha colpito prima di tutto il lavoro umano, l'uomo del lavoro, e ha causato la reazione sociale, eticamente giusta, della quale si è già parlato. Lo stesso errore, che ormai ha il suo determinato aspetto storico, legato col periodo del primitivo capitalismo e liberalismo, può pero ripetersi in altre circostanze di tempo e di luogo, se si parte, nel ragionamento, dalle stesse premesse sia teoriche che pratiche. Non si vede altra possibilità di un superamento radicale di questo errore, se non intervengono adeguati cambiamenti sia nel campo della teoria, come in quello della pratica, cambiamenti che procedano su una linea di decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro dell'uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione.



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